Immersa nell'AI,
avrà sete di spirito
Secondo
il Pew Research Center le coorti generazionali «possono fornire un modo per
capire come le diverse esperienze formative (come gli eventi mondiali e i
cambiamenti tecnologici, economici e sociali) interagiscono con il ciclo di
vita per plasmare la visione del mondo delle persone».
Dal
dopoguerra a oggi diverse generazioni si sono succedute: dai boomers
(1946-1964) alla generazione X (1965-1979); dai Millennials (1980-1994), i
primi “nativi digitali” alla generazione Z (1995-2009) segnata dall’esperienza
del Covid-19 e dalla pervasività del digitale fino alla generazione Alfa
(2010-2024 detta anche iPad generation o generazione degli screenagers. E con
il nuovo anno si affaccia la generazione Beta (2025-2039). Benché non ci siano
ancora, ovviamente, comportamenti osservabili, si può già dire che la gen B
vivrà in un'epoca in cui l'IA (intelligenza artificiale) e l'automazione
saranno pienamente integrate nella vita di tutti i giorni, dall'istruzione ai
luoghi di lavoro, dalla sanità all'intrattenimento. Con mutazioni
antropologiche che a stento riusciamo a immaginare.
È
vero che il focus sulle generazioni aiuta a comprendere meglio i cambiamenti
d’epoca; è altrettanto vero che, in sintonia con l’accelerazione costante del
cambiamento, il numero di anni che definisce una coorte generazionale si è
notevolmente ridotto (dai 18 anni dei boomers ai 14 della gen Alfa), ma
soprattutto gli elementi che caratterizzano l’esperienza comune delle ultime
generazioni sono sempre più quasi esclusivamente tecnologici. A parte il Covid,
che ha messo il mondo in pausa per oltre un anno, contano sempre meno i grandi
avvenimenti che inaugurano fasi storiche nuove (la gen Z ha poca o nessuna
memoria di quell’11 settembre che ha aperto l’era dello “scontro di civiltà”,
per esempio) e sempre più le tappe dello sviluppo tecnologico.
Il filosofo Bernard Stiegler scriveva che non è la dimensione cronologica che fa le generazioni, ma la trasmissione dei saperi: un saper fare, un saper vivere, un saper pensare. Oggi forse dovrebbe rivedere questa sua interpretazione, dal momento che la trasmissione di saperi non avviene più da una generazione all’altra, ma attraverso quelle estensioni di noi stessi, come chiamava McLuhan, che sono le tecnologie. Questi organi estroflessi che ci consentono di trattenere la memoria e di anticipare il futuro diventano pervasivamente sempre più presenti nella nostra quotidianità.
Tornano alla memoria la distinzione in
ere che McLuhan aveva proposto negli anni ’60 – l’era orale della parola
parlata, l’era scritta della stampa, l’era elettrica della televisione – alle
quali oggi aggiungiamo l’era digitale e social delle gen Z e Alfa e l’era
dell’intelligenza artificiale della gen B. Un’intelligenza artificiale sempre
meno strumentale, sempre più capace di assomigliare all’umano, superandolo in
molte delle sue capacità e prestazioni. Nell’era dell’intelligenza artificiale
generativa tocca all’umano dimostrare che esiste una differenza tra il generare
attraverso il rapporto con l’alterità e il generare grazie ad algoritmi. La gen
B rischia di essere la prima per la quale la distinzione tra umano e non umano,
intelligenza umana e intelligenza artificiale, organismo e tecnologia non
merita nemmeno di essere sollevata.
Posto
che i media non sono strumenti, bensì parte costitutiva dell’ambiente in cui
noi viviamo e della nostra quotidianità, e posto che l’essere umano non può non
adattarsi all’ambiente in cui vive, va ricordata una specificità dell’umano che
è quella di adattarsi modificando, imprimendo una direzione, secondo
l’accezione più autentica del termine “abitare” (che in molte lingue è sinonimo
di “esistere”).
G.
H. Wells, visionario scrittore britannico (e autore, tra l’altro, di quella
“Guerra dei mondi” che ispirò la celebre trasmissione radiofonica di Orson
Welles) sosteneva che «Il futuro è una gara, una gara tra l'istruzione e la
catastrofe».
Per abitare questo ambiente in cui l’intelligenza artificiale generativa accompagna, permea e orienta la quasi totalità dei processi individuali e collettivi a livello planetario diventa ancora più fondamentale una educazione che non si limiti a potenziare le capacità di adattamento al nuovo ambiente e le competenze necessarie, ma che preservi il nucleo fecondo di specificità che caratterizza l’umano. Dove il pensiero non si riduce a calcolo, ma (secondo l’accezione originaria) comporta una dimensione spirituale. E lo spirito non è una dimensione a sé, incorporea e aleatoria, ma il soffio che permea la vita e la rende viva, che rende il pensiero libero e le relazioni capaci di sottrarsi alla logica dell’utile e del dominio.
È significativo che Paul Valery, parlando
della crisi dello spirito nell’Europa del dopoguerra, utilizzasse la parola
esprit sia nel senso di spirito che nel senso di intelligenza.
Quell’intelligenza capace di cogliere anche l’invisibile, quell’esprit de
finesse di cui ha scritto Pascal, senza coltivare il quale la gen B sarà anche
la prima che rischia di essere totalmente eterodiretta da quella mirabile opera
dell’uomo che, senza essere considerata come tale, diventerà onnicomprensiva e
totalizzante.
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