martedì 31 agosto 2021

OLTRE LA DEMOCRAZIA AMBIENTALE


ALLA VIGILIA DELLA 49a SETTIMANA SOCIALE 

 DEI CATTOLICI ITALIANI

- di Francesco Occhetta 

In questi giorni stanno bruciando migliaia di ettari di bosco, le fiamme radono al suolo molte foreste, nemmeno gli alberi della nostra memoria – gli uliveti secolari – sono stati risparmiati, dal cielo piove cenere e l’aria è irrespirabile in molte zone del Paese.
Lo spettacolo a cui stiamo assistendo ci lascia inermi mentre, da turisti, cerchiamo di vivere qualche giorno di riposo.

Se poi alziamo lo sguardo, oltre il nostro Paese, ci accorgiamo che se i Governi non pongono al centro le politiche ambientali basate sulla prevenzione e uno sviluppo sostenibile, anche il fondamento delle democrazie sarà devastato da cicloni, inondazioni e siccità che fanno morire di fame popoli interi. Solo per questo occorre fare tutto il possibile, senza aspettare domani.

Gli scienziati non sanno più come spiegarlo, la parola d’ordine è “de-carbonizzare” il pianeta, altrimenti l’aumento di temperatura crescerà di 1 o 2 gradi entro la fine del secolo. Certo, l’inquinamento atmosferico negli anni migliorerà grazie alla cultura ecologica delle giovani generazioni, le classi dirigenti di domani, ma l’inquinamento stratosferico richiede un accordo urgente dei Governi che inquinano.

Uno degli obiettivi dello sviluppo sostenibile era di prevedere e curare ciò che invece stiamo subendo. Per renderlo possibile la società civile doveva avere accesso alle informazioni, per partecipare ai processi decisionali e costruire una vera giustizia ambientale a partire dalla formazione. Ma l’obiettivo non è diventato cultura politica, è stato soffocato da altri interessi.
Non basta più nemmeno la democrazia ambientale, che nel diritto internazionale è regolata dal principio 10 della Dichiarazione di Rio de Janeiro del 1992 su “ambiente e sviluppo”.

Tutti i cambiamenti storici nascono da testimoni radicali che gradualmente vedono diventare realtà i loro sogni di bene. Gino Strada ci ha insegnato che basta una persona, non uno Stato, per salvare migliaia e miglia di vite ferite dalla guerra. Non basta più postare o indignarsi: per cambiare occorre cambiarsi e agire a partire da scelte e azioni coerenti.

Nella Bibbia dire ambiente significa, anzitutto, includere la natura nel concetto di creazione che rimanda a un ordine originario e originante, a un’armonia relazionale e a un equilibrio interiore, ma anche a una libertà personale da scegliere “per l’altro”.

Per capire l’urgenza del tema bastano due dati: il 90% degli animali è a rischio di estinzione mentre 902 milioni di persone vivono in condizioni di povertà assoluta. Basterebbero questi due dati per ribadire l’urgenza di un cambiamento di mentalità che deve iniziare dalla conversione della cultura e dalla formazione.

Per la Chiesa la “politica green” si regge su due poli: l’inseparabilità «della preoccupazione per la natura, la giustizia verso i poveri, l’impegno nella società e la pace interiore» (LS n. 10) e «i diversi livelli dell’equilibrio ecologico e di fraternità: quello interiore con se stessi, quello solidale con gli altri, quello naturale con tutti gli esseri viventi, quello spirituale con Dio» (LS n. 210).

Su questi temi la Chiesa in Italia si riunirà a Taranto, dal 21 al 24 ottobre 2021, per la prossima Settimana Sociale dal titolo: «Il pianeta che speriamo. Ambiente, lavoro, futuro. #tuttoèconnesso».

Taranto è l’icona di molte realtà e «mostra concretamente in che consiste il “debito ecologico”: una interminabile sequela di morti insieme a profonde ferite ambientali. Di fronte a queste sofferenze, a Taranto come altrove, non è più possibile temporeggiare lasciando la popolazione in una perenne incertezza». È lo sforzo di coniugare i principi (global) con le prassi (local). Occorre lavorare insieme al modello che sta emergendo, separando gli individualismi e scommettendo su ciò che è comunitario e comuneLa “transizione ecologica” può solo essere costruita con lo sforzo di tutti.

La via è tracciata: occorre scegliere e cambiare stili di vita privilegiando forme di economia circolare e modelli economici di sostenibilità per creare nuovi posti di lavoro per il bene comune dei territori. È, inoltre, importante favorire la crescita del housing sociale, degli investimenti nel settore del biologico, dell’energia rinnovabile come alternativa a quella fossile.

L’obiettivo per la Chiesa in Italia è quello di aiutare a bonificare le moltissime aree inquinate: mari, fiumi, la terra dei fuochi, le falde acquifere, l’inquinamento dell’aria in alcune città ecc. Quando però la Chiesa parla di ambiente non si limita mai alla “natura”, fa riferimento, piuttosto, all’ambiente interiore, quello della propria coscienza, all’ambiente della vita relazionale e al rapporto intimo con Dio. La qualità dell’ambiente inteso in senso stretto dipende sempre da come l’uomo coltiva l’ambiente interiore e relazionale. I disequilibri ambientali sono la conseguenza di cuori feriti e inquieti e da relazioni distrutte.

Lo scopo dell’appuntamento di Taranto è quello di animare un processo, un movimento di popolo, per contribuire a invertire la rotta di tutto il Paese. Si dirà: ma è troppo poco! Contribuire agli sforzi generosi che sono in atto è già un segno di ripartenza, a meno che non si contribuisca a dar vita a pratiche e a soluzioni migliori.

Esistono modi di vivere l’ambiente, gli spazi, i nuovi lavori che valgono «oro» per la Chiesa, perché umano e in armonia con la creazione. Per questo è utile che le realtà diocesane identifichino e valorizzino pratiche eccellenti per far nascere, attraverso l’incontro, il confronto e il dialogo con altre realtà del Paese, nuove idee che possano dare lavoro nelle comunità locali e invertire i tanti sfruttamenti di cui soffrono i nostri territori. L’alleanza tra mondi e professioni, tra generazioni e saperi diversi può aiutare l’ambiente a rifiorire senza renderlo un ostacolo allo sviluppo e al lavoro.

Non abbiamo alternativa per ricostruire una democrazia ambientale e relazionale se vogliamo rianimare la stanca democrazia formale. La condizione è quella posta dai filosofi: «Io sono me più il mio ambiente e se non preservo quest’ultimo non preservo me stesso».

 Pubblicato su comunitadiconnessioni.org


lunedì 30 agosto 2021

IL BAMBINO CHE AVEVA SEMPRE FRETTA



FILASTROCCA
 DEL BAMBINO 
CHE AVEVA 
SEMPRE FRETTA 






 C’era un bambino che aveva sempre fretta 
Quando arriviamo? E poi che facciamo? 
Una vera disdetta; 
 I genitori esasperati lo portarono da un luminare 
 Che sentenziò: una sola è la cura 
Questo bambino deve navigare; 
 Ma badate bene, disse il bravo dottore 
Che la barca sia a vela, giammai a motore; 
 Al primo giorno di navigazione 
Il bambino, dopo un bordo, Iniziò il suo tormentone 
 Quanto manca? 
Quando ci fermiamo? 
Non so, Dipende dal vento! 
Sorrise il capitano 
 “Mi annoio!” riprese il bambino, ma prima che finisse
 Qualcuno gridó: un delfino! 
 Corsero tutti a prua, tra strilli ed esclamazioni 
E quando i delfini si immersero 
In pozzetto avevano sbucciato i fichi: che buoni! 
 Passarono accanto ad un’isola dal nome buffo “Giù le vele! 
Qualcuno vada all’ancora, 
Ci fermiamo per un tuffo!” 
 Dopo pranzo ripresero la rotta E mentre tutti tiravano cime 
 Il bimbo tesó una scotta 
 E quando girava quella maniglia La barca s’inclinava, come per magia: una meraviglia! 
 C’erano un sacco di vele, il mare era azzurro 
Il bimbo si abbracció alla sua mamma 
E si addormentò in un sussurro 
 Si risvegliò tra chiacchiere e risate 
Con le vele tutte aperte 
Come porte spalancate 
 “Abbiamo il vento in poppa”, sentì qualcuno spiegare 
Mentre il sole, rosso fuoco 
Disegnava una scia nel mare 
 Si ancorarono in una rada di quelle belle E dopo cena, nel cielo nero nero 
Vide un milione di stelle
 La mattina dopo era stupito, non gli era mai capitato di svegliarsi in mezzo al mare 
E farsi il bagno non appena svegliato 
 Mentre levavano l’ancora chiese: “Oggi dove andiamo?”
 “Si parte verso nuove avventure” 
Rispose il Capitano 
 Il bimbo sorride, ormai l’ha capito 
 Che importa più il viaggio, e non tanto l’arrivo 
E quei giorni di mare, di sale, di sole e di vento 
Gli hanno insegnato a godersi il momento 
Ha imparato che la vita è una grande avventura
Da vivere ogni giorno, senza fretta e senza paura.

Storie da caffé


SCUOLA: VACCINAZIONI, GREEN PASS E ALTRO

-Vaccinazioni, green pass, scelta supplenti sembrano i soli nodi da sciogliere prima di iniziare il nuovo anno. 
Nessuno parla più di educazione!


*   90,45%: è questa la percentuale del personale scolastico docente e Ata che ha ricevuto la prima somministrazione di vaccino o dose unica, secondo quanto riportato nel report pubblicato il 27 agosto dalla struttura commissariale che raccoglie settimanalmente gli aggiornamenti provenienti dalle Regioni. A quella data il numero di insegnanti e personale Ata sprovvisto di immunizzazione risulta di 138.435 unità, il 9,55% del totale. 
Il report evidenzia anche l’aumento delle percentuali di vaccinati tra i giovani in età scolare: le somministrazioni dose unica per la fascia 12-15 hanno superato il 40% della platea vaccinabile, mentre la fascia 16-19 ha superato la soglia del 67%. Segnali di fiducia alla campagna vaccinale, dunque, dal mondo della scuola in vista della ripresa delle lezioni che, oltre le cifre, indicano, positivamente, un desiderio diffuso di prepararsi ad una ripartenza delle attività didattiche in sicurezza e in presenza. 
Segnali che, tuttavia, impattano con il permanere di altre urgenze che devono essere ancora gestite nei prossimi giorni. Come, ad esempio, l’obbligo del possesso del green pass dal 1° settembre per tutto il personale scolastico quale requisito per lo svolgimento delle prestazioni lavorative che deve fare i conti ancora, però, con interpretazioni non chiare e incertezze applicative alle quali una conferenza di servizio con tutti i dirigenti scolastici annunciata il 31 agosto dal ministero dell’Istruzione cercherà di rispondere. Restano poi in corso d’opera, nel grande cantiere allestito per l’avvio dell’imminente anno scolastico, anche altri temi: l’espletamento delle nomine dalle graduatorie provinciali, l’individuazione dei supplenti annuali, la scelta dei docenti per le scuole paritarie, i protocolli sanitari, l’impiego delle risorse finanziarie assegnate alle scuole con gli ultimi decreti, la definizione dei piani di trasporto locali. A fronte di questo fermento pianificatorio e organizzativo, faticoso e tardivo, resta ancora, invece, totalmente sottotraccia, almeno nel dibattito pubblico, il confronto su cosa attendersi da questo nuovo anno scolastico, il focus sulla proposta da offrire ai ragazzi, la ricerca dell’approccio educativo più adeguato da promuovere, la messa in luce delle competenze professionali da giocare a scuola. Questioni alle quali non saranno né il vaccino né il miglior sistema organizzato a dare prospettive risolutorie, ma che urgono, proprio per questo, l’accensione di confronti che le illuminino, l’onestà della ricerca di nuovi approcci educativi e l’ideazione di progettazioni formative all’altezza della loro portata. 
Temi che, questi sì, dovrebbero infiammare il confronto tra adulti – genitori, docenti, presidi e responsabili istituzionali – che si aspettassero veramente tutto e tanto dall’ingaggio della propria responsabilità con la nuova domanda di formazione degli studenti. “Aspettare è ancora un’occupazione. È non aspettare niente che è terribile” denunciava drammaticamente Pavese. 
 Ecco allora le domande da mettere oggi a tema del confronto: come attendere al compito di un’autentica e consapevole comunicazione di sé e della tradizione culturale a scuola? Come aiutarsi e come aiutare i più giovani a vivere questo periodo di incertezza senza paura e come un’opportunità? Come aiutarli ad una esperienza di consapevolezza, responsabilità e libertà pur dentro le – inevitabili – restrizioni? Come se in una casa si continuasse a discutere del servizio di piatti e tovaglie da utilizzare per un pranzo e delle portate da servire senza mai mettere a tema, come dato imprescindibile, chi sono gli invitati – i ragazzi -, quali le loro aspettative, come corrispondere ai loro gusti e, soprattutto, il motivo per cui sono attesi. 
 “In un mondo in cui non ci sono più adulti – scrive icasticamente Alain Finkielkraut – ci si affida agli esperti”. Rimettiamo, dunque, al centro del confronto di queste settimane non solo le azioni e gli strumenti per garantire lo svolgimento delle lezioni in presenza e per l’adeguato funzionamento del sistema scuola, ma anche (e soprattutto) il confronto sui contorni e sui contenuti di una proposta all’altezza delle attese formative dei ragazzi. Un confronto su questioni – se si vuole – antiche. Ora, però, più che mai ineludibili. 

sabato 28 agosto 2021

PURO o IMPURO?


+ Dal Vangelo secondo Marco - Mc 7,1-8.14-15.21-23 

 In quel tempo, si riunirono attorno a Gesù i farisei e alcuni degli scribi, venuti da Gerusalemme. Avendo visto che alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo con mani impure, cioè non lavate – i farisei infatti e tutti i Giudei non mangiano se non si sono lavati accuratamente le mani, attenendosi alla tradizione degli antichi e, tornando dal mercato, non mangiano senza aver fatto le abluzioni, e osservano molte altre cose per tradizione, come lavature di bicchieri, di stoviglie, di oggetti di rame e di letti –, quei farisei e scribi lo interrogarono: «Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani impure?». Ed egli rispose loro: «Bene ha profetato Isaìa di voi, ipocriti, come sta scritto: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini”. Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini». Chiamata di nuovo la folla, diceva loro: «Ascoltatemi tutti e comprendete bene! Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro». E diceva [ai suoi discepoli]: «Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dall’interno e rendono impuro l’uomo».

 Commento di p. Paolo Curtaz -

Dal puro al Santo 
Il mondo giudaico in cui viveva Gesù aveva semplificato l’approccio alla realtà e a Dio con una semplice distinzione: ciò che riguarda il mondo divino è puro, ciò che non lo riguarda è impuro. Bella intuizione, che evidenzia l’assoluta alterità di Dio, la sua santità e che, pure, applicata nel concreto, qualche problema lo suscitava. Sì, perché, alla fine, se qualcuno si era preso la briga di elencare gli atteggiamenti impuri, i cibi impuri, le persone impure, elaborando anche un protocollo di purificazione per chi, non sia mai, contraesse l’impurità, la realtà era che si rischiava di osservare le norme di purità solo esteriormente. Si poteva, cioè, essere dei devoti ossessionati dall’osservanza delle regole di purità ma con il cuore ingombro di immondizia e di tenebra. Fuori splendenti, dentro putrescenti, come le tombe, farà notare quel simpaticono del Nazareno.  La purezza, invece, è l’orientamento del cuore, configurandosi a Dio, entrando nel tempio santo che ci abita. Insomma: il giudaismo, spesso, si era ridotto all’ossessiva osservanza di norme minuziose che, se rispettate, ti facevano sentire santo e irreprensibile agli occhi di Dio. Poi è arrivato Gesù.
 Di qua o di là
La mania di dividere le persone, le opinioni, le scelte in giuste o sbagliate non è proprio finita, anzi. Invece di uscire migliori dalla pandemia ne siamo usciti un po’ peggio. Più rissosi certamente. La Parola vuole offrirci una chiave di lettura e di discernimento in questo momento storico così difficile, spesso arrogante e livido, in cui tutti sembrano ergersi a giudici, rabbiosi e vendicativi. Tutto viene urlato, contrapposto, rinfacciato. Accuse su accuse, parole forti contro parole forti. E i discepoli, noi discepoli, io, ci troviamo a disagio. Intorno a noi, con il livello dello scontro sempre più alto. Nella Chiesa stessa, con dinamiche e contrapposizioni mondane che tanto male fanno al Vangelo. Il popolo scelto da Dio (noi), che gli altri popoli riconoscono saggio e intelligente, come dice Mosè ai liberati, a volte diventa stolto e sciocco come il mondo che lo attornia. E, purtroppo, ne imita le dinamiche. Gesù per primo ha dovuto combattere contro questa opposizione, come abbiamo visto nelle scorse settimane, in un crescendo di accuse e di insinuazioni pretestuose e rissose. Se lo ha fatto lui possiamo affrontarlo anche noi. E la prima, ridicola accusa che viene mossa a Gesù, è di non rispettare le tradizioni degli antichi. Ma dai!
 Le tradizioni
 In questa parrocchia si è sempre fatto così! Da secoli in questa Diocesi si attua questa pastorale! Chi di voi non ha mai sentito pronunciare questa frase? O l’ha pronunciata? Parroci contro laici, gruppi contro gruppi, quelli del parroco di prima contro quelli del parroco di oggi… State pur certi che nella Chiesa, da sempre, in nome dell’unità… ci si contrappone e si litiga! E, la cosa triste, è che ci si sente investiti dall’alto e, perciò, si trattano questioni che hanno a che fare col buon senso come se si trattasse di rivelazioni divine… Gesù non ha specificato, nel Vangelo, gli orari delle messe, né ha parlato delle unità pastorali o dei giorni in cui fare catechismo… Eppure su questi temi si combatte, si creano malumori. Si fanno diventare gigantesche piccole questioni così che i problemi giganteschi spariscono dalla nostra vista. Diventiamo malati da sacrestia, convinti che il mondo reale sia come ce lo rappresentiamo. Bene fa Papa Francesco a scuotere le nostre piccole congreghe, a chiedere alla (demotivata e confusa) Chiesa italiana di lasciar perdere le tradizioni degli uomini (belle e sante ma ridondanti troppo spesso) per tornare al sale del Vangelo, mettendosi (speriamo sul serio) in Sinodo. Tradire la Tradizione 
Buona cosa la tradizione. Dal latino tradere, cioè consegnare abbiamo ricevuto il tesoro della fede, il Vangelo, non ci siamo inventati una religione… Così di generazione in generazione, i cristiani raccontano fedelmente quanto a loro volta hanno accolto. Ed è un valore enorme, la tradizione. Non il tradizionalismo, che della tradizione ha solo l’apparenza. Vegliamo e vigiliamo per non confondere le nostre (buone e sante) consuetudini investendole di carisma divino. Abbiamo l’onestà di riconoscere che molte delle nostre posizione non difendono Dio ma le nostre abitudini consolidate. Sappiamo distinguere, come dice bene Gesù, il consegnare ad altri la preziosa Parola ricevuta, dalle tradizioni degli uomini. Come già ribadito da Dio attraverso Isaia, egli non gradisce una fede esteriore, una ritualità cerimoniosa che non sappia esprimere verità e conversione di vita. Non sa che farsene di chiese piene e di cuori vuoti, aridi, razzisti, piccini. Dura, lo so, ma così vuole il Dio della verità interiore. Dentro fuori 
L’apparenza inganna
L’apparenza, nel mondo della fede, uccide, spegne, disturba, manipola. Gesù riporta la fede al suo ambiente principale: il dentro. Dentro: dove abitano i nostri pensieri nascosti, i nostri giudizi, le nostre convinzioni profonde. Là dove Dio scruta e vede. Inutile affannarsi a curare il fuori di noi, cosa pensano gli altri dei nostri comportamenti, rispettare delle regole per farci applaudire, cercare la stima degli altri, se questo desiderio non parte da dentro, dalla consapevolezza che siamo stati fatti come delle opere d’arte.
Curiamo il dentro
Non si tratta, allora, di diventare anche noi fautori delle distinzioni, dei patentini di cattolicità, di giusto/sbagliato, nuovi termini che sostituiscono il puro/impuro ma di cambiare dal di dentro il nostro modo di vedere e di agire. Di elaborare pensieri santi come Dio è Santo. Di vedere oltre l’apparenza. Curiamo il dentro, allora. Con onestà, verità, con una preghiera costante, intensa, vera. Anche quando la Parola, come oggi, ci scuote dalle fondamenta.


EDUCARE LA TECNOLOGIA

-
La tecnologia non è neutra tocca noi «educarla» al bene.  Non più solo esecutori: gli algoritmi decidono al nostro posto, e agiscono come se avessero una coscienza. La diffusione delle macchine digitali sostituisce attività e scelte umane incidendo sulla nostra vita, su opinioni e identità. 
E' un’autonomia da governare. 



quotidiano net 
 
- di LUCA PEYRON

 -C’è una tecnologia da educare, prima che sia male educata, o perché ineducata o perché educata secondo disvalori. Nelle attuali tecnologie sono incorporati valori perché sono loro stesse ad assegnarli in ciò che fanno mentre ne siamo dipendenti. 
 La tecnologia decide l’erogazione di un mutuo, quanto medicinale percola nelle vene di un ammalato, la direzione di marcia di un mezzo, l’affidabilità di una persona, lo stile di un romanzo, il valore di un curriculum, la traiettoria di un missile. Non è l’essere umano, non più. È la tecnologia, quella emergente, come l’intelligenza artificiale. Non esegue un programma prestabilito, pur non essendo intelligente davvero, pur non avendo una coscienza e non avendo coscienza di quello che fa, e tuttavia la macchina sa muoversi in un dominio anche piuttosto ampio senza che l’essere umano la guidi o l’abbia impostata precisamente a percorrere quei passi. 
La macchina impara, dai dati, da quanto acquisisce dalla realtà, dai suoi errori. Anche dagli errori dell’essere umano che gli sta di fronte quando interagisce con lui. Non è un film di fantascienza e non è uno scenario costruito o raccontato per farci avere paura, è l’oggi delle macchine che va compreso e affrontato con competenza: ma non solo quella tecnica, soprattutto quella umana, quella che ogni lettore ha acquisito vivendo giorno per giorno lacrime e gioia della sua esistenza. Abbiamo oggi bisogno di fermarci un momento, di non girare lo sguardo altrove per timore di non capire e fare brutta figura. 
Abbiamo bisogno di prenderci tutti un po’ di tempo per vedere e scegliere, anche chi non sa usare un computer, anche chi lo usa regolarmente. La questione è di fondamento, è il cambiamento d’epoca, è il tempo che viviamo. Sì, perché la tecnologia non è neutra, perlomeno non lo sono le tecnologie emergenti di punta come l’intelligenza artificiale. Sino a ieri abbiamo sempre detto che non è la macchina responsabile del male e del bene, che dietro c’è sempre un umano con le sue scelte. Abbiamo ripetuto che la morale e l’etica sono un affare di noi sapiens, una vocazione di noi battezzati. La macchina ci ha spaventati perché si è presa dei posti di lavoro, è diventata complessa, protagonista di film che hanno fatto non solo botteghino, ma ampia cultura popolare che ci portiamo dietro e dentro, ma non si tratta più solo di questo: occorre prendere coscienza che la macchina oggi non è neutra e non è più un semplice strumento. 
Per comprenderlo – seguendo la lezione di Marco Fasoli, nel suo articolo «Contro lo strumentalismo tecnologico», giudicato il migliore articolo scientifico del 2020 – dobbiamo spacchettare la questione e guardarla da vicino. I tasselli decisivi sono: a) la capacità prescrittiva degli artefatti, cioè se e quanto essi incidono nelle nostre decisioni o nella formazione della nostra identità ed opinioni; b) la loro capacità di agire in modo autonomo nella realtà; e infine c) il loro valore morale, cioè se siano o meno capaci di incorporare dei valori. Se tali questioni sono soddisfatte allora ci troviamo di fronte a un oggetto che assomiglia sempre di più a un soggetto e, come tale, non è più neutro. Anzi, potremmo affermare che da oggetto diventa un vero e proprio ambiente, un quasi soggetto che definisce un ambiente. I l primo punto è dimostrato dalla cronaca e dalla prassi. Nessuno di noi è capace di usare tecnologia senza che la tecno- logia non lo usi almeno in misura uguale. Dalle fake news all’uso compulsivo dei social, dalla perdita progressiva della memoria al fatto che ci perdiamo nella stessa nostra città senza l’uso di un navigatore, sino al fenomeno degli influencer, è del tutto evidente che oggi decidiamo e ci muoviamo nel surplus informativo non solo assistiti dalle macchine ma molto spesso sostituiti da esse. Del resto, la rivoluzione digitale è una rivoluzione per sostituzione, e ciò che sostituisce non è semplicemente un artefatto con un altro ma una funzione tipicamente umana, come la funzione cognitiva, con una macchina. È accaduto con la ruota, che ha sostituito la schiena dei nostri progenitori nel trasporto dei pesi, accade oggi con il potere computazionale che ci libera da fatiche intellettuali di vario genere. Ma rendendoci forse diversamente dipendenti, se non schiavi. La percezione del mondo passa attraverso strumenti, la tecnologia è il medium pressoché unico della realtà, e questo le assegna un ruolo evidentemente decisivo perché non siamo noi a decidere come essa medi la realtà, come gli algoritmi assemblino, filtrino, producano dati. Il secondo punto è quello dell’autonomia, dell’essere agente. Sino a che il dominio di riferimento è stata una scacchiera, pur riconoscendo alla macchina la brillantezza delle sue mosse, non abbiamo pensato che vi fosse vera autonomia. Le cose cambiano quando la macchina si muove, fisicamente o meno, in una realtà più ampia, quando ha una capacità di apprendere, di cercare e trovare connessioni nuove tra i dati che le vengono forniti o i dati che acquisisce in modo autonomo in un mondo sempre più interconnesso. 
La macchina trova schemi, modifica il mondo in cui li trova, modifica il modo in cui segue percorsi per giungere a risultati. Lo fa da sola, le abbiamo dato il potere di farlo nella nostra realtà. Sino a giungere – è accaduto di recente – a uccidere un essere umano senza che vi sia stato un esplicito comando di un altro essere umano. Un drone militare, in modo autonomo – così segnalano le Nazioni Unite – ha ucciso un soldato in fuga, giudicandolo un pericolo. In questi scenari diventano necessarie metriche specifiche, chi progetta macchine ha bisogno di avere competenze, o competenti, che permettano in un modo algebrico di definire percorsi, valori, esiti desiderati o indesiderabili. 
La tecnologia può e deve incorporare dei valori, perché è sempre più autonoma, perché lei per prima assegna valori. Un sistema che eroga dei mutui, che decide di un curriculum, che assiste una corte di giustizia, assegna valori, morali. Che lo faccia in modo statistico predittivo e non coscienziale non sposta la questione nei suoi esiti. Il fatto che agisca come se avesse una coscienza, pur non avendola, ci interroga proprio perché noi, avendo una coscienza, ci si ponga l’interrogativo, e completa così i nostri punti. In questi scenari diventa decisivo il compito dei credenti, dei teologi, del popolo di Dio e del Magistero. Insieme possiamo e dobbiamo leggere quale sia nel disegno di Dio il posto delle tecnologie emergenti: se non sono un semplice strumento, come abbiamo brevemente tentato di tratteggiare, ma un ambiente, un quasi soggetto, quale ecologia possiamo immaginare per prenderci cura, affinché la tecnologia si prenda cura? La Chiesa ha bisogno di una agenda digitale, ha bisogno di mettere in agenda il digitale tra le grandi questioni da affrontare seriamente. C’è una tecnologia da educare, prima che sia male educata, o perché ineducata o perché educata secondo disvalori. Abbiamo la responsabilità, a partire da un dono che ci è fatto, di portare nella sfera pubblica, nelle questioni che sono di senso comune, quanto ci è rivelato sul vivere, sul morire, sul crescere, sul dovere, sulla libertà, sul potere, sul senso. Sono tutte tessere di un mosaico che il Covid ha mandato in frantumi e che la trasformazione digitale ha impattato e sta mutando. Sono i confini della Terra, confini anche immateriali, in cui il risuonare della Parola di salvezza è atteso. 
Si è creato uno scenario nel quale diventa decisivo il ruolo dei credenti, che devono leggere quale sia il posto degli strumenti tecnologici nel disegno di Dio. Nelle attuali tecnologie sono incorporati valori perché sono loro stesse ad assegnarli in ciò che fanno mentre ne siamo dipendenti.

DOLORE E SDEGNO PER L'ATTENTATO A KABUL

La presidenza della Conferenza episcopale italiana ha diffuso un messaggio di "dolore e sdegno" per la strage di giovedì a Kabul. 

"Esprimiamo dolore e sdegno per il vile attentato che ieri, 26 agosto, all’aeroporto di Kabul, in Afghanistan, ha provocato centinaia di vittime e feriti, causando ulteriore dolore a un popolo già provato dalla sofferenza e dalla paura. Purtroppo, abbiamo assistito in questi anni a scelte che si sono rivelate nel tempo poco lungimiranti e incapaci di garantire la necessaria sicurezza alla popolazione afghana. 
Di fronte a questa ennesima strage, che offende profondamente la dignità umana, rinnoviamo l’invito di Papa Francesco “affinché cessi il frastuono delle armi e le soluzioni possano essere trovate al tavolo del dialogo”. Per questo, rivolgiamo un appello alla Comunità internazionale, perché si faccia finalmente garante della pace in Afghanistan e nell’intera regione mediorientale, da troppo tempo attraversata da conflitti e segnata da violenze che sempre ricadono sulla popolazione civile, gravando soprattutto sulle persone più fragili e indifese. 
Il mondo non può voltare gli occhi dall’altra parte, fingendo di non vedere che, nelle complesse vicende politiche e militari in corso a Kabul e nel resto del Paese, ancora una volta vengono meno i diritti di bambini, donne, anziani, minoranze etniche e religiose. Invitiamo tutti a volgere lo sguardo del cuore verso chi è più bisognoso e vive in povertà e malattia. 
Rivolgiamo un pensiero fraterno alle piccole comunità cristiane dell’area, assicurando l’impegno della Chiesa che è in Italia a partecipare ai programmi di accoglienza dei profughi in accordo con le Istituzioni. E mentre invitiamo le nostre comunità ecclesiali a invocare la pace per la martoriata terra afghana e per tutti gli altri contesti in cui soffiano venti di guerra, assicuriamo preghiere per le vittime e vicinanza ai loro cari, così come a quanti stanno pagando il prezzo più alto di questa nuova ondata di violenza. 

La presidenza Cei 

AFGHANISTAN, ISLAM E DONNE

 

- di Giuseppe Savagnone* 

- Tra un futuro angosciante e un passato tutt’altro che roseo
 Uno degli aspetti della crisi afghana più fortemente sentiti dall’opinione pubblica occidentale riguarda il destino delle donne, che rischiano di essere private dal nuovo regime dei diritti finalmente riconosciuti loro nei venti anni precedenti. Per quanto i vincitori abbiano fatto delle dichiarazioni che garantiscono il mantenimento di questi diritti, resta vivo il ricordo di ciò che è avvenuto sotto il loro governo dal 1996 al 2001, quando alle donne era proibito di uscire di casa senza il burqa e senza un accompagnatore maschio, di frequentare le scuole, di praticare gli sport, di esercitare le professioni. Si capisce perciò la disperazione di tante che, dopo aver respirato un clima diverso, diffidano delle promesse verbali e guardano al futuro con angoscia. Il problema però è assai più complesso di quanto sembra emergere dalla reazione emotiva dell’Occidente di fronte all’avvento dei talebani e ha le sue radici in una cultura diffusa nel Paese anche prima della loro vittoria. Un quadro tracciato da “Osservatorio Afghanistan”, che descriveva la situazione nel 2020, mette in luce la relatività dei passi fatti in questi venti anni di emancipazione femminile: «In Afghanistan il tasso di analfabetismo femminile si aggira ancora tra l’84 e l’87%. 
Nella capitale Kabul va meglio, ma nei villaggi rurali, specialmente quelli controllati dai fondamentalisti, i genitori non si fidano a mandare a scuola i figli, soprattutto le bambine. Pertanto, il 66% delle ragazzine tra i 12 e i 15 anni, non studia. Tra il 60 e l’80% delle donne è costretta dalla famiglia a sposarsi contro il proprio volere. La violenza domestica è molto presente. Le difficoltà riguardano anche il lavoro: chi riesce a lavorare è perché è iper-qualificato, ma non lo sono le donne, che al massimo possono occuparsi di pulizie e cucito. Non va meglio per la situazione sanitaria: il 50% delle donne continua a partorire in casa, con la sola assistenza di parenti più anziane, e la mortalità materna è ancora altissima. Il 95% dei suicidi sono commessi da donne». (www.osservatorioafghanistan.org). Insomma, c’era poco da stare allegri anche prima. Certo, una élite di donne, soprattutto nelle città, ha potuto finalmente emergere. Ma non è una svolta a cui abbia avuto accesso la maggior parte della popolazione femminile. I talebani sono solo l’espressione più evidente ed estrema di una sorda resistenza alla modernità che non ha cessato di penalizzare le donne sul piano dei fatti, anche quando i loro diritti erano sanciti sulla carta. E la loro vittoria sul campo di battaglia ha il proprio retroterra e la propria spiegazione in una realtà sociale e culturale che l’Occidente percepisce solo in occasione di eventi traumatici, come quelli di questi giorni, ma di cui di solito non si cura minimamente. 
Un fattore decisivo, anche se non l’unico, di questa avvilente condizione delle donne è certamente quello religioso. Questo problema non riguarda però solo l’Afghanistan. L’islam, pur con il grande contributo dato allo sviluppo della civiltà (dei cui frutti godiamo anche noi occidentali), non sembra aver creato un contesto favorevole all’emancipazione femminile.
 La tradizione cristiana e quella islamica 
Evidente il contrasto con ciò che è avvento nel mondo occidentale sotto l’influsso del cristianesimo. Pur attraverso drammatiche crisi e resistenze – si pensi alla “caccia alle streghe” e alle vittime dell’Inquisizione, prevalentemente donne – la tradizione cristiana ha visto emergere figure femminili di primissimo piano, non solo nella sfera strettamente religiosa, ma anche in quella politica. Valgano per tutte due figure diversissime, come Caterina da Siena (1347-1380), protagonista del ritorno dei papi da Avignone a Roma, e Giovanna d’Arco (1412-1431), eroina della liberazione della Francia dal dominio inglese durante la Guerra dei cent’anni. Ed erano entrambe analfabete e di origine sociale modesta! Per non parlare poi di altre che, pur senza una connotazione specificamente spirituale, sono state comunque espressione di una società cristiana, come Elisabetta (1533-1603), regina d’Inghilterra o Caterina, zarina di Russia (1684-1727), o Maria Teresa (1717-1780), imperatrice d’Austria. Figure che la storia ci ha tramandato come decisive per le loro capacità politiche, pur strettamente unite – per noi, oggi, sorprendentemente – con la fedeltà ad un ruolo femminile tradizionale quale quello sponsale e materno (Maria Teresa ebbe dal marito, a cui fu legatissima, sedici figli; Caterina, anche lei sposa innamoratissima, ne ebbe tredici). Sorprende di meno, in questo quadro, che in Occidente si siano fatti strada, anche se con fatica e contrasti (e vincendo talvolta le resistenze della Chiesa), i diritti delle donne.
Nella storia passata della civiltà islamica questo protagonismo femminile è stato assai meno accentuato, almeno a livello pubblico. Non del tutto assente, però. Aisha, la moglie più giovane di Maometto, dopo la sua morte fu a capo di una ribellione contro il califfo Alì, cugino del Profeta, anche se fu sconfitta. Esempio, comunque, di come per gli islamici non fosse un problema in sé avere come capo una donna. Bisogna dire, però, che per il passato questi esempi sono molto rari. Assai più numerosi sono invece nel mondo islamico contemporaneo: da Benazir Bhutto, primo ministro del Pakistan dal 1988 al 1990 e dal1993 al 1996, a Tansu Penbe Çiller, primo ministro turco dal 1993 al 1996, a Megawati Sukarnoputri, presidente dell’Indonesia dal 2001 al2004, a Khaleda Zia, primo ministro del Bangladesh dal 1991 al 1996 e nuovamente dal 2001 al 2006, a Sheikh Hasina Wazed, anche lei primo ministro del Bangladesh dal 1996 al 2001 e dal 209 al 2018.
 Testi sacri e tradizioni 
Alla luce di questi sviluppi più recenti, appare dunque plausibile – di fronte alle frequenti accuse, rivolte all’islam, di avere una concezione della donna intrinsecamente incompatibile con la sua dignità – la risposta di Tawakkol Karman, una giornalista yemenita di 38 anni, che nel 2011 ha ricevuto il Nobel per la pace proprio per il suo contributo alla causa dell’emancipazione delle donne, secondo cui «il ‘nemico’ dell’ emancipazione femminile non è il Corano, bensì i regimi, la corruzione e le tradizioni arcaiche» («Avvenire» del 21 settembre 2016). Si obietterà che nel Corano ci sono testi, come la sura 4, detta «sura delle donne», dove si legge: «Gli uomini sono preposti alle donne, perché Dio ha prescelto alcuni esseri sugli altri e perché essi donano dei loro beni per mantenerle (…); quanto a quelle di cui temete atti di disobbedienza, ammonitele, poi lasciatele sole nei loro letti, poi battetele; ma se vi ubbidiranno, allora non cercate pretesti per maltrattarle; ché Iddio è grande e sublime» (34). È vero però anche che Maometto, rispetto al regime pre-islamico, ha introdotto delle norme che implicavano un maggior rispetto per la donna. Così, per esempio, in contrasto con l’usanza che, in caso di morte del marito, prevedeva il passaggio automatico delle mogli all’erede, si legge nella stessa sura 4: «O voi che credete! Non vi è lecito ereditare mogli contro la loro volontà, né di impedire loro di rimaritarsi» (19). E un detto attribuito a Maometto dalla tradizione suona: «O uomini! (…) Voi avete dei diritti verso le vostre donne, ma anche le vostre donne hanno dei diritti su di voi. Trattatele bene, esse sono il vostro aiuto». Siamo dunque davanti a testi ambivalenti. Ma non dimentichiamo che anche Paolo, nella prima lettera ai Corinti, scrive che «l’uomo (…) è immagine e gloria di Dio; la donna invece è gloria dell’uomo. E infatti non è l’uomo che deriva dalla donna, ma la donna dall’uomo; né l’uomo fu creato per la donna, ma la donna per l’uomo» (11,7-9). 
Come spiega una nota biblista, Rosanna Virgili («Avvenire» del 1 settembre 2016), qui Paolo non fa altro che rievocare il testo della Genesi, dove si parla dell’origine della donna, tratta dal fianco di Adam. Rispetto a questo antico racconto, però, l’apostolo aggiunge di suo – e questa è la novità del cristianesimo rispetto alla precedente tradizione –: «Tuttavia, nel Signore, né la donna è senza l’uomo, né l’uomo è senza la donna. Come infatti la donna deriva dall’uomo, così l’uomo ha vita dalla donna; tutto poi proviene da Dio» (1Cor 11, 11-12). Solo così, del resto, nota la Virgili, si spiega la chiara affermazione della reciprocità fra uomo e donna enunciata nella stessa lettera da Paolo: «La moglie non ha potere sul proprio corpo, bensì il marito e, allo stesso modo, anche il marito non ha potere sul proprio corpo, ma la moglie» (1Cor 7,4). Anche qui, tuttavia, resta la problematicità. 
Il punto è che i testi devono essere interpretati. Nella sua interpretazione, pur con tanti limiti, il cristianesimo sembra aver dato luogo a una tradizione in complesso più favorevole all’emancipazione femminile. Ne è una conferma la presenza, tra le popolazioni di religione islamica, di costumi come le mutilazioni genitali femminili. Come osserva un autorevole teologo cattolico, Joachim Gnilka, la cosiddetta “circoncisione femminile” «non è prevista nel Corano» ma era diffusa in Africa molto prima dell’islam. Però, il cristianesimo seppe reagire assai meglio a questa barbara usanza. A questo proposito un’antropologa, Carla Pasquinelli parla di una «africanizzazione dell’Islam», per cui esso si è mostrato «più tollerante nei confronti delle mutilazioni dei genitali femminili, che invece sono state più contrastate da parte cristiana, venutasi spesso a trovare in aperto conflitto con le culture locali».
 Quello che l’Occidente può fare 
Saprà l’islam proseguire sulla strada della progressiva valorizzazione della donna, come i segni confortanti di cui abbiamo parlato lasciano sperare? Al di là della questione dei talebani, è questo sviluppo culturale che sarà decisivo, per l’Afghanistan come per tutto il mondo islamico. Ci si può chiedere come l’Occidente possa contribuire a questa maturazione. Non certo con le occupazioni militari, ma creando un confronto su alcune delle divergenze più profonde che, sul problema della donna, lo dividono dall’islam. Questo però significa, in una certa misura, rimetterci in discussione. Per fare solo un esempio, la risposta più adeguata della nostra cultura all’enfasi esasperata del mondo islamico sul nascondimento del corpo femminile non può essere l’irrisione, ma dovrebbe passare da una seria riflessione sull’autentico senso del pudore, che porti alla sua riscoperta come custodia dell’anima, prima che del corpo, contro uno stile consumistico, diffuso nelle nostre società “emancipate”, che tende a trasformare in spettacolo il mistero delle persone e in oggetto il corpo femminile… 
Sul modo vedere la donna una lunga strada attende l’islam. Ma sarebbe bene chiederci se noi siamo davvero arrivati. 

*Pastorale Scolastica Diocesi Palermo 

giovedì 26 agosto 2021

CALENDARIO SCOLASTICO 2021-22


Ogni anno il Ministero emana un’ordinanza che contiene le date delle festività nazionali, uguali perle scuole di ogni ordine e grado. L’ordinanza stabilisce anche la data di svolgimento della prova nazionale inserita nell’esame di Stato conclusivo del primo ciclo, comprese le sessioni suppletive. Inoltre l’ordinanza stabilisce la data di inizio degli esami di Stato conclusivi del II ciclo di istruzione. 
Le Regioni fissano la data di inizio e di fine delle lezioni nonché gli eventuali ulteriori giorni di chiusura delle scuole nel periodo delle festività natalizie e pasquali o in altri periodi.

 Documenti Allegati 

 





mercoledì 25 agosto 2021

VIVERE SENZA PAURA NELL'ETA' DELL'INCERTEZZA


 

È possibile solo se il nostro cuor è pieno di qualcuno

L’autore commenta il dialogo tra J. Carrón, C. Taylor e R. Williams avvenuto  al Meeting

 - di Eugenio Mazzarella 

 “Vivere senza paura nell’età dell’incertezza” è stato il tema e il titolo del coinvolgente dialogo, moderato da Monica Maggioni, cui hanno dato vita, nella cornice del Meeting, Julián Carrón, docente di teologia all’Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione; Charles Taylor, professore emerito di filosofia alla McGill University, Montreal, vincitore del Premio Ratzinger 2019; e Rowan Williams, professore emerito di pensiero cristiano contemporaneo, alla University of Cambridge, già arcivescovo di Canterbury. Ma più che tre illustri pensatori, come ci dicono queste note biografiche, chi li ha ascoltati ha ascoltato tre uomini, che, senza conoscersi, hanno speso una vita a sforzarsi di non sbagliare le domande: su sé stessi, sulla vita, sul loro tempo. 
A non mettere da parte, nel mondo conclamato dell’homo faber che è il nostro mondo, la domanda di senso dell’umano e sull’umano. In buona sostanza il filo conduttore della domanda religiosa, del senso religioso, che come ha insegnato don Giussani, intride l’anima, la coscienza di ogni uomo, anche di chi quella domanda fugge. A loro che a questa domanda – che è una domanda non facile: chi si fa abitare da questa domanda, deve accettare di fare entrare in casa sua, dentro di sé, avere sul tavolo di gioco di ogni giorno lo scacco del male e della morte, e tuttavia continuare a dare le carte del gioco della vita – non sono fuggiti, Monica Maggioni ha chiesto se innanzi tutto si può davvero vivere senza paura nell’età dell’incertezza che viviamo. 
Un’incertezza che in un mondo scristianizzato, secolarizzato, dove non siamo più “educati”, cioè tirati fuori da noi, alla fiducia in Dio (Taylor), dove il nemico che ci disarma prima ancora di ogni difficoltà è la “divisione” da Dio (Williams), tanto da mettere a repentaglio la stessa lealtà dell’umano verso se stesso, la lealtà di accettare la sfida dell’irriducibilità ultima della persona (Carrón), ci mette di fronte a una scelta: o la “paralisi” difensiva nell’io, che arma (spesso tragicamente anche in senso letterale) ogni egoismo (singolo e collettivo), ovvero scegliere le reti fiduciali della relazione umana a reggere le sfide ineludibili dell’evidenza – nella paura – dell’insufficienza del Sapiens alle sfide del mondo; che “il sapere (la techne) è di molto più debole della necessità” (Eschilo, Prometeo; detto attribuito dalla tradizione a Prometeo, che fa di lui il primo filosofo, e non solo il primo tecnologo). Di questa “debolezza” strutturale dell’umano, abbiamo capito ancora qualcosa nell’ultima sua “congiuntura” storica ed esistenziale: la pandemia. Ma a queste reti fiduciali è fondamentalmente affidarsi, sul modello di un bambino impaurito che si rifugia tra le braccia della madre, al maternage creaturale del divino “sentito” dalla coscienza religiosa. Alla fede in Qualcosa che è più forte di noi che ci sta accanto. Per i cristiani questo maternage divino ha il volto e la parola rasserenanti di Cristo che ci parla nella barca in tempesta della vita (Carrón). 
 In buona sostanza alla domanda della Maggioni, Carron, Taylor, Williams, hanno risposto nello stesso senso: nell’età dell’incertezza si può vivere senza paura, senza paralizzarsi nella paura (che è un frenetico attivismo difensivo di sé, che ci rende ciechi alle ragioni degli altri), se ci affidiamo a una certezza creduta: credere non riempie la testa, ma il cuore sì, e solo un cuore pieno della fede in qualcosa o qualcuno ti fa reggere anche una testa piena di dubbi. È un’evidenza elementare dell’esperienza. I cristiani l’hanno declinata credendo in Qualcuno (Cristo) in cui si raccoglie ogni qualcosa del mondo, anche quel qualcosa che noi siamo. Una declinazione antropologica dell’esperienza che noi cristiani dovremmo saper vedere, e forse rivendicare, come la scelta migliore, perché è la scelta dell’inclusione di tutti e tutto nel Cuore divino che regge il mondo. Una scelta che fondamentalmente resta l’unica alternativa allo scambio proposto e perorato dal Grande Inquisitore tra le sicurezze del Potere e l’esposizione alla pienezza della vita, nel suo bene e nel suo male, della “libertà” del cristiano, sostenibile solo in Cristo e con Cristo. Una seduzione, però insincera, perché il Potere è sempre in sé un abbandono della tua verità. Nella “libertà” cristiana è antropologicamente cifrata la barca del principium individuationis, ciò che fa umano l’umano. 
Una barca che per tenere il mare ha bisogno del governo del Maestro interiore; e non può essere tirata a secco sulla riva, perché significa tirarla fuori dalla vita, dalla sua vera libertà di navigarsi, di liberare nel mondo, nell’essere, qualcosa o qualcuno che continui la creazione iniziata da un Altro. In questo dialogo che si è potuto ascoltare il punto che non rasserena è proprio la scristianizzazione in essere nell’età dell’incertezza. Per due motivi: perché riguarda noi, la civilizzazione cristiana, e minando il fondamento creduto della nostra fede, Cristo, e quel che ci ha detto, ci rende i più incerti tra gli incerti nel mondo della globalizzazione che avanza; e perché riguarda gli altri, cioè la debolezza della nostra testimonianza alle altre civilizzazioni, per quel che potremmo dare come seme, se non di fede, di riflessività umana alla loro (a noi comune) umanità. Ma questo chiederebbe un altro dialogo.

martedì 24 agosto 2021

MINISTRO:TUTTI IN CLASSE !


Meeting Rimini: Bianchi (Istruzione), “in aula solo chi può garantire la sicurezza dei ragazzi. Il ritorno sarà in presenza”

 (Da Rimini) “Il Governo sta lavorando per un ritorno in presenza”. L’ha sostenuto il ministro dell’Istruzione, Patrizio Bianchi, presente ieri al Meeting di Rimini per partecipare alla tavola rotonda su “Talk il lavoro che verrà. Imparare a Imparare”. Incontrando i giornalisti il ministro ha dichiarato che per il ritorno in presenza il governo “sta lavorando dalla primavera scorsa. Per questo stiamo investendo oltre due miliardi e regole chiare. Si tornerà a scuola secondo le norme oggi in vigore, d’accordo con il Cts, che dicono che coloro che hanno un green pass saranno presenti nella scuola. Coloro che non ce l’hanno invece saranno sospesi. Si tratta di un sistema facilmente controllabile, chiaro e preciso, grazie al green pass. 
Bambini e bambine, ragazzi e ragazze, tutti a scuola. E questo si può fare con la partecipazione di tutti. Non è solo questione del governo. È tutto il Paese che si rimette in movimento a partire dalla scuola”. Il ministro Bianchi ha aggiunto che il green pass manifesta in maniera palese che “io non penso solo a me, ma penso anche ai ragazzi, ai figli di tutti noi. La persona, l’io di cui si parla qui al Meeting, mi faccio carico delle persone che ho a fianco”. 
Sui trasporti ha aggiunto che “stiamo lavorando moltissimo con tutti gli enti locali per aumentare l’offerta nell’ora di punta del 20%. Tutti stanno lavorando per garantire il massimo”. 
Riguardo l’edilizia scolastica, Bianchi ha affermato che “il Covid ha esasperato situazioni esistenti. Ha messo in evidenza quello che dovevamo sapere. Una dispersione inaccettabile al sud. Ci vogliono spazi adeguati a una didattica che non lasci a casa nessuno. Questo stiamo facendo. 
Quest’anno spenderemo 5 miliardi di fondi europei proprio su questo versante. Non c’è solo il Pnrr, ci sono anche i fondi strutturali. Stiamo lavorando con le Regioni proprio per questo”. In merito alle vaccinazioni dei ragazzi, il ministro ha precisato che “tra i 16 e i 19 anni siamo sopra il 60% di vaccinati. Stiamo facendo un monitoraggio sistematico tra i 6 e i 14 anni. 
Abbiamo fatto un investimento in fiducia e in responsabilità”. E sulle aule a disposizione ha ribadito che le regole da applicare sono quelle stabilite dal Cts: il metro di distanza, le igienizzazioni frequenti, la presenza di insegnanti vaccinati o che possono garantire la sicurezza dei ragazzi e la non presenza di chi non la può garantire. Faremo Interventi mirati e strutturali. 
Nella scuola primaria stiamo scontando la denatalità, con tante classi con meno di 15 alunni. La denatalità è uno degli elementi più critici del nostro Paese. I bambini dovranno tenere la mascherina”. E in conclusione ha sottolineato: “sono le persone che fanno le scuole. Abbiamo fiducia in chi lavora nella scuola, insegnanti, personale, presidi”.


domenica 22 agosto 2021

IL SILENZIO: COMUNICAZIONE EFFICACE

“Il silenzio è la lingua di Dio ma anche il linguaggio dell'amore. …. Tutti abbiamo bisogno del silenzio per scoprire l’altro, umano o divino che sia. È un linguaggio necessario. Quando due persone si vogliono veramente bene, riescono a trasmettere il loro amore anche solo guardandosi negli occhi, avvicinando i loro volti. Non parlano. Ma quella comunicazione misteriosa, fatta appunto di sguardi, genera vita, voglia di stare insieme, condivisione di un pezzo di strada” (Papa Francesco).



 “Abbiamo due orecchie ed una sola bocca”, scommetto che forse hai già sentito questa frase altrove, è una banalità che però spiega molto bene l’importanza dell’ascolto. E l’ascolto può avvenire solo se stai “in silenzio”, una cosa che oggi si nota sempre più raramente tra le persone, che tendono a parlarsi sopra ecc. Il silenzio “dentro e fuori” Come hai avuto modo di sentire il silenzio di cui parliamo oggi non è solo quello “vocale” ma è anche un silenzio interiore, questione che abbiamo già trattato parlando del bellissimo Thích Nhất Hạnh. Ma tecnicamente tutto inizia con il rendersi conto che restare in silenzio è terribilmente difficile soprattutto durante le conversazioni con le persone che conosciamo. Perché, conoscendole, ci sembra di sapere dove vogliono andare a parare, ci sembra di anticipare i loro discorsi e quindi tendiamo ad anticipale. Questo è solo uno dei motivi per cui “odiamo il silenzio”. 
Un altro motivo è legato all’immagine che vogliamo proiettare sugli altri. Sembra infatti che le persone silenziose siano “incapaci di comunicare”, incapaci di rispondere. Il silenzio genera in molti questa sensazione, quella di non essere all’altezza della conversazione, quella di dover riempire tutti gli spazi vuoti senza lasciare spazio a dubbi. 
La verità è che “senza spazi vuoti”, senza silenzio non esiste comunicazione. Parlare di continuo è un po’ come suonare uno strumento senza fare alcuna pausa musicale. Un po’ come quando stai imparando una lingua straniera e all’inizio non riesci a distinguere le singole parole, ti è mai capitato? Infatti uno dei trucchi per apprendere una lingua è quello di ascoltarlo prestando attenzione all’aspetto paraverbale, cioè alle pause e alle intonazioni più che al significato delle singole parole. La prossima volta che ascolti una lingua straniera che conosci poco, concentrati sulle pause e sulle intonazioni, dopo poco ti sembrerà di comprenderla meglio. Se le parole e i gesti sono le due peculiarità della comunicazione umana, allora di certo i suoi aspetti ancora più essenziali sono “il suono ed il silenzio”. 
Potremmo scrivere un libro su questa dicotomia perché vale praticamente ovunque nel nostro mondo: luce ed ombra, figura e sfondo, suono e silenzio. E’ in questi opposti che si radica la nostra percezione della realtà. L’immagine del silenzio Oggi una persona silenziosa non è proprio l’immagine del leader, dell’uomo moderno che sa affascinare tutti con le proprie parole, quell’immagine di carisma di cui ci siamo occupati nella scorsa puntata. La gente viene nel mio studio e mi chiede: “Voglio imparare a rispondere adeguatamente al mio capo” oppure al “bar con gli amici” ecc. Nessuno mi ha mai detto “voglio imparare a stare in silenzio”. Perché l’immagine di successo attuale è quella di chi “parla, parla e parla” e non di chi “ascolta e ascolta”. Eppure posso assicurarti che chi sa davvero comunicare sa anche gestire bene questi due aspetti. 
Parlare e ascoltare sono ancora una volta  facce della stessa medaglia. Se parli sempre senza ascoltare ad un certo punto la gente se ne accorgerà e smetterà anche di ascoltare te. “Dare per ricevere” è una delle regole fondamentali della condotta umana. Se non doni ascolto e attenzione al prossimo prima o poi nessuno lo farà anche con te. La forza del silenzio Se ricordi nella puntata dedicata alla negoziazione abbiamo visto che all’interno delle strategie più potenti è sempre presente “il silenzio” e la capacità di ascolto. Chiunque svolga un lavoro di negoziazione, di vendita di mediazione sa perfettamente che il silenzio ha una forza dirompente. Sa bene quando è il momento di chiudere la bocca e ascoltare. Provaci davvero, se sei una persona che desidera riempire tutti gli spazi, sforzati di restare in silenzio e sarai sorpreso dall’effetto incredibile di questo “spazio”. Inoltre la ricerca ha provato che chi si prendere “il suo tempo” durante le conversazioni in realtà non veicola un’immagine debole, come siamo portati a pensare. Ma in realtà è come se “si prendesse più spazio”, proprio come quando ti viene detto di “occupare spazio fisico” durante le interazioni per dare un senso di padronanza della situazione. La presenza E’ chiaro che tutto questo discorso ha molto a che fare con la nostra cara “presenza” cioè con la capacità di osservare il momento presente senza giudicarlo e senza reagirvi. Sono infatti i nostri “pensieri” uno degli ostacoli più grandi alla capacità di restare in silenzio. E’ una abilità straordinaria quella di riuscire ad anticipare i discorsi degli altri ma non è sempre utile farlo. Mentre leggi queste parole una parte di te sta anticipando ciò che sto per scrivere, è del tutto normale. 
Il nostro cervello è essenzialmente una macchina che fa previsioni sulla realtà. Quando parliamo con le persone, soprattutto se le conosciamo bene, abbiamo come l’impressione che ci stiano dicendo “sempre le stesse cose”, e magari in parte è un po’ così. Ma la verità è che noi utilizziamo spesso un numero ristretto di parole e di argomenti, è normale pensare di riconoscerli tutti ma se ti sforzi a restare un po’ di più in silenzio, scopri che le parole hanno sempre significati leggermente diversi e nuovi. Il potere che ci consente quasi “di leggere la mente” degli altri è incredibilmente positivo quando è una buona mentalizzazione ed incredibilmente dannoso quando non la è. Mentalizzare non significa anticipare Quando una persona è in grado di mentalizzare significa che è capace di tenere conto della mente delle altre persone, ne abbiamo parlato diverse volte durante questi anni. E’ qualcosa di molto simile al concetto di “empatia” ma che lo travalica perché non si tratta solo di sentire ciò che potrebbe sentire l’altro ma anche di capire, c’è una componente cognitiva. Questa “componente” è quella che ti consente anche di comprendere che la tua mentalizzazione è solo un’ipotesi su cosa sta pensando l’altro e non una assoluta verità. Se la mentalizzazione fosse “assolutamente certa” non sarebbe tale, ma sarebbe una lettura nel pensiero, qualcosa di psico-magico che di tanto in tanto ci riesce ma che a poco a che vedere con una buona comunicazione. 
Un bravo comunicatore sa che le proprie idee sull’altro sono “solo idee” e che dovrà adattare il proprio discorso in base a ciò che accade “qui ed ora” e non alle sue aspettative. Il silenzio come presenza Se ci pensi bene non puoi stare a lungo in silenzio durante una conversazione, o meglio se stai in silenzio ma sei assente non puoi sostenere la comunicazione. Perché o sei completamente dissociato, cioè talmente distratto da non ascoltare ciò che ti dice il prossimo oppure lo stai ascoltando attentamente. La tendenza a scappare nei pensieri è del tutto normale ma anomala. Prova a passare 20 minuti con un amico e sforzati di non ascoltarlo restando in silenzio. Di certo dopo poco inizierai a sentirti strano, inizierai a notare che lui sta notando la tua “assenza”. Lo so che è normale perdersi pezzi di comunicazione perché si sta pensando ad altro, ma se ci sforziamo di restare in silenzio come “metodo” sicuramente ci rendiamo conto di questa differenza. 
Il silenzio comunica, comunica spazio ed apertura. Guardare negli occhi il tuo interlocutore senza ascoltarlo non solo è inutile e porta alla chiusura della conversazione, ma è anche quasi impossibile! L’intenzione del silenzio Per cui se intenzionalmente stai un “po’ più zitto” ti accorgerai di una sorta di apertura naturale verso il prossimo. Basta poco, un attimo di pausa prima di dire la tua, anche quando vieni interpellato direttamente. Basta l’intenzione di lasciare uno spazio di silenzio, anche molto piccolo se sei come me, cioè impaziente di dare risposte all’altra persona. Prenditi una piccola pausa e noterai piccoli miracoli. Il silenzio Immagina un mio collega che non ha voglia di ascoltare il paziente, secondo te farà bene o bene a non ascoltarlo? E’ ovvio che da un punto di vista clinico farà molto male al paziente, ma a se stesso? La verità è che farà male anche se stesso, perché quelle parole (spesso di sofferenza) gli entreranno dentro senza che neanche se ne accorga. 
La presenza nella conversazione all’inizio “può far male” ma è anche una difesa. Forse è proprio questa una delle paure di chi parla di continuo senza lasciare spazio agli altri: quella di essere invaso a sua volta dalle persone dell’altro, proprio come fa lui. Per gli addetti ai lavori, è una sorta di proiezione. Meno pensi di essere ascoltato e più parli A meno che tu non sia particolarmente timido meno credi che gli altri siano disposti ad ascoltarti e più, non appena hai l’occasione (stra) parli. Cogli l’occasione per riuscire a dire anche la tua. Ecco sappi che questo atteggiamento oltre ad essere controproducente per la tua comunicazione, funziona un po’ come la profezia che si auto-realizza. Esempio: temo che gli altri non mi ascoltino, allora quando ne ho occasione urlo e parlo di brutto, questo irrita i miei interlocutori che daranno segnali (verbali e non verbali) di fastidio che confermeranno la mia ipotesi di partenza. Insomma ragazzi gestire il silenzio è un’abilità preziosa che richiede sforzo ed impegno, perché non siamo stati abituati a farlo se non in rare e circoscritte occasioni.


sabato 21 agosto 2021

DA CHI ANDREMO?


Domenica 22 agosto  2021
 XXI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO B)
 (Gv 6,60-69)

Il passo evangelico di questa domenica ci conduce a chiusura del capitolo 6 secondo Giovanni (il quale consta di 71 versetti). 
Di notevole interesse e di poderosa portata, nella pericope odierna, è la “professione di fede” di Pietro («Gli rispose Simon Pietro: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio“» – Gv 6, 68-69), la quale è possibile valutarla come corrispondente, o “sinottica”, alle pronunzie simili manifestate dallo stesso Pietro negli altri tre Vangeli (cf. Mt 16, 16; Mc 8, 29; Lc 9, 20). Considerare Gesù quale «il Santo di Dio», invero, per la tradizione ebraica era appellativo fortissimo, quasi impronunciabile, poiché il concetto di “santità” era riferito e riferibile solo ad Adonài cioè «il Signore» (cf. 1Sam 2, 2), ovvero a ciò che era in strettissima connessione con Adonài (cf. 2Cr 8, 11). 
Interessante notare come in Giovanni ci siano altre decise “professioni di fede” nei confronti di Gesù, manifestate tanto da Natanaele o Bartolomeo (cf. Gv 1, 49), quanto da Marta (cf. Gv 11, 27), quanto da Tommaso (cf. Gv 20, 28; cf. TENDI LA TUA MANO E METTILA NEL MJO FIANCO). E come non notare, poi, il fatto che nei Vangeli il più “costante” nelle “professioni di fede” che concernono la santità, la divinità di Gesù sia curiosamente il demonio (cf. Mt 8, 29: Mc 1, 24.34). 
Preso atto di quanto, e di come questo argomento delle “professioni di fede” possa essere ampiamente sviluppato (ed è solo uno dei vari argomenti che si possono approfondire partendo dalla pericope odierna), ci è gradito, invece, in questa occasione, fare una breve riflessione partendo dal seguente versetto: «Molti dei suoi discepoli, dopo aver ascoltato, dissero: “Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?”» (Gv 6, 60). Ebbene, l’aggettivo «dura» certamente si riferisce, in particolare, alla misteriosa presenza di Gesù nel pane e nel vino, ma ancor più, in generale, a tutto il contenuto del discorso presente anche nelle righe che precedono la pericope odierna, e che vanno a costituire l’intero corpus che caratterizza propriamente Gv 6. 
Nondimeno questo stesso aggettivo «dura» può rimandarci ad un riferimento appartenente alla cultura e alla tradizione ebraica. Innanzitutto, così come è nel nostro solito, andiamo al testo originario greco del Vangelo. Il termine greco che viene tradotto con «dura» è sklerós, termine similmente presente nel nostro italiano (cf. «sclerosi», ovvero processo di indurimento di un organo o parte di esso). Ebbene questo aggettivo può portarci al concetto ebraico di chòk. Per la concezione culturale e tradizionale ebraica, il termine chòk indicava la caratteristica specifica di un dato precetto. Il precetto chòk, invero, indicava non un semplice decreto, bensì un “decreto divino” che andava recepito, osservato e adempiuto «così com’è». Ancor più specificamente, il precetto chòk è quel dato precetto che trascende ogni motivazione razionale in quanto considerato di origine divina. -Facciamo un esempio: il precetto chòk del divieto di sha’atnetz. La «mescolanza di lino e lana in un tessuto» (sha’atnetz appunto) era vietata «così com’è» (chòk appunto), nello specifico «così com’è» descritta e prescritta in Lv 19,19 e Dt 22,11. I rabbini, invero, hanno sempre cercato le interpretazioni delle proibizioni definite chòk , ma la verità è che di queste non se ne conosce la motivazione razionale. In merito al chòk che vieta lo sha’atnetz, ad esempio, si discute se tale divieto possa derivare dal fatto che i pagani mischiassero i tessuti; o dalla confusione di identità di specie e quindi sfiducia in Dio; oppure dall’unione di prodotto vegetale e animale, che implica in qualche modo una violenza verso l’animale; oppure per distinguere gli abiti profani da quelli sacerdotali; oppure per differenziare il mondo agricolo sedentario da quello pastorizio beduino, ovvero non mescolare i sacrifici di Caino e Abele; oppure perché il demonio si nasconde dietro il misto dei tessuti. Insomma, è difficile stabilire: non si sa (cf. La Sindone – videolezione 2 – Sepoltura ebraica – unità 1) 
Quel che è certo, però, è che, secondo i rabbini, quando un precetto era (ed è) difficile da capire, ovvero andava (e va) recepito ed adempiuto «così com’è» (chòk appunto), il suo compimento è più meritorio, perché si fa per pura fede, anche contro ogni luce della ragione. Preso atto di tutto quanto, interessante riferire, alla luce del nostro discorso, come il termine chòk possa intendere letteralmente «scolpire su pietra». -Molto molto singolare, poi, come Gv 6, si concluda proprio con la professione di fede, sopra citata, di Simon “Pietro”, ovvero Simon “Kèfa”, ovvero Simon “Roccia/Pietra” (cf. Gv 1, 42; Mt 16, 18) Ebbene, ecco allora come possiamo accendere il versetto che oggi abbiamo in analisi di una luce rilevante: la misteriosa presenza di Gesù nel pane e nel vino, ovvero il tema portante di Gv 6, che si può racchiudere nella pronunzia di Gesù: «Io sono il pane della vita» (cf. Gv 6, 35.48), è argomento che tanto ai discepoli quanto a noi, tanto allora quanto oggi, crea enorme difficoltà di comprensione e di professione, per non dire confusione e imbarazzo logico-razionale. Ma Gesù, invero, rimanendo così “duro” in questo suo discorso così centrale -discorso che riguarda la Sua Sostanza, il Suo Mistero; discorso che, abbiamo detto, è la “sinossi giovannea” dell’Ultima Cena -cf. AVRÀ SETE, ovvero così ineffabile, così chòk, ci invita, dinanzi ai misteri più grandi e imponderabili della nostra fede, ad essere aperti più al divino che all’umano; ci invita maggiormente ad abbandonarci alla sua Parola senza cercare in ogni modo e maniera, arrovellando le nostre menti e scervellandoci, di spiegare e spiegarci ciò che non si può definitivamente, pienamente e compiutamente spiegare col raziocinio. 
Questo non significa che la nostra fede non sia storica, ovvero che la nostra fede non abbia bisogno della ragione. Questo significa, invece, come la nostra fede sia storia, ma storia che non può prescindere dal kerýgma («annuncio teologico»); questo significa come alla nostra fede non basti il solo metodo logico-razionale per essere vissuta, ma necessiti decisamente, e imprescindibilmente, del salto della “fiducia” (cf. il greco pístis e il latino fides che valgono sia «fede» ma anche «fiducia»). E se in altri commenti abbiamo dovuto ribadire l’aspetto storico della nostra fede (cattolica in Gesù Cristo Lógos fatto carne -cf. Gv 1, 44), ovvero abbiamo sollecitato a recuperare l’aspetto storico della nostra fede (poiché essa, la nostra fede, troppo spesso, viene considerata, e accolta, meramente come fosse un “romanzetto/favoletta”), ecco che oggi, in queste poche righe, dobbiamo ribadirne, invece, proprio l’aspetto kerygmatico, ovvero teologico, che non è sinonimo di “fiabesco”, bensì di chòk, ovvero “duro come la pietra” (cf. Mt 7, 24-25; Lc 6, 48). 
Ecco, allora, che potremmo definire la nostra fede non solo “storia e kerýgma” ma anche e propriamente “storia e chòk”. 





venerdì 20 agosto 2021

IL CORAGGIO DI DIRE IO

Intervento del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in videoconferenza, alla sessione di apertura della 42° edizione del Meeting per l’amicizia fra i popoli 
Palazzo del Quirinale, 20/08/2021 

Rivolgo un saluto molto cordiale a lei, a quanti sono presenti a Rimini e a quanti sono collegati con i vari gli strumenti che lo consentono. E sono molto lieto di potere sottolineare come il Meeting di Rimini sia un luogo di incontro, di amicizia, di riflessione, di cultura per tanti; per i giovani in particolare. È innanzitutto a loro che desidero rivolgere il saluto più caloroso e l’incoraggiamento a trarre da questa esperienza una spinta a raccogliere e a trasmettere passione, solidarietà, capacità di ascolto e di dialogo; valori fondamentali in tutti gli ambiti della vita quotidiana. Ringrazio la comunità degli organizzatori – la Fondazione Meeting, la Fondazione per la Sussidiarietà, la Fraternità di Comunione e Liberazione - per aver portato ancor più avanti, per un nuovo tratto di strada, il testimone che hanno ricevuto: credo che aver realizzata l’edizione di quest’anno non sia stato semplice, a fronte delle necessarie limitazioni dovute alla pandemia. È, dunque, anche per questo motivo di soddisfazione aver riaffermato la tradizione del Meeting ed essere riusciti a offrire questa rinnovata occasione di incontro. 
 Come ha ricordato, Presidente, così bene illustrandolo il titolo scelto per questa edizione riprende un’espressione di Kierkegaard: “Il coraggio di dire io”. Come lei , pocanzi, ha cortesemente ricordato nel 2016 ho avuto la gradita opportunità di prendere la parola al Meeting quando nel tema che era proposto allora l’accento cadeva sul “tu, era come ricorderà ”: “Tu sei un bene per me”. Ho colto subito l’evidente collegamento tra l’indicazione di allora e quella di oggi. Sono trascorsi cinque anni intensi. 
Nel tempo che viviamo i cambiamenti si fanno sempre più accelerati, e sono sempre più interdipendenti. Il mondo “globale” viene percepito, e diviene in realtà, sempre più piccolo, le distanze si accorciano, comunichiamo on line, con immediatezza, non soltanto parole e immagini, ma speranze e paure, modelli di vita e comportamenti sociali. 
La pandemia
Un virus temibile e sconosciuto ha propagato rapidamente i suoi effetti sull’uomo, sulle società, sulle economie, diffondendo morte e provocando una crisi ancor più pesante delle altre di questo primo scorcio di millennio. Ci siamo scoperti più fragili di quanto credevamo. Abbiamo compreso con ancora maggiore chiarezza di aver bisogno del sostegno degli altri. Abbiamo fatto esperienza del dolore, della paura, della solitudine. Ma nella comunità abbiamo trovato risorse preziose, decisive per far sì che le nostre speranze, le nostre aspirazioni non venissero sradicate e potessero ancora trovare conferma e sviluppo. Avere il coraggio di dire io richiama la necessità di rivolgersi ad altri, a uno o a tanti tu. Si tratta, anche per i credenti, della chiave del rapporto con Dio. L’io ha bisogno di avvertire la propria responsabilità e di riconoscere gli altri per comporre il noi della comunità. L’io consapevole della propria responsabilità esclude l’egoismo che conduce al conflitto con altri; che illude della propria forza e rischia in realtà di precipitare nell’impotenza, nel rifiuto in definitiva anche di se stessi. Il futuro non può essere costruito che soltanto insieme. È l’io che riconosce il valore della diversità, del trovarsi e ritrovarsi insieme; l’io che desidera la compagnia – per usare un termine a voi caro – per diventare costruttore, di esperienze, di senso, di vita. 
Il richiamo all’io mette in evidenza il compito – o, per esprimerlo con maggiore intensità, la missione - verso i tanti tu che incontriamo. Per tutto questo, per scegliere il proprio destino, è necessario che la persona conquisti piena coscienza del proprio valore, del proprio essere originale e irripetibile. Così da comprendere di doversi mettere in gioco. Il coraggio di dire io è indispensabile per dare concretezza, realtà umana, a principi che altrimenti resterebbero inerti, o peggio verrebbero traditi dalla rinuncia o dal nascondimento. 
Il coraggio della responsabilità.
Occorre, dunque, il coraggio della responsabilità. La pandemia ci ha dimostrato quanto ci sia bisogno di responsabilità. Nell’opera dei medici e di tutto il personale sanitario. Nel lavoro di chi svolge mansioni sociali. Nell’impegno di chi opera nel tessuto produttivo e economico. Nell’azione dei governi e degli organismi internazionali. Ma anche nei comportamenti di ciascuno di noi. La responsabilità comincia da noi. Vaccinarsi - tra i tanti esempi possibili - è un dovere non in obbedienza a un principio astratto, ma perché nasce dalla realtà concreta che dimostra che il vaccino è lo strumento più efficace di cui disponiamo per difenderci e per tutelare i più deboli e i più esposti a gravi pericoli. Un atto di amore nei loro confronti, come ha detto pochi giorni fa Papa Francesco. Il coraggio dell’io ci rende liberi. Parliamo della libertà autentica, capace di piantare solide radici, soltanto se coltiva la vocazione all’incontro e al rispetto e che è iscritta nell’animo di ogni persona. 
La libertà
La libertà, per essere tale, deve misurarsi con la libertà degli altri. Non perché la libertà degli altri rappresenti un limite alla nostra ma perché – al contrario – la libertà di ciascuno si accresce e si consolida con quella degli altri, si realizza insieme a quella degli altri. La libertà nasce nella coscienza personale di ciascuno e vive insieme a quella di chi ci sta vicino, nella costruzione della coscienza comune. L’io responsabile e solidale, l’io che riconosce il comune destino degli esseri umani, si fa pietra angolare della convivenza. E, nella società civile, nella democrazia. La storia ci insegna costantemente quante minacce vi siano alla libertà e quanti sacrifici sono richiesti per conquistarla. Ci indica anche che si tratta di un bene indivisibile tra le donne e gli uomini di ogni Continente. Ci rendiamo conto di quanto la mancanza di libertà o la perdita di essa in altri luoghi del mondo colpisca la nostra coscienza e incida sulla comune convivenza nella sempre più integrata comunità mondiale. 
Libertà e democrazia
Nuove sfide si pongono, quindi, continuamente davanti a noi. Vi sono tanti aspetti che la società globale propone. Accanto a straordinarie opportunità, incrementate dallo sviluppo delle tecno-scienze, emergono anche nuovi rischi di omologazione, di esclusione, di smarrimento, di sfiducia. Anche di un io che si annulli nell’omologazione dell’uso improprio di quella grande risorsa positiva offerta dal web. Libertà e democrazia richiedono, per rafforzarsi, un retroterra vivo di partecipazione, autonomia di organizzazione sociale, conoscenze diffuse in modo da alimentare una cultura ricca di creatività, trama di coesione, rispettosa delle reciproche differenze. Il primo dei presupposti della libertà sta proprio nella coscienza della persona. E nella possibilità di un suo sviluppo integrale. Il coraggio dell’io ha quindi a che fare con il coraggio della società di tenere sempre aperte, di non chiudere mai, le strade di uno sviluppo integrale della persona, di ogni persona. A questo dovere ci richiama la nostra Costituzione la cui impronta è, appunto, “personalista”. È una sfida, uno spazio che sta diventando ogni giorno sempre più ampio. 
La comunità
La comunità è sempre più larga e il compito di presidiare e assicurare a tutti questo spazio diventa sempre più impegnativo e affascinante. Nuove prospettive sono davanti a noi. Riguardano l’equilibrio tra umanità e natura, tra tecnologia e umanità, tra consumo delle risorse ambientali e futuro da trasmettere e consegnare ai nostri figli. Lo sviluppo integrale della persona si è arricchito di ulteriori implicazioni e coerenze, connesse anche all’irrinunciabile principio di pari dignità e uguaglianza. Se non fossimo conseguenti sarebbe un cedimento a quella cultura dello “scarto”, da cui ci mette in guardia Papa Francesco, un rischio che si nutre altresì di pratiche consolidate e di alcune regole economiche che talvolta hanno la pretesa di apparire indiscutibili. La scienza ci è di ausilio con i suoi enormi costanti progressi ma, al tempo stesso, le tecniche che operano a cavallo delle frontiere della vita umana ci richiedono spirito critico nel progettare il futuro. 
L'io cerca il noi
Il coraggio dell’io ha davanti a sé il grande tema di rinnovare l’idea di personalismo, all’altezza dei nostri tempi. La persona è più dell’individuo: è un io pienamente realizzato. Vive nel “noi”, cerca il “noi”. Della comunità è partecipe e, al tempo stesso, edificatrice e protagonista. Come indica l’art. 2 della Costituzione, la persona, con le formazioni cui concorre a dar vita, preesiste per sua natura alle stesse istituzioni e agli ordinamenti. Nel mondo globalizzato il ruolo dei corpi sociali e delle formazioni intermedie diviene più impegnativo, forse più difficile, perché la persona rischia di trovarsi sola davanti a centri di influenza sempre più pervasivi e sempre più lontani, che incidono sul suo effettivo esercizio di libertà senza che possa esserne arbitra. Ma il loro significato, il loro valore non sono affievoliti e vanno preservati e, se possibile, accresciuti. Libertà e democrazia dipendono in buona misura- ripeto- dalla vivacità, dalla ricchezza di articolazione dei gruppi sociali, dalla autonomia che viene loro riconosciuta. L’economia, la società, la cultura non possono farne a meno. Tutto questo è alla prova dei temi posti dalla globalizzazione. Un processo che deve essere, contemporaneamente, di generale diffusione dei diritti, di effettivo raggiungimento del rispetto della dignità della persona in ogni angolo del mondo. 
Il futuro
Se il destino dell’umanità è comune come è sempre più evidente, il futuro che dobbiamo comporre insieme non può più essere a somma zero. In cui, cioè, a un progresso in un’area debba corrispondere, come a compensazione algebrica, un arretramento in un’altra. La formula vincente che dobbiamo applicare è esattamente quella cosiddetta win-win. Si vince insieme, si perde insieme. La crisi del virus lo conferma. Dovremo ancora combattere la pandemia. Ma nostra responsabilità è immaginare il domani. Sentiamo che cresce la voglia di ripartire: il motore è la fiducia che sapremo migliorarci, che riusciremo a condurre in avanti il nostro Paese. L’Unione europea si fa motore di un nuovo sviluppo dei nostri Paesi, uno sviluppo più equilibrato e sostenibile. È un’occasione storica che dobbiamo saper cogliere e trasformare in un nuovo, migliore e stabile equilibrio. 
L'Europa
C’è un io, un tu e un noi anche per l’Europa e per le sue responsabilità, contro ogni grettezza, contro mortificanti ottusità miste a ipocrisia – che si manifestano anche in questi giorni - che sono frutto di arroccamenti antistorici e, in realtà, autolesionisti. Il coraggio dell’io, oggi, chiede una svolta capace di contribuire a far sì che i cittadini, le persone, siano protagonisti anche nel nuovo contesto di interlocutori globali che trascendono gli Stati e tendono a rendere, di conseguenza, più debole ogni influenza e controllo democratico. Anche da qui nasce l’esigenza di potenziare la sovranità comunitaria che sola può integrare e rendere non illusorie le sovranità nazionali. La sovranità comunitaria è un atto di responsabilità verso i cittadini e di fronte a un mondo globale che ha bisogno della civiltà dell’Europa e del suo ruolo di cooperazione e di pace. 
Un nuovo cammino
Le risposte emergenziali, come lo stesso piano Next Generation EU, debbono tradursi in un nuovo cammino di forte responsabilità comune. Lo consente la riflessione in atto sul futuro dell’Europa. La Conferenza in corso deve essere occasione di ampia visione storica e non di scialba ordinaria gestione del contingente. Possiamo farcela. Dipende anche da noi. Ciascuno viene – e deve sentirsi - interpellato: il coraggio dipende dalla capacità di ciascuno di essere responsabilmente se stesso. Del resto, è questa la condizione dell’esercizio della libertà.