La fatica di includere, ai tempi
della solitudine
della scuola
Classi sempre più
complesse, docenti troppo soli, una formazione che non tiene il passo.
L’inclusione scolastica, una delle più grandi conquiste del sistema italiano, è
oggi sotto pressione, tanto che il 27,1% degli insegnanti sarebbe favorevole al
modello a tre vie. Per trovare una risposta alla crisi del sistema, però, la
scuola non deve guardare indietro ma aprirsi al territorio
di Veronica Rossi
«Per quanto mi impegni, a
volte faccio fatica, in classe, ad attuare della modalità inclusive: ho bisogno
di molto tempo per capire come lavora un ragazzo, anche se so qual è la sua
diagnosi. Nel periodo della pre-adolescenza, poi, ci sono tante cose in evoluzione.
Magari cambiano anche le dinamiche della memoria, l’approccio allo studio,
l’interesse, la motivazione. Devi sempre stare al passo, perché altrimenti
rischi di adattarti a un certo tipo di difficoltà nel seguire la lezione, nello
studio, nelle verifiche, per poi scoprire che l’alunno l’ha già
superata». Luisa è una professoressa di una scuola secondaria
di primo grado della provincia di Trieste. Il nome è inventato, perché
preferisce rimanere anonima, ma le difficoltà che riporta sono reali. Parla
fuori dal cortile dell’istituto, con gli occhi chiari che si infiammano mentre
racconta del suo lavoro; insegna in una classe in cui c’è un alunno certificato
ai sensi della legge 104 – e che quindi ha diritto a un Piano educativo
individualizzato e alla presenza di un insegnante di sostegno – ma anche
diversi ragazzi con Bisogni educativi speciali, che richiedono
personalizzazioni della didattica.
Ritorna l’idea delle
scuole e classi speciali
Che i docenti facciano
fatica è un dato di fatto, testimoniato anche dall’indagine Le voci
dell’inclusione del Centro Studi Erickson di Trento,
che ha preso in esame un campione di 833 insegnanti provenienti da tutte le
regioni d’Italia. Il 45% dei partecipanti ha dichiarato di aver pensato, a un
certo punto della propria carriera, che la vera inclusione fosse
impossibile; il 27,1% invece – e questo è il dato più eclatante – si è
detto favorevole a un modello a tre vie, quindi alle classi e alle scuole
speciali per gli alunni con maggiori difficoltà.
«Ritengo che per alcuni
casi, quelli che necessitano di personale specializzato sulla problematica
specifica e non solo sul sostegno con un corso universitario, le classi
speciali potrebbero essere una soluzione», afferma Giulia (è
un altro nome di fantasia), che insegna inglese in una scuola in montagna. «La
“scuola normale”, chiamiamola così, non ha gli strumenti e le competenze a
livello di personale per andare incontro ai bisogni dell’alunno e potrebbe non
essergli veramente d’aiuto». Negli ultimi anni, la sensazione di
inadeguatezza degli insegnanti negli istituti pubblici è andata crescendo:
quando è stata redatta la precedente ricerca della Erickson, nel 2023, era
favorevole al modello a tre vie “solo” il 17% del personale docente. Ma
cos’è che negli ultimi anni sta minando alle fondamenta il modello di
inclusione dell’Italia, prima nazione al mondo ad abbandonare le classi
differenziali e speciali, con la legge 517 dell’agosto 1977?
Classi sempre più
eterogenee, bisogni sempre più complessi
«C’è una sempre maggiore
eterogeneità delle classi, i bambini sono sempre più sregolati e problematici»,
afferma Dario Ianes, ordinario di Pedagogia dell’inclusione alla
facoltà di Scienze della Formazione della Libera Università di Bolzano-Bozen e
co-fondatore del Centro Studi Erickson. «C’è un aumento pazzesco delle
certificazioni. Le ore di sostegno crescono, certo, ma non abbastanza per stare
al passo con questi numeri». La crescita delle difficoltà e dei bisogni
educativi è un dato oggettivo, se pensiamo che, per esempio, secondo i dati
forniti dal ministero della Salute, c’è stato un aumento del 157% delle
diagnosi di disturbo da deficit di attenzione e iperattività – Adhd dal 2004 al
2024 (con un picco di 6mila solo nell’ultimo anno) e i bambini certificati
nello spettro autistico sono passati da uno su 10mila negli anni ‘80 a uno su
77 oggi (negli Stati Uniti è uno su 36). Questo elemento, che pure pone delle
domande sulla salute delle nuove generazioni e sull’ambiente che abbiamo costruito
per loro, non basta da solo a giustificare le difficoltà della scuola italiana
in tema di inclusione.
Più formazione per
insegnanti e dirigenti
Secondo gli esperti – ma
anche secondo gli stessi docenti – la formazione degli insegnanti gioca un
ruolo fondamentale. «In molti vengono da me a lamentarsi perché sono in
difficoltà a includere nelle loro classi», testimonia Maria Piani,
pedagogista, dirigente scolastica in pensione e cofondatrice di ScuolainComune,
associazione di secondo livello che si occupa di istruzione e di educazione in
provincia di Udine. «Manca una cassetta degli attrezzi, una formazione
specifica che permetta loro di affrontare gruppi di alunni obiettivamente
complessi, in cui ci sono diversi bisogni educativi». Prima della
pandemia Patrizio Bianchi, già rettore dell’Università di Ferrara e
ministro dell’Istruzione del Governo Draghi, aveva provato a introdurre 20 ore
di formazione obbligatoria sulle tematiche inclusive per tutti coloro che
avevano in classe un alunno con disabilità. «Era una sperimentazione che
meritava di essere perseguita», afferma Luigi D’Alonzo, professore
ordinario di Pedagogia speciale all’Università Cattolica del Sacro Cuore di
Milano e delegato del rettore per l’integrazione degli studenti disabili del
medesimo ateneo, «ma è stata abbandonata dopo un anno. Ci sono due cose che non
vanno nell’inclusione: la preparazione dei docenti e una visione della singola
scuola su questo tema». Quest’ultima dipende in modo decisivo dai dirigenti
scolastici. Dove c’è un dirigente che conosce l’inclusione, che chiede
conto del lavoro, che costruisce una comunità educativa, le cose funzionano.
Dove manca, tutto si inceppa. Le buone – anzi, buonissime – norme ci sono,
bisogna saperle applicare. «Qualche tempo fa ero a Bruxelles per un progetto di
ricerca sui ragazzi con autismo», continua il professore, «e una collega
tedesca si è alzata e ha detto: “Voi italiani avete una grande responsabilità,
siete il faro del mondo dell’inclusione!”. Da noi c’è una visione negativa,
probabilmente perché non abbiamo messo in piedi una stabilità inclusiva: tutto
dipende dalle competenze dei docenti e dei dirigenti».
Ci sono due cose che non
vanno nell’inclusione: la preparazione dei docenti e una visione della singola
scuola su questo tema
L’insegnante di sostegno,
figura da valorizzare
Prendersi cura delle
particolarità del gruppo-classe, comprese quelle degli studenti con disabilità,
è compito di tutto il Consiglio di classe, non solo dell’insegnante di
sostegno. Eppure, non si può negare che quest’ultimo possa costituire un
coordinamento e una guida nell’inclusione degli studenti. Nonostante
questo ruolo centrale, tuttavia, non sempre sono persone formate ad
aggiudicarsi i posti scoperti. Basti pensare che, attualmente, gli insegnanti
di sostegno di ruolo sono solo il 36%. Tra i precari, c’è molta
eterogeneità: qualcuno ha esperienza, altri sono alle prime armi e si trovano
gettati allo sbaraglio a seguire classi con alunni con disabilità che non
conoscono affatto. «Il numero di chi non è specializzato è
tendenzialmente in calo, secondo gli ultimi dati era il 33%», spiega Ianes,
«però se proiettiamo i dati in prospettiva, tra i pensionamenti e coloro che si
spostano su una cattedra per insegnare la propria materia, ci vorranno 50 anni
a coprire tutti i posti con personale competente».
Il modello tradizionale
di didattica trasmissiva non funziona più per nessuno. Serve un cambio di
paradigma verso una didattica laboratoriale, cooperativa e costruttivista
Ammettere la necessità di
un maggior numero di docenti di sostegno formati, non significa però
semplificare – e banalizzare – una formazione necessaria. La tendenza del
sistema, tuttavia, pare essere questa: prima del 2010, servivano due anni di
corso per specializzarsi, poi si è passati ai Tfa annuali e ora, coi nuovi
corsi Indire, per chi ha tre anni di esperienza lo studio si riduce ad alcuni
mesi. Tra l’altro, in modalità online. Questa possibilità doveva essere
un’eccezione che durava un anno e invece è già stata prorogata. «È una
scorciatoia, per poter dire di assumere docenti specializzati», commenta Ianes,
«ma col rischio di non fornire una preparazione adeguata».
Perché la macchina
dell’inclusione funzioni, c’è bisogno del coinvolgimento di tutto il sistema
scuola. «Le classi sono sempre più eterogenee e i bisogni educativi coinvolgono
tutti gli studenti, non solo quelli con disabilità», dice Carlo
Scataglini, insegnante di sostegno, esperto di didattica inclusiva e autore
di libri e testi facilitati. «Il modello tradizionale di didattica trasmissiva
non funziona più per nessuno: né per chi ha difficoltà, né per chi è
plusdotato. Serve un cambio di paradigma verso una didattica laboratoriale,
cooperativa e costruttivista, capace di valorizzare le competenze e le
inclinazioni di ciascuno».
La scuola non è un’isola,
ma un tassello di una comunità educante
Come fare, però, a
realizzare questa rivoluzione copernicana nel modo di concepire l’insegnamento?
Si può demandare tutto alla buona volontà dei singoli docenti – o dei singoli
dirigenti – e al loro sforzo nel gestire da soli tutta questa complessità? La
ricerca di Erickson racconta di una grande solitudine degli insegnanti,
evidenziando come l’aiuto più grande in termini di inclusività – ma anche,
dall’altro lato, lo stress più importante – siano i rapporti con i colleghi.
Nella scuola italiana non c’è supervisione, non c’è una figura di riferimento.
Non c’è ancora un “educatore di plesso” strutturale, che pure è
oggetto di alcune sperimentazioni, che possa dare una mano nelle
situazioni più difficili.
Può tutta l’inclusione
dipendere da una scuola che diventa un’isola scollegata dal territorio, in cui
gli esperti esterni entrano solo per interventi una tantum? La risposta,
ovviamente, è no. E allora, come fare?
Una delle possibili
risposte arriva, in maniera quasi simbolica, da Trieste, patria d’adozione
di Franco Basaglia, dove, più di cinquant’anni fa, l’impossibile è
diventato possibile e la diversità ha smesso di essere qualcosa da tenere
rinchiuso, separato, emarginato. Una delle lezioni della
deistituzionalizzazione è che le rivoluzioni non si fanno da soli: serve un’alleanza
con la società civile, con il mondo dell’arte, con le associazioni e le
cooperative.
L’associazione “Oltre
quella sedia”, che da più di vent’anni nel capoluogo giuliano si occupa di
sostenere le persone con disabilità, all’inizio con percorsi di teatro, poi con
progetti più estesi di autonomia, mette in pratica questa idea. «Entriamo nelle
scuole, non con interventi singoli, ma attraverso una collaborazione con gli
insegnanti curriculari e di sostegno», dice Marco Tortul,
presidente e fondatore dell’associazione. «Forniamo formazione, ma creiamo
anche dei percorsi per gli studenti con disabilità, che vengono inseriti nel
Pei. Per esempio, c’era una ragazzina che aveva spesso delle crisi, faceva
confusione in classe. Ma abbiamo scoperto che le piaceva cucinare. Così,
l’abbiamo portata nei nostri appartamenti, in cui vivono persone adulte con
disabilità, a fare attività ai fornelli. Con lei, poi, è venuta tutta la classe
e, insieme, abbiamo fatto i biscotti. La visione della ragazzina è
cambiata, perché non era più la persona che faceva confusione, ma quella più
brava di tutti a preparare i dolci».
La scuola non deve essere
un luogo chiuso, ma aperto al territorio, grazie a un’alleanza con il Terzo
settore. «Alcuni obiettano “Ma chi le paga queste ore?”», racconta Tortul, «ma
non si tratta di aggiungere tempo in più, solo di organizzare in maniera diversa
il tempo già erogato. Per esempio, se un educatore lavora in un centro diurno
per una cooperativa, può accogliere gli studenti durante il suo turno». Questo
perché unire è aggiungere ricchezza per tutti, non toglierne.
E così, una scuola che
esce nel suo territorio e lo vive insieme a una comunità educante può mostrare
con l’esempio, oltre che con le parole, che l’inclusione è il solo modo per
crescere, fuori o dentro le mura degli istituti. Le classi sono sempre più complesse,
composite, variegate perché il mondo lo è. E non si può chiudere il mondo in
una classe o in una scuola speciale: bisogna abbracciarlo e affrontarlo,
insieme.
VITA