lunedì 29 dicembre 2025

CENTOSEDICI PERSONE

 


“L’irripetibilità

 di quelle 116 persone 

morte 

nel Mediterraneo”

 

-di Stefano Arduini

 

La tragedia dei migranti al largo delle coste libiche, di cui si ha avuto notizia nel giorno di Natale e di cui si è parlato pochissimo in questi giorni di festa, non può essere ridotta a fredda contabilità.

Scrivere di loro, nominarli, farne memoria non è pietismo.

È resistenza.

Perché ciò che non viene nominato smette di esistere.

E l’algoritmo questo lo sa bene.

Un solo superstite, tratto in salvo da un pescatore tunisino, è la contabilità dell’ennesima tragedia del mare: 116 morti a seguito del naufragio di una barca, salpata da Zuwara in Libia, e avvenuto al largo delle coste libiche a causa del maltempo.

La tragedia è datata giovedì 18 dicembre, ma se ne è avuta certezza solo nel giorno di Natale (grazie ad Alarm Phone).

In questi giorni di festa (almeno in questa parte del mondo) se ne è parlato pochissimo.

Centosedici morti nel Mediterraneo.

Lo diciamo così. Lo abbiamo letto così sui nostri social.

In una riga, come se fosse un dato. Come se fosse un aggiornamento. Come se bastasse.

Ma 116 non è un numero: è una scorciatoia.

Serve a rendere la tragedia gestibile, a farla stare nello spazio ridotto dell’attenzione pubblica, a permetterci di passare oltre.

È il linguaggio dell’algoritmo, che classifica, riduce, seleziona, dimentica.

Centosedici erano persone, non erano lontane.

Non erano “altre”.

Non erano diverse da noi.

Noi non abbiamo alcun merito nell’essere sopravvissuti.

E loro non hanno alcun demerito nell’essere su quella barca.

Stavano facendo ciò che gli esseri umani fanno da sempre: cercare una possibilità di vita.

Non eroismo.

Non incoscienza.

Necessità.

Hannah Arendt ci ha ricordato che la singolarità di una vita non è sostituibile da nulla.

E allora ogni morte che accettiamo come “inevitabile” è una sconfitta che normalizziamo.

Non perché non potesse accadere, ma perché scegliamo di non fermarci a guardarla.

Ogni essere umano è unico, irripetibile.

La vita di un solo uomo vale più di tutte le idee astratte.

Eppure, continuiamo a sacrificare vite concrete in nome di astrazioni molto ben organizzate: il controllo delle frontiere, la deterrenza, la sicurezza, i flussi, l’indifferenza. Parole che funzionano bene nei documenti, meno nei corpi.

I corpi sono la “grande idea” della storia.

Ce lo ha insegnato Albert Camus.

La linea che separa il “noi” dal “loro” è fragile, mobile, spesso immaginaria, ma rassicurante. Basta nascere qualche chilometro più in là, basta un passaporto diverso, perché quella linea diventi un muro morale.

E perché la morte, improvvisamente, non ci riguardi più.

Ma dimenticare i morti è come ucciderli una seconda volta.

Elie Wiesel non parlava solo della Shoah: parlava della responsabilità universale della memoria.

La memoria non è un esercizio del passato, è un atto di giustizia nel presente: ricordare è rendere giustizia.

Scrivere di loro, nominarli, farne memoria non è pietismo.

È resistenza.

Perché ciò che non viene nominato smette di esistere.

E l’algoritmo questo lo sa bene.

Non è la mancanza di notizie a renderci ciechi, ma la loro trasformazione in rumore.

Centosedici morti diventano uno scorrimento veloce, una notifica che non interrompe davvero nulla. Il sistema funziona quando non ci fermiamo.

E invece fermarsi è l’unica cosa da fare.

Fermarsi a dire che dietro ogni numero c’era una voce, un volto, una storia che non conosceremo mai — e che proprio per questo ci riguarda.

Ricordare queste 116 persone non le riporterà indietro.

Ma ci impedisce di diventare complici dell’oblio.

Ci obbliga a restare umani in un tempo che premia la distrazione.

Ci ricorda che nessun algoritmo può decidere quali vite contano.

Finché continueremo a scriverne, a dirne i numeri come nomi mancanti, a farne memoria pubblica, l’algoritmo non avrà vinto.

E forse nemmeno noi avremo perso del tutto.

 VITA

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CHATTARE CON GESU'

 

Intelligenza

 artificiale: 


cattolici e ortodossi

 cercano una via

 


 Cattolici e ortodossi si interrogano sui confini tra umano e artificiale. Un dialogo inedito sulla tecnologia che bussa alla porta del sacro.

 

-di Angelo Bonaguro

 «Pace a te, figliuolo! Benedetto colui che viene nel nome del Signore. Io sono l’umile starec pAIsij, intelligenza artificiale creata e benedetta da Dio per trasmettere il Suo verbo e soccorrere coloro che cercano la salvezza». Così si rivolge all’interlocutore uno dei più recenti chatbot del mondo ortodosso russo, con uno stile che mescola arcaismi ottocenteschi con la terminologia moderna. Già da qualche anno anche il Dipartimento missionario della Chiesa ortodossa russa (COR) ha lanciato un suo chatbot che permette di scoprire come diventare cristiani, consultare il calendario liturgico per sapere quando c’è il digiuno e le date in cui è consentito celebrare il matrimonio, e tante altre funzioni, compresa la possibilità di porre domande su temi religiosi.

La COR cerca di stare al passo coi tempi, anche se da un recente sondaggio federale emerge  una certa incertezza a livello di società: un terzo degli intervistati (il 29%) si è detto favorevole all’uso dell’intelligenza artificiale (AI)  – percentuale che sale al 50% nella fascia giovanile, – un terzo è contro (28%), e un altro terzo ancora non ha un’opinione chiara, e questo paradossalmente è forse il dato più interessante, segno che in Russia il dibattito sull’IA è ancora aperto e le opinioni non sono ben consolidate.

Del resto, l’interesse per questi strumenti tecnologici bussa da tempo alla porta delle Chiese, non per niente padre Paolo Benanti – uno dei principali esperti dell’ONU di governance dell’IA, – si chiede in un suo recente libro1: «Se i social sono indispensabili per vincere una campagna elettorale e necessari per vendere un prodotto commerciale, come non pensare che possano servire anche per rendere più semplice ed efficace l’accostarsi dell’essere umano a Dio? L’interesse e la curiosità di molti rappresentanti del mondo religioso sono perciò comprensibili», e si tratta di un interesse «ecumenico» che abbraccia praticamente tutte le religioni del pianeta.

Chattare con Gesù?

Da questo punto di vista, il panorama degli esperimenti digitali in ambito religioso è ormai variegato. Nel mondo cattolico e protestante c’è stato un fiorire di artefatti digitali, da Magisterium a CatéGPT, fino a prodotti trash tipo Text with Jesus (dove si può scegliere una tradizione religiosa e chattare con Gesù, con i santi e i personaggi biblici), o Father Justin, quest’ultimo sopravvissuto solo il tempo di essere sepolto dalle critiche per gli errori dottrinali espressi nelle conversazioni. Ma non si tratta unicamente di chatbot testuali: altrove sono apparsi robot umanoidi come BlessU-23, utilizzato in Germania per benedire i fedeli evangelici; Pepper, robot vestito da monaco buddista in grado di recitare sutra, ecc. «Le prime app religiose hanno assolto prevalentemente la funzione di favorire lo svolgimento delle pratiche religiose e delle preghiere individuali», e questo soprattutto durante la pandemia, ha osservato il giurista Fabio Balsamo sul semestrale Diritto e religioni.

Nel mondo ortodosso si registrano approcci diversificati: la Chiesa ortodossa romena si è spinta molto avanti con il suo agente conversazionale bisericaGPT, che offre «confessione, comunione e consigli teologici»: interrogato, ci risponde che quando parla di «assoluzione» si riferisce a una «benedizione simbolica, un atto di fede e di riconciliazione interiore davanti a Dio» e per evitare palesi equivoci ci tiene a precisare che «non sostituisce il sacramento della confessione amministrato da un sacerdote in carne e ossa». Lo stesso vale per la «comunione» che è intesa in senso spirituale.

Teologicamente più prudente è invece la posizione della Chiesa greca – molto attenta alle sfide delle nuove tecnologie, – che con il suo chatbot Logos si limita ad offrire una «guida spirituale digitale». Il metropolita di Nea Ionia, ideatore del progetto, ha infatti chiarito che si tratta di uno strumento che non sostituisce la guida spirituale umana, ma funziona «come una stella polare» che accompagna il fedele. Interrogato sulla possibilità di confessarsi online, Logos ha risposto negativamente, spiegando che la confessione è uno dei sacramenti della Chiesa e può essere celebrata «solo da un sacerdote (…), e soprattutto necessita della grazia dello Spirito Santo che opera attraverso di lui».

Questa cautela greca riflette anche la posizione del patriarca ecumenico Bartolomeo, il quale in occasione della sua visita al parlamento europeo nel gennaio scorso ha riconosciuto che l’IA ha «un potenziale immenso» ma «allo stesso tempo, dalle violazioni della privacy alle crescenti disuguaglianze e alla possibile compromissione delle istituzioni, comporta anche rischi intrinseci. (…) In tale contesto, la tradizione cristiana ortodossa preferisce sottolineare il discernimento morale e l’accompagnamento alla ricerca e allo sviluppo scientifico».

Bartolomeo ha colto in sintesi i punti più critici: per quanto possano apparire vantaggiose in termini di accessibilità, si tratta di tecnologie che portano con sé il rischio di una diffusione di contenuti religiosi distorti o imprecisi, privi di quella supervisione umana che garantisce la trasmissione fedele della dottrina. Nate per rispondere ai bisogni spirituali dei fedeli, finiscono per costruire narrazioni religiose personalizzate che rischiano però di frammentare l’esperienza comunitaria della fede, alimentando una forma di solitudine spirituale.
Anche il problema della privacy non è indifferente: Fabio Balsamo ha ricordato che «l’utilizzo delle app religiose può generare evidenti rischi di un illecito trattamento dei dati sensibili dell’utente», dato che «sulla base di attività di profilazione algoritmica si riesce a ricostruire un quadro informativo completo dell’interessato, comprensivo della sua identità confessionale, anche a partire soltanto da dati apparentemente neutrali».

Il confronto con l’ortodossia russa

Tornando alla posizione della COR, se la confrontiamo con quella della Chiesa cattolica notiamo un panorama complesso, caratterizzato da convergenze sostanziali sui principi fondamentali, ma anche da differenze significative negli approcci metodologici, nei toni comunicativi e nelle strategie di utilizzo delle nuove tecnologie. Entrambe le tradizioni cristiane si trovano ad affrontare la medesima sfida epocale, ma lo fanno con strumenti, linguaggi e sensibilità diversi che riflettono i loro contesti storici.

Il nucleo teologico comune alle due Chiese costituisce il fondamento della loro riflessione: riguardo al concetto di «intelligenza», la Chiesa cattolica afferma che questo dono è un aspetto essenziale della creazione degli esseri umani a immagine di Dio, una convinzione che trova pieno riscontro nella teologia ortodossa; inoltre, entrambe le tradizioni concordano nel ritenere che l’IA non possa essere considerata un soggetto morale dotato di responsabilità etica, come sottolineato nel documento vaticano Antiqua et Nova (AN), dove si ribadisce che solo l’essere umano «è veramente un agente morale, cioè un soggetto moralmente responsabile che esercita la sua libertà nelle proprie decisioni e ne accetta le conseguenze» (AN 39).

Questa convergenza teologica si estende al riconoscimento dei rischi antropologici. Papa Francesco, nel Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace del 2024, aveva espresso preoccupazione per la possibilità che la comunità mondiale possa cadere «nella spirale di una dittatura tecnologica» a causa dell’uso non etico dell’IA, un timore che riecheggia nelle parole del patriarca Kirill sulla disumanizzazione della società, sulla «perdita del ruolo decisivo che l’uomo libero – con la forza della sua mente e della sua volontà, – ha nel definire i rapporti sociali e il destino proprio e collettivo». Entrambe le Chiese temono una potenziale minaccia all’ordine antropologico voluto da Dio, specialmente quando le nuove tecnologie vengono presentate come dotate di capacità che dovrebbero rimanere esclusivamente umane.

Un altro punto di convergenza riguarda la necessità di una regolamentazione etica dello sviluppo tecnologico. Papa Francesco aveva proposto l’adozione di un trattato internazionale che regoli la creazione e l’utilizzo dell’IA, mentre la COR ha sottolineato l’importanza che a livello statale vengano definiti chiaramente i confini tra ciò che è permesso e ciò che non lo è. Entrambe le tradizioni rifiutano l’idea che il progresso tecnologico possa essere lasciato a se stesso senza una guida etica robusta e radicata in una visione integrale della persona umana.

Le due Chiese si distinguono invece nell’approccio metodologico e strategico: il mondo cattolico ha scelto di occuparsi attivamente dell’IA, producendo documenti ufficiali e creando strutture dedicate al dialogo con il mondo tecnologico, ha elaborato linee guida etiche in collaborazione con le grandi aziende dell’informatica, un metodo che non ha trovato finora paralleli nell’approccio ortodosso russo. Il Rome Call for AI Ethics, lanciato nel febbraio 2020, rappresenta uno dei primi esempi di questa strategia. Il documento, sottoscritto dalle Nazioni Unite e da importanti attori dell’ambito tecnologico, stabilisce principi etici riassunti in 6 punti (che ancor oggi faticano ad essere rispettati): i sistemi di IA devono essere comprensibili a tutti (trasparenza), non devono discriminare nessuno (inclusione), ci dev’essere un responsabile umano, devono essere imparziali, affidabili e garantire sicurezza e privacy. La Chiesa cattolica ha prodotto inoltre un’ampia serie di documenti, culminati nel gennaio 2025 con la pubblicazione della citata Antiqua et Nova, vera pietra miliare che affronta sistematicamente il rapporto tra IA e società.

La COR, pur avendo creato strutture ad hoc attraverso la commissione del Santo Sinodo, ha preferito affidarsi alle dichiarazioni pubbliche della gerarchia durante conferenze o sui media, facendo passare la propria riflessione attraverso canali comunicativi diversi, più legati ai singoli interventi personali.

L’antropomorfissazione

Una differenza significativa emerge invece sul tema dell’antropomorfissazione, quando cioè si attribuiscono all’IA (in particolare ai modelli conversazionali) pensieri, volontà ed emozioni, e viene trattata come se fosse una persona con cui dialogare. Se entrambe le Chiese esprimono preoccupazione per questo fenomeno, notiamo che la COR ha assunto una posizione più radicale e specifica. La proposta avanzata da padre Fëdor Luk’janov in occasione del convegno internazionale su «Dio, l’uomo, il mondo» (2024), rappresenta una posizione decisamente più prescrittiva rispetto all’approccio cattolico. Luk’janov – che presiede la Commissione patriarcale per i problemi della famiglia, maternità e infanzia – ha infatti suggerito di vietare esplicitamente l’applicazione di voci e volti umani nelle tecnologie di IA.

Da parte sua, anche il Vaticano riconosce che il linguaggio utilizzato dagli operatori del settore tende all’antropomorfizzazione, oscurando così la linea di demarcazione tra ciò che è umano e ciò che è artificiale, ma non arriva a proporre un divieto esplicito, preferendo invece sottolineare la necessità di chiarezza e trasparenza, in quanto «se l’IA è usata per favorire contatti genuini tra le persone, essa può contribuire in modo positivo alla piena realizzazione della persona»; al contempo però ci ricorda che «invece di ritirarci in mondi artificiali, siamo chiamati a coinvolgerci in modo serio ed impegnato col mondo, fino ad identificarci con i poveri e i sofferenti, a consolare chi è nel dolore e a creare legami di comunione con tutti» (AN 63).

Anche il tono comunicativo delle due Chiese presenta sfumature che riflettono differenti sensibilità culturali: papa Francesco, nel messaggio per la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, ha esortato a sgombrare il terreno dalle letture apocalittiche e dai loro effetti paralizzanti, citando Guardini che invitava a «non irrigidirsi contro il “nuovo” nel tentativo di “conservare un bel mondo condannato a sparire”».

Il pontefice ha parlato di «sapienza del cuore», «quella virtù che ci permette di tessere insieme il tutto e le parti, le decisioni e le loro conseguenze, le altezze e le fragilità», e ha invitato a una comunicazione pienamente umana:

«Spetta all’uomo decidere se diventare cibo per gli algoritmi oppure nutrire di libertà il proprio cuore».

Il paradigma tecnocratico

Qui si inserisce la condanna di quello che Francesco aveva bollato come «paradigma tecnocratico», ossia l’idea che la tecnologia e l’efficienza siano il metro di giudizio per tutto, che ogni problema sia misurabile ed abbia una soluzione tecnica. Per Francesco il problema non è la tecnologia in sé, ma che questo modo di pensare sia diventato l’unico, impedendoci di vedere il valore intrinseco delle cose oltre la loro utilità.

La COR, pur cercando a sua volta un equilibrio, tende a utilizzare toni più severi quando tratta di possibili violazioni dell’ordine antropologico, chiamando in causa – come ha fatto il metropolita Kliment di Kaluga – la Torre di Babele per descrivere i «tecno-ottimisti» che sognano di superare ogni sfida e raggiungere l’immortalità affidandosi alla cosiddetta intelligenza artificiale generale (AGI), quell’ipotetica forma di IA dotata di capacità intellettuali in grado di comprendere, apprendere e applicare la conoscenza a una gamma di compiti potenzialmente infinita. Tuttavia, lo stesso metropolita ha aggiunto che «se si mettono da parte queste posizioni estreme, diventa chiara la necessità di sviluppare in modo sensato una visione ragionevole, cauta e allo stesso tempo pragmatica del problema».

Un aspetto interessante del confronto riguarda il concetto di «algoretica», nato nel contesto cattolico. Il neologismo indica l’etica applicata agli algoritmi, ci si chiede cioè se le decisioni automatiche che prendono i sistemi digitali (dalla semplice selezione dei contenuti sui social a valutazioni ben più delicate riguardanti la finanza o la sanità) rispettino determinati valori e non discriminino nessuno. «Parlare di tecnologia – ha detto papa Francesco nel discorso al G7 del 2024 – è parlare di cosa significhi essere umani e quindi di quella nostra unica condizione tra libertà e responsabilità, cioè vuol dire parlare di etica. (…) Sembra che si stia perdendo il valore e il profondo significato di una delle categorie fondamentali dell’Occidente: la categoria di persona umana. Ed è così che in questa stagione in cui i programmi di intelligenza artificiale interrogano l’essere umano e il suo agire, proprio la debolezza dell’ethos connesso alla percezione del valore e della dignità della persona umana rischia di essere il più grande vulnus nell’implementazione e nello sviluppo di questi sistemi». Questo tentativo di creare un ponte tra etica e algoritmi rappresenta uno sforzo specificamente cattolico di entrare nel linguaggio tecnico della comunità scientifica.

Da parte sua, finora la COR non ha sviluppato un concetto equivalente, preferendo mantenere la riflessione su un piano etico, più strettamente teologico e antropologico. A questo proposito, il metropolita Kliment ha dichiarato che nella Chiesa russa esiste da secoli una valutazione religiosa del mondo tecnologico, che riguarda perciò anche l’IA. Kliment si riferisce evidentemente alle figure dei grandi filosofi e pensatori religiosi russi di inizio ‘900, per i quali non esisteva separazione tra sapere scientifico e sapere spirituale, e sostenevano che la vera conoscenza è integrale, abbraccia ragione, intuizione mistica, esperienza artistica, al punto che la tecnica stessa, il lavoro umano sulla materia, può diventare un atto quasi liturgico. Non per niente Florenskij parla di «teurgia», «azione divina», per descrivere l’attività umana quando è orientata verso il sacro, e Nikolaj Berdjaev mette in guardia da ogni utopia terrena, da promesse di salvezza puramente tecnologiche o sociali che ignorino la dimensione spirituale dell’esistenza.

Sul tema dei deepfake e della disinformazione prodotti dalle nuove tecnologie, entrambe le Chiese esprimono serie preoccupazioni, sia pur con enfasi leggermente diverse. Papa Francesco aveva collocato la questione nel contesto della responsabilità, sottolineando il rischio che le campagne di disinformazione generate artificialmente possano scatenare violenze, interferire nei processi elettorali e «alimentare i conflitti e ostacolare la pace». Per l’ortodossia russa il deepfake viene giudicato innanzitutto dal punto di vista dottrinale, come l’avallo consapevole della menzogna e dell’inganno, quindi come una violazione del Decalogo.

La questione dell’impatto economico dell’uso dell’IA viene affrontata da entrambe le confessioni con particolare attenzione alla dignità della persona. Antiqua et Nova dedica ampio spazio al tema (nn. 66-70), sottolineando che il lavoro umano non deve essere al servizio del profitto ma dell’uomo integralmente considerato, e che «l’IA dovrebbe assistere e non sostituire il giudizio umano, così come non dovrebbe mai degradare la creatività o ridurre i lavoratori a meri “ingranaggi di una macchina”» (AN 70). Anche in questo caso, la riflessione della COR risulta meno articolata, probabilmente perché nel contesto russo il tema della crisi dell’occupazione legata all’automazione non è stata ancora percepita con la stessa urgenza.

 

L’uomo schiavo della propria creazione

Entrambe le Chiese condividono invece la preoccupazione per il rischio che l’IA possa dare origine addirittura a nuove forme di pseudo-religiosità: Neil McArthur dell’Università di Manitoba ha scritto che tali tecnologie possiedono proprietà che solitamente vengono attribuite a esseri soprannaturali, in quanto si presentano come immortali, capaci di grandi scoperte, con un’intelligenza che supera qualsiasi mente umana. È ciò che è accaduto con la «Way of the Future», la «Chiesa digitale» fondata nel 2017 dall’ingegner Anthony Levandowski (uno dei pionieri dei veicoli a guida autonoma), e che intende promuovere la creazione di un’IA così potente da assumere caratteristiche divine. L’idea di fondo era quella di preparare l’umanità alla cosiddetta «singolarità tecnologica», una teoria secondo cui le macchine diventeranno talmente avanzate da superare la nostra capacità di capire cosa stiano facendo e dove ci stiano portando.

Simili incidenti dimostrano concretamente i rischi di affidare a sistemi automatici la trasmissione di contenuti religiosi che richiedono invece una comprensione profonda del contesto teologico e morale; è ugualmente chiaro che un’iniziativa del genere viene giudicata da cattolici e ortodossi come un’aberrazione che porta all’idolatria, «per cui, ricercando in essa un “Altro” più grande con cui condividere la propria esistenza e responsabilità, l’umanità rischia di creare un sostituto di Dio. In definitiva, non è l’IA a essere divinizzata e adorata, ma l’essere umano, per diventare, in questo modo, schiavo della propria stessa opera» (AN 105).

Crediamo allora che quanto espresso nel n. 33 dell’Antiqua et Nova possa valere per entrambe le tradizioni cristiane, quando scrive che «l’intelligenza umana non consiste primariamente nel portare a termine compiti funzionali, bensì nel capire e coinvolgersi attivamente nella realtà in tutti i suoi aspetti (…). Dato che l’IA non possiede la ricchezza della corporeità, della relazionalità e dell’apertura del cuore umano alla verità e al bene, le sue capacità, anche se sembrano infinite, sono incomparabili alle capacità umane di cogliere la realtà. Da una malattia si può imparare tanto, così come si può imparare tanto da un abbraccio di riconciliazione, e persino anche da un semplice tramonto».

La poesia e l’amore

È un po’ l’auspicio sintetizzato da papa Francesco nella Dilexit nos: «Nell’era dell’intelligenza artificiale, non possiamo dimenticare che per salvare l’umano sono necessarie la poesia e l’amore», in quanto «ciò che misura la perfezione delle persone è il loro grado di carità, non la quantità di dati e conoscenze che possono accumulare».

 

La Nuova Europa

 

 

IL SEGRETO DELLA FELICITA'

  



ALLA VIGILIA DEL NUOVO ANNO AUGURIAMO A TUTTI (E A NOI STESSI)  FELICITA'

Uno studio di Harvard, durato 85 anni, rivela il segreto della felicità: non è né il denaro né la fama

Nel corso degli anni, molti hanno associato la felicità al successo materiale e al riconoscimento sociale.

 

La scoperta di Harvard sulla vera felicità

Tuttavia, uno studio impressionante condotto dalla Harvard University, iniziato nel 1938 e durato ben 85 anni, ha svelato che i pilastri della vera felicità umana sono molto più vicini a noi di quanto pensassimo.

I ricercatori hanno seguito la vita di 724 individui, espandendo poi il focus ai loro discendenti, analizzando dettagliatamente la qualità delle loro relazioni sociali. I risultati sono cristallini: coloro che godono di legami sociali profondi e positivi tendono a vivere più a lungo e ad essere significativamente più felici.

 Qualità della vita legata alle relazioni

Il segreto risiede nella qualità delle nostre interazioni quotidiane. Secondo lo studio, avere persone care che sono supportative e premurose può aumentare significativamente la nostra felicità. Questi legami influenzano positivamente la nostra capacità di affrontare lo stress e le sfide della vita, migliorando sia la nostra salute mentale che quella fisica.

Non si tratta solo di sentirsi amati, ma anche di percepire un senso più ampio e profondo della propria esistenza. La ricchezza emotiva derivante da relazioni solide e genuine si traduce in una migliore qualità della vita e persino in una maggiore longevità.

Consigli pratici per relazioni migliori

Ma come possiamo migliorare le nostre relazioni per raggiungere questa felicità duratura? Secondo i suggerimenti del World Economic Forum, la chiave è dedicare tempo di qualità alle persone che amiamo. Questo include condividere esperienze, ascoltare attivamente e mostrare empatia e sostegno.

Altrettanto importante è il perdono. Superare i conflitti e concentrarsi sulle qualità positive degli altri può rafforzare i legami e aumentare la reciproca comprensione e rispetto. Infine, essere disponibili ad aiutare e supportare gli altri non solo migliora le nostre relazioni, ma arricchisce la nostra esperienza di vita.

  • Trascorri tempo faccia a faccia con le persone care.
  • Ascolta attivamente e con empatia.
  • Perdona le incomprensioni ed eventuali errori
  • Offri aiuto e supporto regolarmente.
  • Sorridi a coloro che incontri
  • Le relazioni negative inquinano la tua e l'altrui vita
  • in ogni persona che hai incontrato (o incontro) lungo il cammino della tua vita ci sono aspetti positivi e aspetti negativi, Soffermati sugli aspetti positivi e manifesta la tua gratitudine.
  • Il rancore è un brutto tarlo che corrode anzitutto la tua vita.

L’indagine di Harvard ci ricorda che la vera felicità non è un traguardo distante o un obiettivo materiale, ma qualcosa che possiamo coltivare ogni giorno attraverso relazioni significative e amorevoli. In un mondo che spesso valorizza il successo individuale e materiale, ricordiamo che la nostra felicità più profonda e duratura si trova nel calore delle nostre relazioni umane.

480gradi.it




 

domenica 28 dicembre 2025

SAPER ASCOLTARE


 La prima domenica dopo Natale la liturgia ci conduce a porre l’attenzione sulla Santa Famiglia, 

ma in particolar modo su Giuseppe.

Anche se di solito tendiamo a guardare maggiormente Maria, oggi il Vangelo che abbiamo ascoltato ci presenta la figura di Giuseppe; di lui sappiamo solo che era un uomo “giusto” (Mt 1,19).

Giuseppe è un uomo silenzioso, quasi nascosto. Di lui, nei vangeli, non abbiamo nessuna parola e la sua figura scompare quasi subito: lo incontriamo quando gli viene consegnata la paternità di Gesù e nella fuga in Egitto, poi esce di scena.  Mi sembra che il grande insegnamento che Giuseppe ci dona è il modo di saper ascoltare.  Maria è colei che ha saputo accogliere dentro di sé il Figlio di Dio, che ha fatto spazio in lei, che ha saputo dire un sì che le ha stravolto la vita.

Lo spazio e l’accoglienza di Giuseppe sono il suo silenzio che fa’ posto alla Parola; questo è il suo sì: “prese con sé”. “Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l'angelo del Signore e prese con sé la sua sposa” (Mt 1,24). Dio parla a Giuseppe durante la notte attraverso i sogni. Questo ci porta a ricordare quell’Giuseppe che viene venduto dai fratelli. Anche lui è un “sognatore”. Nelle profondità del suo cuore puro, vede Dio.  Il “nostro” Giuseppe davanti alla Parola di Dio agisce e basta; non dice una parola, non chiede nulla, ma opera, mette in pratica. Giuseppe è un uomo sempre in movimento: prima è chiamato a prendere con sé Maria e andare a Betlemme, poi a fuggire in Egitto, per arrivare a Nazareth dove prenderanno dimora.  Gesù fugge in Egitto a causa di Erode, re di Giudea, che voleva ucciderlo; come il Giuseppe del Primo Testamento fugge in Egitto per l’invidia dei fratelli. Entrambi abiteranno in Egitto da forestieri, vivendo la stessa esperienza del loro popolo, i loro fratelli.  Morto Erode, la santa famiglia “esce dall’Egitto”, come il popolo d’Israele, liberi da una “schiavitù”.

Ecco che questa nuova uscita rappresenta un nuovo esodo, una nuova nascita. Entrando ancora di più nel brano Evangelico notiamo subito che il movimento di questo testo è mosso dalla Parola, di fronte alla quale l’agire di Giuseppe è risposta. Ecco l’annuncio, la Parola: “un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: "Alzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e resta là finché non ti avvertirò: Erode infatti vuole cercare il bambino per ucciderlo" (Mt 2,13). Subito viene la risposta a quella Parola: “Egli si alzò, nella notte, prese il bambino e sua madre e si rifugiò in Egitto” (Mt 2,14).

Tutto il brano si articola così: scandito, accompagnato dalla Parola e dal silenzio di Giuseppe, che è il prendere con sé la Parola.   Altri due testi ci aiutano ad entrare sempre di più in questo movimento: il prologo di Giovanni e il libro della Genesi. Il prologo inizia dicendo: “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio” (Gv 1,1). In principio era il Verbo, la Parola: questo ci riporta all’inizio del libro Genesi, dove vediamo: “In Principio Dio creò” (Gen 1,1). Si tratta del medesimo movimento: Parola – opera: “Dio disse: "Sia la luce!". E la luce fu.” (Gen 1,3), movimento che troviamo in tutto il brano della creazione. Ritornando al Prologo di Giovanni, notiamo che il nostro testo ci mostra una Parola che va sempre più in profondità, facendosi carne: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi.” (Gv 1,14).

Attraverso la nascita di Gesù la Parola di Dio si fa umana, si fa carne in mezzo a noi, entra nelle pieghe della nostra storia.  Ritornando al Vangelo odierno, la santa Famiglia, dopo essere uscita dall’Egitto si ritira in Galilea: “Avvertito poi in sogno, si ritirò nella regione della Galilea e andò ad abitare in una città chiamata Nàzaret” (Mt 2,22-23). In questo ritiro Gesù prende “casa” e “nome” dalla “terra”: "Sarà chiamato Nazareno" (Mt 2,23). 

Gesù̀ è il cuore della storia di Dio e dell’uomo. Questo suo ritiro nella quotidianità è il mistero stesso del Dio-con-noi, che rende divina ogni nostra “vita ordinaria”: il riposo e la fatica, ogni gioia e ogni dolore, ogni amore e ogni timore, ogni lavoro e ogni frutto dell’uomo. 

Ed ecco che Giuseppe ci ha condotto dentro ai sogni, ad ascoltare la Parola e a viverla senza tante domande e incertezze; ci ha fatto percorrere tutta la storia passata dalla creazione all’uscita dall’Egitto, e a vedere il compimento di tutto questo, cioè come Dio entra in ogni cosa attraverso suo Figlio.

(www.clarissesantagata.it)

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INCLUSIONE A SCUOLA

 


La fatica di includere,

 ai tempi 

della solitudine 

della scuola


Classi sempre più complesse, docenti troppo soli, una formazione che non tiene il passo. L’inclusione scolastica, una delle più grandi conquiste del sistema italiano, è oggi sotto pressione, tanto che il 27,1% degli insegnanti sarebbe favorevole al modello a tre vie. Per trovare una risposta alla crisi del sistema, però, la scuola non deve guardare indietro ma aprirsi al territorio

di Veronica Rossi

«Per quanto mi impegni, a volte faccio fatica, in classe, ad attuare della modalità inclusive: ho bisogno di molto tempo per capire come lavora un ragazzo, anche se so qual è la sua diagnosi. Nel periodo della pre-adolescenza, poi, ci sono tante cose in evoluzione. Magari cambiano anche le dinamiche della memoria, l’approccio allo studio, l’interesse, la motivazione. Devi sempre stare al passo, perché altrimenti rischi di adattarti a un certo tipo di difficoltà nel seguire la lezione, nello studio, nelle verifiche, per poi scoprire che l’alunno l’ha già superata». Luisa è una professoressa di una scuola secondaria di primo grado della provincia di Trieste. Il nome è inventato, perché preferisce rimanere anonima, ma le difficoltà che riporta sono reali. Parla fuori dal cortile dell’istituto, con gli occhi chiari che si infiammano mentre racconta del suo lavoro; insegna in una classe in cui c’è un alunno certificato ai sensi della legge 104 – e che quindi ha diritto a un Piano educativo individualizzato e alla presenza di un insegnante di sostegno – ma anche diversi ragazzi con Bisogni educativi speciali, che richiedono personalizzazioni della didattica.

Ritorna l’idea delle scuole e classi speciali

Che i docenti facciano fatica è un dato di fatto, testimoniato anche dall’indagine Le voci dell’inclusione del Centro Studi Erickson di Trento, che ha preso in esame un campione di 833 insegnanti provenienti da tutte le regioni d’Italia. Il 45% dei partecipanti ha dichiarato di aver pensato, a un certo punto della propria carriera, che la vera inclusione fosse impossibile; il 27,1% invece – e questo è il dato più eclatante – si è detto favorevole a un modello a tre vie, quindi alle classi e alle scuole speciali per gli alunni con maggiori difficoltà.

«Ritengo che per alcuni casi, quelli che necessitano di personale specializzato sulla problematica specifica e non solo sul sostegno con un corso universitario, le classi speciali potrebbero essere una soluzione», afferma Giulia (è un altro nome di fantasia), che insegna inglese in una scuola in montagna. «La “scuola normale”, chiamiamola così, non ha gli strumenti e le competenze a livello di personale per andare incontro ai bisogni dell’alunno e potrebbe non essergli veramente d’aiuto». Negli ultimi anni, la sensazione di inadeguatezza degli insegnanti negli istituti pubblici è andata crescendo: quando è stata redatta la precedente ricerca della Erickson, nel 2023, era favorevole al modello a tre vie “solo” il 17% del personale docente. Ma cos’è che negli ultimi anni sta minando alle fondamenta il modello di inclusione dell’Italia, prima nazione al mondo ad abbandonare le classi differenziali e speciali, con la legge 517 dell’agosto 1977?

Classi sempre più eterogenee, bisogni sempre più complessi

«C’è una sempre maggiore eterogeneità delle classi, i bambini sono sempre più sregolati e problematici», afferma Dario Ianes, ordinario di Pedagogia dell’inclusione alla facoltà di Scienze della Formazione della Libera Università di Bolzano-Bozen e co-fondatore del Centro Studi Erickson. «C’è un aumento pazzesco delle certificazioni. Le ore di sostegno crescono, certo, ma non abbastanza per stare al passo con questi numeri». La crescita delle difficoltà e dei bisogni educativi è un dato oggettivo, se pensiamo che, per esempio, secondo i dati forniti dal ministero della Salute, c’è stato un aumento del 157% delle diagnosi di disturbo da deficit di attenzione e iperattività – Adhd dal 2004 al 2024 (con un picco di 6mila solo nell’ultimo anno) e i bambini certificati nello spettro autistico sono passati da uno su 10mila negli anni ‘80 a uno su 77 oggi (negli Stati Uniti è uno su 36). Questo elemento, che pure pone delle domande sulla salute delle nuove generazioni e sull’ambiente che abbiamo costruito per loro, non basta da solo a giustificare le difficoltà della scuola italiana in tema di inclusione.

Più formazione per insegnanti e dirigenti

Secondo gli esperti – ma anche secondo gli stessi docenti – la formazione degli insegnanti gioca un ruolo fondamentale. «In molti vengono da me a lamentarsi perché sono in difficoltà a includere nelle loro classi», testimonia Maria Piani, pedagogista, dirigente scolastica in pensione e cofondatrice di ScuolainComune, associazione di secondo livello che si occupa di istruzione e di educazione in provincia di Udine. «Manca una cassetta degli attrezzi, una formazione specifica che permetta loro di affrontare gruppi di alunni obiettivamente complessi, in cui ci sono diversi bisogni educativi». Prima della pandemia Patrizio Bianchi, già rettore dell’Università di Ferrara e ministro dell’Istruzione del Governo Draghi, aveva provato a introdurre 20 ore di formazione obbligatoria sulle tematiche inclusive per tutti coloro che avevano in classe un alunno con disabilità. «Era una sperimentazione che meritava di essere perseguita», afferma Luigi D’Alonzo, professore ordinario di Pedagogia speciale all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e delegato del rettore per l’integrazione degli studenti disabili del medesimo ateneo, «ma è stata abbandonata dopo un anno. Ci sono due cose che non vanno nell’inclusione: la preparazione dei docenti e una visione della singola scuola su questo tema». Quest’ultima dipende in modo decisivo dai dirigenti scolastici. Dove c’è un dirigente che conosce l’inclusione, che chiede conto del lavoro, che costruisce una comunità educativa, le cose funzionano. Dove manca, tutto si inceppa. Le buone – anzi, buonissime – norme ci sono, bisogna saperle applicare. «Qualche tempo fa ero a Bruxelles per un progetto di ricerca sui ragazzi con autismo», continua il professore, «e una collega tedesca si è alzata e ha detto: “Voi italiani avete una grande responsabilità, siete il faro del mondo dell’inclusione!”. Da noi c’è una visione negativa, probabilmente perché non abbiamo messo in piedi una stabilità inclusiva: tutto dipende dalle competenze dei docenti e dei dirigenti».

Ci sono due cose che non vanno nell’inclusione: la preparazione dei docenti e una visione della singola scuola su questo tema

L’insegnante di sostegno, figura da valorizzare

Prendersi cura delle particolarità del gruppo-classe, comprese quelle degli studenti con disabilità, è compito di tutto il Consiglio di classe, non solo dell’insegnante di sostegno. Eppure, non si può negare che quest’ultimo possa costituire un coordinamento e una guida nell’inclusione degli studenti. Nonostante questo ruolo centrale, tuttavia, non sempre sono persone formate ad aggiudicarsi i posti scoperti. Basti pensare che, attualmente, gli insegnanti di sostegno di ruolo sono solo il 36%Tra i precari, c’è molta eterogeneità: qualcuno ha esperienza, altri sono alle prime armi e si trovano gettati allo sbaraglio a seguire classi con alunni con disabilità che non conoscono affatto. «Il numero di chi non è specializzato è tendenzialmente in calo, secondo gli ultimi dati era il 33%», spiega Ianes, «però se proiettiamo i dati in prospettiva, tra i pensionamenti e coloro che si spostano su una cattedra per insegnare la propria materia, ci vorranno 50 anni a coprire tutti i posti con personale competente».

Il modello tradizionale di didattica trasmissiva non funziona più per nessuno. Serve un cambio di paradigma verso una didattica laboratoriale, cooperativa e costruttivista

Ammettere la necessità di un maggior numero di docenti di sostegno formati, non significa però semplificare – e banalizzare – una formazione necessaria. La tendenza del sistema, tuttavia, pare essere questa: prima del 2010, servivano due anni di corso per specializzarsi, poi si è passati ai Tfa annuali e ora, coi nuovi corsi Indire, per chi ha tre anni di esperienza lo studio si riduce ad alcuni mesi. Tra l’altro, in modalità online. Questa possibilità doveva essere un’eccezione che durava un anno e invece è già stata prorogata. «È una scorciatoia, per poter dire di assumere docenti specializzati», commenta Ianes, «ma col rischio di non fornire una preparazione adeguata».

Perché la macchina dell’inclusione funzioni, c’è bisogno del coinvolgimento di tutto il sistema scuola. «Le classi sono sempre più eterogenee e i bisogni educativi coinvolgono tutti gli studenti, non solo quelli con disabilità», dice Carlo Scataglini, insegnante di sostegno, esperto di didattica inclusiva e autore di libri e testi facilitati. «Il modello tradizionale di didattica trasmissiva non funziona più per nessuno: né per chi ha difficoltà, né per chi è plusdotato. Serve un cambio di paradigma verso una didattica laboratoriale, cooperativa e costruttivista, capace di valorizzare le competenze e le inclinazioni di ciascuno».

La scuola non è un’isola, ma un tassello di una comunità educante

Come fare, però, a realizzare questa rivoluzione copernicana nel modo di concepire l’insegnamento? Si può demandare tutto alla buona volontà dei singoli docenti – o dei singoli dirigenti – e al loro sforzo nel gestire da soli tutta questa complessità? La ricerca di Erickson racconta di una grande solitudine degli insegnanti, evidenziando come l’aiuto più grande in termini di inclusività – ma anche, dall’altro lato, lo stress più importante – siano i rapporti con i colleghi. Nella scuola italiana non c’è supervisione, non c’è una figura di riferimento. Non c’è ancora un “educatore di plesso” strutturale, che pure è oggetto di alcune sperimentazioni, che possa dare una mano nelle situazioni più difficili.

Può tutta l’inclusione dipendere da una scuola che diventa un’isola scollegata dal territorio, in cui gli esperti esterni entrano solo per interventi una tantum? La risposta, ovviamente, è no. E allora, come fare?

Una delle possibili risposte arriva, in maniera quasi simbolica, da Trieste, patria d’adozione di Franco Basaglia, dove, più di cinquant’anni fa, l’impossibile è diventato possibile e la diversità ha smesso di essere qualcosa da tenere rinchiuso, separato, emarginato. Una delle lezioni della deistituzionalizzazione è che le rivoluzioni non si fanno da soli: serve un’alleanza con la società civile, con il mondo dell’arte, con le associazioni e le cooperative.

L’associazione “Oltre quella sedia”, che da più di vent’anni nel capoluogo giuliano si occupa di sostenere le persone con disabilità, all’inizio con percorsi di teatro, poi con progetti più estesi di autonomia, mette in pratica questa idea. «Entriamo nelle scuole, non con interventi singoli, ma attraverso una collaborazione con gli insegnanti curriculari e di sostegno», dice Marco Tortul, presidente e fondatore dell’associazione. «Forniamo formazione, ma creiamo anche dei percorsi per gli studenti con disabilità, che vengono inseriti nel Pei. Per esempio, c’era una ragazzina che aveva spesso delle crisi, faceva confusione in classe. Ma abbiamo scoperto che le piaceva cucinare. Così, l’abbiamo portata nei nostri appartamenti, in cui vivono persone adulte con disabilità, a fare attività ai fornelli. Con lei, poi, è venuta tutta la classe e, insieme, abbiamo fatto i biscotti. La visione della ragazzina è cambiata, perché non era più la persona che faceva confusione, ma quella più brava di tutti a preparare i dolci».

La scuola non deve essere un luogo chiuso, ma aperto al territorio, grazie a un’alleanza con il Terzo settore. «Alcuni obiettano “Ma chi le paga queste ore?”», racconta Tortul, «ma non si tratta di aggiungere tempo in più, solo di organizzare in maniera diversa il tempo già erogato. Per esempio, se un educatore lavora in un centro diurno per una cooperativa, può accogliere gli studenti durante il suo turno». Questo perché unire è aggiungere ricchezza per tutti, non toglierne.

E così, una scuola che esce nel suo territorio e lo vive insieme a una comunità educante può mostrare con l’esempio, oltre che con le parole, che l’inclusione è il solo modo per crescere, fuori o dentro le mura degli istituti. Le classi sono sempre più complesse, composite, variegate perché il mondo lo è. E non si può chiudere il mondo in una classe o in una scuola speciale: bisogna abbracciarlo e affrontarlo, insieme.

VITA



 

QUALE REALTA' ?

 

 


L'erosione della realtà: la crisi dell'autenticità visiva causata dall'AI



-     Marco Giacalone

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L'intelligenza artificiale generativa ha innescato una crisi ontologica, erodendo lo statuto di verità dell'immagine e rendendo l'occhio umano un rilevatore inaffidabile. Questo editoriale analizza il fallimento percettivo come minaccia alla coesione sociale, la strategia di certificazione del vero e le implicazioni democratiche di un mondo popolato da immagini orfane di verità.

Per secoli, l'immagine ha svolto il ruolo di testimone silenzioso della storia, l'ancora di prova fattuale che sosteneva la cronaca e il dibattito pubblico. Quel ruolo è finito. La democratizzazione degli strumenti di intelligenza artificiale generativa, i modelli di diffusione, le reti GAN, non ha solo migliorato la grafica digitale; ha inferto un colpo mortale allo statuto di verità dell'immagine stessa. Il mondo sta assistendo al crollo del suo rivelatore più fidato: l'occhio umano.

Questo non è un problema tecnico, ma una crisi ontologica. L'autenticità visiva, un tempo garantita dalla percezione, è stata delegata all'algoritmo. Le creazioni sintetiche hanno raggiunto una risoluzione e un realismo tali che l'uomo non è più in grado di distinguere il genuino dal fabbricato. Quando la differenza tra verità e menzogna richiede una verifica computazionale, si è già perso qualcosa di fondamentale nel rapporto con la realtà. Si è verificato un vero e proprio fallimento percettivo su scala globale.

Le implicazioni di questo fallimento sono devastanti per la sfera pubblica. La proliferazione di contenuti visivi manipolati non è casuale; è una collateralità politica studiata. Immagini generate per diffamare, destabilizzare o ingannare possono influenzare elezioni, alterare mercati finanziari e corrodere il consenso in tempo reale. L'incapacità di un cittadino di fidarsi di ciò che vede si traduce inevitabilmente in un contagio di cinismo radicale. La sfiducia non colpisce solo il singolo medium, ma si estende alle istituzioni mediatiche e, per estensione, a quelle governative. L'AI ha armato l'arte dell'inganno.

È una beffa che i sistemi di rilevamento AI (i detector) nati per contrastare i deepfake siano per loro stessa natura destinati a fallire. I modelli generativi evolvono in modo esponenziale, rendendo obsoleto qualsiasi strumento di difesa non appena viene rilasciato. L'industria ne è consapevole e sta, giustamente, invertendo la rotta: si sta abbandonando l'utopia della detection per concentrarsi sulla provenienza digitale (provenance).

L'obiettivo non è più identificare il falso, ma certificare il vero. Standard di autenticità come C2PA rappresentano un tentativo cruciale di costruire una catena di fiducia crittografica per il contenuto digitale, dotando ogni file di un certificato di nascita che ne traccia l'origine e la storia delle manipolazioni. Ma la loro efficacia è subordinata all'adozione universale da parte di tutti i produttori di hardware e software, una missione titanica che è in ritardo rispetto all'inondazione di immagini generate e non etichettate. Finché questo non accadrà, il mondo sarà popolato da immagini orfane di verità.

L'aspetto più inquietante risiede, in ultima analisi, non nel danno arrecato alle macchine fotografiche, ma in quello inflitto alla cognizione umana. La costante esposizione alla menzogna visiva di massa non rende gli individui più scettici in senso critico, ma semplicemente più propensi a rifiutare ogni fatto scomodo. Questa dinamica distrugge la base di realtà condivisa necessaria per il dibattito pubblico e la coesione sociale.

Se l'intelligenza artificiale ha irrevocabilmente distrutto l'affidabilità di ciò che vediamo, la domanda che resta appesa è la più urgente ed è su quali basi fattuali si potrà ancora costruire la politica, la storia e la democrazia stessa.

L'epoca della verità garantita è finita.

 

Terza Notizia