mercoledì 3 settembre 2025

SAPERSI STUPIRE

 


IL DOVERE 

DELLO STUPORE

 

Alessandro D’Avenia

 

Non sembra ma la scuola e le ferie hanno la stessa essenza: l’incontro con la meraviglia. Durante le ferie è lo stupore che cerchiamo. In montagna o al mare, in campagna o in città, in un libro, panorama, volto, vogliamo incantarci. In queste occasioni, che non a caso poi ricordiamo e raccontiamo, tratteniamo il respiro (si dice «mozzafiato»), per ricevere più vita. Quale? Quella che appunto ci ispira: ci dà più respiro. 

Per questo abbiamo un senso da cui dipendono gli altri cinque: il senso della meraviglia. Se non funziona questo senso, la realtà diventa muta, insensata, neutra. Infatti è la qualità delle relazioni che abbiamo con il mondo che orienta il nostro individuarci, cioè, scoprire in che cosa siamo unici e irripetibili. 

E proprio il senso della meraviglia detta la qualità di queste relazioni: si chiama «attenzione selettiva», un potenziamento dei nostri circuiti neurali diverso per tutti. Chi non prova stupore cerca stupefacenti: sostanze, non relazioni ma dipendenze. Pur di appartenere (sentirsi amato) sparisce nelle cose o negli altri, fino a non sapere più chi è e che cosa vuole. 

Chi invece conosce e allena il «suo» stupore trova sostanza (al singolare), cioè vita che lo sostiene, legami che lo ispirano e lo individuano, non sparisce nelle cose e negli altri ma sa stare di fronte al mondo, da protagonista. 

A scuola è difficile rendersene conto, piena com’è di grigiore e disincanto, ma in fondo la scuola finisce o comincia proprio se finisce o comincia l’incanto. Perché? 

 La scuola non è un edificio (sarebbe troppo poco) ma ogni spazio-tempo della storia in cui incontriamo ciò che ci meraviglia. Si dà scuola – a volte anche a scuola – ovunque accada lo stupore, cioè un incontro reale con il mondo. Il primo giorno di scuola non è quindi l’inizio di un susseguirsi di ore a cui resistere in vista del prossimo ponte, ma una metafora del «senso della meraviglia». Come allenarlo? 

Cominciamo con un appello in cui a ciascuno sia chiesto: per raccontare quale stupore sei venuto al mondo? A scuola possiamo dare il buon esempio raccontando l’incanto che ci ha portato a voler raccontare ad altri la gioia della chimica, della filosofia, della cucina, dell’arte, dell’elettronica, della biologia, della meccanica, della matematica e tutte quelle che possiamo definire «materie della meraviglia», «sostanza del mondo» e non sostanze senza mondo, dipendenze senza gioia. 

Così avremo un primo appello di «incanti», ogni nome associato al pezzetto di mondo verso cui sente attrazione e quindi attenzione. Conoscere come e quando un ragazzo (e in generale una persona) sente di appartenere alla vita e che la vita gli appartiene è ascoltare una profezia sul suo destino. 

Per questo amo il titolo che l’astrofisica canadese Rebecca Elson ha usato per il suo libro di poesie «A Responsibilty to Awe», responsabilità dell’incanto, perché quando veniamo toccati da qualcosa stiamo già rispondendo (da cui responsabilità) a una chiamata della vita che vuole cura da noi, alla maniera che ci è più congeniale. 

Chi non prova incanto non può provare amore verso sé stesso e verso la vita, perché non sa cosa ama e non sa cosa lo chiama. Per questo bisogna raccontare ai figli e agli studenti dove l’incanto ci ha afferrati, perché loro cercano in noi prima che una lezione una elezione: scelta, vocazione, destino, responsabilità. 

Perché avremmo mai dedicato tempo e sforzi a qualcosa purché diventasse la nostra strada? Per questo un primo appello ben fatto chiede ai ragazzi dove l’incanto li abbia già afferrati, perché dal «senso della meraviglia» nasce il loro personalissimo «sentimento della vita»: l’amore per il mondo, per gli altri e per se stessi, unica reale difesa dalle dipendenze. 

Un ragazzo «irresponsabile» è semplicemente un ragazzo che non è mai stato chiamato alla vita e dalla vita, e quindi non ha mai potuto rispondere. Per questo l’appello è il momento più importante dell’orario scolastico: tu, proprio tu, per quale pezzetto di mondo sarai insostituibile? 

E quindi: per quale stupore sei qui? In fondo quando ci siamo innamorati di qualcuno, non è stato il suo modo unico di «stare» al mondo che ci ha sedotto? Alexandra Horowitz, docente di psicologia alla Columbia University, ha scritto un libro, On looking: eleven walks with expert eyes (Sul vedere: undici passeggiate con occhi esperti), in cui descrive il medesimo ripetuto e ignorato percorso, da casa alla scuola della figlia, in undici modi diversi, semplicemente perché lo percorre ogni volta insieme a una persona con una vocazione diversa, occhi diversi: un architetto, un biologo… un cane. 

Lo stesso tragitto di sempre diventa memorabile grazie ai modi unici, stupefatti e quindi stupefacenti, di percorrerlo, cioè di stare al mondo, di prendersene cura. Come diceva Chesterton non esistono argomenti poco interessanti, ma persone poco interessate. E allora mi viene da pensare a Van Gogh che abbracciò tardi la sua vocazione e imparò a dipingere da solo, e in dieci anni il suo sguardo rivoluzionò l’arte perché nessuno come lui sapeva stare davanti a girasoli, cipressi, volti, stelle… la stessa «materia» che tutti vedevano da secoli, ma senza il suo incanto. In una lettera del giugno 1888 chiedeva al fratello Theo i soldi per comprare tele e colori: «Non è forse la sincerità della natura a guidarci? E queste emozioni sono talvolta così forti che si lavora – senza accorgersi che si sta lavorando – e talvolta le pennellate vengono in successione e con rapporti tra loro come le parole in un discorso o in una lettera. Ecco perché chiedo sfacciatamente tela e colori. Solo così sento la vita, quando lavoro a pieno ritmo» (giugno 1888). Lo stupore di un solo uomo, divenuto vocazione e opere, continua a risvegliare milioni di addormentati o di ciechi (per questo a scuola facciamo studiare Van Gogh). 

E allora facciamolo bene questo primo appello. Nome per nome, stupore per stupore, destino per destino, vocazione per vocazione. 

Chiedere «per raccontare quale stupore sei venuto al mondo?» a un adolescente è un dovere per noi, come diciamo che lo è la scuola per lui. 

 Alzogliocchiversoilcielo

CAPRONI, TRA RICERCA E NEGAZIONE DI DIO

 Il poeta Giorgio Caproni (Livorno 1912 – Roma 1990) testimone delle inquietudini religiose del nostro tempo.


-      - di Giuseppe Oddone

 Intendo percorrere partendo dalla sua ultima opera postuma dal titolo di Res amissa (Cosa Perduta) il percorso o meglio il tormento religioso del poeta Giorgio Caproni, testimone della perdita di fede nella società del nostro tempo, e nello stesso tempo della inquietudine che causa l’assenza di Dio, nonostante tutto sempre cercato in una disperata ed incessante caccia intellettuale. Parto dalla poesia programmatica “Generalizzando” che ben indica la finalità dell’ultima raccolta: Tutti riceviamo un dono. Poi, non ricordiamo più né da chi, né che sia. Soltanto ne conserviamo – Pungente e senza condono – la spina della nostalgia.

E’ lo stesso Caproni che così commenta questi versi: “Puo’ capitare a tutti di riporre così gelosamente una cosa preziosa da perdere poi la memoria non soltanto del luogo dov’è stata collocata, ma anche della precisa natura di tale oggetto… Sarebbe questa volta la caccia al bene perduto. Un Bene del tutto lasciato ad libitum del lettore, magari identificabile, per un credente, con la Grazia visto che esiste una “Grazia amissibile” (che si può perdere) o con chissà che altro del genere”. Questo dono, tuttavia, non è un oggetto tangibile, ma qualcosa di più profondo e indefinibile collegato alla vita stessa, può essere per un credente o anche per un ex credente la presenza di Dio e il suo amore vissuto nella grazia, come suggerisce lo stesso poeta, oppure l’affetto di tante persone, o semplicemente un'occasione o una esperienza che ci ha positivamente segnato. Ma a un certo punto la nostra memoria fallisce: dimentichiamo sia il donatore sia la realtà donata e rimaniamo senza un punto di riferimento preciso. Ma non tutto è perduto. Rimane dentro di noi il calco negativo, il vuoto creato dallo stesso bene perduto, una sensazione, la struggente “spina della nostalgia”, che punge e ferisce. È una nostalgia "senza condono", che non è possibile eliminare. C’è in questa breve poesia molto di Sant’Agostino, il dottore della “grazia”, che non è conquista umana, ma dono divino che si può perdere; versi che ci rimandano al passo delle Confessioni: “Ci ha fatto per Te e il nostro cuore è inquieto, finché non trova quiete in Te”. Si manifesta nella vita un'inquietudine fondamentale, una sorta di vuoto interiore o di desiderio, che è parte della nostra stessa natura. Ma non potresti cercare Dio, se Egli non si fosse già reso presente in qualche modo dentro di te. Questo vuoto non può essere riempito da nulla di materiale o effimero, ma solo da un contatto personale con la sua fonte, cioè Dio. Esperienze di fede Caproni ha vissuto gli anni della sua infanzia in una educazione cristiana.

 E’ testimonianza di tutto questo un suo frammento poetico, datato 1985, dal titolo: La sera alla Foce (Frammento su un ricordo d’infanzia). Egli stesso racconta della sua devozione mariana in pagine bellissime, raccolte in Il mondo ha bisogno dei poeti. Intervista e autocommenti (1948-1990): “Da bambino, volevo tanto bene alla Madonna che, quando me ne regalarono una – tutta bianca, di gesso, forse una statuina della biancoceleste Madonna di Lourdes – mi venne addirittura voglia di costruirle una chiesuola”. La Madonna, stella del mare, cantata nella poesia, fa riferimento all’opera di un pittore francese che Caproni già da bambino conosceva e frequentava: Jean Bourillon, a cui sono dedicati i versi. Un giorno il poeta vide un quadro preparato dall’artista per una festa di Maria, venerata in Liguria in molti piloni devozionali e piccole cappelle sulla riva, con il titolo di Stella del mare. Questa esperienza gli rimase profondamente impressa. Poi la vita gli fece perdere il contatto con Dio, ma rimase sempre il ricordo di quel momento di fede e di grazia. La sera, alla Foce (Frammento di un ricordo d’infanzia) All’amico pittore Jean Bourillon, alla mia infanzia, in memoria La vedevo alta sul mare. Altissima. Bella. All’infinito bella più d’ogni altra stella. Bianchissima, mi perforava l’occhio: la mente. Viva. Più viva della viva punta – acciaiata – d’un ago. Ne ignoravo il nome. Il mare mi suggeriva Maria. Era ormai la mia sola stella. Nel vago della notte, io disperso mi sorprendevo a pregare. Era la stella del mare. Il poeta ricorda con precisione il luogo: La Foce, sul mare di Genova; l’ora, una sera, in cui è già presente il buio della notte; vede una stella alta nel cielo, ma fa un’esperienza che va subito oltre la vista, che tocca la sfera interiore, spirituale e religiosa, avverte misticamente una presenza che perfora l’occhio e la mente, più viva della viva punta acciaiata di un ago, che incide nell’anima e la fa soffrire. Il poeta ne ignora il nome: il mare gli suggerisce Maria. Disperso nel vago della notte il poeta si sorprende a pregare la sua sola Stella. C’è sottesa una citazione del poeta Dante che definisce Maria “la viva stella che lassù vince, come qua giù vinse” (Par. XXIII, 92-93).

Nella seconda parte della poesia, qui non riportata, la stella diventa ancora metafora oltre che di un momento spirituale perduto, del ricordo dell’amico pittore: il poeta sente ora la sua “diffrazione”, la sua spaccatura interiore, l’incombere della morte, si giudica come frantumato e senza identità. Rimane la “spina della nostalgia” per la Vergine Maria e per l’intenso affetto per l’amico ormai definitivamente perduto. Dalla fede cristiana alla negazione dell’esistenza di Dio Il percorso di Giorgio Caproni verso la negazione della presenza di Dio nel mondo non è stato un processo graduale; è stato influenzato da diverse esperienze di vita e dalle sue letture. Il suo ateismo, se così lo si vuol definire, non fu una scoperta serena, ma un'angosciosa ricerca di senso in un universo che sentiva vuoto, un "vuoto" che lo ossessionò in tutta la sua produzione poetica. Tra le vicende personali che hanno senza dubbio influito per creare questa sensibilità interiore è da segnalare la morte della fidanzata Olga Franzoni (1936). Questa perdita prematura e straziante, avvenuta quando il poeta era ancora molto giovane, lo segnò profondamente. La figura di Olga divenne un fantasma ricorrente nella sua opera, un simbolo di una felicità perduta e irrecuperabile. Seguirono poi inoltre le esperienze della seconda guerra mondiale (1940-1945), cui partecipò prima come soldato e dopo l’armistizio come partigiano. L'orrore, la violenza e la brutalità viste in prima persona gli fecero mettere in discussione l'esistenza di un Dio buono e provvidente. Anche la partenza nel 1945 a guerra conclusa da Genova, la città del suo cuore, luogo mitico, sintesi di terra, mare, aria, città operosa e popolata di tanti ricordi e di tante presenze, contribuì ad accrescere il suo senso di solitudine e di sradicamento.

La morte della madre Anna Picchi (1950) fu poi l'evento che, secondo molti studiosi, rappresentò il momento di non ritorno. La madre era stata per lui un faro, un punto di riferimento assoluto. La sua perdita non solo divenne un dolore insopportabile, ma anche la perdita dell'ultimo "luogo sacro" rimastogli, consegnandolo a un vuoto incolmabile. Tutto questo è chiaramente espresso nella poesia Ad portam inferi in cui il figlio immagina di incontrare alla stazione la madre morta in attesa dell’ultima coincidenza per la definitiva destinazione. Ma in un clima di grande tristezza la madre ha perso ormai la sua identità e la memoria degli affetti più cari, del marito e del figlio. Oltre alle sofferenze personali, le letture ebbero un impatto significativo sulla sua visione del mondo. L'influenza di Montale su Caproni è innegabile. La "muraglia" montaliana, che impedisce la visione di ciò che sta "al di là", e il "male di vivere" come condizione esistenziale, risuonano anche nelle sue poesie. Questo pessimismo cosmico e la visione di un mondo senza un senso trascendente contribuirono a rafforzare la convinzione di un dio assente. Senza dubbio anche altri pensatori legati all’ateismo, come Jean-Paul Sartre, che proclamavano l'assenza di Dio e la responsabilità totale dell'uomo, offrirono a Caproni una cornice intellettuale per le sue intuizioni esistenziali. Le sue mature raccolte poetiche pertanto mostrano un universo privo di Dio, con l'uomo che si muove alla sua ricerca in un paesaggio marginale di confine e di solitudine. Tuttavia, il suo non è un ateismo sereno o consolatorio. Caproni non è un ateo convinto o un indifferente, ma un "ateo per disperazione". La sua è una negazione dolorosa, che non spegne la nostalgia per una dimensione spirituale. La sua preghiera, rivolta a un Dio in cui non crede più, è un atto disperato. È una "preghiera all'Assente”, non perché si speri in una risposta, ma perché il dolore di quella mancanza è troppo grande. La sua negazione di Dio non fu quindi una liberazione, ma una condanna: l'obbligo di vivere e morire in un mondo senza speranza di salvezza o redenzione. Tuttavia Caproni “imbroglia le carte” per costringere le persone a riflettere: Dio esiste o non esiste? E se non esiste perché ne senti il bisogno? Egli ritiene che mettere a fuoco questa esigenza sia il compito del poeta. In alcuni casi il poeta esplode nella preghiera rivolta al Dio in cui non sembra credere più, ma che rimane tuttavia un punto di riferimento, l’unico cui possa rivolgere il suo grido disperato. Ma che ho nel petto, cos’è che mi spacca il cuore? Signore, Signore, quanta fame d’amore in me, sempre rimasto inetto a lenire un dolore.

Questo frammento poetico si apre con una constatazione di intensa sofferenza: "Ma che ho nel petto, / cos’è che mi spacca il cuore?". È una domanda rivolta al proprio io, un'interrogazione angosciata che evidenzia un dolore interiore, un senso di smarrimento profondo. La sensazione non è descritta, ma ne sono mostrati gli effetti fisici ("mi spacca il cuore"), rendendo il sentimento ancora più viscerale e profondo. L'invocazione al Signore, ripetuta due volte, non è un'invocazione di fede serena, ma una richiesta d'aiuto, quasi un'accusa a un Dio che non si rende presente. Il cuore del testo è la dichiarazione "quanta fame d’amore in me". Non si tratta di un semplice desiderio, ma di una vera e propria "fame", una necessità fisica e spirituale che lo tormenta. Questo amore mancato per Dio e per gli altri non è solo assenza di un legame specifico, ma è una sete di senso della vita, di un'appartenenza che sembra impossibile raggiungere. Infine il poeta si definisce "inetto a lenire un dolore". Questa è la confessione della propria impotenza. Non solo non riesce a trovare l'amore che cerca, ma è incapace persino di lenire il proprio dolore, di curare la ferita interiore che la mancanza di Dio gli provoca. Egli rimane col cuore spaccato, incapace di reagire. La poesia di Caproni, riflesso della perdita della fede nella società contemporanea La prima e più evidente perdita (Res amissa) da Caproni stesso suggerita, e riscontrata prima in se stesso e poi nella società contemporanea è la perdita della visione cristiana della vita. Anche se nelle sue poesie si incontrano molti simboli cristiani, Cristo è dimenticato, lasciato in disparte, bisognoso lui stesso di salvezza. Nella poesia “Il Pastore” così si esprime: “Proteggete il nostro Protettore. Salvate il Salvatore morente”. Così predicava il Pastore, nel gelo della chiesa vuota, al lucore dell’ultima bugia rimasta accesa sull’Altar Maggiore. Caproni in questa poesia non mette in discussione l'esistenza di Cristo, ma mostra come la fede sia per molti nella società di oggi in crisi e insignificante. Il Pastore non prega Cristo per ottenere una grazia, ma chiede di proteggere Lui, di mantenerlo in vita mentre sta morendo: è una voce che risuona nel gelo fisico e spirituale di una chiesa vuota, mentre l’ultima bugia (bugia nel linguaggio liturgico significa candela, ma il termine è volutamente equivoco, perché qui vuol dire anche menzogna) sta per spegnersi sull’altare. La sua non è una predica, ma la constatazione di una profonda disillusione, dipingendo un quadro dove il sacro è diventato insignificante e l'uomo si trova solo, di fronte a un'immagine divina che ha perso la sua forza salvifica. È un'immagine scarna e disincantata, che riflette il senso di smarrimento del dopoguerra e la crisi spirituale che attraversa il Novecento.

Un'altra poesia, intitolata "Arpeggio" tratta dalla raccolta "Il muro della terra", esprime in pochi versi la stessa profonda disillusione religiosa e sociale. Cristo ogni tanto torna, se ne va, chi l'ascolta... Il cuore della città è morto, la folla passa e schiaccia - è buia massa compatta, è cecità... I primi versi introducono un'immagine di Cristo che ritorna sulla terra, ma il suo avvento non ha più la forza salvifica di un tempo. La frase incompleta, quasi una domanda retorica "chi l'ascolta..." sottolinea l'indifferenza e la solitudine di una figura che non trova più seguaci. Nonostante il suo ritorno, la sua parola non viene accolta, rendendo vana la sua presenza. "Il cuore della città / è morto": Questa è un'immagine forte e quasi fisica della disperazione moderna. La città, intesa come il luogo della civiltà e della vita collettiva, è priva di sentimenti, compassione e spiritualità. Il "cuore morto" simboleggia un'umanità che ha perso la sua vitalità interiore e il senso del sacro. "La folla passa / e schiaccia - è buia massa / compatta, è cecità...": La folla non è più una comunità di individui, ma una massa indistinta e anonima, che" schiaccia" con la sua indifferenza e la sua violenza. Viene descritta come una "buia massa compatta", un'immagine che rimanda a un'umanità priva di luce, coscienza e individualità. L'ultima parola, "cecità", riassume il concetto di un'umanità che non vede, non riconosce e non si cura della presenza del sacro.

In "Arpeggio" Caproni dipinge un quadro di profonda solitudine spirituale. Il ritorno di Cristo non è un momento di redenzione, ma un'occasione sprecata. La figura divina è impotente di fronte all'apatia di un'umanità che si muove in modo meccanico e cieco, senza la capacità di comprendere il suo messaggio di amore e salvezza. La poesia è quindi un amaro lamento sulla perdita di fede e sulla disumanizzazione della società moderna. Un’altra poesia con spunti religiosi, dedicata alla donna amata, tratta da “Cronistoria”, rivela come in un mondo senza Dio ci siano per così dire ancora dei riflessi divini. Ricorderò San Giorgio un giorno senza virtù, e le tue mani aderenti al freddo, qui dove fu quasi una grazia nel buio la cena nella latteria. Ritroverò nella mia chiusa tristezza, il di più che mi hai lasciato: la pia immagine di concordia – la medaglietta con su “Mi Iesu misericordia”. "Ricorderò San Giorgio un giorno senza virtù": i versi di apertura sono enigmatici e fondamentali. Per il poeta è impossibile riconoscere nel giorno di San Giorgio la figura tradizionale del santo cavaliere che uccide il drago ed è il simbolo di virtù, coraggio e vittoria del bene sul male. "Un giorno senza virtù" rovescia completamente questo significato: il mondo è un luogo in cui le grandi gesta e i valori spirituali sembrano aver perso il loro significato. È un giorno ordinario, banale, privo di eroismo e di grazia. Questo verso definisce subito il clima di un'umanità che vive in un'epoca svuotata di valori ideali e spirituali. "E le tue mani aderenti al freddo”. L'immagine delle mani della donna che aderiscono al freddo è un dettaglio fisico e sensoriale molto forte. Le mani non sono semplicemente "fredde", ma "aderenti al freddo", quasi a sottolineare un'unione profonda e inseparabile con la sofferenza e la povertà. Questo freddo non è solo fisico, ma rappresenta anche la durezza, la precarietà e l'assenza di calore affettivo e spirituale del mondo esterno. "Qui dove fu / quasi una grazia nel buio / la cena nella latteria": questo finale di strofa offre una rivelazione. Il "qui" si riferisce a un luogo umile e modesto, non a una chiesa ma a una "latteria", un'ambientazione del tutto quotidiana e non sacra. In questo contesto di povertà e oscurità ("nel buio"), la "cena" diventa un evento straordinario, qualcosa di quasi mistico. L'espressione "quasi una grazia" è significativa: l'autore non usa "una grazia" in senso pieno, ma sottolinea che la salvezza, o un momento di serenità, non proviene da Dio, ma da un gesto umano, semplice e concreto, condiviso con la persona amata. L'amore e la condivisione umana diventano la nuova "grazia" in un mondo che sembra aver perso il contatto con il sacro tradizionale.

Le riflessioni su questa quasi grazia nel buio vengono approfonditi nella seconda strofa. "Ritroverò nella mia / chiusa tristezza, il di più": La "chiusa tristezza" esprime un profondo stato di malinconia e solitudine, un senso di isolamento interiore. Tuttavia, l'amore della donna offre un "di più", ovvero un valore aggiunto, un elemento che va oltre la semplice consolazione. È qualcosa di inatteso e prezioso che si rivela in una vita che sembra non avere prospettive di salvezza. Il cuore della riflessione è "il di più / che mi hai lasciato: la pia / immagine di concordia". L'amore della donna non è solo un sentimento, ma un'eredità spirituale. La "pia immagine di concordia" evoca un senso di pace, armonia e riconciliazione che l'amato ha ricevuto. In un mondo tormentato e caotico, la donna rappresenta l'ordine e la serenità. L'uso della parola "pia" (devota) eleva questo sentimento a un livello quasi religioso, come se l'amore fosse una forma di fede e salvezza. "La medaglietta con su: / 'Mi Iesu Misericordia” è un’immagine commovente e toccante: non solo è un oggetto fisico offerto dalla donna, ma anche un portafortuna e un dono spirituale.

La scritta "Mi Iesu Misericordia" (Mio Gesù Misericordia!) collega l'amore terreno a quello divino. La medaglia diventa la reliquia di un amore che è allo stesso tempo umano e sacro, una mediazione per una via di salvezza. In questo contesto, la misericordia di Cristo si manifesta attraverso l'amore di una donna, che diviene veicolo di speranza e redenzione. Essa non è semplicemente un rifugio dalla sofferenza, ma una forza attiva che salva e trasforma la tristezza in un'opportunità di scoperta spirituale, è l'incarnazione di una grazia e di una speranza che non sono più cercate nel sacro tradizionale. La scomparsa di Dio, la solitudine dell’uomo, la povertà del nostro linguaggio Giorgio Caproni non è un filosofo, ma la sua concezione della vita è condizionata dal nominalismo, ossia dalla convinzione che noi non conosciamo con la nostra ragione la realtà nella sua essenza, o attraverso concetti universali, ma solo attraverso alla nostra esperienza sensibile che coglie soltanto il particolare: “Nessuno è mai riuscito a dire / cos’è, nella sua essenza, una rosa”. La nostra parola non va oltre il dato sensibile, è una voce con cui indichiamo solo una realtà particolare di cui abbiamo esperienza. Ne segue che per lui alcuni concetti universali, come Dio e l’uomo, sono al di fuori della portata della nostra ragione. In una poesia “Aria del tenore” tratta dalla raccolta “Il franco cacciatore” Dio e l’uomo si incontrano con fucile spianato: sono di fronte a pochi passi l’uno dall’altro, immagini di uno stesso destino o di un amore perfetto: si spiano, si amano, si odiano anche, perché l’amore fa di questi scherzi quando è totale, sono inteneriti fratelli, soli in un paesaggio freddo e invernale mentre incomincia a nevicare, due io o misticamente un solo io; ma nessuno dei due vuole per primo scaricare l’arma. Il poeta cacciatore li sorprende di soprassalto in questo atteggiamento: preme a bruciapelo il grilletto della sua arma e li vede cadere insieme sotto la sua raffica. E così conclude: L’urlo che alzarono, mi colpì in petto come piombo. Fuggii. Mi brucia nella memoria, ancora, la mia vile vittoria. Possiamo anche dire che il poeta drammatizza le varie forme del suo io che cerca di comprendere Dio, di conoscere l’uomo, di arrivare ad una conclusione: la vita del resto non è uniforme, ma molteplice e ricca di contraddizioni e di antitesi. Il risultato è una visione di morte: morte di Dio, morte dell’uomo, ferimento di ogni uomo colpito come da una fucilata nel petto, sua fuga e constatazione di una vile vittoria (la morte di Dio e dell’uomo) che continua a bruciare, a far soffrire nella memoria. E così Dio, assente, perduto, morto, ucciso o suicidato, dissolto e scomparso è tuttavia continuamente e dolorosamente dal poeta evocato, cercato, intravisto e visto svanire in qualche buio cantone, in paesi abbandonati, in spazi deserti, in strade dove non passa nessuno, in strani personaggi che appaiono e quando ti avvicini scompaiono.

La sua è una teologia negativa: Dio fugge dalla storia e la coscienza umana lotta contro l’insopprimibile bisogno di trovare un senso per tante iniquità patite. Ma non sa trovare le sue orme: Mio Dio/ Perché non esisti? O quasi facendo il verso a se stesso: Mio Dio, anche se non esisti,/ perché non ci assisti? E’ una ricerca che pretende di far esistere Dio ad ogni costo, perché ne abbiamo un insopprimibile bisogno, che giunge fino alla più religiosa delle bestemmie: “Piaccia o non piaccia!” disse. “Ma se Dio fa tanto,” disse “di non esistere, io quant’è vero Iddio, a Dio io Gli spacco la Faccia…” Nonostante l'apparente disillusione e il senso di vuoto che permeano parte della sua opera, Giorgio Caproni offre al lettore uno stimolo religioso profondo e inatteso. Egli ci invita non tanto a credere, quanto a riflettere, a farci delle domande. La sua poesia è un monito contro ogni forma di pigrizia spirituale, un appello a non accontentarsi di risposte facili o precostituite. E’ un poeta che ci insegna la dignità della ricerca, anche quando essa conduce nel deserto. Esorta a confrontarci con il mistero, con l'ignoto, con il limite della nostra comprensione. Il suo "silenzio di Dio" non è una condanna, ma un punto di partenza per una riflessione più autentica e personale sulla nostra spiritualità. Di fronte a un mondo che spesso banalizza o ignora la dimensione trascendente, Caproni ci spinge a guardare in faccia il vuoto, a sentirne il peso, e proprio in quel vuoto a trovare forse la traccia di un'assenza che è, paradossalmente, una presenza. Il Nulla di Dio può con qualche riserva essere paragonato al Nulla dei mistici cristiani; al Nulla che è pienezza oltre l’essere di cui abbiamo esperienza, all’Invisibile che contiene tutto, al Punto luminoso che ti abbaglia e davanti al quale tu devi chiudere gli occhi senza poterlo fissare (Dante, Par. XXVIII, 16-18). Il Dio cercato da questo poeta rimane tuttavia il dio dei filosofi e dei teologi, non il Dio di Gesù Cristo. Se la presenza di Cristo e la sua parola vengono soffocate ed oscurate da una società materialista ed edonista, noi non possiamo capire né chi è Dio, né chi è l’uomo, cos’è la vita, cos’è la morte, chi sono io, chi sono gli altri, qual è il nostro destino. Per il credente solo Cristo illumina e salva. La lettura di questo poeta ci stimola tuttavia a interrogarci sul senso della nostra esistenza, sulla possibilità di un aldilà, sulla natura del divino. Non offre risposte confortanti, ma la forza di porre le domande giuste, con onestà e coraggio; per molti aspetti può rafforzare la nostra fede nella grazia divina, la res amissa di Giorgio Caproni, il poeta che ha imbrogliato le carte; ha conosciuto la fede cristiana, ha in varie occasioni assistito a celebrazioni liturgiche riflettendo e commentando le omelie dei sacerdoti, ha avuto un funerale religioso. Partecipando alla sepoltura del fratello, la sua preghiera di rito rimane come traccia di una passata educazione cristiana, anche se priva di uno slancio di fede: Ho anch’io detto le mie preghiere di rito. Ma solo Piero, per dirti addio E addio per sempre, io che in te avevo il solo e vero amico, fratello mio. In un'epoca in cui molti cercano certezze immediate, Caproni ci offre il prezioso dono del dubbio fecondo, della ricerca incessante, della consapevolezza che, anche nel più profondo silenzio, l'anelito verso l'infinito rimane una delle più umane e significative avventure dell'anima.

*Assistente nazionale AIMC e UCIIM





IL MEETING DI RIMINI

 


Lettera alle sorelle e ai fratelli 

di Comunione e Liberazione

 


 -       di  Giuseppe Savagnone 



Saluto

Cari sorelle e fratelli, se mi permetto di scrivevi, a proposito del Meeting di Rimini, è perché una lettera non è un discorso “su” qualcosa – come potrebbe essere un articolo – , ma “con” qualcuno, non un giudizio, ma un appello rispettoso.

Preciso subito che non rivesto, né a livello politico né a livello ecclesiale, alcun ruolo ufficiale e che in quanto dico rappresento solo me stesso. Ma poiché per il battesimo condivido con voi la dignità di re, sacerdote e profeta, penso di avere il diritto e il dovere di esprimere la mia opinione su un evento che coinvolge sia la società che la Chiesa di cui tanto voi che io facciamo parte.

A condizione –  ne sono ben consapevole –  di non scadere in quella sterile e acre polemica che in passato ha diviso e  ancora, a volte, divide sorelle fratelli nella fede.

Aggiungo di non essere cresciuto  né nell’Azione cattolica né in Comunione e Liberazione, ma in un piccolo gruppo ecclesiale della mia diocesi, Palermo, a cui devo la mia formazione di laico cristiano. Anche se conto molti amici sinceri, con cui mantengo rapporti di profonda stima, sia in AC che in CL.

Alcune osservazioni generali

Un dialogo o un monologo?

Il motivo di questa lettera è il profondo disagio che ho provato leggendo sui giornali che l’edizione di quest’anno del Meeting – una grande esperienza di popolo importante e significativa (forse l’unica,  almeno in Italia, in cui il mondo cattolico riesce a esprimersi a livello pubblico) – è stata dalla grande maggioranza degli osservatori considerato un chiaro endorsement dei cattolici ai partiti di destra oggi al governo.

In tempi in cui si parla molto del possibile ritorno dei cattolici alla politica, questa presa d’atto da parte dei media acquista un significato che inevitabilmente va al di là di Comunione e Liberazione e chiama in causa il mondo cattolico in quanto tale. Da qui la rilevanza del problema anche per un semplice fedele come me e la  mia esigenza di verificare quanto effettivamente è accaduto.

 Dico subito che il mio non è tanto un discorso sul Meeting, ma su ciò che l’opinione pubblica ed io per primo ne abbiamo colto, attraverso  le semplificazioni dei mezzi di comunicazione.

Mi rendo conto dell’impossibilità – per me, come per chiunque non abbia partecipato personalmente, all’evento – di capire la ricchezza e la complessità di ciò che  esso ha rappresentato. Qui, al di là della varietà di iniziative e di esperienze che hanno giustamente entusiasmato coloro che hanno vissuto queste giornate, è del volto pubblico di questa edizione del Meeting che intendo parlare.

E, a questo livello, l’impressione di una scelta di campo ha un suo innegabile fondamento. A parte la prolusione di Draghi, tutte le relazioni sono state affidate a 13 ministri del governo di destra in carica, oltre che alla premier Giorgia Meloni. Nemmeno una voce dissidente. Era inevitabile, a questo punto, che il messaggio trasmesso ai partecipanti fosse univoco. Il contrario, a dire il vero, di quello che implicherebbe il nome “Meeting”, incontro tra diversi.

La mia meraviglia è aumentata quando ho sentito un’intervista del presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione, Davide Prosperi, che dichiarava di aver voluto garantire la maggior varietà possibile di voci.

Può darsi che ci sia stata, ma posso assicurare che dall’esterno si è sentita solo quella dei ministri che vantavano, senza contraddittorio, i loro successi. Ripeto che con questo non intendo assolutamente minimizzare la bella testimonianza di creatività, di impegno e di sacrificio data dagli organizzatori e dai partecipanti anche quest’anno. Ma l’impressione di un monologo, invece che di un dialogo, rimane.

Mattoni nuovi?

Viviamo in un momento in cui la società occidentale, e quella italiana in particolare, assomiglia veramente a un deserto, come il  felicissimo titolo del Meeting evidenziava.

I «luoghi deserti», ha osservato Giorgia Meloni nella sua relazione, sono «una potente metafora della nostra epoca, un’epoca nella quale si vorrebbe omologare tutto, trasformare ognuno di noi in un consumatore perfetto, un vuoto a rendere che può essere riempito da qualsiasi cosa si voglia.

Individui senza identità, senza memoria, senza appartenenza nazionale, familiare o religiosa. Individui in cui desideri cambiano in continuazione e che quindi non amano più nulla. Individui in sostanza nella cui esistenza non c’è più nulla, per cui valga la pena impegnarsi, costruire o combattere».

In Italia questa cultura si è affermata con la crisi della Prima Repubblica e nel corso della Seconda, di cui l’attuale classe politica, maggioranza e opposizione, è l’ultima espressione.

Basti pensare alla crisi ideologica della Sinistra che, orfana del marxismo, ha finito per abbracciare la visione individualista radicale, che è ancora la sua bandiera. Ma non si possono neppure chiudere gli occhi sul ruolo che ha avuto nello stravolgimento dei valori – a livello sia privato che pubblico –  l’avvento delle televisioni commerciali e l’immagine privata e pubblica di Silvio Berlusconi, che i nostri partiti di governo considerano una figura di riferimento.

Chiamare al Meeting esponenti di questa Seconda Repubblica, come Salvini o Tajani (e lo stesso varrebbe per la Schlein o Conte) significa davvero costruire con “mattoni nuovi”? O – al di là dei singoli personaggi, al di là anche della usurata dialettica Destra-Sinistra – oggi non sarebbe necessario proporre idee nuove, che non possono venire  da persone “vecchie” (il deserto di cui si parlava)?

La relazione di Giorgia Meloni alla prova dei fatti

Probabilmente un senso autentico di novità il popolo del Meeting l’ha provato davanti alla giovanile e appassionata figura di Giorgia Meloni, a cui ha riservato, secondo i media, un’entusiastica, commovente accoglienza.

E davvero la sua relazione  è sembrata prospettare una politica tesa a «ricostruire con i mattoni nuovi della verità», «con metodi nuovi», ispirati all’«umanesimo cristiano», riportando al centro gli esseri umani nella loro unicità e irripetibilità, contro tutte le falsificazioni ideologiche.

Perché, ha detto la premier, «mille miliardi di idee non valgono una sola persona. Noi dobbiamo amare le persone, è  per loro che bisogna vivere e morire». Soprattutto i più deboli e poveri, perché «la vita è sacra e la cura per i più fragili è un valore assoluto» .

Insomma, il messaggio cristiano che finalmente si fa politica non in sogno, ma nei fatti, poiché la relatrice ha rivendicato, «con orgoglio», di aver costruito con questi «mattoni nuovi» la sua opera di governo.

Ma è veramente così? E qui vi chiedo, fratelli e sorelle, ché forse avete anche voi condiviso l’entusiasmo per le cose che  Giorgia Meloni ha detto, di provare a guardare insieme a me quelle che non ha detto e che mi sembra smentiscano drasticamente la sua  pretesa di stare portando nella politica i valori dell’umanesimo cristiano.

L’accoglienza dei migranti

Potrei indicarvene tante quanti sono i punti trattati nella relazione. Ma sono troppe. Mi limito, a titolo di esempio, al tema dei migranti: «Abbiamo posato mattoni nuovi sul fronte delle migrazioni, contrastando gli arrivi irregolari, ampliando quelli regolari in una cornice di serietà e rigore, come non era mai avvenuto prima».

Discorso a prima vista ragionevole, perché nessuno potrebbe  pensare (e nessuno ha mai pensato) ad una apertura indiscriminata. Eppure, a ben vedere, è significativo che il primo punto – in piena coerenza col programma elettorale della Destra, centrato sulla «difesa dei confini nazionali ed europei» – si quello del “contrastare”, come si fa con gli invasori.

Una linea ben diversa da quella proposta da papa Francesco che, nel suo «Messaggio per la Giornata mondiale del migrante e del rifugiato» del 2018, la riassumeva in quattro verbi: «accogliere», «proteggere», «promuovere» «integrare».

A questo programma Francesco ha ispirato tutto il suo pontificato, in deciso contrasto con un governo fedele alla linea della Lega, che ha sempre rivendicato la sua fedeltà al messaggio cristiano (Salvini si è spesso presentato ai suoi comizi con il vangelo in mano), ma precisando che il comandamento dell’amore del prossimo vale solo per i più vicini e «non è estendibile al vù cumprà o al vù lavà, certamente prossimi di molte altre persone, ma non del sottoscritto. Grazie a Dio» (M. Borghezio).

La Destra ha risposto squalificando Francesco come un pericoloso utopista. Ma in realtà la posizione di papa Bergoglio è semplicemente quella del magistero della  Chiesa.  San Giovanni Paolo II (citato da Meloni al Meeting), nell’Esortazione apostolica «Ecclesia in Europa», del 2003, scriveva: «Di fronte al fenomeno migratorio, è in gioco la capacità, per l’Europa, di dare spazio a forme di intelligente accoglienza e ospitalità. È la visione “universalistica” del bene comune ad esigerlo: occorre dilatare lo sguardo sino ad abbracciare le esigenze dell’intera famiglia umana» (n.101).

Sottolineando, subito dopo, la necessità di una «matura cultura dell’accoglienza che, tenendo conto della pari dignità di ogni persona e della doverosa solidarietà verso i più deboli, richiede che ad ogni migrante siano riconosciuti i diritti fondamentali» (ivi). In conformità, del resto, a quel testo del vangelo in cui Gesù si identifica con lo straniero che chiede di essere accolto: «Ero forestiero e mi avete ospitato» (Mt 25,35).

In tutto il discorso di Giorgia Meloni la sola volta che si parla di “accoglienza” è quando ringrazia per quella che le è stata riservata al Meeeting. E, contrapponendosi – senza rendersene conto – proprio alle parole di Giovanni Paolo II, ha rivendicato il ruolo, «che io considero decisivo, del governo italiano per cambiare anche l’approccio europeo» inducendo tutta l’UE a considerare prioritari «la difesa dei confini esterni» e «il rafforzamento della politica dei rimpatri».

Il cimitero del Mediterraneo

Ma il problema non è di parole. Ad esse sono corrisposti, in questi tre anni, dei fatti gravissimi. Come il decreto-legge del 28 dicembre 2022, che ha reso molto più difficile alle navi delle ONG operanti nel Mediterraneo salvare i migranti vittime di naufragi, vietando loro di effettuare più di un’operazione di salvataggio e imponendo di sbarcare i naufraghi in porti spesso lontani, allontanandole  dalle zone critiche. Proprio in questi ultimi giorni due sono state trattenute in stato di fermo per non  aver rispettano queste regole assolutamente arbitrarie.

Si vogliono scoraggiare le partenze rendendo più alte, per chi vi si avventura, le probabilità di morire. Le possibilità di salvezza indeboliscono il divieto. Lo  ha detto, senza i giri di parole dei diplomatici, il ministro Piantedosi (un altro invitato applaudito al Meeting) all’indomani del disastro di Cutro, il 26 febbraio 2023, rispondendo a chi gli chiedeva se si poteva di più per salvare le 180 persone perite nel naufragio: «L’unica vera cosa che va detta e affermata è: “Non devono partire”. [Non si può] immaginare che ci siano alternative da mettere sullo stesso piano – salvare, non salvare…». La sola vera alternativa al restare nella propria condizione di miseria o di pericolo, è la morte. Questa la filosofia che sta dietro i provvedimenti anti-Ong.

E che non si tratti di una mia lettura «ideologica», lo dicono le parole di papa Francesco nell’Udienza generale del 28 agosto 2024: «Il mare nostrum (…) è diventato un cimitero. E la tragedia è che molti, la maggior parte di questi morti, potevano essere salvati. Bisogna dirlo con chiarezza: c’è chi opera sistematicamente e con ogni mezzo per respingere i migranti – per respingere i migranti. E questo, quando è fatto con coscienza e responsabilità, è un peccato grave».

Tornano alla mente le parole della premier al Meeting: «Non c’è niente di più importante che salvare una vita umana».

Gli accordi con la Libia

E poi ci sono gli accordi con la Libia. Meloni non vi ha fatto cenno, e con ragione. Perché avrebbe dovuto dire che, almeno in questo caso, non solo il nostro attuale governo non si è discostato da quelli precedenti, come lei spesso ha sottolineato, ma ne ha continuato la politica nella sua espressione più disumana.

È stato infatti il ministro dell’Interno del governo di centrosinistra guidato da Paolo Gentiloni, Marco Minniti, che nel febbraio del 2017, con l’accordo della UE, ha firmato un “Memorandum d’intesa” col governo libico in cui si concedevano aiuti  economici e supporto tecnico, in cambio dell’impegno di quel governo di controllare più strettamente le partenze dei migranti dalle sue coste, facendone bloccare i barconi dalla sua Guardia costiera e trattenendo le persone in appositi “centri d’accoglienza”.  

«Nei miei ventidue anni in Medici Senza Frontiere non avevo mai incontrato un’incarnazione così estrema della crudeltà umana», dice Joanne Liula presidente internazionale di “Medici senza frontiere”, in un’intervista al «Corriere della Sera» del 1 febbraio 2018. E non è una denunzia isolata.

In realtà già poche settimane dopo quegli accordi, il 28 settembre 2017, il commissario dei Diritti umani presso il Consiglio d’Europa, Nils Muiznieks, aveva scritto al nostro ministro degli Interni Marco Minniti, una lettera, «consegnare individui alle autorità libiche o altri gruppi in Libia li esporrebbe a un rischio reale di torturao trattamento inumano o degradante e il fatto che queste azioni siano condotte in acque territoriali libiche non assolve l’Italia dagli obblighi previsti dalla Convenzione sui diritti umani».

Così, non stupisce che, a metà novembre 2017, dopo il Consiglio d’Europa, anche l’ONU sia intervenuta. Durante la riunione del comitato delle Nazioni Unite a Ginevra l’Alto commissario ONU per i diritti umani Zeid Raad al Hussein ha bollato con parole durissime il patto stretto con Tripoli dal governo Gentiloni per conto dell’Unione Europea: «La politica UE di assistere le autorità libiche nell’intercettare i migranti nel Mediterraneo e riportarli nelle terrificanti prigioni in Libia è disumana. La sofferenza dei migranti detenuti in Libia è un oltraggio alla coscienza dell’umanità».

«Non possiamo», ha sottolineato l’Alto commissario, «rimanere in silenzio di fronte a episodi di schiavitù moderna, uccisioni, stupri e altre forme di violenza sessuale pur di gestire il fenomeno migratorio e pur di evitare che persone disperate e traumatizzate raggiungano le coste dell’Europa».

Incurante di questi moniti, il nuovo governo di destra ha rinnovato l’accordo. Anzi, a suggellarne la continuità, la nostra premier, il 28 gennaio 2023, in occasione della sua visita in Libia, ha concordato la consegna di cinque modernissime motovedette alla Guardia costiera (una delle quali, recentemente ha anche sparato, in acque internazionali, alla nave Ocean Viking, mentre stava soccorrendo un gruppo di migranti in mare).

E anche ultimamente Meloni è tornata a Tripoli per confermare e consolidare gli accordi, che anzi sono stati estesi, nel quadro del piano Mattei, alla Tunisia, dove il presidente Kaïs Saïed sta imponendo un regime autoritario e, in cambio di ingenti fondi italiani ed europei, si è impegnato a bloccare, con i mezzi che gli sono propri, i migranti  in procinto di partire per l’Italia.

Davanti a questo quadro di inaudite violenze, decise a tavolino contro poveri esseri umani, colpevoli solo di essere assetati di un po’ di felicità, rileggiamo le parole di Meloni nella sua bella relazione: «Noi dobbiamo amare le persone, è  per loro che bisogna vivere e morire». Perché «la vita è sacra e la cura per i più fragili è un valore assoluto».

Ci si può entusiasmare per il male minore?

Mi fermo qui. Era solo un esempio tra i tanti della totale dissonanza tra le nobili affermazioni di principio della premier e la prassi reale del suo governo e solo per ragioni di spazio ho preferito soffermarmi su questo. Ma spero almeno di aver fatto capire i motivi del mio disorientamento nel vedere  la nostra presidente del Consiglio non solo invitata – questo potrebbe essere un modo per mantenere i buoni rapporti con le istituzioni – , non solo cortesemente ricevuta – questo rientrerebbe nella buona educazione verso un’ospite – , ma entusiasticamente applaudita e acclamata (tra l’altro, in particolare quando ha parlato dei migranti).

Perché ad aver fatto questo sono  persone a cui mi sento unito dalla profonda convinzione che “i mattoni nuovi” per costruire in questo deserto possono venire solo da una visione della persona e della società che si ispiri all’insegnamento sociale della Chiesa e, soprattutto, al Vangelo.

Si può capire – anzi credo che in questo momento capiti a tutti i cattolici –  che qualcuno, in mancanza di meglio, voti per un partito che, pur compromettendo alcuni valori, ne salva però altri e che per questo può, a malincuore, essere considerato un male minore. Ma se Elly Schlein ricevesse un’accoglienza trionfale in un consesso di cattolici mi stupirei e mi addolorerei molto. Esattamente come mi stupisce e mi addolora che questo sia accaduto nei confronti di Giorgia Meloni.

Sorelle e fratelli, ringrazio chi di voi ha avuto la pazienza e la gentilezza di arrivare alla fine di questa lettera. Non chiedo che alla fine ci troviamo d’accordo su tutto, ma che siano chiare le ragioni per cui mi sono sentito a disagio, come cristiano, di quello che del Meeting ho appreso dai media.

E che consideriate l’averlo comunicato non un attacco, ma un atto di sincerità fraterna, nello stile del vangelo che ci unisce tutti.

 

www.tuttavia.eu

 

 

martedì 2 settembre 2025

SI EDUCA CON CIO' CHE SI E'


Il coaching per gli adolescenti

 alla luce del messaggio evangelico




di Pietro Riparbelli 

 

Come instaurare un dialogo proficuo con i tuoi figli o i tuoi studenti adolescenti? Come aiutarli ad affrontare le sfide che la vita ci mette davanti ogni giorno? Come guidarli verso obiettivi validi e credibili? Come renderli autonomi senza farli sentire abbandonati? 

Sono alcune delle domande a cui cerca di rispondere questo libro, che non è un semplice manuale, ma un invito a riscoprire l’arte dell’educazione come missione di vita, dove l’esempio personale diventa la più potente delle lezioni. 

Lo spunto è il Vangelo, che qui diventa strumento per educare, seguire, far crescere i ragazzi. 

Grazie a un’inedita chiave interpretativa dell’insegnamento evangelico, troveremo in queste pagine molti dei problemi che viviamo ogni giorno e i suggerimenti per risolverli. 

Perché Gesù, attraverso le parabole, il discorso della montagna, i dialoghi con gli ultimi, i miracoli, gli esempi personali, ci ha indicato una strada educativa che può portarci lontano. 

Insieme ai nostri ragazzi.


Pietro Riparbelli, Si educa con ciò che si è, ed. Ultra Life, maggio 2025


SCUOLA SENZA VOTI E LEZIONI


 Una scuola senza voti né lezioni frontali: a Piacenza la nuova media con il metodo di Daniele Novara che mette al centro esperienze, domande e lavoro di gruppo.

 

-       di Andrea Carlino

-        

Un modello educativo che rompe con l’impostazione tradizionale e si fonda sulla relazione educativa, sull’apprendimento esperienziale e sulla rinuncia a ogni forma punitiva. L’incontro, ospitato nella sede di Via Genocchi 4, offrirà a genitori e cittadini un’occasione di confronto diretto con i promotori dell’iniziativa.

Il dirigente dei Licei, Fabrizio Bertamoni, ha sottolineato lo spirito dell’appuntamento: “Sarà un’occasione preziosa per raccontare in prima persona il progetto della nuova scuola media firmata San Benedetto, rispondere a domande e chiarire eventuali dubbi. La nostra scuola si fonda sulla relazione e sulla fiducia reciproca”.

Un modello didattico che cambia prospettiva

Il Metodo Daniele Novara propone un approccio di forte discontinuità con la scuola tradizionale: niente voti punitivi, nessuna lezione frontale come unico strumento didattico, assenza della cattedra come simbolo gerarchico e una centralità del lavoro di gruppo. Gli studenti sono chiamati a collaborare, a costruire conoscenze attraverso laboratori maieutici e a sviluppare competenze attraverso la “fatica creativa”.
Come ha spiegato lo stesso pedagogista, “si lavora sulle domande e sull’apprendimento attivo, elementi che permettono agli alunni di crescere nella collaborazione, nella scoperta e nella conquista di nuove capacità applicative”.

Una comunità di apprendimento orientata al futuro

La nuova scuola media si pone come comunità di apprendimento, attenta a valorizzare le risorse personali di ciascun ragazzo. L’obiettivo dichiarato è offrire agli studenti un contesto nel quale imparare con motivazione, consolidando il rispetto reciproco e la consapevolezza del valore dell’esperienza scolastica. Per Novara, si tratta di “una concreta speranza per tanti ragazzi e ragazze di trovare una scuola che sappia orientarsi al futuro, utilizzando gli aspetti migliori del passato e non quelli peggiori”. L’iniziativa, unica nel panorama nazionale, si presenta come un’esperienza pilota che mira a tradurre in pratica un metodo già sperimentato in diversi contesti educativi, ma mai prima d’ora applicato in modo integrale nell’ambito della scuola secondaria di primo grado.

 Orizzonte Scuola

Immagine

 

SCUOLA IN PALESTINA


Lettera del Patriarca di Gerusalemme  

agli alunni 



Ai nostri amati studenti,
Agli stimati genitori,
Ai sacerdoti e ai religiosi che prestano servizio nelle nostre scuole della Chiesa,
Ai presidi, agli insegnanti e agli educatori,
Ai Segretariati Generali delle Scuole Cristiane in Terra Santa,

Il Signore vi dia la pace!


Siamo alle porte di un nuovo anno scolastico. Ancora una volta, le nostre scuole in Terra Santa aprono le loro porte per accogliere decine di migliaia di studenti, cristiani e non, che siedono fianco a fianco sugli stessi banchi, uniti dall'amore per l'apprendimento e animati dalla speranza nel futuro. Ognuno di loro è un dono prezioso di Dio, una fiducia sacra affidata alle nostre cure.

Eppure, con profondo dolore, questa gioia non si estende ai nostri bambini di Gaza, che per il terzo anno consecutivo sono privati del loro diritto all'istruzione a causa della guerra. Le loro scuole sono state distrutte, le loro aule sono state chiuse. Li portiamo nelle nostre preghiere, implorando che la pace prevalga presto affinché possano tornare sui loro banchi e reclamare la loro infanzia.

L'apertura dell'anno scolastico non è un momento passeggero, ma un tempo di grazia, un rinnovamento della nostra missione educativa. Nella nostra visione, la scuola non è solo muri e libri, ma una casa dove la conoscenza e la fede abitano insieme: dove la mente è illuminata dalla luce della verità, il cuore cresce nell'amore per Dio e per gli altri, e l'anima è ancorata nella speranza. In un tale ambiente, il carattere dello studente viene plasmato da valori e virtù e preparato a servire la società nello spirito della fede, della speranza e dell'amore.

I nostri alunni di prima elementare intraprendono per la prima volta il loro viaggio di apprendimento; che il loro anno sia coronato dalla gioia, ricco di scoperte e fecondo di amicizia e crescita. I nostri alunni di seconda media sono alla soglia della conclusione degli anni scolastici e si preparano a entrare in un nuovo capitolo della vita, chiamati alla perseveranza, alla maturità e alla serietà. Tra questi inizi e queste fine c'è il percorso scolastico di ogni studente, che non si misura solo con i voti, ma con i valori forgiati nel carattere, la resilienza e la diligenza coltivate, la speranza e l'apertura nutrite nel cuore.

Le nostre scuole sono chiamate a rimanere case di apprendimento, di incontro e di dialogo, campi che seminano la pace, salvaguardano la dignità e aprono a ogni studente le porte del futuro, indipendentemente dalla provenienza. Gli splendidi risultati ottenuti dai nostri studenti in vari campi, i valori autentici che incarnano e le personalità creative che rivelano sono una testimonianza vivente della fecondità di questa missione educativa e un motivo di orgoglio e gratitudine per tutti noi.

A nome dell'Assemblea degli Ordinari Cattolici di Terra Santa, esprimo la profonda gratitudine della Chiesa a tutti coloro che prestano servizio nelle nostre scuole: ai consacrati che accompagnano la missione con spirito di cura; agli insegnanti che piantano i semi della conoscenza e della virtù nelle menti e nei cuori dei nostri bambini; ai presidi che guidano con discernimento e fedeltà; a tutto il personale che lavora per assicurare che le nostre scuole rimangano vibranti di vita. La vostra dedizione quotidiana, i sacrifici silenziosi e l'impegno costante in questa missione sono una testimonianza vivente del fatto che l'educazione nelle scuole della Chiesa non è solo una professione, ma un ministero sacro svolto con amore, pazienza e speranza.

Estendo anche le benedizioni e l'incoraggiamento alle famiglie dei nostri studenti, che sono il primo fondamento dell'educazione - la scuola primaria dove si forma la fede, si coltivano i valori e i bambini imparano il significato della responsabilità e del rispetto. Il ruolo dei genitori non si limita a seguire le lezioni o a controllare i successi accademici, ma si estende a piantare l'amore nel cuore, a dare un esempio vivente di pazienza e generosità e ad accompagnare il cammino dei figli con consapevolezza e tenerezza. L'educazione è una responsabilità condivisa tra casa e scuola, fondata sulla fiducia reciproca e sulla collaborazione continua.

A tutti i nostri studenti dico: fate di quest'anno un'opportunità per crescere nella conoscenza e nella fede, per forgiare il vostro carattere nella perseveranza e nell'impegno.
Che lo Spirito Santo illumini le vostre menti e i vostri cuori e che la Beata Vergine Maria, sede della Sapienza, vi protegga durante questo anno.

Con la paterna benedizione a tutti voi e con i migliori auguri per un nuovo anno scolastico benedetto.

Gerusalemme, 28 agosto 2025, festa di sant'Agostino, vescovo e dottore della Chiesa.

+ Pierbattista Card. Pizzaballa
Patriarca di Gerusalemme per i latini 
Presidente dell'ACOHL

Immagine

 

domenica 31 agosto 2025

MECCANIZZARE L'UMANO ?

 


  Uomo o macchina? 

Ci salverà la libertà creatrice

 


-       di Andrea Lavazza

 Nel loro nuovo libro, Chiara Giaccardi e Mauro Magatti affrontano il rischio di meccanizzazione dell’umano.

Il digitale trasforma l'esperienza in dato, l’antidoto è il recupero dello spirito.

Quando il titolo è già un esperimento che pare riuscito (verifiche ulteriori a cominciare da oggi), un saggio ambizioso e tempestivo muove subito il dibattito culturale.

Macchine celibi è la più recente analisi dei trend sociali dell’oggi a firma di Chiara Giaccardi e Mauro Magatti.

Il sottotitolo – Meccanizzare l’umano o umanizzare il mondo? – fa intuire il focus del volume (il Mulino, pagine 184, euro 17,00), ma non svela l’arcano.

E oggi l’impazienza e la curiosità, lo sappiamo, si traducono nel digitare sui nostri dispositivi ben prima di consultare un libro.

Si può provare con la tradizionale ricerca sui motori del web, oppure ricorrere direttamente a un chatbot.

Subito si entrerà nel mondo dell’arte di Marcel Duchamp, autore dell’opera Il grande vetro, di cui l’espressione scelta dai due autori del volume identifica una parte.

Il punto è che sia leggendo le descrizioni fornite sia guardando le fotografie disponibili in rete non risulta molto chiaro il senso della complessa installazione completata nel 1923.

Ma questo è solo il lato passivo del sistema, che in questo caso non risponde in modo esaustivo come di solito accade alle nostre richieste.

Sul lato attivo, invece, è difficile immaginare un prompt capace di indurre l’intelligenza artificiale a concepire qualcosa di paragonabile alla creazione di Duchamp: un’opera che si fa metafora della condizione umana.

È qui che Giaccardi e Magatti mostrano come l’essere umano mantenga ancora un proprio spazio insostituibile di produzione di senso: la macchina non possiede l’ultima parola.

L’arte, ma non solo, può seguire percorsi che sfuggono alla rigida funzionalizzazione dell’IA e dell’intero processo tecno-capitalistico, per quanto questo abbia raggiunto un livello di potenza inedito.

Quello che costituisce l’epilogo del lavoro di ricognizione e di proposta svolto dai due sociologi dell’Università Cattolica (ben noti ai lettori di “Avvenire”) è quindi già in nuce contenuto nel titolo e inverato dal piccolo test descritto sopra.

Secondo gli autori, il sogno di Leibniz di un linguaggio universale matematico è oggi realtà di fronte a noi che, tuttavia, possiamo invocare la ribellione surrealista che rivendicava il potere del sogno e dell’irrazionale.

Nella sua creazione, giocosa e inquietante allo stesso tempo, Duchamp incarna infatti la tensione tra questi poli: sopra la sposa irraggiungibile, sotto gli aspiranti nubendi che si agitano inutilmente.

Come scrivono Giaccardi e Magatti, «a poco a poco, senza accorgercene, ci trasformiamo in macchine celibi: sempre più simili ai dispositivi “intelligenti” da cui dipendiamo, e come loro assoggettati alla legge ferrea di un movimento continuo ed efficiente, che però rischia di girare a vuoto, rincorrendo avidamente schegge di un desiderio messo al servizio dei poteri che dominano le tecnologie digitali”.

L’avvento dell’IA onnipresente porta all’estremo la razionalizzazione moderna.

È un farmaco: cura e veleno insieme.

Promette ordine, ma genera nuove angosce, disuguaglianze, solitudini.

La domanda, dunque, è se possiamo usare le tecnologie per umanizzare il mondo o se saremo definitivamente meccanizzati.

Il quadro che emerge dallo sguardo largo e profondo messo in campo nel libro, pur non negando i grandissimi progressi in molti ambiti grazie agli strumenti digitali, appare decisamente negativo.

Rispetto al tecnottimismo o neutralismo di chi vede le macchine come qualcosa che non sarà mai come noi perché esse non hanno scopi né emozioni né desideri (per esempio, Maurizio Ferraris nel suo recente La pelle), Giaccardi e Magatti sono orientati a un tecnopessimismo oggettivo, che vede l’essere umano tendere all’assimilazione verso il modello computazionale: «Oggi l’uomo sempre più si fa macchina, mentre la macchina si fa sapiens: il piano umano e quello meccanico diventano sempre meno distinguibili.

Nasce così il regno delle macchine celibi, dove l’essere umano viene modellato da ciò che lui stesso ha costruito, dentro un orizzonte chiuso e autoreferenziale, che non ammette esteriorità alcuna».

Il digitale trasforma ogni esperienza in dato, ogni relazione in informazione calcolabile.

Ciò aumenta efficacia e velocità, ma riduce lo spazio del senso e della libertà.

La modernità liquida descritta (criticamente) da Bauman a molti sembrava aprire un’era di felicità rotte tutte le catene che limitavano l’individuo.

Facciamo invece i conti con un panorama di insoddisfazione, rancore quando non disperazione.

La diagnosi degli studiosi è stringente: «L’apertura dello spazio di autonomia e autodeterminazione del singolo ha segnato un passaggio epocale cruciale.

Tuttavia, questo passaggio ha di fatto promosso una struttura della personalità narcisistica, centrata sul proprio benessere, la deregulation dei significati e la convinzione di un progresso illimitato e universale.

Per forzare e accelerare in questa direzione si è scelto di indebolire i contesti relazionali e valoriali, sia interpersonali che sociali e istituzionali, ritenuti troppo vincolanti, se non addirittura oppressivi.

Il problema è che proprio questi stessi contesti in passato aiutavano a gestire il rapporto col fallimento, la frustrazione, il negativo e in ultima istanza con l’angoscia della morte: tutti aspetti che, pur nella rincorsa al benessere, non possono essere mai completamente rimossi dalla vita, individuale e collettiva».

Abbiamo paradossalmente il mondo in tasca, eppure siamo concentrati sul nostro ombelico, e per di più in preda all’ansia.

Come l’operaio fordista era privato delle proprie competenze alla catena di montaggio, così nel 2025 l’individuo sembra espropriato della propria autonomia cognitiva dagli algoritmi.

Si produce una miseria simbolica: impoverimento del linguaggio, uniformazione culturale, incapacità di attribuire significati profondi.

Gli autori provano a ricostruire le radici psicosociali della rabbia diffusa nelle società contemporanee.

La perenne insicurezza prodotta da aspettative performative, le disuguaglianze economiche, la perdita di riferimenti culturali e la sfiducia nelle istituzioni alimentano risentimento e aggressività.

Populismi e leader carismatici sfruttano questa rabbia, combinando promesse tecnocratiche con strategie emotive: nasce così il tecnopopulismo, che usa il digitale per manipolare e mobilitare, attingendo a miti del progresso illimitato e a forme distorte del cristianesimo per restringere la cerchia di coloro cui si possono riconoscere pieni diritti.

Di fronte a una crisi inedita, Giaccardi e Magatti propongono di recuperare la dimensione dello spirito: non come categoria religiosa in senso stretto, ma come libertà creativa, capacità di generare senso e anche apertura al trascendente.

Lo spirito diventa condizione per resistere alla riduzione tecnico-performativa e per costruire nuove forme di convivenza.

Contro la riduzione digitale e populista, gli autori rilanciano la necessità di pensare la complessità.

Servono a questo fine tre passaggi chiave: riconoscere la pluralità, coltivare il dialogo, sviluppare il pensiero critico.

Una società democratica deve essere “una società che pensa di più”, non solo che funziona meglio.

Dobbiamo perciò diventare poeti sociali, capaci di intrecciare tecnica, relazioni e senso, altrimenti ci ridurremo appunto a macchine celibi, ingranaggi isolati ed efficienti ma sterili.

 Quello di poeta sociale (immagine introdotta da papa Francesco in un incontro del 2021 con i rappresentanti dei movimenti sociali) rappresenta un modello antropologico e politico che non rifiuta la tecnica, ma la reintegra dentro una visione più ampia di umanizzazione del mondo.

Si tratta di una risorsa per rigenerare la democrazia e la convivenza, un’alternativa anche politica all’individuo-macchina, che sappia coniugare creatività, relazionalità e responsabilità collettiva.

Individuato il percorso, resta da coltivare una generazione di poeti sociali che ci preservi dalla meccanizzazione dell’umano.

 www.avvenire.it

Immagine