domenica 26 ottobre 2025

UNA COMUNITA' IN CAMMINO


 Nella Basilica di San Pietro, Papa Leone XIV ha presieduto la Santa Messa per il Giubileo delle Équipe Sinodali e degli organi di partecipazione, celebrando la XXX Domenica del Tempo Ordinario. Nel cuore del suo ministero, il Pontefice ha proposto una riflessione profonda sul volto della Chiesa sinodale, invitando i fedeli a riscoprire la comunione come via di rinnovamento e di conversione.

«La Chiesa – ha detto – non è una semplice istituzione religiosa, né si identifica con le sue gerarchie e strutture, ma è il segno visibile dell’unione tra Dio e l’umanità».
Richiamandosi alla parabola del fariseo e del pubblicano, Leone XIV ha messo in guardia dal rischio di un cristianesimo centrato sull’“io” invece che sul “noi”, chiedendo una Chiesa umile, capace di ascolto, dialogo e servizio.

L’omelia si inserisce nel cammino giubilare del 2025 e nel solco dell’eredità di Papa Francesco, richiamata più volte dal Santo Padre, che ha invitato i fedeli a “camminare insieme, mai come viaggiatori solitari”.

 Omelia di Papa Leone XIV

Fratelli e sorelle,

celebrando il Giubileo delle équipe sinodali e degli organi di partecipazione, siamo invitati a contemplare e a riscoprire il mistero della Chiesa, che non è una semplice istituzione religiosa né si identifica con le gerarchie e con le sue strutture. La Chiesa, invece, come ci ha ricordato il Concilio Vaticano II, è il segno visibile dell’unione tra Dio e l’umanità, del suo progetto di radunarci tutti in un’unica famiglia di fratelli e sorelle e di farci diventare suo popolo: un popolo di figli amati, tutti legati nell’unico abbraccio del suo amore.

Guardando al mistero della comunione ecclesiale, generata e custodita dallo Spirito Santo, possiamo comprendere anche il significato delle équipe sinodali e degli organi di partecipazione; essi esprimono quanto accade nella Chiesa, dove le relazioni non rispondono alle logiche del potere ma a quelle dell’amore. Le prime – per ricordare un monito costante di Papa Francesco – sono logiche “mondane”, mentre nella Comunità cristiana il primato riguarda la vita spirituale, che ci fa scoprire di essere tutti figli di Dio, fratelli tra di noi, chiamati a servirci gli uni gli altri.

Regola suprema, nella Chiesa, è l’amore: nessuno è chiamato a comandare, tutti sono chiamati a servire; nessuno deve imporre le proprie idee, tutti dobbiamo reciprocamente ascoltarci; nessuno è escluso, tutti siamo chiamati a partecipare; nessuno possiede la verità tutta intera, tutti dobbiamo umilmente cercarla, e cercarla insieme.

Insieme

Proprio la parola “insieme” esprime la chiamata alla comunione nella Chiesa. Papa Francesco ce lo ha ricordato anche nel suo ultimo Messaggio per la Quaresima: «Camminare insieme, essere sinodali, questa è la vocazione della Chiesa. I cristiani sono chiamati a fare strada insieme, mai come viaggiatori solitari. Lo Spirito Santo ci spinge ad uscire da noi stessi per andare verso Dio e verso i fratelli, e mai a chiuderci in noi stessi. Camminare insieme significa essere tessitori di unità, a partire dalla comune dignità di figli di Dio».

Camminare insieme. Apparentemente è quello che fanno i due personaggi della parabola che abbiamo appena ascoltato nel Vangelo. Il fariseo e il pubblicano salgono tutti e due al Tempio a pregare, potremmo dire che “salgono insieme” o comunque si ritrovano insieme nel luogo sacro; eppure, essi sono divisi e tra loro non c’è nessuna comunicazione. Tutti e due fanno la stessa strada, ma il loro non è un camminare insieme; tutti e due si trovano nel Tempio, ma uno si prende il primo posto e l’altro rimane all’ultimo; tutti e due pregano il Padre, ma senza essere fratelli e senza condividere nulla.

Ciò dipende soprattutto dall’atteggiamento del fariseo. La sua preghiera, apparentemente rivolta a Dio, è soltanto uno specchio in cui egli guarda sé stesso, giustifica sé stesso, elogia sé stesso. Egli «era salito per pregare; ma non volle pregare Dio, bensì lodare sé stesso», sentendosi migliore dell’altro, giudicandolo con disprezzo e guardandolo dall’alto in basso. È ossessionato dal proprio io e, in tal modo, finisce per ruotare intorno a sé stesso senza avere una relazione né con Dio e né con gli altri.

Quando l’io prevale sul noi

Fratelli e sorelle, questo può succedere anche nella Comunità cristiana. Succede quando l’io prevale sul noi, generando personalismi che impediscono relazioni autentiche e fraterne; quando la pretesa di essere migliori degli altri, come fa il fariseo col pubblicano, crea divisione e trasforma la Comunità in un luogo giudicante ed escludente; quando si fa leva sul proprio ruolo per esercitare il potere e occupare spazi.

È al pubblicano, invece, che dobbiamo guardare. Con la sua stessa umiltà, anche nella Chiesa dobbiamo tutti riconoscerci bisognosi di Dio e bisognosi gli uni degli altri, esercitandoci nell’amore vicendevole, nell’ascolto reciproco, nella gioia del camminare insieme, sapendo che «il Cristo appartiene a coloro che sentono umilmente, non a coloro che si innalzano al di sopra del gregge».

Le équipe sinodali e gli organi di partecipazione sono immagine di questa Chiesa che vive nella comunione. E oggi vorrei esortarvi: nell’ascolto dello Spirito, nel dialogo, nella fraternità e nella parresìa, aiutateci a comprendere che, nella Chiesa, prima di qualsiasi differenza, siamo chiamati a camminare insieme alla ricerca di Dio, per rivestirci dei sentimenti di Cristo; aiutateci ad allargare lo spazio ecclesiale perché esso diventi collegiale e accogliente.

Dialogo

Questo ci aiuterà ad abitare con fiducia e con spirito nuovo le tensioni che attraversano la vita della Chiesa – tra unità e diversità, tradizione e novità, autorità e partecipazione –, lasciando che lo Spirito le trasformi, perché non diventino contrapposizioni ideologiche e polarizzazioni dannose. Non si tratta di risolverle riducendo l’una all’altra, ma di lasciarle fecondare dallo Spirito, perché siano armonizzate e orientate verso un discernimento comune. Come équipe sinodali e membri degli organismi di partecipazione sapete infatti che il discernimento ecclesiale richiede «libertà interiore, umiltà, preghiera, fiducia reciproca, apertura alle novità e abbandono alla volontà di Dio. Non è mai l’affermazione di un punto di vista personale o di gruppo, né si risolve nella semplice somma di pareri individuali». Essere Chiesa sinodale significa riconoscere che la verità non si possiede, ma si cerca insieme, lasciandosi guidare da un cuore inquieto e innamorato dell’Amore.

Umiltà

Carissimi, dobbiamo sognare e costruire una Chiesa umile. Una Chiesa che non sta dritta in piedi come il fariseo, trionfante e gonfia di sé stessa, ma si abbassa per lavare i piedi dell’umanità; una Chiesa che non giudica come fa il fariseo col pubblicano, ma si fa luogo ospitale per tutti e per ciascuno; una Chiesa che non si chiude in sé stessa, ma resta in ascolto di Dio per poter allo stesso modo ascoltare tutti. Impegniamoci a costruire una Chiesa tutta sinodale, tutta ministeriale, tutta attratta da Cristo e perciò protesa al servizio del mondo.

Su di voi, su noi tutti, sulla Chiesa sparsa nel mondo, invoco l’intercessione della Vergine Maria con le parole del Servo di Dio don Tonino Bello: «Santa Maria, donna conviviale, alimenta nelle nostre Chiese lo spasimo di comunione. […] Aiutale a superare le divisioni interne. Intervieni quando nel loro grembo serpeggia il demone della discordia. Spegni i focolai delle fazioni. Ricomponi le reciproche contese. Stempera le loro rivalità. Fermale quando decidono di mettersi in proprio, trascurando la convergenza su progetti comuni».

 Amore

Ci conceda il Signore questa grazia: essere radicati nell’amore di Dio per vivere in comunione tra di noi. Ed essere, come Chiesa, testimoni di unità e di amore.

 

KatoliKey

FARISEI o PUBBLICANI?


 DOMENICA XXX 

DEL TEMPO ORDINARIO (C) 

 26 Ottobre 2025

  

Sir 35,12-15b-17.20.22a; Sal 33 (34); 2Tm 4,6-8.16-18; Lc 18,9-14


 Commento di M. Augé B.

Il Signore ascolta il grido dei poveri, degli umili, di coloro che hanno il cuore ferito, e li salva da tutte le loro angosce. La speranza dei poveri si compie in Cristo; san Luca fa cominciare la missione di Gesù con la citazione di Is 61,1: “mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio” (Lc 4,18).

 C’è una certa continuità tra le letture della domenica scorsa e quelle odierne; è ancora il tema della preghiera, infatti, che ritorna con insistenza, sia pure da un particolare angolo visuale, che è quello della speciale attenzione che Dio rivolge alla preghiera dell’umile e del povero. La prima lettura ci ricorda che Dio è giusto; non v’è presso di lui preferenze di persone e, quindi, non può essere né comprato, né corrotto. Davanti a lui non contano le apparenze. Egli esaudisce chi con umiltà e amore lo supplica. L’insegnamento della parabola del fariseo e del pubblicano, riportata dal vangelo, si muove sulla stessa linea: il pubblicano, che si riconosce umilmente peccatore, torna a casa giustificato; il fariseo, che si vanta delle sue opere e disprezza gli altri, non viene invece giustificato. Nella seconda lettura ascoltiamo san Paolo che, ormai al termine della sua vita, ne fa un bilancio fiducioso e sereno e si affida al Signore, giusto giudice, che gli darà la corona di giustizia. La società in cui viviamo esalta i potenti, i forti, coloro che con la loro attività hanno raggiunto denaro, sicurezza e prestigio. Sono essi ad avere successo ed a diventare i modelli a cui facciamo volentieri riferimento. Presso Dio invece è il povero, l’oppresso e l’umile che ha garanzia di successo. I criteri di valutazione appaiono rovesciati. Dio non misura con le misure umane. Egli guarda il cuore dell’uomo.            

 Il vangelo di questa domenica ci ammonisce a lasciare un po’ di spazio al Signore, a non presumere, a non pretendere, a non passare il tempo ad elencare i nostri meriti. Siamo tutti nudi davanti a Dio, tutti mendicanti. La giustificazione, cioè la salvezza, non è certo frutto della nostra giustizia, né delle nostre risorse di creature. La giustificazione è anzitutto un dono, è una grazia che viene dalla misericordia di Dio. Afferma san Giovanni che il cristiano non è figlio di Dio per nascita (Gv 1,13) ma perché è rinato, perché è stato rigenerato dall’alto mediante lo Spirito (Gv 3,5-8). Nella nostra vita tutto è dono, tutto è grazia. San Paolo riconosce che “per grazia di Dio” è quello che è (1Cor 15,10). D’altra parte, l’orazione colletta ci ricorda che per ottenere il dono di Dio, dobbiamo amare ciò che egli comanda; la giustificazione chiama in causa l’uomo che con la sua libertà è chiamato a corrispondere al dono di Dio. Infatti, la giustificazione non è un atto magico che avviene ineluttabilmente ma una azione che inserisce la nostra libertà in una situazione nuova originata dal dono di Dio.

 L’eucaristia è la mensa alla quale il Cristo invita i poveri, i piccoli e gli umili come al convito del regno di Dio (cf. Mt 5,3; Lc 6,20). Prima di avvicinarci alla comunione proclamiamo con il centurione del vangelo: “O Signore, non sono degno di partecipare alla tua mensa: ma dì soltanto una parola e io sarò salvato” (cf. Mt 8,8). Ma l’eucaristia è anche il massimo della azione salvifica del Risorto e la anticipazione della condizione definitiva del salvato.

Liturgia e dintorni

Immagine


TAGLIO E CUCITO


 Quando interrogo gli altri studenti si distraggono.

 Schettini: “Non state lì a fare taglio e cucito”

 

Di redazione

 C’è chi, mentre l’insegnante interroga, abbassa lo sguardo e si isola. Sfoglia il diario, stacca la mente, comincia a giocare con penne e fogli. Vincenzo Schettini, insegnante di fisica, osserva la scena e interviene: “Aprite gli occhi quando siete a posto, non state lì a fare il taglio e il cucito.” Il riferimento è chiaro: l’interrogazione non è una pausa per chi non è coinvolto direttamente.

 Secondo Schettini, il momento in cui un compagno è alla lavagna rappresenta una possibilità preziosa anche per chi resta al banco. “L’interrogazione per voi che siete a posto è orocolato.” Lo dice due volte, con insistenza. Come a voler sottolineare che lì, proprio in quel frangente, si concentra un’occasione didattica che spesso viene ignorata.

Le domande sono sempre quelle, ma pochi le ascoltano

Dopo quasi vent’anni di insegnamento, Schettini si sorprende ancora nello scoprire che certi errori si ripetono. “Voi cadete sempre sulle stesse cose.” E la causa, secondo lui, è nella distrazione di fondo, nel non approfittare di ciò che si potrebbe apprendere indirettamente.

“Facciamo sempre le stesse domande, nelle quali naturalmente si ragiona”, spiega. Ma se l’attenzione non c’è, quei passaggi chiave non arrivano. Si perdono. E il giorno in cui tocca rispondere, si cade nello stesso punto.

Apprendimento doppio, se si è presenti

Il ragionamento si allarga: quello che si studia in fisica ha spesso legami con altri ambiti. Anche la matematica. E Schettini usa una metafora per rendere chiaro il concetto: “È un due per uno, è un supermercato.” Si impara un concetto, ma se ne porta a casa anche un altro.

Ciò che spiega alla lavagna oggi, lo riproporrà molte altre volte: “Questa roba che sto chiedendo oggi alla lavagna, io la chiederò altre centocinquanta miliardi di volte.” Insistere, riprendere, consolidare: fa parte del mestiere dell’insegnante. Ma ascoltare resta responsabilità di chi apprende.

Non basta esserci, bisogna esserci davvero

Lo dice senza alzare la voce, ma con fermezza: “Aprite gli occhi, provate a farla voi, ah, ho capito, sta facendo questo, non vi distraete.” Il problema non è il silenzio. È l’assenza di connessione. Schettini non chiede attenzione passiva. Chiede presenza attiva. La capacità di seguire anche quando non si è al centro.

E in fondo, è un invito a cambiare postura in classe. A trasformare ogni momento in una possibilità. Anche l’interrogazione di qualcun altro.

Orizzonte Scuola


sabato 25 ottobre 2025

DEMOCRAZIA A RISCHIO ?

 





di  Giuseppe Savagnone 

 

Il passaggio del Rubicone

La democrazia in Italia è a rischio? Lo scontro su questo tema è divampato dopo che la segretaria del Pd, Elly Schlein, parlando al Congresso del Partito socialista europeo, ad Amsterdam, ha collegato l’atto intimidatorio nei confronti del conduttore di Report Sigfrido Ranucci al clima di odio creato dal governo: «La democrazia è a rischio, la libertà di parola è a rischio, quando l’estrema destra è al governo»

«Siamo al puro delirio», ha replicato alla premier su internet. E poi, parlando alla Camera: «Sono tentativi di gettare fango e ombre sull’Italia che l’Italia rischia di pagare, mentre noi siamo tutti pagati per rappresentare al meglio questa nazione».

Inutile dire quale tempesta abbiano suscitato le parole della segretaria del Pd sulle prime pagine dei quotidiani vicini al governo. Ma anche commentatori di area moderata sono stati molto critici. Come Antonio Polito che, in un editoriale sul «Corriere della sera», ha scritto: «Se ad Amsterdam ci fosse un Rubicone, Elly Schlein l’avrebbe varcato.».

Sull’episodio è intervenuto, in una intervista al «Corriere della sera», anche Sabino Cassese: «Quando Schlein ha detto che la democrazia è a rischio mi sono cadute le braccia», ha detto. Quanto alla minaccia alla democrazia, ha chiesto ironicamente: «Qualcuno ha visto i carri armati davanti alla Rai o La7?».

L’autorevole costituzionalista ha anche aggiunto una valutazione decisamente positiva dell’evoluzione in senso democratico che Meloni ha saputo imprimere, col suo pragmatismo, alla destra italiana, e l’ha definita «la migliore allieva di Togliatti», che in passato ha fatto la stessa operazione con la sinistra.

Una delegittimazione reciproca

Che dire davanti a questo scontro frontale? Una prima osservazione è che l’attribuzione, sia pure indiretta, al governo dell’attentato a Ranucci, in assenza di qualunque indizio, è stata del tutto fuori luogo. E tuttavia un’anima di verità si può trovare nella denunzia fatta da Schlein nel suo discorso: «È chiaro cosa stanno facendo: propaganda ogni giorno. Alimentano un clima di divisione, polarizzazione e odio».

È un dato di fatto che ultimamente, soprattutto dopo l’assassinio avvenuto in America di Charlie Kirk, rappresentanti del governo e stampa di destra hanno cercato di stabilire un’analogia con quanto, nella loro ricostruzione, era accaduto oltreoceano, denunciando una minaccia eversiva che in realtà non c’è neanche negli Stati Uniti, ma meno che mai nel nostro paese. Il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Luca Ciriani, dopo aver evocato con indignazione le critiche dell’opposizione al ministro Tajani e alla premier, le ha collegate ad atteggiamenti a suo avviso giustificazionisti dell’omicidio di Kirk da parte di «qualche intellettuale» della sinistra: «Sono gli stessi ragionamenti che si sentivano ai tempi delle Brigate rosse», ha dichiarato. E ha concluso: «Questo è il clima che si sta creando in questo Paese».

Sulla stessa linea Giorgia Meloni che, nel suo intervento alla festa nazionale dell’UDC, il 13 settembre, ha anche lei utilizzato l’omicidio di Kirk per attribuire alla sinistra – che in realtà quell’omicidio lo aveva dal primo momento chiaramente condannato senza mezzi termini – la responsabilità di uno stile di violenza antidemocratica: «Credo che sia arrivato il momento di chiedere conto alla sinistra italiana di questo continuo minimizzare o addirittura di questo continuo giustificazionismo della violenza nei confronti di chi non la pensa come loro – ha scandito la premier – . Perché il clima anche qui in Italia sta diventando insostenibile ed è ora di denunciarlo».

Una denuncia che assume spesso i tratti del vittimismo nel continuo riferimento a  non meglio precisati ricatti a cui la premier ripete di non voler cedere e a minacce – anch’esse non specificate – da cui promette di non lasciarsi intimidire. Come nella trasmissione del fidato Bruno Vespa, al quale ha confidato: «Temo il clima che si sta imbarbarendo parecchio. Io non conto più le minacce di morte».

In questo contesto si colloca la gravissima accusa, rivolta alla sinistra durante un comizio a Firenze, di essere «più fondamentalista di Hamas». Poi in parlamento la premier ha ricordato, sempre con toni sprezzanti – «per chi conosce la lingua italiana» – che il termine “fondamentalista” non è sinonimo di “terrorista”. Ma di solito sono accoppiati ed è stata lei a fare il paragone con Hamas, in cui il fondamentalismo e il terrorismo si fondono.

E aver messo la sinistra, legittima opposizione democratica, sullo stesso piano di  violenti assassini, dopo averla continuamente accusata di alimentare un clima di odio insostenibile e aver denunciato innumerevoli «minacce di morte» nei propri confronti, non può non assumere un preciso significato, almeno nella risonanza sull’opinione pubblica, che nessuna spiegazione filologica può attenuare. Forse Polito avrebbe dovuto citare anche questo come un passaggio del Rubicone.

Una concezione di fondo diversa da quella democratico-liberale

Alla radice di questa insofferenza alle critiche, che le identifica immediatamente con l’odio e la violenza, vi è in realtà un’idea che Giorgia Meloni, pur sinceramente allontanatasi ormai dalle sue originarie posizioni neo-fasciste, ha conservato impressa nella sua mente e che ha espresso nella risposta alle accuse di Schlein: attaccare il governo «vuol dire gettare fango e ombre sull’Italia».

È estranea alla nostra premier e alla maggioranza che la sostiene la consapevolezza che, in uno Stato liberal-democratico, l’esecutivo sia solo un organo, tra gli altri, chiamato a collaborare con essi per realizzare il bene comune. Per loro lo Stato si identifica con chi è al potere. La grande, fondamentale novità, rispetto alla visione totalitaria, è che il potere a sua volta deriva dal popolo mediante libere elezioni. Ma quella che ne deriva è una democrazia autoritaria.

Perché, in una visione liberal-democratica, neppure aver vinto le elezioni autorizza chi governa a fare ciò che vuole. La maggioranza ha il compito di prendere le decisioni, ma deve alla minoranza le giustificazioni delle sue scelte, in un libero confronto e non a colpi di decreti legge. A questo confronto la nostra premier si sottrae sistematicamente, sia evitando quanto più possibile di affrontare personalmente il dibattito in parlamento, sia disertando le conferenze stampa (come quest’ultima sulla legge di bilancio, abbandonata dopo poche battute). Il che rivela, tra l’altro, dietro la maschera di “lady di ferro”, una intima fragilità.

In una vignetta più espressiva di qualsiasi editoriale, dedicata alla seduta parlamentare sul caso Almasri, Giannelli ha rappresentato i ministri Nordio e Piantedosi mentre, in piedi, dietro il banco del governo, cercano di ripararsi dalla pioggia di mele e uova marce proveniente dall’aula. Al centro, fra di loro, la sedia vuota della premier, che però in realtà è rannicchiata, nascosta dietro di essa, mentre risponde al telefono e dice, a chi le chiede una dichiarazione: «Mi dispiace, ora non posso»

Da qui anche la polemica costante nei confronti della magistratura, accusata di sabotare l’opera del governo senza averne il diritto, perché non eletta dal popolo. La formula ripetuta ad ogni occasione è che, se i giudici vogliono intervenire sulle questioni pubbliche, devono prima candidarsi e farsi eleggere in parlamento. Senza tenere conto che nella nostra Costituzione, a differenza che nel modello rousseauiano, il consenso popolare non ha un ruolo assoluto e ha dei limiti precisi in organi come la magistratura, che non dipendono da esso.

Da qui la concezione delle cariche istituzionali non come destinate a rappresentare tutti, anche i dissenzienti – nella logica di un bene comune che deve essere raggiunto anche col loro apporto – ma come armi da usare contro i “nemici”. In questa logica, lo stile della premier e di tutto il governo somiglia molto a quello di una continua campagna elettorale desinata a sconfiggere gli oppositori.

Forse più che alla scuola di Togliatti la nostra premier ha studiato a quella di Orbán – modello di stabilità, con i suoi dodici anni di premierato – e, ultimamente, a quella di Donald Trump, la cui continua battaglia con i “nemici interni” lo porta a dispiegare l’esercito per controllare le città governate dai democratici.

In questa logica, a dispetto della retorica nazionalista che proclama il primato degli italiani, i partiti di governo, nel parlamento europeo, hanno votato per revocare l’immunità di Ilaria Salis e riconsegnarla alla “giustizia” ungherese. Salis era stata tenuta in carcere – ancora prima del giudizio! –  per ben undici mesi, in condizioni gravemente lesive della sua più elementare dignità, come ha potuto constatare il mondo intero, vedendola condotta in aula in catene e con un collare al collo. La minaccia che incombeva era di una condanna a 24 anni di carcere per avere (cosa che lei nega) causato a due (uomini) neonazisti lesioni guaribili rispettivamente in 5 e 8 giorni. Davanti a questo quadro, molti parlamentari non italiani di destra hanno rifiutato di avallare questa evidente persecuzione. I nostri no. Perché la Salis era di sinistra e dunque, una nemica dell’Italia.

Una nuova forma di partecipazione

Alla luce di questa prospettiva culturale, prima ancora che politica, si capisce il comportamento della presidente del Consiglio di fronte alle imponenti manifestazioni popolari, in cui centinaia di migliaia di persone, di tutte le età, di tutte le origini economiche e culturali, chiedevano al governo di cambiare linea nei confronti del governo israeliano, accusato da autorevoli fonti di genocidio. La reazione è stata di ignorarle, commentando con indignazione solo le immagini dei tafferugli scatenati da poche centinaia di estremisti davanti alla stazione di Milano.

E, quel ch’è forse peggio, una parte consistente della stampa e delle televisioni ha abbracciato questa lettura. Come il nostro più diffuso e autorevole quotidiano, il «Corriere della sera», che ha riassunto questa grande prova di partecipazione democratica, svoltasi in più di 80 città italiane, nel grande tutolo: «Guerriglia a Milano per Gaza».

Non sono i carri armati evocati ironicamente da Cassese. Ma, tra giornali di estrema destra (in Italia sono sette), quotidiani moderati molto accomodanti nei confronti del governo (come nel caso appena citato), televisioni di Stato controllate sempre dal governo, televisioni private di destra, l’opinione pubblica nella sua stragrande maggioranza è ormai orientata univocamente in una precisa direzione. E si vede dai sondaggi, che danno Meloni stabilmente al 44% dei consensi, avallando l’immagine in gran parte falsata che essa offre del paese, dopo tre anni di governo.

A dispetto di tutto questo, una forma di critica  – ben più significativa ed efficace di quella spesso poco incisiva e poco propositiva delle opposizioni – ha trovato modo esprimersi a partire dal basso, nelle manifestazioni di cui prima si parlava, le più massicce viste da decine di anni. Ma è ancora una partecipazione che non trova riscontro a livello istituzionale. Le ultime elezioni regionali hanno confermato la crescita esponenziale dell’astensionismo, già registrata in quelle politiche e in quelle europee con il risultato che, alla fine la famosa «fiducia» del popolo, vantata dai governanti, si riduce alla metà della metà dei cittadini.

L’Italia va verso la fine della democrazia? Non certo con un ritorno a forme dittatoriali. Su questo Cassese ha ragione. Ma il rischio è di vedere gradualmente svuotata la democrazia liberal-democratica, prevista dalla nostra Costituzione, basata sul primato del parlamento e sul dialogo, a favore del modello rappresentato da Orbán e da Trump – nei cui confronti Meloni esprime continuamente la sua ammirazione e a cui guarda come ai suoi modelli – , che è quello che chiamavamo “democrazia autoritaria”.

La sola alternativa è risvegliare la sensibilità e la coscienza delle centinaia di migliaia di persone che sono scese in piazza, riportandole a scoprire l’importanza decisiva della forma politico-istituzionale della partecipazione. Qualcuno dirà che è un’utopia. Ma le utopie sono i sogni di cui abbiamo assoluto bisogno per immaginare il futuro e trasformare il presente.

 www.tuttavia.eu

 

 

venerdì 24 ottobre 2025

IBRAHIMA

 


«Io, sopravvissuto, vi dico che quel memorandum

porta solo morte»


La lettera-denuncia di Ibrahima, 

lo, studente e attivista, 

che si è salvato

 dalle atrocità dei lager libici.


«L'accordo Roma-Tripoli è contro la dignità delle persone, chiedo all'Italia di non collaborare più a questa catena di violenza».

Caro direttore, sono Ibrahima Lo, un giovane di ventisei anni, originario del Senegal e residente in Italia da un decennio.

Con questa lettera ad “Avvenire”, rivolgo un appello alle Autorità italiane in qualità di cittadino residente, scrittore e attivista, ma soprattutto come testimone diretto di una crisi umanitaria che interpella l’etica e i valori fondanti della nostra Repubblica.

È in nome dei valori di umanità e responsabilità che ritengo doveroso rivolgermi a Voi, quali organi decisionali e morali della Repubblica, affinché le mie riflessioni sul concetto di dignità umana e sul futuro della nostra Nazione possano trovare ascolto e considerazione, nella speranza di individuare insieme ipotesi operative che portino beneficio a tutti coloro che vivono in questo Paese.

La questione che mi sta più a cuore è il Memorandum d’Intesa Italia-Libia.

Sono sopravvissuto alle atrocità che si consumano quotidianamente all’interno dei cosiddetti “lager libici”.

Porto nel mio vissuto, nella memoria e sul corpo i segni indelebili di quella violenza, ferite che il tempo non potrà mai cancellare completamente.

Negli anni, ho preso la ferma decisione di trasformare questi segni in un messaggio di speranza, un monito affinché il cuore di ogni cittadino non si rassegni all’indifferenza.

Da questa profonda necessità è scaturita la mia attività di scrittore, e il mio primo libro, intitolato eloquentemente Pane e Acqua, ne è la prima, lacerante testimonianza.

Nonostante la notorietà degli orrori in Libia, si osserva con profonda inquietudine come l’Italia continui a cooperare in questa catena di violenza, inviando motovedette a criminali libici che ogni giorno intercettano e imprigionano persone.

Si continua inoltre a sostenere chi in mare ostacola le navi della Civil Fleet – come le recenti aggressioni subite da Mediterranea Saving Humans e Sos Méditerranée – il cui unico crimine è quello di salvare vite in pericolo nel Mar Mediterraneo.

È imperativo, Onorevoli Istituzioni, riconoscere che nel Mare Nostrum si sta consumando una guerra. Non si tratta di un conflitto in cui risuona l’eco delle bombe o si vedono carri armati, ma di una guerra silenziosa e di sterminio, dove le vittime sepolte sotto il livello del mare possono comporre interi cimiteri.

Pur mantenendo una distanza fisica, ogni giorno bambini, donne e uomini urlano chiedendo aiuto prima di annegare, ma queste urla restano inascoltate.

Ho vissuto l’orrore di questa condizione quando avevo sedici anni, a bordo di un gommone insieme ad altre centodiciannove persone.

La Libia è un luogo dove la violenza è sistematica, dove le donne vengono stuprate quotidianamente, dove regnano paura e disperazione.

Il mio secondo libro, La mia voce, raccoglie storie che narrano la cruda realtà di queste esperienze.

L’Italia, mantenendo questo accordo, si trova in una posizione di potenziale complicità: si continua a finanziare, accogliere e collaborare con criminali che perpetuano la cattura di persone nel mare e nel deserto, le rinchiudono nei lager e le uccidono fisicamente e psicologicamente, trattando la vita umana non come un bene sacro, ma come un “gioco”.

In Libia non esistono né democrazia, né sicurezza, né libertà; esiste solo una violenza disumana.

Ne sono testimoni le cicatrici sul mio corpo, che continuano a “sanguinare” non solo per il trauma personale, ma perché mi ricordano costantemente le persone assassinate davanti ai miei occhi, la violenza inaudita inflitta nei lager libici a uomini, donne e bambini.

Le mie cicatrici portano con sé i loro nomi.

È una responsabilità che dobbiamo onorare, operando affinché quelle voci soffocate possano, un giorno, cantare tra i banchi di scuola o divenire nuove, preziose risorse per un Paese come il nostro, che ha sempre saputo onorare l’accoglienza.

Il Memorandum, Onorevoli Rappresentanti, non risolve il problema dell’immigrazione, ma uccide l’umanità, generando solo più morti nel Mediterraneo e lasciando ferite che non guariranno mai.

Ringraziando per la Vostra cortese attenzione e per la considerazione che vorrete riservare a queste mie parole, porgo i miei più sentiti e cordiali saluti.

www.avvenire.it


 

 

EDUCAZIONE E INTELLIGENZA ARTIFICIALE

 


Pier Cesare Rivoltella  

a Didacta Trentino 

a Riva del Garda


“Educazione digitale 

e intelligenza artificiale:

 visioni pedagogiche, 

questioni tecnologiche”: 

Nel seminario “Educazione digitale e intelligenza artificiale: visioni pedagogiche, questioni tecnologiche”, Pier Cesare Rivoltella, professore ordinario di Didattica e Tecnologie dell'educazione presso l'Università di Bologna e coordinatore scientifico del Tavolo per l’aggiornamento del Piano provinciale, per la scuola digitale e intelligenza artificiale, ha offerto una riflessione critica sulle sfide e le opportunità che le tecnologie generative pongono al sistema educativo contemporaneo. L’incontro, avvenuto oggi a Riva del Garda in occasione della manifestazione Didacta Trentino, ha rappresentato un’occasione di confronto aperto tra mondo accademico e docenti, per esplorare le nuove frontiere dell’educazione nell’era dell’intelligenza artificiale. Ha concluso i lavori il prof. Giuseppe Rizza sovrintendente scolastico provinciale e coordinatore organizzativo del medesimo Tavolo provinciale che ha sottolineato l’importanza dell’iniziativa per gli spunti e le riflessioni offerte.

L’avvento e la rapida diffusione dell’Intelligenza Artificiale stanno segnando una svolta profonda nel modo in cui la scuola e il mondo dell’educazione affrontano il rapporto tra conoscenza, rappresentazione e verità.

Le nuove intelligenze artificiali, capaci di produrre testi e immagini sempre più verosimili e indipendenti dal loro referente reale, obbligano infatti a ripensare il legame tra immagine e realtà: ciò che si vede o si legge non è più garanzia di autenticità, ma il risultato di una costruzione mediata da algoritmi e dataset.

In questo contesto, anche il compito del debunking cambia natura: non basta più verificare le fonti o smascherare il falso, ma occorre sviluppare un’autentica educazione percettiva e simbolica, volta a comprendere come il reale venga oggi modellato dai sistemi artificiali.

La prospettiva pedagogica - ha sottolineato Rivoltella - è chiamata a un duplice compito:

  • promuovere un pensiero critico capace di interrogare la spiegabilità delle macchine, comprendendo i criteri, i limiti e le logiche che governano la produzione algoritmica del sapere;
  • affrontare le implicazioni della datificazione e dell’invisibilità dei processi che strutturano l’esperienza digitale.

Educare nell’epoca dell’intelligenza artificiale significa dunque rendere visibili le condizioni della conoscenza, restituire all’apprendimento una dimensione riflessiva e consapevole, e coltivare la responsabilità di abitare tecnologie che incidono sempre più sulla nostra percezione del mondo e su ciò che intendiamo per verità” – ha concluso l’esperto.

 Didacta

DALL'IO AL NOI

 


All’interno di ciascuna chiesa e tra le chiese occorre sempre passare dall’io al noi,

e imparare a pensare

 «con» l’altra chiesa,

 non senza o contro

 o davanti o sopra o prima di essa.


- di Luciano Manicardi

Papa Francesco ha ricordato che durante il Giubileo sarebbe caduta la ricorrenza dei «1.700 anni dalla celebrazione del primo grande Concilio ecumenico, quello di Nicea», e ha sottolineato che «Nicea rappresenta un invito a tutte le chiese e comunità ecclesiali a procedere nel cammino verso l’unità visibile» (Spes non confundit 17). In particolare, ha sottolineato l’importanza del riunirsi, della sinodalità, che fin dal Nuovo Testamento è la pratica ecclesiale della comunione: «L’Anno giubilare potrà essere un’opportunità importante per dare concretezza alla forma sinodale». E il documento finale del Sinodo dei vescovi ribadisce che «il dialogo ecumenico è fondamentale per sviluppare la comprensione della sinodalità e dell’unità della Chiesa» (Per una chiesa sinodale: comunione, partecipazione, missione 138). Una prima lezione «ecumenica» che ci viene da Nicea riguarda dunque la sinodalità, sia nel senso generalmente accolto di «cammino fatto insieme», in derivazione da synodía, «gruppo di persone che fanno strada insieme», sia nel senso di «varcare la stessa soglia», e quindi «riunirsi», in derivazione da syn-ὀdos, con ὀdos con lo spirito dolce, che nel greco classico indica la soglia della casa. 

Nelle chiese e tra le chiese sono presenti differenze sul piano dottrinale e disciplinare, liturgico e spirituale, si verificano tensioni, conflitti, a volte strappi e lacerazioni. Il riunirsi per discutere le differenti posizioni, per conoscersi, per appianare le divergenze, per ricucire gli strappi, è la via ecclesiale per perseguire, costruire, sanare la comunione. E anzitutto per creare relazioni e passare dal sospetto alla fiducia. A Nicea (certo, per convocazione dell’imperatore) si verificò il convergere in un’unica assemblea di capi di chiese provenienti da tutto l’impero, anche se i vescovi occidentali furono pochi rispetto agli orientali. E lì si incontrarono e scontrarono tradizioni diverse che prima raramente avevano avuto occasione di interagire. 

I concili ecumenici

Più che per i risultati raggiunti (significativi ma non risolutivi), Nicea è importante per la modalità dell’evento stesso «che apre la strada all’esperienza dei concili detti ecumenici» (Fabio Ruggiero). Il conflitto su una questione dottrinale che, nella chiesa di Alessandria, divideva il vescovo Alessandro dal presbitero Ario, fu portato a Nicea per giungere a una soluzione. Ovvero, è meglio scontrarsi parlandosi che lasciare che le cose precipitino: le differenze che dividono i cristiani vanno affrontate riunendosi, ascoltandosi, esponendo le proprie posizioni, discutendo per giungere a una decisione. Comune ascolto, comune discussione, comune consultazione, comune deliberazione: ecco il metodo sinodale. Tommaso d’Aquino dirà che lo Spirito agisce «nelle assemblee»: il dialogo è la via spirituale per cercare un consenso tra i cristiani. 

Ma sinodalità è anche camminare e non stancarsi di riprendere il cammino. La fine del Concilio di Nicea non significò la fine dei problemi: la condanna della posizione di Ario non chiuse la crisi ariana e l’arianesimo si diffuse ancora per tutto il V secolo; il simbolo di Nicea fu ripreso e completato nel Concilio di Costantinopoli del 381; la data della Pasqua decisa a Nicea non chiuse la querelle che è ancora oggi una questione ecumenica aperta. Ovvero, la fine di un Concilio è l’inizio della fase della sua ricezione. Il cammino sinodale non termina con la chiusura dei lavori assembleari e con la stesura di un documento. Anche decisioni prese sono rimesse in discussione dagli eventi e, nel frattempo, i cambiamenti storici possono richiedere adattamenti e correzioni delle stesse. 

Inoltre, il riunirsi-camminare insieme esige la costruzione del soggetto plurale «noi». La formulazione del simbolo di Nicea si apre con la confessione di fede al plurale: Crediamo. All’interno di ciascuna chiesa e tra le chiese occorre sempre passare dall’io al noi, e imparare a pensare con l’altro e con l’altra chiesa, non senza o contro o davanti o sopra o prima. In quanto simbolo universale sottoscritto da tutti (o quasi) i vescovi, il simbolo di fede niceno è una novità. Anche un simbolo di fede è opera umana, è debitore di un periodo storico, di una cultura e di una lingua particolari, è forzatamente datato. E l’espressione linguistica del mistero non è mai il mistero stesso: Dio non è la sua definizione linguistica. Se a Nicea si risolse la questione posta da Ario circa la natura del Figlio ricorrendo al termine non scritturistico homoousios («della stessa sostanza»), cioè con un’opera di inculturazione, questo compito interpella ancora oggi le chiese tutte chiamate a discernere i segni dei tempi e ad annunciare Gesù Cristo agli uomini e alle donne del XXI secolo. Perché il criterio autentico della Tradizione non è nel passato, ma nel futuro, è escatologico, è il Regno di Dio verso cui tutte le chiese sono in cammino.

Messaggero di Sant'Antonio

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