venerdì 21 novembre 2025

IL DIALOGO E L'ABUSO

 

Il dialogo antidoto all’abuso del digitale

La sfida del digitale coinvolge in primo luogo il destino dei giovani, ma deve essere affrontata dagli adulti.


- di Giuseppe Savagnone 

Il grido d’allarme dei pediatri

Ha trovato ben poco spazio sulle prime pagine dei nostri quotidiani l’allarme lanciato dalla Società Italiana di Pediatria (SIP), che ha presentato al Senato, il 19 novembre scorso, le nuove raccomandazioni sull’uso dei dispositivi digitali in età evolutiva, in piena sintonia con quelle dell’American Academy of Pediatrics e della Canadian Society of Pediatrics.

A conferma del fatto che si tratta di un problema attualissimo, che mette in questione, alla radice, l’identità antropologica degli uomini e delle donne del prossimo futuro, non solo in Italia, ma in tutto il mondo occidentale e che meriterebbe, perciò, una maggiore attenzione, a livello sia privato che pubblico, per trovare insieme soluzioni condivise.

Che la situazione attuale evidenzi un abuso è sotto i nostri occhi. Lo confermano le statistiche. Una recente indagine italiana, aggiornata all’aprile 2024, dimostra che circa il 70% delle famiglie con figli di età compresa tra 0 e 2 anni ammette di utilizzare dispositivi digitali durante i pasti dei propri bambini.

Che questo crei nei piccoli un’abitudine lo dimostra il fatto che, secondo i dati di Save the Children, aggiornati al dicembre 2024, in Italia il 44,6 % dei bambini tra i 6 e i 10 anni e il 78 % dei ragazzi tra gli 11 e i 13 anni usa Internet tutti i giorni. E il 41% della fascia 11/13 anni (il 47,1 % nel caso delle ragazze) frequenta i social.

Per quanto riguarda in particolare gli smartphone, 3 bambini su 10 usano il cellulare quotidianamente e la metà dei quattordicenni lo utilizza più di sei ore al giorno.

Decisiva è stata la pandemia. Rispetto ai livelli pre-pandemici il tempo medio giornaliero di esposizione agli schermi di TV, smartphone, tablet e computer risulta raddoppiato.

Di fronte a questo quadro, di cui tutti abbiamo conferma nell’esperienza di ogni giorno, le direttive dei pediatri – come si diceva, non solo italiani – suonano drastiche e ci mettono tutti in crisi.

Eccone alcune fondamentali:

a.      nessun dispositivo prima dei 2 anni; limitare a meno di un’ora al giorno tra i 2 e i 5 anni e a meno di due ore dopo i 5 anni, sempre sotto supervisione adulta;

b.     evitare accesso non supervisionato a internet prima dei 13 anni;

c.      ritardare l’uso dei social media, idealmente fino ai 18 anni;

d.     rinviare l’introduzione dello smartphone personale almeno fino ai 13 anni;

e.      evitare l’uso dei dispositivi durante i pasti e prima di dormire;

Le possibili conseguenze di un uso indiscriminato

Trasgredire queste regole non viola nessuna legge, ma significa danneggiare in modo spesso irreversibile i nostri figli. 

Ci sono già problemi fisici. Utilizzare eccessivamente il cellulare, ma anche la TV, il tablet, il pc e le console per i videogiochi, fa aumentare vertiginosamente la sedentarietà a discapito dell’attività fisica, favorendo l’obesità. La luce blu emanata dagli schermi dei dispositivi elettronici può essere la causa, a lungo termine, di seri problemi visivi, a volte irreparabili. E troppo spesso i più piccoli si lasciano distrarre dai social network o dai giochi che hanno sul cellulare fino ad ora tarda, a discapito del sonno.

Altrettanto serie sono le possibili conseguenze negative a livello psicologico. Una è l’incapacità di concentrarsi. Numerosi studi dimostrano che l’esposizione a una quantità sempre maggiore di messaggi e di stimoli rende difficile a molti giovani prestare attenzione per un lungo periodo a un discorso o a un impegno. Nei soggetti più giovani, i cui cervelli sono in via di sviluppo, ciò implica modifiche nelle aree cerebrali legate all’attenzione e alla comprensione, con conseguenti ritardi cognitivi, compreso quello dell’apprendimento.

Ma c’è anche il pericolo di una dipendenza morbosa da questi strumenti, con conseguenti fenomeni di smarrimento psicologico quando, per un qualche motivo, se ne viene privati. Se poi sono le scelte degli adulti a determinare questa privazione, non è raro che si scatenino moti incontrollati di rabbia e di disperazione.

Ma gli effetti più problematici sono quelli che riguardano la sfera relazionale dei giovani. A parte il risvolto patologico del cyberbullismo, in forte crescita, il rischio gravissimo a cui espone l’uso indiscriminato di TV, tablet, pc e smartphone è l’esonero dal rapporto con dei soggetti umani in carne ed ossa e la conseguente perdita del difficile ma necessario confronto quotidiano con quello che un filosofo contemporaneo, Emmanuel Levinas, chiama «il volto dell’Altro», indicando in esso la sorgente a cui dobbiamo sempre riferirci per capire noi stessi e il mondo.

Non è un caso che la diffusione dei media elettronici si accompagni, pur senza esserne la causa, alla crescita esponenziale del fenomeno – registrato la prima volta in Giappone negli anni Settanta e poi diffusosi nel nostro paese, come in tutti quelli più economicamente e tecnologicamente  evoluti – degli Hikikomori, quei giovani tra i 15 e i 30 anni che a un certo punto scelgono di ritirarsi dalla vita sociale, chiudendosi nella propria stanza ed evitando i rapporti con altre persone, inclusi i familiari, per limitarsi a comunicare solo virtualmente, mediante Internet e il cellulare.

Anche senza arrivare a queste forme estreme, la tendenza all’autoreferenzialità è sicuramente favorita dall’uso continuo degli strumenti elettronici. In un’epoca non lontana, se si entrava in una stanza dove dei giovani si trovavano insieme, li si trovava a parlare a scherzare, a ridere tra di loro. Oggi è frequente che, in una identica situazione, essi siano assorti ciascuno nello scorrere il proprio cellulare, alla ricerca di messaggi ricevuti e intenti a mandarne.

La perdita del senso della realtà

Ancora più alla radice, conseguenze profonde sta avendo sui giovani l’abitudine di accostarsi alla realtà attraverso lo schermo. Perché quest’ultimo è certamente un medium che consente di collegarsi al mondo intero, ma è anche – in un altro senso – una difesa, come quando si parla di “fasi schermo con le mani” alla troppa luce. Lo schermo è il luogo ove possiamo assistere in diretta a vicende liete o drammatiche che si svolgono a migliaia di chilometri da noi. Ma è grazie ad esso che noi siamo immunizzati dalle ripercussioni emotive di drammi – come quelli delle guerre a Gaza e in Ucraina – che, se li vivessimo “in presenza” ci sconvolgerebbero e che invece possiamo seguire tranquillamente seduti in poltrona o a tavola, mentre mangiamo. Lo schermo ci rende spettatori. Ci immunizza dalla realtà.

Senza dire del pericolo che i più giovani si imbattano in aspetti fondamentali di quest’ultima – come la sfera sessuale – attraverso un rappresentazione distorta e morbosa, ricevendo una iniziazione perversa che può segnarli per tutta la vita.

In particolare, il pericolo delle immagini virtuali riguarda i videogiochi, molto spesso imperniati sulla eliminazione violenta di nemici in battaglie immaginarie. Col pericolo di non distinguere più chiaramente la violenza che si impara ad usare per gioco, su uno schermo, da quella che, esercitata nella vita reale, può trasformare il gioco in tragedia.

Dai divieti alla ricoperta del dialogo tra le generazioni

Il problema è che non bastano i divieti a sventare questi pericoli. Le regole già oggi sembrano destinate ad essere sistematicamente travolte dalla realtà. E, per quanto mossi da validissime ragioni, i genitori che vogliono applicarle inflessibilmente nell’educazione dei loro figli rischiano di trovarsi davanti ad effetti peggiori del male. 

Perché, in una società dove la socializzazione passa anche e soprattutto attraverso questi dispositivi, i bambini che non partecipano alle conversazioni digitali tra pari rischiano di sentirsi isolati o esclusi.

Il nodo della questione è, piuttosto, la capacità degli adulti di riscoprire e  di esercitare, anche sotto questo profilo, la loro funzione educativa. In primo luogo con la testimonianza. Un padre, una madre, che a tavola, invece di parlare tra loro e con i loro figli delle esperienze della giornata, usano o controllano continuamente il cellulare, non possono certo pretendere dai più giovani che non facciano lo stesso. E, se si tratta di bambini, posteggiarli davanti a un tablet per farli stare tranquilli, invece di parlare e giocare con loro, è una strategia che prepara gli eccessi futuri.

Più in generale, è un costante dialogo tra i genitori e dei genitori con i figli il migliore antidoto all’uso sbagliato dei dispositivi elettronici.  È questo stile  comunicativo che oggi difetta nelle nostre famiglie. E ciò dipende da un modo sbagliato, da parte degli adulti, di voler bene ai più piccoli.

Lo notava Matteo Lancini, docente universitario di psicologia nelle università milanesi di Bicocca e Cattolica e presidente della Fondazione Minotauro: «In verità a mancare è l’ascolto dei figli. I giovani sono molto soli davanti agli adulti. Oggi vanno su internet per ridurre la sensazione di solitudine che sperimentano ogni giorno con gli adulti, che invece di chiedersi perché accade tutto ciò si limitano a impedire l’utilizzo dei social», senza rendersi conto che non bastano le regole restrittive a colmare il vuoto di cui loro stessi sono la causa.

Si provvede a soddisfare tutti i bisogni consumistici dei figli, li si colma di regali,  ma non si trova il tempo di fermarsi per “stare” con loro e lasciarsi coinvolgere nel loro mondo, divenendone partecipi. In realtà, solo così sarà possibile da un lato accompagnarli con rispetto nelle loro esperienze, dall’altro iniziarli, anche attraverso il gioco creativo, ad attività all’aperto, sport, lettura, che, fin da piccoli, possono insegnare a ridimensionare il tempo passato davanti allo schermo e a cercare relazioni reali, piuttosto che solo virtuali, anche con i coetanei.

Sulla base di questo rapporto dialogico tra le generazioni non suonerà come una forzatura e tanto meno come una imposizione anche quella supervisione che, soprattutto nel caso dei più giovani, gli adulti devono  con discrezione esercitare sull’uso di Intenet e dei cellulari, educando ad un uso corretto sia nei tempi e nelle modalità, sia nella selezione dei contenuti. Perché , anche in questo, come in tanti altri casi, non si tratta di difendersi dalla tecnica, ma di valorizzarne le enormi potenzialità positive neutralizzando, con un opportuno discernimento,  quelle negative.

A questo sforzo educativo può molto contribuire la scuola. Le recenti polemiche sulla decisione del ministro Valditara di escludere i cellulari dalle aule hanno il limite di restare all’alternativa secca tra l’ammissione e l’esclusione di questi dispositivi, senza cerare insieme quali modalità possano garantire una educazione al loro corretto uso, sia a scuola che fuori. Anche qui la sola via praticabile può essere quella di un rapporto autentico tra gli insegnanti e gli alunni, che vada oltre la logica  angusta dei divieti  e dei permessi, in vista di un impegno comune.

La sfida del digitale coinvolge in primo luogo il destino dei giovani, ma deve essere affrontata dagli adulti. Al di là delle regole, si tratta di educare a uno stile comunicativo che, a sua volta, implica una profonda revisione dei modelli di vita oggi vigenti.

È un impegno arduo. Ma i nostri figli non ci perdonerebbero mai se cercassimo di eluderlo.

 www.tuttavia.eu 





PRIMA LA PERSONA

 L’altro esiste quando

 accettiamo di vederlo,

 incontrarlo, ascoltarlo.


Occorre riconoscere l’essere umano piuttosto che etichettare come «povero» e «mendicante». 


Occorre dare voce a chi non ce l’ha 

e dare visibilità a chi è invisibile. 



di  Luciano Manicardi

 

«Speranza invoco... per i miliardi di poveri che mancano del necessario per vivere. Di fronte al susseguirsi di sempre nuove ondate di impoverimento, c’è il rischio di abituarsi e rassegnarsi. Ma non possiamo distogliere lo sguardo da situazioni tanto drammatiche, che si riscontrano ormai ovunque… Incontriamo persone povere o impoverite ogni giorno e a volte possono essere nostre vicine di casa» (Spes non confundit 15). 

Le parole di papa Francesco operano un primo passaggio importante: da una categoria a una persona, dai «poveri» al «povero della porta accanto». Che le condizioni di indigenza materiale, relazionale, culturale, spirituale, possano segnare pesantemente l’esistenza di una persona, è innegabile, ma sforzo di chi si avvicina al povero è di ribellarsi a questa espropriazione dell’identità per relazionarsi con una persona, un volto, un nome, una storia precisa. I «miliardi di poveri», proprio per la smisuratezza a cui fanno riferimento, restano una cifra che ci ammutolisce, che ci lascia con un senso di impotenza e di ineluttabile. L’incontro con la concreta persona che ha perso il lavoro, che non riesce a mantenere la famiglia, che è stata sfrattata, che si trova nell’isolamento dopo una rottura coniugale, con il senza casa, con l’immigrato…, ci tocca e interpella e può operare una trasformazione del nostro cuore. Perché Cristo stesso ci visita nella carne del povero (cf. Mt 25,31-46). 

Così vediamo un secondo passaggio che papa Francesco indica: dal «povero» a «noi». Invece di fare dei «poveri» un oggetto di discorso, occorre accettare di farci giudicare da essi: la loro autorità escatologica (ancora Mt 25,31-46), pone in crisi il nostro comportamento nei loro confronti. E di fronte a chi vive situazioni di deprivazione che attentano alla sua piena umanità possiamo cadere nell’abitudine, nella rassegnazione e distogliere lo sguardo. Altrove ha detto papa Francesco: «Non si tratta di buttare una moneta sulle mani di quello che ha bisogno. A chi dà l’elemosina io domando: ‘Tocchi le mani della gente o butti la moneta senza toccarle? Guardi negli occhi la persona che aiuti o guardi da un’altra parte?”» (Messa per la VIII Giornata Mondiale dei Poveri, 2024). Spesso abita in noi, inconfessata e inconfessabile, l’idea del povero come segnato da una inferiorità, da una condizione di minore umanità rispetto a noi. Per guarire da questa patologia occorre riconoscere l’uomo dietro alle etichette: «povero», «rifugiato», «immigrato», «mendicante», «richiedente asilo»… Il che significa che non si tratta solamente di dare aiuti economici o alimentari o logistici, ma anche tempo, ascolto, presenza, parola. Cioè entrare in relazione. Perché il povero non è anzitutto un povero ma una persona. 

Resta la domanda per noi: vediamo la persona che il povero è? Un episodio della vita del poeta Rainer Maria Rilke dice che, quando abitava a Parigi, ogni giorno usciva di casa e si imbatteva in una mendicante cui dava regolarmente un’elemosina. Un giorno le diede non denaro, ma una rosa e la povera donna si illuminò ed esclamò, piena di gioia: «Mi ha vista! Mi ha vista!». Il rischio di un’azione in favore dei poveri che fa molto per l’altro senza vederlo, è sempre in agguato. Il cardinal Martini, nella Farsi prossimo (n. 86), scrive che occorre «dare una voce a chi non ha voce, scoprendo le forme sempre nuove di povertà che stentano a farsi notare e a farsi soccorrere». Occorre dunque anche dare visibilità a chi è invisibile. L’altro esiste quando accetto di vederlo, incontrarlo, ascoltarlo. Ma spesso esso resta invisibile, come Lazzaro che giaceva alle porte della casa del ricco che viveva nel lusso e non muoveva un dito per lui (Lc 16,19-31). 

Il romanzo afroamericano di Ralph Ellison Uomo invisibile si apre con queste parole scioccanti: «Io sono un uomo invisibile… Sono invisibile perché la gente si rifiuta di vedermi… Quando gli altri si avvicinano, vedono solo quel che mi sta intorno, o se stessi, o delle invenzioni della loro fantasia, ogni e qualsiasi cosa, insomma, tranne me… L’invisibilità di cui parlo... dipende dalla struttura dei loro occhi interni, quelli cioè coi quali, attraverso gli occhi corporei, guardano la realtà». Come dimenticare che fu anche a partire dalla meditazione della parabola evangelica del «ricco e Lazzaro» e dall’impressione profonda che produsse in lui, che Albert Schweitzer andò in Africa dove costruì l’ospedale di Lambaréné (Gabon)? Egli, infatti, vedeva l’Africa come un povero Lazzaro alle porte della ricca Europa. Il Vangelo ha aperto i suoi occhi e portato Schweitzer a vedere e a toccare Cristo e a prendersene cura nei poveri.

Messaggero di Sant'Antonio

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TESTIMONI DI FRATERNITA'


Leone XIV: «In 10 parole la forza del Vangelo

 Così nasce la vera pace»

Un nuovo libro firmato dal Pontefice con una serie di interventi sui concetti chiave della fede. Nel testo inedito che introduce l’opera, l’invito ai cristiani a essere testimoni di fraternità


«Dio non è né un essere magico né un mistero inconoscibile, si è fatto vicino a noi in Gesù, che ci unisce al di là delle nostre personalità, delle nostre provenienze culturali e geografiche, della nostra lingua»

Dieci parole. Non sono tante dieci parole, ma possono iniziare un discorso sulla ricchezza della vita cristiana. Così, per cominciarlo, di queste dieci parole vorrei sceglierne tre, come avvio di un immaginario dialogo con quanti leggeranno queste pagine: Cristo, comunione, pace.

A un primo sguardo, possono sembrare termini slegati, non conseguenti tra loro. Ma non è così. Essi si possono intrecciare in una relazione che vorrei con voi, cari lettori, qui approfondire, perché ne possiamo insieme cogliere la novità e la significanza.

Anzitutto, la centralità di Cristo. Ogni battezzato ha ricevuto il dono dell’incontro con Lui. È stato raggiunto dalla sua luce e dalla sua grazia. La fede è proprio questo: non lo sforzo titanico di raggiungere un Dio soprannaturale, bensì l’accoglienza di Gesù nella nostra vita, la scoperta che il volto di Dio non è lontano dal nostro cuore. Il Signore non è né un essere magico né un mistero inconoscibile, si è fatto vicino a noi in Gesù, in quell’Uomo nato a Betlemme, morto a Gerusalemme, risorto e vivo oggi. Oggi!

E il mistero del cristianesimo è che questo Dio desidera unirsi a noi, farsi prossimo a noi, diventare nostro amico. Così che noi diventiamo Lui. Sant’Agostino scrive: «Capite, fratelli? Vi rendete conto della grazia che Dio ha profuso su di noi? Stupite, gioite: siamo diventati Cristo! Se Cristo è il capo e noi le membra, l’uomo totale è Lui e noi» (Sant’Agostino, Commento al Vangelo di Giovanni, 21,8). La fede cristiana è partecipazione alla vita divina tramite l’esperienza dell’umanità di Gesù. In Lui Dio non è più un concetto o un enigma, bensì una Persona a noi vicina. Agostino ha sperimentato tutto ciò nella conversione, toccando con mano la forza dell’amicizia con Cristo che ha cambiato radicalmente la sua vita: «Dov’ero quando ti cercavo? Tu eri davanti a me, ma io mi ero allontanato da me e non mi ritrovavo. Tanto meno ritrovavo Te» (Sant’Agostino, Confessioni, V,2,2).

Cristo, inoltre, è principio di comunione. Tutta la sua esistenza è stata contrassegnata da questa volontà di essere ponte: ponte tra l’umanità e il Padre, ponte tra le persone che incontrava, ponte tra Lui e quanti erano ai margini. La Chiesa è questa comunione di Cristo che continua nella storia. Ed è una comunità che nell’unità vive la diversità. Agostino ricorre a un’immagine, quella di un giardino, per illustrare la bellezza di una comunità di fedeli che fa delle proprie diversità una pluralità che tende all’unità, e che non scade nel disordine della confusione: «Possiede, fratelli, quel giardino del Signore, possiede non solo le rose dei martiri, ma pure i gigli delle vergini e le edere dei coniugi e le viole delle vedove. In una parola, dilettissimi, in nessuno stato di vita gli uomini dubitino della propria chiamata: Cristo è morto per tutti. Con tutta verità, di Lui è stato scritto: “Egli vuole che tutti gli uomini siano salvi e che tutti giungano alla conoscenza della verità” ( 1Tm 2,4)» (Sant’Agostino, Discorsi,

304,3). Questa pluralità diventa comunione nell’unico Cristo. Gesù ci unisce al di là delle nostre personalità, delle nostre provenienze culturali e geografiche, della nostra lingua e delle nostre storie. L’unità che Egli stabilisce tra i suoi amici è misteriosamente feconda e parla a tutti: «La Chiesa consta di tutti coloro che sono in concordia con i fratelli e che amano il prossimo» (Sant’Agostino, Discorsi, 359,9). Di questa concordia, di questa fraternità, di questa prossimità i cristiani

possono e devono essere testimoni nel mondo d’oggi, segnato da tante guerre. Ciò non dipende solo dalle nostre forze, ma è dono dall’Alto, regalo di quel Dio che, con il suo Spirito, ci ha promesso di essere sempre al suo fianco, vivo accanto a noi: «Tanto uno ha lo Spirito Santo, quanto ama la Chiesa». (Sant’Agostino, Commento al Vangelo di Giovanni, 32,8,8).

La Chiesa, casa di popoli diversi, può diventare segno che non siamo condannati a vivere in perenne conflitto e può incarnare il sogno di un’umanità riconciliata, pacificata, concorde. È un sogno che ha un fondamento: Gesù, la sua preghiera al Padre per l’unità dei suoi. E se Gesù ha pregato il Padre, tanto più noi dobbiamo pregarlo perché ci conceda il dono di un mondo pacificato.

E, infine, da Cristo e dalla comunione, la pace. Che non è frutto della sopraffazione né della violenza, non è imparentata con l’odio né con la vendetta. È il Cristo che, con le piaghe della sua Passione, incontra i suoi dicendo: « Pace a voi». I santi hanno testimoniato che l’amore vince la guerra, che solo la bontà disarma la perfidia e che la nonviolenza può annientare la sopraffazione. Dobbiamo guardare in faccia il nostro mondo: non possiamo più tollerare ingiustizie strutturali per cui chi più ha, ha sempre di più, e viceversa chi meno possiede, sempre più diventa impoverito. L’odio e la violenza rischiano, come un piano inclinato, di tracimare finché la miseria si espande tra i popoli: proprio il desiderio di comunione, il riconoscerci fratelli, è antidoto a ogni estremismo. Padre Christian de Chergé, il priore del monastero di Tibhirine, beatificato insieme ad altri diciotto religiosi e religiose martiri in Algeria, dopo aver vissuto l’esperienza dell’incontro faccia a faccia con dei terroristi, ha avuto da Cristo, nella comunione con Lui e con tutti i figli di Dio, il dono di scrivere parole che ci parlano ancora oggi, perché vengono da Dio. Domandandosi quale preghiera avrebbe potuto rivolgere al Signore dopo una prova così difficile, parlando di chi aveva invaso con la violenza il monastero, scrisse: «Ho il diritto di domandare “disarmalo”, se non comincio a domandare “disarmami” e “disarmaci”, come comunità?

È la mia preghiera quotidiana». Proprio nella stessa terra del Nordafrica, circa 1.600 anni prima, Agostino rimarcava: «Viviamo bene e i tempi saranno buoni. Noi siamo i tempi» (Sant’Agostino, Discorsi, 80,8). Il nostro tempo lo possiamo segnare noi, con la testimonianza, con la preghiera allo Spirito Santo perché ci renda uomini e donne contagiosi di pace, accogliendo la grazia di Cristo e spargendo nel mondo il profumo della sua carità e misericordia. «Noi siamo i tempi»: non facciamoci prendere dallo sconforto di fronte alla violenza cui assistiamo; chiediamo a Dio Padre, ogni giorno, la forza dello Spirito Santo per far brillare nelle oscurità della storia la fiamma viva della pace.

Leone XIV

© LIBRERIA EDITRICE VATICANA

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giovedì 20 novembre 2025

BAMBINI NEL MONDO


 

SCHIACCIATI 

TRA GUERRA 

E POVERTA' 

In base al report “Minori e ferite da esplosione: l'impatto devastante delle armi esplosive sui bambini", diffuso da Save the Children, questi ordigni sono stati responsabili del 70% dei quasi 12mila minori uccisi o feriti nelle zone di guerra lo scorso anno, a causa dei conflitti che si spostano sempre più nelle aree urbane. 

Nel 2025 118 milioni hanno sofferto la fame e oltre 48 milioni sono vittime di disastri climatici.

 In Europa negli ultimi cinque anni 446mila bambini in più colpiti dalla povertà. In Italia sono 1,28 milioni i minori in povertà assoluta

di Redazione

Save the Children traccia un bilancio della situazione dei bambini nel mondo, sempre più colpiti da conflitti, malnutrizione, crisi climatica e povertà.

Le armi esplosive mietono vittime tra i bambini a livelli senza precedenti. In base al report “Minori e ferite da esplosione: l’impatto devastante delle armi esplosive sui bambini“, diffuso oggi, questi ordigni sono stati responsabili del 70% dei quasi 12mila minori uccisi o feriti nelle zone di guerra lo scorso anno, a causa dei conflitti che si spostano sempre più nelle aree urbane. Questo dato è nettamente superiore a quello del periodo 2020-2024 (pari a una media di circa il 59%).  Per il 2024 i dati delle Nazioni Unite evidenziano che 4.676 bambini sono stati uccisi in zone di conflitto e 7.291 feriti, portando il totale delle vittime a 11.967. Si tratta del numero più alto mai registrato, in aumento del 42% rispetto alle 8.422 vittime infantili del 2020, con guerre sempre più urbanizzate, più distruttive e caratterizzate da una crescente impunità.

Per tre anni consecutivi, le forze governative sono state identificate come i principali responsabili di questi bambini morti e feriti, in gran parte a causa dell’uso di armi esplosive ad ampio raggio in aree densamente popolate. Gli esplosivi di fabbricazione statale causano ora il 54% delle morti e dei feriti tra i civili, rispetto al 17% del 2020. Dagli anni ’90, il numero di bambini e bambine che vivono sotto il peso della guerra è più che raddoppiato, raggiungendo oggi la cifra record di 520 milioni di bambini e adolescenti, oltre uno su cinque a livello globale presenti in zone di conflitto attivo, con un aumento del 30% delle gravi violazioni contro i minori nei conflitti accertate, con numeri record di uccisioni, mutilazioni, aggressioni sessuali e rapimenti.

Fame e sfruttamento: piaghe senza fine

Accanto a questi, tanti altri dati testimoniano come il mondo sia diventato un luogo terribilmente pericoloso per i minori, che vengono sempre più privati dei loro diritti.  Dei circa 118 milioni di bambini che hanno sofferto la fame nel 2025, quasi 63 milioni – oltre la metà – sono stati costretti a questa situazione dai conflitti, che rimangono la principale causa di fame nel mondo – dove addirittura a volte è utilizzata come arma di guerra. Sfollamenti, eventi climatici catastrofici, povertà estrema hanno aggravato le condizioni alimentari dei minori nel mondo. A livello globale la malnutrizione acuta è la causa di circa la metà dei decessi dei bambini e bambine sotto i 5 anni. A rendere più grave la situazione, ci sono stati i recenti tagli agli aiuti internazionali che stanno mettendo a rischio il sostegno a programmi fondamentali per la salute, la nutrizione e l’istruzione di milioni di bambini. Inoltre, nel mondo 1 persona su 4 in condizione di sfruttamento o schiavitù moderna è minorenne, pari a 12,3 milioni, mentre circa 48 milioni di minori all’anno, ovvero in media 136 mila al giorno, sono stati colpiti da disastri climatici negli ultimi 30 anni.

La povertà attanaglia l’Europa e l’Italia

Restringendo il campo a livello europeo, si registrano 446mila bambini in più – pari a una media di 244 bambini al giorno – colpiti dalla povertà in Europa negli ultimi cinque anni. L’Italia è al quintultimo posto in Ue per la percentuale di bambini a rischio povertà ed esclusione sociale, con il 27,1%, mentre i minori in povertà assoluta nel nostro Paese sono 1,28 milioni, il 13,8% del totale.  I diritti specifici dei bambini e degli adolescenti – da quello all’istruzione, alla protezione, al cibo e alla sicurezza dallo sfruttamento – sono ignorati e calpestati in moltissimi contesti, a causa dei conflitti, crisi umanitarie, povertà estrema o crisi climatiche, a causa dei quali bambini e bambine, ragazzi e ragazze non possono andare a scuola, devono abbandonare le loro case, cercare un futuro possibile altrove affrontando viaggi pericolosi, ricorrere a misure disperate per sopravvivere.  Save the Children chiede ai leader mondiali di fermare l’uso di armi esplosive nelle aree popolate e di proteggere i bambini nei conflitti. Più in generale, l’organizzazione sottolinea come sia necessaria un’inversione di tendenza dei governi e delle istituzioni, che portino a investire sull’infanzia, mettendo sempre la protezione, i bisogni e i diritti dei più piccoli al centro dell’agenda politica della comunità internazionale. 

AP Photo/Abdel Kareem Hana/Associated Press/LaPresse

VITA

 

BAMBINI AL MACELLO


 Dichiarazione della Direttrice generale dell'UNICEF Catherine Russell


Da oltre 700 giorni, i bambini di Gaza vengono uccisi, mutilati e sfollati in una guerra devastante che è un affronto alla nostra comune umanità. Gli attacchi israeliani su Gaza City e su altre parti della Striscia di Gaza continuano. Il mondo non può e non deve permettere che questo continui.

Negli ultimi due anni, secondo le notizie, un numero sconcertante di 64.000 bambini sono stati uccisi o mutilati in tutta la Striscia di Gaza, tra cui almeno 1.000 appena nati. Non sappiamo quanti altri siano morti a causa di malattie prevenibili o siano sepolti sotto le macerie.

La carestia persiste a Gaza City e si sta diffondendo verso sud, dove i bambini vivono già in condizioni disastrose. La crisi legata alla malnutrizione, soprattutto tra gli infanti, rimane drammatica. Mesi senza cibo adeguato hanno causato danni permanenti alla crescita e allo sviluppo dei bambini.

La necessità di un cessate il fuoco non potrebbe essere più urgente. Da sabato mattina, secondo le notizie, almeno 14 bambini sono stati uccisi, mentre i bombardamenti da parte di Israele continuano a colpire Gaza City e altre zone.

L’UNICEF accoglie con favore tutti gli sforzi volti a porre fine alla guerra e a stabilire un percorso verso la pace a Gaza e nella regione. Qualsiasi piano deve portare a un cessate il fuoco, al rilascio degli ostaggi e al passaggio sicuro, rapido e senza ostacoli degli aiuti umanitari – attraverso tutti i valichi e le rotte disponibili – nella misura estremamente necessaria per tutti gli abitanti di Gaza, soprattutto i bambini.

Il diritto internazionale umanitario è chiaro: chiediamo a Israele di garantire la piena protezione della vita di tutti i civili. Negare l'assistenza umanitaria ai civili è inequivocabilmente proibito. I principi di distinzione, proporzionalità e precauzione devono guidare tutte le azioni militari e i civili che non possono, non vogliono o scelgono di non evacuare le zone di combattimento rimangono civili e devono essere sempre protetti.

Ogni bambino ucciso è una perdita insostituibile. Per il bene di tutti i bambini di Gaza, questa guerra deve finire ora.

INFANZIA A RISCHIO

 


Giornata Mondiale dell’Infanzia


 e dell’Adolescenza 2025

 

Il 20 novembre 2025 si celebra la Giornata Mondiale dell’Infanzia e dell’Adolescenza.

 Redazione

 Il 20 novembre 2025 si celebra la Giornata Mondiale dell’Infanzia e dell’Adolescenza, istituita nel 1954 per sostenere i diritti fondamentali di bambini/e e adolescenti. Nel 1959, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha adottato la Dichiarazione dei diritti del fanciullo e nel 1989 si è adottata la Convenzione Internazionale delle Nazioni Unite sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza. Tale documento è fondamentale in quanto per la prima volta i bambini e gli adolescenti non sono solo individui da proteggere, ma sono considerati persone con le loro opinioni, con una propria dignità e con diritti specifici.

Questa data è pertanto ogni anno un’occasione per promuovere la consapevolezza sui diritti fondamentali dei bambini, come il diritto alla vita, allo sviluppo, all’educazione e al benessere e per ribadire l’importanza della loro tutela in tutto il mondo.

Gli ultimi dati UNICEF sulla situazione dell’infanzia e dell’adolescenza nel mondo sono però allarmanti, a causa degli oltre 60 conflitti in atto e dei cambiamenti climatici. Oltre 473 milioni di bambini — cioè più di 1 bambino su 6 nel mondo — vivono in aree colpite da conflitto, un numero che ha raggiunto uno dei livelli più alti mai registrati. I conflitti compromettono decisamente l’accesso all’istruzione, alla salute e alla nutrizione (118 milioni di bambini nel mondo soffrono di malnutrizione).

Per quanto concerne l’educazione, si stima che 85 milioni di bambini non frequentino la scuola. Inoltre, spesso le infrastrutture scolastiche sono inesistenti, danneggiate o distrutte nelle zone di conflitto o colpite da disastri naturali.

Le sfide da affrontare sono molteplici e spesso si sovrappongono, come nel caso dei conflitti, dei cambiamenti climatici e della povertà. Le risorse finanziarie sono insufficienti davanti alle esigenze sempre maggiori da affrontare, mentre la mancanza di azioni a livello di infrastrutture per l’istruzione, la sanità, la protezione dei bambini mette a rischio non solo il presente ma anche il futuro delle nuove generazioni.

Per affrontare tali sfide, il VIDES Internazionale è da sempre in prima linea nella difesa e nella promozione dei diritti dei bambini e dei giovani, con una particolare attenzione ai contesti in cui tali diritti vengono più frequentemente violati. A testimonianza di questo impegno costante, nel 2025 si è concluso l’importante progetto “Keeping Families Together II”, promosso dal VIDES Internazionale e finanziato dalla Fondazione GHR. L’iniziativa ha rappresentato un traguardo significativo nel campo della protezione dei minori e della tutela del diritto dei bambini a crescere all’interno di un nucleo familiare sicuro, sereno e amorevole. Nel corso del progetto, suore e membri dello staff sono stati formati per rispondere in modo adeguato ai bisogni emotivi e psicologici dei bambini separati dalle proprie famiglie. Laddove possibile, è stato favorito il loro reinserimento in un contesto familiare, creando, in stretta collaborazione con le famiglie di origine, le condizioni per un ambiente accogliente e capace di sostenere lo sviluppo e il benessere dei minori. Parallelamente, il VIDES Internazionale ha adottato una propria Child Protection Policy, che sancisce l’impegno dell’organizzazione nel garantire il pieno rispetto e la tutela dei bambini e dei giovani in ogni ambito della sua azione.

Accanto al VIDES Internazionale, la FVGS ETS, opera fin dalla sua fondazione in Asia, Africa, America Latina ed Europa per garantire ai bambini più vulnerabile il diritto allo studio e a un’alimentazione equilibrata. Infatti, attraverso il Sostegno a Distanza, la FVGS raggiunge ogni anno migliaia di minori garantendo loro la possibilità di andare a scuola e costruirsi un futuro migliore. Inoltre, è presente sul territorio con progetti e microprogetti di sviluppo per sostenere le realtà locali in particolar modo le necessità dei bambini più vulnerabili.

Oggi più che mai il VIDES Internazionale e la Fondazione FVGS sono convinti dell’importanza di operare con lo scopo di realizzare quanto scritto nel Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia e dell’adolescenza: “Occorre preparare pienamente il fanciullo ad avere una vita individuale nella società, ed educarlo nello spirito degli ideali proclamati nella Carta delle Nazioni Unite, in particolare in uno spirito di pace, di dignità, di tolleranza, di libertà, di uguaglianza e di solidarietà”.

 Giornata infanzia

mercoledì 19 novembre 2025

I. A. SAGGEZZA E DEMOCRAZIA

 

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Il contenuto generato dall'IA potrebbe non essere corretto.

«Nell’IA va prevista la saggezza by design»

 

De Caro e Giovanola nel loro saggio “Intelligenze” propongono un approccio basato sull’etica della virtù per le macchine e chi interagisce con esse Privacy, equità, opacità del funzionamento, problemi per sicurezza e occupazione.

Sono tante le questioni cruciali poste alle politiche pubbliche, che chiedono risposte

De Caro: «Il rischio, più che esistenziale, è che amplifichi crisi e disinformazione»

Giovanola: «La sfida non è tanto capire come i sistemi ci trasformino, ma l’influenza reciproca.

 E valutare l’impatto sulla democrazia»

 

-di ANDREA LAVAZZA


Il futuro con l’intelligenza artificiale è roseo o cupo? La domanda è ormai all’ordine del giorno e le risposte che vengono proposte variano lungo un ampio spettro. Spesso, tuttavia, sono poco meditate, quando non improvvisate. Un volume appena pubblicato ha il pregio di provare a indagare con competenza, chiarezza e concisione l’IA come possibile soggetto etico e come fattore capace di trasformare il nostro agire. Si tratta del lavoro di Mario De Caro e Benedetta Giovanola, Intelligenze. Etica e politica dell’IA (il Mulino, pagine 174, euro 18,00). Abbiamo dialogato con gli autori, rispettivamente professore di Filosofia morale all’Università Roma Tre e alla Tufts University di Boston, e professoressa di Filosofia morale all’Università di Macerata e titolare della Cattedra Jean Monnet EDIT.

Un tema cruciale per i nuovi sistemi di IA, ma anche un’affascinante questione filosofica, è la comprensione che essi hanno del linguaggio naturale. I chatbot capiscono davvero? Che cosa sappiamo oggi e quali sarebbero le implicazioni di una risposta affermativa? De Caro: «Oggi c’è forte disaccordo sull’idea che i chatbot, come ChatGPT, Gemini, Claude, DeepSeek e così via, comprendano il linguaggio. Non c’è dubbio che passino il test di Turing ovvero, linguisticamente si comportano come ci comporteremmo noi -, ma per molti ciò non basta: la “comprensione” resta dunque in questione. Secondo l’esperimento mentale della “Stanza cinese” di John Searle, appena scomparso, i sistemi artificiali non fanno altro che manipolare simboli, imitando la nostra comprensione ma senza mai acquisirla veramente. Però altri (da Steven Pinker a Daniel Dennett, da Paul e Patricia Churchland a Ned Block) hanno argomentato che non c’è ragione per ritenere che la comprensione non possa emergere anche da basi non biologiche. Gli LLM apprendono da grandi corpora e da input multimodali e costruiscono efficaci modelli operativi del mondo, pur con limiti (come le allucinazioni, che tuttavia vanno diminuendo man mano che i modelli si affinano). Infine, nel libro sosteniamo che gli argomenti secondo cui ChatGPT & Co. sarebbero meri “pappagalli stocastici” non sono molto convincenti. In sintesi, se si ritiene che la comprensione richieda la coscienza - tesi su cui molti non sono d’accordo e nemmeno noi-, allora l’IA non può comprendere. In ogni caso, non è controverso che oggi si possa già parlare di comprensione funzionale, parziale e distribuita da parte dei sistemi artificiali».

L’intelligenza artificiale intesa come strumento solleva molti interrogativi etici in senso pieno, dalla privacy all’uguaglianza di opportunità. Qual è il problema emergente o ancora sottovalutato cui dovremmo prestare più attenzione?

Giovanola: «Un problema ancora sottovalutato, che però richiede grande attenzione, è quanto e come l’IA trasformi il nostro agire e le nostre capacità epistemiche: spesso il dibattito – anche pubblico – è impostato su presunte somiglianze o differenze tra l’intelligenza artificiale e l’intelligenza umana. Questa impostazione devia l’attenzione dalla vera sfida, ovvero comprendere come esseri umani e sistemi di IA possono interagire in modo proficuo, poiché l’essere umano, da sempre, trasforma il mondo che lo circonda ma, al contempo, trasforma se stesso attraverso ciò che produce. Inoltre, non comprendere questa relazione di reciproca influenza offusca un problema centrale e, al contempo, emergente: l’impatto dell’IA – dai sistemi di raccomandazione fino all’IA generativa – sulle nostre capacità cognitive ed epistemiche, ovvero sulla nostra fiducia nelle nostre capacità di comprendere il mondo, di distinguere vero e falso, di sapere scegliere cosa è bene per noi e per la società in cui viviamo».

Accostare l’IA alla politica costituisce una novità. Nel libro si esplorano i rischi, che appaiono concreti. Ma recenti sviluppi, come algoritmi per guidare i dibattiti e capaci di ridurre gli estremismi mostrando agli interlocutori diversi punti di vista, sembrano aprire scenari di ottimismo. Che bilancio si può fare?

Giovanola: « La teoria politica dell’IA è un campo emergente: troppo spesso si tende a ritenere l’IA un ambito politicamente neutrale, una questione solo o soprattutto tecnologica, caratterizzata da uno sviluppo inarrestabile, che sfugge a ogni tipo di controllo. Bisogna comprendere, invece, che l’IA è, oggi più che mai, una questione politica, che va gestita e governata. Di certo affidarsi all’ethics by design – garantendo, ad esempio, che gli algoritmi operino in direzione della diversificazione dei punti di vista piuttosto che dell’estremizzazione – è importante, ma da sola non può risolvere il problema. Occorre indagare le strutture di potere nella governance dell’IA e la legittimità di chi decide; bisogna riflettere sui rapporti tra attori privati (detentori dei dati e dell’infrastruttura tecnologica) e poteri pubblici; è, infine, necessario valutare l’impatto dell’IA sulla democrazia: rischi di influenza o manipolazione che sfruttano vulnerabilità cognitive ed emotive possono minare l’eguaglianza politica, sociale e morale».

Rendere “etici” fin dall’origine i sistemi di intelligenza artificiale sembra la via preferibile per scongiurare conseguenze negative del loro uso massiccio. Vi sono però problemi teorici prima ancora che tecnici. Potete riassumere la vostra originale proposta?

Giovanola: « La nostra proposta parte dal riconoscimento di un parallelismo tra l’evoluzione dei sistemi di IA e le trasformazioni dell’etica. I sistemi di IA si sono evoluti in direzione di modelli bottom-up o “post-simbolici”, che utilizzando le reti neurali artificiali si basano sull’apprendimento dai dati, sulla predizione, sul riconoscimento di pattern e su rappresentazioni contestuali del significato. Parallelamente, l’etica è passata da concezioni “generaliste” basate su principi generali, regole o leggi universali, ad approcci “contestualisti”, che sottolineano piuttosto l’importanza di comprendere le circostanze particolari in cui compiamo le nostre azioni. Muovendo da questo parallelismo, proponiamo di adottare la cosiddetta “etica della virtù”, un approccio contestualistico che consente sia di progettare sistemi di IA “saggi” by design (cioè fin dall’inizio, dalla progettazione) sia di promuovere la saggezza morale in coloro che interagiscono con tali sistemi».

Il pericolo esistenziale proveniente dall’intelligenza artificiale sembrerebbe lontano, eppure nel libro lo discutete all’inizio. Dovremmo essere già oggi preoccupati? Che tipo di scenari si possono ipotizzare?

De Caro: « Recentemente, una lettera di trecento luminari – tra cui dieci premi Nobel, inclusi Giorgio Parisi e Geoffrey Hinton, uno dei padri delle reti neurali artificiali – ha prospettato il rischio esistenziale con parole molto preoccupate (e preoccupanti): “L’IA ha un immenso potenziale per migliorare il benessere umano, ma la sua traiettoria attuale presenta pericoli senza precedenti. L’IA potrebbe presto superare di gran lunga le capacità umane e amplificare rischi quali pandemie ingegnerizzate, disinformazione su vasta scala, manipolazione massiva degli individui, compresi i bambini, problemi di sicurezza nazionale e internazionale, disoccupazione di massa e violazioni sistematiche dei diritti umani”. Data la diffusione capillare dell’IA, imporre vincoli etici ai sistemi artificiali è una sfida ardua ma non impossibile, indipendentemente dalla possibilità di ottenere la tanto discussa Intelligenza Artificiale Generale. È bene sottolineare, però, che, oltre a schiudere prospettive luminose in molti ambiti — a partire dalla medicina —, l’IA pone sfide più specifiche, oltre a quella esistenziale generale. Nel nostro libro, parliamo dei rischi riguardanti l’autonomia, la privacy, l’equità, la sostenibilità ambientale e sociale, oltre che del cosiddetto problema della explainability, ossia l’opacità del funzionamento dei sistemi artificiali. Inoltre, come detto, non vanno sottovalutati i rischi che la loro rapida ascesa comporta per la tenuta stessa dei meccanismi democratici».

Forse, più che macchine che ci distruggano volontariamente, dovremmo temere macchine intelligenti/ stupide che faranno tutto il nostro lavoro lasciandoci disoccupati, sufficientemente ricchi e senza scopi nell’esistenza. Cosa ne pensate?

De Caro: « Il rischio esistenziale posto dall’IA è presente – a prescindere dalla possibilità che essa diventi cosciente o “intelligente” in senso forte – proprio per la diffusione capillare che essa ha in ogni ambito della nostra vita. Il rischio di disoccupazione è reale e richiederà politiche pubbliche incisive e innovative. Più remoto ci pare, invece, il rischio di smarrire gli scopi dell’esistenza: nella storia, i valori etici e culturali hanno già attraversato e superato crisi profonde. Resta invece assai problematica l’idea che l’IA ci renda “sufficientemente ricchi”: il costante aumento dell’indice di Gini, che misura la disuguaglianza nella distribuzione del reddito e della ricchezza, indica che la crescita – in buona parte provocata proprio dall’avvento della nuova IA – si va sempre più concentrando soprattutto ai piani alti, con un incremento sproporzionato delle risorse dei super- ricchi. Il problema dell’equità sociale ed economica sarà una delle maggiori sfide dei prossimi anni».

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