La sfida del digitale coinvolge in primo luogo il destino dei giovani, ma deve essere affrontata dagli adulti.
- di Giuseppe Savagnone
Il grido d’allarme dei
pediatri
Ha trovato ben poco
spazio sulle prime pagine dei nostri quotidiani l’allarme lanciato
dalla Società Italiana di Pediatria (SIP), che ha presentato al Senato, il
19 novembre scorso, le nuove raccomandazioni sull’uso dei dispositivi digitali
in età evolutiva, in piena sintonia con quelle dell’American Academy of Pediatrics e della Canadian Society of Pediatrics.
A conferma del fatto che
si tratta di un problema attualissimo, che mette in questione, alla radice,
l’identità antropologica degli uomini e delle donne del prossimo futuro, non
solo in Italia, ma in tutto il mondo occidentale e che meriterebbe, perciò, una
maggiore attenzione, a livello sia privato che pubblico, per trovare insieme
soluzioni condivise.
Che la situazione attuale
evidenzi un abuso è sotto i nostri occhi. Lo confermano le statistiche. Una
recente indagine italiana, aggiornata all’aprile 2024, dimostra che circa il
70% delle famiglie con figli di età compresa tra 0 e 2 anni ammette di utilizzare
dispositivi digitali durante i pasti dei propri bambini.
Che questo crei nei
piccoli un’abitudine lo dimostra il fatto che, secondo i dati di Save the
Children, aggiornati al dicembre 2024, in Italia il 44,6 % dei bambini tra i 6
e i 10 anni e il 78 % dei ragazzi tra gli 11 e i 13 anni usa Internet tutti
i giorni. E il 41% della fascia 11/13 anni (il 47,1 % nel caso delle ragazze)
frequenta i social.
Per quanto riguarda in
particolare gli smartphone, 3 bambini su 10 usano il cellulare quotidianamente
e la metà dei quattordicenni lo utilizza più di sei ore al giorno.
Decisiva è stata la
pandemia. Rispetto ai livelli pre-pandemici il tempo medio giornaliero di
esposizione agli schermi di TV, smartphone, tablet e computer risulta
raddoppiato.
Di fronte a questo
quadro, di cui tutti abbiamo conferma nell’esperienza di ogni giorno, le
direttive dei pediatri – come si diceva, non solo italiani – suonano drastiche
e ci mettono tutti in crisi.
Eccone alcune
fondamentali:
a. nessun
dispositivo prima dei 2 anni; limitare a meno di un’ora al giorno tra i 2 e i 5
anni e a meno di due ore dopo i 5 anni, sempre sotto supervisione adulta;
b. evitare
accesso non supervisionato a internet prima dei 13 anni;
c. ritardare
l’uso dei social media, idealmente fino ai 18 anni;
d. rinviare
l’introduzione dello smartphone personale almeno fino ai 13 anni;
e. evitare
l’uso dei dispositivi durante i pasti e prima di dormire;
Le possibili conseguenze
di un uso indiscriminato
Trasgredire queste regole
non viola nessuna legge, ma significa danneggiare in modo spesso
irreversibile i nostri figli.
Ci sono già problemi
fisici. Utilizzare eccessivamente il cellulare, ma anche la TV, il
tablet, il pc e le console per i videogiochi, fa aumentare vertiginosamente la
sedentarietà a discapito dell’attività
fisica, favorendo l’obesità. La luce blu emanata dagli schermi dei
dispositivi elettronici può essere la causa, a lungo termine, di seri problemi
visivi, a volte irreparabili. E troppo spesso i più piccoli si lasciano
distrarre dai social network o dai giochi che hanno sul cellulare fino ad ora
tarda, a discapito del sonno.
Altrettanto serie
sono le possibili conseguenze negative a livello psicologico. Una è
l’incapacità di concentrarsi. Numerosi studi dimostrano che
l’esposizione a una quantità sempre maggiore di messaggi e di stimoli rende
difficile a molti giovani prestare attenzione per un lungo periodo a un
discorso o a un impegno. Nei soggetti più giovani, i cui cervelli sono in via
di sviluppo, ciò implica modifiche nelle aree cerebrali legate all’attenzione e
alla comprensione, con conseguenti ritardi cognitivi, compreso quello
dell’apprendimento.
Ma c’è anche il pericolo
di una dipendenza morbosa da questi strumenti, con conseguenti fenomeni di
smarrimento psicologico quando, per un qualche motivo, se ne viene privati. Se
poi sono le scelte degli adulti a determinare questa privazione, non è
raro che si scatenino moti incontrollati di rabbia e di disperazione.
Ma gli effetti più
problematici sono quelli che riguardano la sfera relazionale dei giovani. A
parte il risvolto patologico del cyberbullismo, in forte crescita, il rischio
gravissimo a cui espone l’uso indiscriminato di TV, tablet, pc e
smartphone è l’esonero dal rapporto con dei soggetti umani in carne ed
ossa e la conseguente perdita del difficile ma necessario confronto
quotidiano con quello che un filosofo contemporaneo, Emmanuel Levinas, chiama
«il volto dell’Altro», indicando in esso la sorgente a cui dobbiamo sempre
riferirci per capire noi stessi e il mondo.
Non è un caso che la
diffusione dei media elettronici si accompagni, pur senza esserne la causa,
alla crescita esponenziale del fenomeno – registrato la prima volta in Giappone
negli anni Settanta e poi diffusosi nel nostro paese, come in tutti quelli più
economicamente e tecnologicamente evoluti – degli Hikikomori,
quei giovani tra i 15 e i 30 anni che a un certo punto scelgono di
ritirarsi dalla vita sociale, chiudendosi nella propria stanza ed evitando i
rapporti con altre persone, inclusi i familiari, per limitarsi a
comunicare solo virtualmente, mediante Internet e il cellulare.
Anche senza arrivare a
queste forme estreme, la tendenza all’autoreferenzialità è sicuramente favorita
dall’uso continuo degli strumenti elettronici. In un’epoca non
lontana, se si entrava in una stanza dove dei giovani si trovavano
insieme, li si trovava a parlare a scherzare, a ridere tra di loro. Oggi è
frequente che, in una identica situazione, essi siano assorti ciascuno nello
scorrere il proprio cellulare, alla ricerca di messaggi ricevuti e intenti a
mandarne.
La perdita del senso
della realtà
Ancora più alla radice,
conseguenze profonde sta avendo sui giovani l’abitudine di accostarsi alla
realtà attraverso lo schermo. Perché quest’ultimo è certamente un medium che
consente di collegarsi al mondo intero, ma è anche – in un altro senso – una
difesa, come quando si parla di “fasi schermo con le mani” alla troppa
luce. Lo schermo è il luogo ove possiamo assistere in diretta a vicende liete o
drammatiche che si svolgono a migliaia di chilometri da noi. Ma è grazie ad
esso che noi siamo immunizzati dalle ripercussioni emotive di drammi –
come quelli delle guerre a Gaza e in Ucraina – che, se li vivessimo “in
presenza” ci sconvolgerebbero e che invece possiamo seguire
tranquillamente seduti in poltrona o a tavola, mentre mangiamo. Lo schermo ci
rende spettatori. Ci immunizza dalla realtà.
Senza dire del pericolo
che i più giovani si imbattano in aspetti fondamentali di quest’ultima – come
la sfera sessuale – attraverso un rappresentazione distorta e morbosa,
ricevendo una iniziazione perversa che può segnarli per tutta la vita.
In particolare, il
pericolo delle immagini virtuali riguarda i videogiochi, molto spesso
imperniati sulla eliminazione violenta di nemici in battaglie immaginarie. Col
pericolo di non distinguere più chiaramente la violenza che si impara ad
usare per gioco, su uno schermo, da quella che, esercitata nella vita reale,
può trasformare il gioco in tragedia.
Dai divieti alla
ricoperta del dialogo tra le generazioni
Il problema è che non
bastano i divieti a sventare questi pericoli. Le regole già oggi sembrano
destinate ad essere sistematicamente travolte dalla realtà. E, per quanto mossi
da validissime ragioni, i genitori che vogliono applicarle inflessibilmente
nell’educazione dei loro figli rischiano di trovarsi davanti ad effetti
peggiori del male.
Perché, in una società
dove la socializzazione passa anche e soprattutto attraverso questi
dispositivi, i bambini che non partecipano alle conversazioni digitali tra pari
rischiano di sentirsi isolati o esclusi.
Il nodo della questione
è, piuttosto, la capacità degli adulti di riscoprire e di esercitare,
anche sotto questo profilo, la loro funzione educativa. In primo luogo con la
testimonianza. Un padre, una madre, che a tavola, invece di parlare tra
loro e con i loro figli delle esperienze della giornata, usano o controllano
continuamente il cellulare, non possono certo pretendere dai più giovani che
non facciano lo stesso. E, se si tratta di bambini, posteggiarli davanti a un
tablet per farli stare tranquilli, invece di parlare e giocare con loro, è una
strategia che prepara gli eccessi futuri.
Più in generale, è un
costante dialogo tra i genitori e dei genitori con i figli il migliore antidoto
all’uso sbagliato dei dispositivi elettronici. È questo stile
comunicativo che oggi difetta nelle nostre famiglie. E ciò dipende da un modo sbagliato,
da parte degli adulti, di voler bene ai più piccoli.
Lo notava Matteo Lancini,
docente universitario di psicologia nelle università milanesi di Bicocca e
Cattolica e presidente della Fondazione Minotauro: «In verità a mancare è
l’ascolto dei figli. I giovani sono molto soli davanti agli adulti. Oggi vanno su
internet per ridurre la sensazione di solitudine che sperimentano ogni giorno
con gli adulti, che invece di chiedersi perché accade tutto ciò si limitano a
impedire l’utilizzo dei social», senza rendersi conto che non bastano le regole
restrittive a colmare il vuoto di cui loro stessi sono la causa.
Si provvede a soddisfare
tutti i bisogni consumistici dei figli, li si colma di regali, ma non si
trova il tempo di fermarsi per “stare” con loro e lasciarsi coinvolgere nel
loro mondo, divenendone partecipi. In realtà, solo così sarà possibile da un
lato accompagnarli con rispetto nelle loro esperienze, dall’altro iniziarli,
anche attraverso il gioco creativo, ad attività all’aperto, sport,
lettura, che, fin da piccoli, possono insegnare a ridimensionare il tempo
passato davanti allo schermo e a cercare relazioni reali, piuttosto che solo
virtuali, anche con i coetanei.
Sulla base di questo
rapporto dialogico tra le generazioni non suonerà come una forzatura e tanto
meno come una imposizione anche quella supervisione che, soprattutto nel caso
dei più giovani, gli adulti devono con discrezione esercitare sull’uso di
Intenet e dei cellulari, educando ad un uso corretto sia nei tempi e nelle
modalità, sia nella selezione dei contenuti. Perché , anche in questo, come in
tanti altri casi, non si tratta di difendersi dalla tecnica, ma di
valorizzarne le enormi potenzialità positive neutralizzando, con un
opportuno discernimento, quelle negative.
A questo sforzo educativo
può molto contribuire la scuola. Le recenti polemiche sulla decisione del
ministro Valditara di escludere i cellulari dalle aule hanno il limite di
restare all’alternativa secca tra l’ammissione e l’esclusione di questi dispositivi,
senza cerare insieme quali modalità possano garantire una educazione al loro
corretto uso, sia a scuola che fuori. Anche qui la sola via praticabile
può essere quella di un rapporto autentico tra gli insegnanti e gli alunni, che
vada oltre la logica angusta dei divieti e dei permessi, in vista
di un impegno comune.
La sfida del digitale
coinvolge in primo luogo il destino dei giovani, ma deve essere affrontata
dagli adulti. Al di là delle regole, si tratta di educare a uno stile
comunicativo che, a sua volta, implica una profonda revisione dei modelli di
vita oggi vigenti.
È un impegno arduo. Ma i
nostri figli non ci perdonerebbero mai se cercassimo di eluderlo.

