domenica 28 dicembre 2025

SAPER ASCOLTARE


 La prima domenica dopo Natale la liturgia ci conduce a porre l’attenzione sulla Santa Famiglia, 

ma in particolar modo su Giuseppe.

Anche se di solito tendiamo a guardare maggiormente Maria, oggi il Vangelo che abbiamo ascoltato ci presenta la figura di Giuseppe; di lui sappiamo solo che era un uomo “giusto” (Mt 1,19).

Giuseppe è un uomo silenzioso, quasi nascosto. Di lui, nei vangeli, non abbiamo nessuna parola e la sua figura scompare quasi subito: lo incontriamo quando gli viene consegnata la paternità di Gesù e nella fuga in Egitto, poi esce di scena.  Mi sembra che il grande insegnamento che Giuseppe ci dona è il modo di saper ascoltare.  Maria è colei che ha saputo accogliere dentro di sé il Figlio di Dio, che ha fatto spazio in lei, che ha saputo dire un sì che le ha stravolto la vita.

Lo spazio e l’accoglienza di Giuseppe sono il suo silenzio che fa’ posto alla Parola; questo è il suo sì: “prese con sé”. “Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l'angelo del Signore e prese con sé la sua sposa” (Mt 1,24). Dio parla a Giuseppe durante la notte attraverso i sogni. Questo ci porta a ricordare quell’Giuseppe che viene venduto dai fratelli. Anche lui è un “sognatore”. Nelle profondità del suo cuore puro, vede Dio.  Il “nostro” Giuseppe davanti alla Parola di Dio agisce e basta; non dice una parola, non chiede nulla, ma opera, mette in pratica. Giuseppe è un uomo sempre in movimento: prima è chiamato a prendere con sé Maria e andare a Betlemme, poi a fuggire in Egitto, per arrivare a Nazareth dove prenderanno dimora.  Gesù fugge in Egitto a causa di Erode, re di Giudea, che voleva ucciderlo; come il Giuseppe del Primo Testamento fugge in Egitto per l’invidia dei fratelli. Entrambi abiteranno in Egitto da forestieri, vivendo la stessa esperienza del loro popolo, i loro fratelli.  Morto Erode, la santa famiglia “esce dall’Egitto”, come il popolo d’Israele, liberi da una “schiavitù”.

Ecco che questa nuova uscita rappresenta un nuovo esodo, una nuova nascita. Entrando ancora di più nel brano Evangelico notiamo subito che il movimento di questo testo è mosso dalla Parola, di fronte alla quale l’agire di Giuseppe è risposta. Ecco l’annuncio, la Parola: “un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: "Alzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e resta là finché non ti avvertirò: Erode infatti vuole cercare il bambino per ucciderlo" (Mt 2,13). Subito viene la risposta a quella Parola: “Egli si alzò, nella notte, prese il bambino e sua madre e si rifugiò in Egitto” (Mt 2,14).

Tutto il brano si articola così: scandito, accompagnato dalla Parola e dal silenzio di Giuseppe, che è il prendere con sé la Parola.   Altri due testi ci aiutano ad entrare sempre di più in questo movimento: il prologo di Giovanni e il libro della Genesi. Il prologo inizia dicendo: “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio” (Gv 1,1). In principio era il Verbo, la Parola: questo ci riporta all’inizio del libro Genesi, dove vediamo: “In Principio Dio creò” (Gen 1,1). Si tratta del medesimo movimento: Parola – opera: “Dio disse: "Sia la luce!". E la luce fu.” (Gen 1,3), movimento che troviamo in tutto il brano della creazione. Ritornando al Prologo di Giovanni, notiamo che il nostro testo ci mostra una Parola che va sempre più in profondità, facendosi carne: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi.” (Gv 1,14).

Attraverso la nascita di Gesù la Parola di Dio si fa umana, si fa carne in mezzo a noi, entra nelle pieghe della nostra storia.  Ritornando al Vangelo odierno, la santa Famiglia, dopo essere uscita dall’Egitto si ritira in Galilea: “Avvertito poi in sogno, si ritirò nella regione della Galilea e andò ad abitare in una città chiamata Nàzaret” (Mt 2,22-23). In questo ritiro Gesù prende “casa” e “nome” dalla “terra”: "Sarà chiamato Nazareno" (Mt 2,23). 

Gesù̀ è il cuore della storia di Dio e dell’uomo. Questo suo ritiro nella quotidianità è il mistero stesso del Dio-con-noi, che rende divina ogni nostra “vita ordinaria”: il riposo e la fatica, ogni gioia e ogni dolore, ogni amore e ogni timore, ogni lavoro e ogni frutto dell’uomo. 

Ed ecco che Giuseppe ci ha condotto dentro ai sogni, ad ascoltare la Parola e a viverla senza tante domande e incertezze; ci ha fatto percorrere tutta la storia passata dalla creazione all’uscita dall’Egitto, e a vedere il compimento di tutto questo, cioè come Dio entra in ogni cosa attraverso suo Figlio.

(www.clarissesantagata.it)

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INCLUSIONE A SCUOLA

 


La fatica di includere,

 ai tempi 

della solitudine 

della scuola


Classi sempre più complesse, docenti troppo soli, una formazione che non tiene il passo. L’inclusione scolastica, una delle più grandi conquiste del sistema italiano, è oggi sotto pressione, tanto che il 27,1% degli insegnanti sarebbe favorevole al modello a tre vie. Per trovare una risposta alla crisi del sistema, però, la scuola non deve guardare indietro ma aprirsi al territorio

di Veronica Rossi

«Per quanto mi impegni, a volte faccio fatica, in classe, ad attuare della modalità inclusive: ho bisogno di molto tempo per capire come lavora un ragazzo, anche se so qual è la sua diagnosi. Nel periodo della pre-adolescenza, poi, ci sono tante cose in evoluzione. Magari cambiano anche le dinamiche della memoria, l’approccio allo studio, l’interesse, la motivazione. Devi sempre stare al passo, perché altrimenti rischi di adattarti a un certo tipo di difficoltà nel seguire la lezione, nello studio, nelle verifiche, per poi scoprire che l’alunno l’ha già superata». Luisa è una professoressa di una scuola secondaria di primo grado della provincia di Trieste. Il nome è inventato, perché preferisce rimanere anonima, ma le difficoltà che riporta sono reali. Parla fuori dal cortile dell’istituto, con gli occhi chiari che si infiammano mentre racconta del suo lavoro; insegna in una classe in cui c’è un alunno certificato ai sensi della legge 104 – e che quindi ha diritto a un Piano educativo individualizzato e alla presenza di un insegnante di sostegno – ma anche diversi ragazzi con Bisogni educativi speciali, che richiedono personalizzazioni della didattica.

Ritorna l’idea delle scuole e classi speciali

Che i docenti facciano fatica è un dato di fatto, testimoniato anche dall’indagine Le voci dell’inclusione del Centro Studi Erickson di Trento, che ha preso in esame un campione di 833 insegnanti provenienti da tutte le regioni d’Italia. Il 45% dei partecipanti ha dichiarato di aver pensato, a un certo punto della propria carriera, che la vera inclusione fosse impossibile; il 27,1% invece – e questo è il dato più eclatante – si è detto favorevole a un modello a tre vie, quindi alle classi e alle scuole speciali per gli alunni con maggiori difficoltà.

«Ritengo che per alcuni casi, quelli che necessitano di personale specializzato sulla problematica specifica e non solo sul sostegno con un corso universitario, le classi speciali potrebbero essere una soluzione», afferma Giulia (è un altro nome di fantasia), che insegna inglese in una scuola in montagna. «La “scuola normale”, chiamiamola così, non ha gli strumenti e le competenze a livello di personale per andare incontro ai bisogni dell’alunno e potrebbe non essergli veramente d’aiuto». Negli ultimi anni, la sensazione di inadeguatezza degli insegnanti negli istituti pubblici è andata crescendo: quando è stata redatta la precedente ricerca della Erickson, nel 2023, era favorevole al modello a tre vie “solo” il 17% del personale docente. Ma cos’è che negli ultimi anni sta minando alle fondamenta il modello di inclusione dell’Italia, prima nazione al mondo ad abbandonare le classi differenziali e speciali, con la legge 517 dell’agosto 1977?

Classi sempre più eterogenee, bisogni sempre più complessi

«C’è una sempre maggiore eterogeneità delle classi, i bambini sono sempre più sregolati e problematici», afferma Dario Ianes, ordinario di Pedagogia dell’inclusione alla facoltà di Scienze della Formazione della Libera Università di Bolzano-Bozen e co-fondatore del Centro Studi Erickson. «C’è un aumento pazzesco delle certificazioni. Le ore di sostegno crescono, certo, ma non abbastanza per stare al passo con questi numeri». La crescita delle difficoltà e dei bisogni educativi è un dato oggettivo, se pensiamo che, per esempio, secondo i dati forniti dal ministero della Salute, c’è stato un aumento del 157% delle diagnosi di disturbo da deficit di attenzione e iperattività – Adhd dal 2004 al 2024 (con un picco di 6mila solo nell’ultimo anno) e i bambini certificati nello spettro autistico sono passati da uno su 10mila negli anni ‘80 a uno su 77 oggi (negli Stati Uniti è uno su 36). Questo elemento, che pure pone delle domande sulla salute delle nuove generazioni e sull’ambiente che abbiamo costruito per loro, non basta da solo a giustificare le difficoltà della scuola italiana in tema di inclusione.

Più formazione per insegnanti e dirigenti

Secondo gli esperti – ma anche secondo gli stessi docenti – la formazione degli insegnanti gioca un ruolo fondamentale. «In molti vengono da me a lamentarsi perché sono in difficoltà a includere nelle loro classi», testimonia Maria Piani, pedagogista, dirigente scolastica in pensione e cofondatrice di ScuolainComune, associazione di secondo livello che si occupa di istruzione e di educazione in provincia di Udine. «Manca una cassetta degli attrezzi, una formazione specifica che permetta loro di affrontare gruppi di alunni obiettivamente complessi, in cui ci sono diversi bisogni educativi». Prima della pandemia Patrizio Bianchi, già rettore dell’Università di Ferrara e ministro dell’Istruzione del Governo Draghi, aveva provato a introdurre 20 ore di formazione obbligatoria sulle tematiche inclusive per tutti coloro che avevano in classe un alunno con disabilità. «Era una sperimentazione che meritava di essere perseguita», afferma Luigi D’Alonzo, professore ordinario di Pedagogia speciale all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e delegato del rettore per l’integrazione degli studenti disabili del medesimo ateneo, «ma è stata abbandonata dopo un anno. Ci sono due cose che non vanno nell’inclusione: la preparazione dei docenti e una visione della singola scuola su questo tema». Quest’ultima dipende in modo decisivo dai dirigenti scolastici. Dove c’è un dirigente che conosce l’inclusione, che chiede conto del lavoro, che costruisce una comunità educativa, le cose funzionano. Dove manca, tutto si inceppa. Le buone – anzi, buonissime – norme ci sono, bisogna saperle applicare. «Qualche tempo fa ero a Bruxelles per un progetto di ricerca sui ragazzi con autismo», continua il professore, «e una collega tedesca si è alzata e ha detto: “Voi italiani avete una grande responsabilità, siete il faro del mondo dell’inclusione!”. Da noi c’è una visione negativa, probabilmente perché non abbiamo messo in piedi una stabilità inclusiva: tutto dipende dalle competenze dei docenti e dei dirigenti».

Ci sono due cose che non vanno nell’inclusione: la preparazione dei docenti e una visione della singola scuola su questo tema

L’insegnante di sostegno, figura da valorizzare

Prendersi cura delle particolarità del gruppo-classe, comprese quelle degli studenti con disabilità, è compito di tutto il Consiglio di classe, non solo dell’insegnante di sostegno. Eppure, non si può negare che quest’ultimo possa costituire un coordinamento e una guida nell’inclusione degli studenti. Nonostante questo ruolo centrale, tuttavia, non sempre sono persone formate ad aggiudicarsi i posti scoperti. Basti pensare che, attualmente, gli insegnanti di sostegno di ruolo sono solo il 36%Tra i precari, c’è molta eterogeneità: qualcuno ha esperienza, altri sono alle prime armi e si trovano gettati allo sbaraglio a seguire classi con alunni con disabilità che non conoscono affatto. «Il numero di chi non è specializzato è tendenzialmente in calo, secondo gli ultimi dati era il 33%», spiega Ianes, «però se proiettiamo i dati in prospettiva, tra i pensionamenti e coloro che si spostano su una cattedra per insegnare la propria materia, ci vorranno 50 anni a coprire tutti i posti con personale competente».

Il modello tradizionale di didattica trasmissiva non funziona più per nessuno. Serve un cambio di paradigma verso una didattica laboratoriale, cooperativa e costruttivista

Ammettere la necessità di un maggior numero di docenti di sostegno formati, non significa però semplificare – e banalizzare – una formazione necessaria. La tendenza del sistema, tuttavia, pare essere questa: prima del 2010, servivano due anni di corso per specializzarsi, poi si è passati ai Tfa annuali e ora, coi nuovi corsi Indire, per chi ha tre anni di esperienza lo studio si riduce ad alcuni mesi. Tra l’altro, in modalità online. Questa possibilità doveva essere un’eccezione che durava un anno e invece è già stata prorogata. «È una scorciatoia, per poter dire di assumere docenti specializzati», commenta Ianes, «ma col rischio di non fornire una preparazione adeguata».

Perché la macchina dell’inclusione funzioni, c’è bisogno del coinvolgimento di tutto il sistema scuola. «Le classi sono sempre più eterogenee e i bisogni educativi coinvolgono tutti gli studenti, non solo quelli con disabilità», dice Carlo Scataglini, insegnante di sostegno, esperto di didattica inclusiva e autore di libri e testi facilitati. «Il modello tradizionale di didattica trasmissiva non funziona più per nessuno: né per chi ha difficoltà, né per chi è plusdotato. Serve un cambio di paradigma verso una didattica laboratoriale, cooperativa e costruttivista, capace di valorizzare le competenze e le inclinazioni di ciascuno».

La scuola non è un’isola, ma un tassello di una comunità educante

Come fare, però, a realizzare questa rivoluzione copernicana nel modo di concepire l’insegnamento? Si può demandare tutto alla buona volontà dei singoli docenti – o dei singoli dirigenti – e al loro sforzo nel gestire da soli tutta questa complessità? La ricerca di Erickson racconta di una grande solitudine degli insegnanti, evidenziando come l’aiuto più grande in termini di inclusività – ma anche, dall’altro lato, lo stress più importante – siano i rapporti con i colleghi. Nella scuola italiana non c’è supervisione, non c’è una figura di riferimento. Non c’è ancora un “educatore di plesso” strutturale, che pure è oggetto di alcune sperimentazioni, che possa dare una mano nelle situazioni più difficili.

Può tutta l’inclusione dipendere da una scuola che diventa un’isola scollegata dal territorio, in cui gli esperti esterni entrano solo per interventi una tantum? La risposta, ovviamente, è no. E allora, come fare?

Una delle possibili risposte arriva, in maniera quasi simbolica, da Trieste, patria d’adozione di Franco Basaglia, dove, più di cinquant’anni fa, l’impossibile è diventato possibile e la diversità ha smesso di essere qualcosa da tenere rinchiuso, separato, emarginato. Una delle lezioni della deistituzionalizzazione è che le rivoluzioni non si fanno da soli: serve un’alleanza con la società civile, con il mondo dell’arte, con le associazioni e le cooperative.

L’associazione “Oltre quella sedia”, che da più di vent’anni nel capoluogo giuliano si occupa di sostenere le persone con disabilità, all’inizio con percorsi di teatro, poi con progetti più estesi di autonomia, mette in pratica questa idea. «Entriamo nelle scuole, non con interventi singoli, ma attraverso una collaborazione con gli insegnanti curriculari e di sostegno», dice Marco Tortul, presidente e fondatore dell’associazione. «Forniamo formazione, ma creiamo anche dei percorsi per gli studenti con disabilità, che vengono inseriti nel Pei. Per esempio, c’era una ragazzina che aveva spesso delle crisi, faceva confusione in classe. Ma abbiamo scoperto che le piaceva cucinare. Così, l’abbiamo portata nei nostri appartamenti, in cui vivono persone adulte con disabilità, a fare attività ai fornelli. Con lei, poi, è venuta tutta la classe e, insieme, abbiamo fatto i biscotti. La visione della ragazzina è cambiata, perché non era più la persona che faceva confusione, ma quella più brava di tutti a preparare i dolci».

La scuola non deve essere un luogo chiuso, ma aperto al territorio, grazie a un’alleanza con il Terzo settore. «Alcuni obiettano “Ma chi le paga queste ore?”», racconta Tortul, «ma non si tratta di aggiungere tempo in più, solo di organizzare in maniera diversa il tempo già erogato. Per esempio, se un educatore lavora in un centro diurno per una cooperativa, può accogliere gli studenti durante il suo turno». Questo perché unire è aggiungere ricchezza per tutti, non toglierne.

E così, una scuola che esce nel suo territorio e lo vive insieme a una comunità educante può mostrare con l’esempio, oltre che con le parole, che l’inclusione è il solo modo per crescere, fuori o dentro le mura degli istituti. Le classi sono sempre più complesse, composite, variegate perché il mondo lo è. E non si può chiudere il mondo in una classe o in una scuola speciale: bisogna abbracciarlo e affrontarlo, insieme.

VITA



 

QUALE REALTA' ?

 

 


L'erosione della realtà: la crisi dell'autenticità visiva causata dall'AI



-     Marco Giacalone

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L'intelligenza artificiale generativa ha innescato una crisi ontologica, erodendo lo statuto di verità dell'immagine e rendendo l'occhio umano un rilevatore inaffidabile. Questo editoriale analizza il fallimento percettivo come minaccia alla coesione sociale, la strategia di certificazione del vero e le implicazioni democratiche di un mondo popolato da immagini orfane di verità.

Per secoli, l'immagine ha svolto il ruolo di testimone silenzioso della storia, l'ancora di prova fattuale che sosteneva la cronaca e il dibattito pubblico. Quel ruolo è finito. La democratizzazione degli strumenti di intelligenza artificiale generativa, i modelli di diffusione, le reti GAN, non ha solo migliorato la grafica digitale; ha inferto un colpo mortale allo statuto di verità dell'immagine stessa. Il mondo sta assistendo al crollo del suo rivelatore più fidato: l'occhio umano.

Questo non è un problema tecnico, ma una crisi ontologica. L'autenticità visiva, un tempo garantita dalla percezione, è stata delegata all'algoritmo. Le creazioni sintetiche hanno raggiunto una risoluzione e un realismo tali che l'uomo non è più in grado di distinguere il genuino dal fabbricato. Quando la differenza tra verità e menzogna richiede una verifica computazionale, si è già perso qualcosa di fondamentale nel rapporto con la realtà. Si è verificato un vero e proprio fallimento percettivo su scala globale.

Le implicazioni di questo fallimento sono devastanti per la sfera pubblica. La proliferazione di contenuti visivi manipolati non è casuale; è una collateralità politica studiata. Immagini generate per diffamare, destabilizzare o ingannare possono influenzare elezioni, alterare mercati finanziari e corrodere il consenso in tempo reale. L'incapacità di un cittadino di fidarsi di ciò che vede si traduce inevitabilmente in un contagio di cinismo radicale. La sfiducia non colpisce solo il singolo medium, ma si estende alle istituzioni mediatiche e, per estensione, a quelle governative. L'AI ha armato l'arte dell'inganno.

È una beffa che i sistemi di rilevamento AI (i detector) nati per contrastare i deepfake siano per loro stessa natura destinati a fallire. I modelli generativi evolvono in modo esponenziale, rendendo obsoleto qualsiasi strumento di difesa non appena viene rilasciato. L'industria ne è consapevole e sta, giustamente, invertendo la rotta: si sta abbandonando l'utopia della detection per concentrarsi sulla provenienza digitale (provenance).

L'obiettivo non è più identificare il falso, ma certificare il vero. Standard di autenticità come C2PA rappresentano un tentativo cruciale di costruire una catena di fiducia crittografica per il contenuto digitale, dotando ogni file di un certificato di nascita che ne traccia l'origine e la storia delle manipolazioni. Ma la loro efficacia è subordinata all'adozione universale da parte di tutti i produttori di hardware e software, una missione titanica che è in ritardo rispetto all'inondazione di immagini generate e non etichettate. Finché questo non accadrà, il mondo sarà popolato da immagini orfane di verità.

L'aspetto più inquietante risiede, in ultima analisi, non nel danno arrecato alle macchine fotografiche, ma in quello inflitto alla cognizione umana. La costante esposizione alla menzogna visiva di massa non rende gli individui più scettici in senso critico, ma semplicemente più propensi a rifiutare ogni fatto scomodo. Questa dinamica distrugge la base di realtà condivisa necessaria per il dibattito pubblico e la coesione sociale.

Se l'intelligenza artificiale ha irrevocabilmente distrutto l'affidabilità di ciò che vediamo, la domanda che resta appesa è la più urgente ed è su quali basi fattuali si potrà ancora costruire la politica, la storia e la democrazia stessa.

L'epoca della verità garantita è finita.

 

Terza Notizia

 

sabato 27 dicembre 2025

LA FAMIGLIA, FONDAMENTO DELLA SOCIETA'

 

 

I 5 valori fondamentali

 della famiglia.


 



Papa Leone XIV  ha definito la famiglia come "fondamentale per la società". Ha ripetutamente sottolineato che è "fondata sull'unione stabile tra uomo e donna". Nei suoi discorsi ha invitato i governi a investire nella famiglia, creando un ambiente propizio alla sua crescita e stabilità. Il Pontefice ha ribadito l'importanza del ruolo educativo dei genitori, che devono trasmettere i valori della fede e della moralità e ha chiesto di proteggere la famiglia da "tutte le forme di violenza e di degrado sociale". Infine Papa Prevost ha parlato dell'importanza dell'amore e dell'unità familiare, che sono la base della vita cristiana. 


Perché il clima familiare è così importante per il benessere degli individui? 

Quali consigli possiamo seguire per migliorare la serenità della nostra famiglia?


In questo articolo proviamo rispondere a queste domande analizzando quelli che possono essere considerati cinque valori fondamentali della famiglia.

Identificarli e conoscerli può aiutarti a lavorare nella quotidianità per migliorare il livello di serenità e benessere nel rapporto con i tuoi cari.

Prima di analizzare i cinque valori della famiglia, dobbiamo però farci alcune domande ancora più importanti: che cos’è la famiglia? Quali sono le caratteristiche che la distinguono da un gruppo di persone? Come si è evoluta nel tempo?

Caratteristiche e funzioni della famiglia

La famiglia può essere definita come il luogo in cui nasciamo: non solo uno spazio fisico dove sentirsi al sicuro, ma anche il luogo degli affetti, delle relazioni profonde, la propria base sicura.

La famiglia è parte integrante della nostra identità e ci caratterizza per tutta la vita, mentre le appartenenze sociali (scuola, lavoro, gruppo di amici, associazioni, ecc.) sono limitate nel tempo e servono per “completare” la nostra personalità.

La famiglia si è evoluta nel tempo in modo significativo: molti secoli fa c’era più attenzione ai bisogni primari, alle regole e ai ruoli.

Negli ultimi decenni la famiglia è diventata un luogo in cui ogni componente può esprimere e appagare potenzialmente tutti i tipi di bisogni.

Il cambiamento che c’è stato può essere visto come il passaggio da una visione “istituzionale” della famiglia a una visione “centrata sul soggetto”.

Se la famiglia in cui viviamo riesce a trovare una buona armonia tra individuo e gruppo, il nostro benessere ne sarà positivamente influenzato.

Per migliorare la serenità familiare possiamo identificare due macro-aree su cui provare a investire le nostre energie: l’area dei valori e l’area delle buone abitudini.

In questo articolo ci soffermeremo sulla prima, ossia sui valori che possono rafforzare l’unità e il sentimento familiare.

I 5 valori della famiglia

I valori sono principi che ci permettono di moderare il nostro comportamento per vivere in armonia con gli altri.

Se alla base del nostro comportamento non ci fossero dei valori, l’azione dell’individuo finirebbe quasi sempre per essere in contrasto con le azioni degli altri.

Quanto detto implica che nelle famiglie litigiose manchino i valori?

Non è detto: spesso, infatti, i valori sono presenti nel gruppo ma i singoli si dimenticano di seguirli.

Quando parliamo di sviluppare i valori in famiglia, ci riferiamo soprattutto al fatto di richiamarli e metterli in pratica.

Vediamo ora i 5 valori fondamentali, presenti in ogni famiglia, che promuovono la serenità e il benessere di tutto il nucleo.

1. Amore.

La prima cosa che ci lega in famiglia è il sentimento dell’amore. I gesti affettuosi sono una forma di comunicazione del legame sottostante.

Attraverso il calore condiviso, ci identifichiamo con il gruppo a cui apparteniamo.

Questo sentimento è qualcosa che si sente, ma che va anche coltivato.

Per questo motivo, è importante mantenere un rapporto di vicinanza, affettuoso e aperto all’interno della famiglia (in questo articolo abbiamo individuato 5 semplici passi per migliorare una relazione sentimentale).


2. Obbedienza.

Lungi dai luoghi comuni, l’obbedienza non significa sottomettere qualcuno agli ordini di qualcun altro.

Parliamo piuttosto di un rispetto per l’autorità familiare, di far capire ai piccoli il perché di ogni regola e assicurarsi che l’obbedienza sia permeata da un senso di fiducia.

Accanto a questo occorre dare l’esempio, che è il modo più efficace per far capire l’importanza delle regole (anche di fronte a dei figli che sembrano comportarsi in maniera tirannica).


3. Tolleranza.

Parte importante del vivere in gruppo è accettare quello che siamo e anche quello che sono gli altri.

Per riuscire in questo, dobbiamo educare alla tolleranza. Essere tolleranti è capire l’esistenza dell’altro, della sua realtà, ma soprattutto dei suoi difetti.

Apprezzare una persona per i suoi pregi è abbastanza facile, ma è ancora più facile accanirsi per i suoi difetti; vedere i pregi di una persona nonostante i suoi difetti è, invece, difficilissimo.

Impariamo quindi a sviluppare la capacità di accettarci per quello che siamo e di migliorarci in ciò che ci può far vivere meglio.


4. Rispetto.

La tolleranza è buona nella misura in cui viene praticata alla pari tra i familiari.

Se alcuni sono tolleranti e altri no, si aprirà il passo all’egoismo e, alla fine, si litiga.

Per evitare questo, la soluzione è avere rispetto. Il rispetto si basa sull’idea che tutti abbiamo un limite.

Tale limite non deve mai essere oltrepassato dagli altri.

Pertanto, è corretto affermare che “ognuno è quello che è”, a patto però che l’azione di uno non danneggi gli altri.


5. Responsabilità.

Essere rispettosi implica a sua volta essere responsabili con gli altri.

Quando parliamo di responsabilità, ci riferiamo a tutto quello che dobbiamo fare per noi e per i nostri cari.

Essere responsabili significa farsi carico di un compito che va a beneficio di tutta la famiglia.

Essere responsabili, più in generale, è pensare che c’è un mondo che ci gira intorno, al quale non dobbiamo solo chiedere ma anche donare.


Non aver paura di chiedere aiuto

Essere una famiglia serena oggi comporta un lavoro maggiore rispetto a un tempo: bisogna dedicare attenzione sia alla “struttura” familiare (ruoli e obiettivi primari) sia all’unicità dei suoi componenti (i bisogni soggettivi).

Il tutto, spesso dovendo trovare il giusto equilibrio con la sfera lavorativa individuale.

Attraverso la nostra linea di ascolto, il Numero Verde Benessere e la piattaforma on-line Stimulus Care Services, ci troviamo spesso a fornire il nostro supporto a:

  • genitori in difficoltà nel gestire il rapporto con i figli;
  • situazioni di difficoltà comunicativa tra partner che possono sfociare in conflitti;
  • famiglie in cui le persone sono in contrasto tra loro per mancanza di tolleranza e comprensione.

Riconoscere quali siano i valori fondamentali della famiglia e prendere atto della presenza di difficoltà è il primo passo verso un percorso di miglioramento che un professionista dell’ascolto può aiutare a risolvere.

Rivolgersi allo psicologo non rappresenta un segno di debolezza, anzi. Si tratta di un indicatore della volontà di tenere unito uno dei beni più preziosi di cui abbiamo a disposizione nella nostra vita: la famiglia.

 Pubblicato in EAP



 

CRESCERE I FIGLI

 


LE RELAZIONI

 DI AFFETTO

Galimberti: “Per crescere figli felici c’è un’unica soluzione: le relazioni d’affetto. Dove c’è amore si cresce bene, bisogna gratificare i figli quando fanno un passo avanti”

Riflettendo sul rapporto tra genitori e figli, Umberto Galimberti spiega perché le relazioni affettive, la comunicazione e il riconoscimento dei piccoli progressi sono decisivi nella crescita emotiva dei più giovani

Il rapporto tra genitori e figli si costruisce giorno dopo giorno attraverso gesti apparentemente piccoli, ma carichi di significato: uno sguardo che incoraggia, una parola che sostiene, una presenza che rassicura. È in questo spazio quotidiano, fatto di attenzione e riconoscimento reciproco, che si pongono le basi di una crescita emotiva equilibrata.

Eppure, nella società contemporanea, dominata dalla velocità, dalla tecnica e dalla prestazione, il tempo dedicato alle relazioni affettive sembra ridursi sempre di più. I genitori si trovano spesso disorientati, divisi tra il desiderio di proteggere i figli e la difficoltà di esercitare un ruolo educativo autentico, capace di coniugare amore, ascolto e autorevolezza. È proprio su questo punto che si inserisce la riflessione di Umberto Galimberti, che invita a interrogarsi sul profondo cambiamento che ha attraversato la genitorialità negli ultimi decenni: “Prima i genitori erano supportati dalla società e quindi era riconosciuta l’autorità paterna, che era sostanzialmente quella della tradizione.

Poi i padri sono diventati amici dei figli, sono caduti nel mito del giovanilismo, hanno ceduto alle loro dimensioni affettive calibrate sulla pura passione per cui quando finisce la passione ci si separa e si divorzia. In pratica la società ha insegnato il principio di piacere (perché la società è diventata opulenta) che si è riverberato anche nell’ambito della famiglia”.

Con queste parole il filosofo, saggista e psicoanalista Umberto Galimberti pone l’accento sulla metamorfosi che ha subito la genitorialità nel corso degli anni. “Le parole dei genitori sono efficaci da zero a 12 anni. Dopo i ragazzi devono andare incontro alla separazione dal mondo genitoriale e passare dall’amore incondizionato da cui sono stati gratificati quando erano bambini, all’amore condizionato che è quello orizzontale con i propri amici. I padri di solito non parlano con i figli: nella società della disciplina incaricavano le madri ma anche dopo hanno continuato a non farlo, perché si annoiano.

Le madri invece parlano sì, però sempre a livello fisico: non uscire con i capelli bagnati, mettiti la maglia, stai attento ai semafori. Mai una domanda psicologica, mai che si chieda al figlio: sei felice?”, in tal modo il filosofo continua la sua profonda e significativa riflessione. Dunque, Umberto Galimberti esorta i genitori a parlare con i propri figli, ad ascoltarli, perché uno sguardo attento, una carezza, un abbraccio inaspettato possono scaldare il cuore, ponendo fine alle più grandi avversità.

“Per crescere i figli in modo felice c'è un’unica soluzione: le relazioni d'affetto. Là dove vige l'amore si cresce bene, là dove vige la violenza o il gelo emotivo si cresce male": queste le parole pregne di significato pronunciate dal filosofo con grande forza e determinazione.

“Quando si entra nelle famiglie a volte si sente urlare, altre volte c’è quel silenzio, soprattutto nelle classi borghesi elevate, che è più freddo dell’ira. Quel gelo che si crea nella non comunicazione generale, e che i telefonini hanno amplificato: avete presente quelle famiglie al ristorante, ognuno con il suo cellulare in mano e ognuno nel suo mondo?”, in tal modo Umberto Galimberti sottolinea la pericolosità della “non comunicazione”.Alla luce di queste riflessioni, appare chiaro come il vero compito educativo non consista nel controllare o giudicare, ma nel riconoscere i passi avanti dei figli, nel sostenerli anche quando arretrano, nel creare un clima emotivo capace di farli sentire visti e accolti. Non esistono formule perfette né manuali infallibili per crescere figli felici. Esiste però una certezza: l’amore, quello fatto di presenza reale, comunicazione e attenzione quotidiana, è ciò che permette ai figli di crescere in modo sereno e responsabile. È questo il terreno su cui si costruiscono relazioni solide, capaci di resistere al tempo e alle difficoltà della vita.

Per te, lettore che ci segui: quanto spazio trovano oggi, nella tua vita quotidiana, l’ascolto e l’attenzione verso le persone che ami? Ti sei mai fermato a riflettere su come comunichi con i tuoi figli o con chi ti sta accanto?

A scuola oggi

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venerdì 26 dicembre 2025

CATERINA RENDA, UN GENEROSO IMPEGNO

 


IN MEMORIA 
DI 
CATERINA RENDA

Caterina Renda (già  dirigente scolastica, presidente provinciale AIMC Catania, componente il Consiglio Nazionale AIMC, Componente l'Organismo di garanzia associativo, Vice presidente regionale AIMC.....) la notte di Natale è stata chiamata a far festa in Paradiso. 


Per  esprimere la nostra gratitudine, perché la sua memoria sia feconda , pubblichiamo alcuni messaggi pervenuti.


Dalla Presidente Nazionale AIMC, Esther Flocco

Con profondo dispiacere comunichiamo che è tornata alla casa del Padre Caterina Renda. È stata una socia storica e una presenza preziosa: il suo impegno, la sua dedizione e il suo contributo resteranno per noi un esempio e un ricordo indelebile.

A nome di tutta l’Associazione, esprimiamo le nostre più sentite condoglianze e ci stringiamo con preghiera e affetto attorno alla sua famiglia, in questo momento di grande dolore.

  Giovanni Perrone – Unione Mondiale Insegnanti Cattolici

Nella notte di Natale Caterina Renda è tornata alla Casa del Padre, al termine di un cammino vissuto con fede, coerenza e spirito di servizio. È stata fedele e attiva socia e dirigente (nazionale, regionale, provinciale e sezionale dell’AIMC) da oltre un quarantennio. É stata di esempio per molti, privilegiando l’essere piuttosto che l’apparire, il fare piuttosto che il parlare: una grande donna, competente dirigente scolastica, innamorata dell’AIMC e anche dell’Unione Mondiale Insegnanti Cattolici. Lucidità, concretezza, diligenza, fede, spirito di servizio, umiltà, lealtà, sincera amicizia l’hanno contraddistinta.  Il Signore la accolga tra le sue paterne braccia e dia conforto ai suoi cari. Che la sua memoria non si perda! Caterina dall’alto assista l’associazione a fare del proprio meglio.

 Rino La Placa -Palermo

La dipartita di Caterina mi procura tristezza e dolore. Se ne va una collega seria, colta e impegnata nella scuola e nella vita civile. L’ho conosciuta nell’Associazione Italiana Insegnanti Cattolici dove ha dato molto con generosità e competenza. Vivrà nel ricordo affettuoso d tanti operatori scolastici, di tante famiglie e soprattutto di tanti alunni. Mi unisco nel cordoglio e nella preghiera.

 Giovanni Bensi, Prato

Le mie più sentite condoglianze nel ricordo di tanto comune impegno nell'aimc nazionale e di sincera amicizia e condivisione. Una commossa preghiera.

Angela Gullì – Siracusa

Mi dispiace tanto, una delle primissime socie che ho conosciuto. Sempre affettuosa e disponibile

Il Signore l’accolga tra le sue braccia misericordiose. Condoglianze alla famiglia

 Cecilia Belfiore – Giarre

Con grande dolore apprendo la perdita di un'amica personale e mia guida nel "nostro" cammino all'interno dell'AIMC

 Maria Torrisi AIMC Giarre

La sezione AIMC di Giarre si stringe con sincera partecipazione al dolore della famiglia e dei suoi cari, esprimendo le nostre più sentite condoglianze. Il suo impegno, la sua professionalità e la sua umanità resteranno un esempio e un patrimonio prezioso per tutti noi. Abbiamo un ricordo riconoscente per una persona che ha dato tanto con generosità e passione.


 Antonietta D’Episcopo –Salerno

Ho visto solo ora la triste notizia e avverto il bisogno di ricordare la nobiltà d’animo di Caterina, il suo modo discreto di fare del bene. Ha testimoniato, con grande coerenza, un'autentica passione associativa motivante e coinvolgente.

 Un'antica saggezza, particolarmente apprezzata dalle nuove generazioni di insegnanti, dei quali si è sempre preso cura. A lei rivolgo il mio grazie sincero e riconoscente attraverso la preghiera.

 Anna Maria Bianchi - Basilicata

Ho un ricordo affettuoso e gioioso di Caterina e voglio conservarlo così.

Sono vicino alla famiglia con la preghiera.

 Rosa Messana - Ragusa

Ho conosciuto Caterina, una persona veramente speciale.  La ringrazio per quello che ha saputo insegnarmi e la ricordo con affetto. Condoglianze alla famiglia.

 Italo Bassotto - Mantova

Dolce e cara Caterina, testimone di un’AIMC che non c'è più e di una professione fatta di mitezza e condivisione...

 Ornella Valerio – Lombardia

Un ricordo, una preghiera R.I.P. Sentite condoglianze ai familiari

 Sandra Cavallini - Livorno

In fede e con commozione ci stringiamo alla famiglia di Caterina che ricordiamo con stima ed affetto. Sandra e tutti noi AIMC Livorno

 Katia Di Stefano- Mazara del Vallo

Ci mancheranno la sua amicizia, il suo amore e generoso impegno per l’Associazione, la sua saggezza e la sua lungimiranza.

 Adriana Dominici - Bracciano

La spontaneità di una bambina, coperta da una grande professionalità; gli occhi esprimevano acume, lealtà e positiva relazionalità. La sua presenza era una garanzia. Il tempo trascorso insieme è stato un dono. La sua parola è stata conforto. Il suo agire trascinava e donava sicurezza. Grazie!

Santino Cerami - Palermo

Con profondo dolore mi unisco al cordoglio per la scomparsa di Caterina Renda. Ha vissuto il suo impegno con fede, coerenza e autentico spirito di servizio, offrendo all’AIMC una testimonianza silenziosa ma incisiva di competenza, umiltà e dedizione. Donna di grande spessore umano e professionale, dirigente scolastica competente e guida leale, ha saputo lasciare un segno profondo in quanti abbiamo avuto il dono di incontrarla. Il suo esempio resti vivo e continui a guidare il cammino dell’associazione.

Mariella Cagnetta - Andria

Ho appreso della perdita di Caterina. Un grande dispiacere. Ricordo ancora quando ci siamo conosciute all'inizio del mio arrivo a Roma. Abbiamo fatto subito amicizia. Una bella persona. Spero che ora sia già tra le braccia del Signore e da lassù possa pregare per noi e per l' Aimc. Il Signore l'abbia nella gioia del Paradiso. Io pregherò per lei.