-di Giuseppe Savagnone *
Il
ciclone Trump
«L’età
dell’oro dell’America inizia proprio ora. A partire da oggi, il nostro Paese
rifiorirà e sarà nuovamente rispettato in tutto il mondo. Saremo l’invidia di
ogni nazione e non permetteremo più di essere sfruttati. Per ogni singolo
giorno dell’amministrazione Trump, metterò semplicemente l’America al primo
posto. Riconquisteremo la nostra sovranità. Ripristineremo la nostra sicurezza.
Riporteremo in equilibrio la bilancia della giustizia (…). Presto l’America
sarà più grande, più forte e molto più eccezionale di quanto non sia mai stata
prima».
Con
queste parole iniziava il discorso pronunziato da Donald Trump nella cerimonia
del suo insediamento alla Casa Bianca. E i più di cento decreti esecutivi
firmati lo stesso giorno ha confermato che il nuovo presidente degli Stati
Uniti intende realizzare senza indugi ciò che aveva promesso nella sua campagna
elettorale. Il punto centrale di questo programma è: «L’America al primo
posto».
Cardine
di questo progetto è la rivoluzione del rapporto con gli immigrati. Uno dei
decreti blocca l’ingresso di tutti i richiedenti asilo al confine e un altro
abolisce lo “ius soli” – finora vigente ed espressamente previsto, peraltro,
dalla Costituzione degli Stati Uniti – , che prevedeva l’attribuzione della
cittadinanza ai bambini nati su suolo americano da migranti senza permesso di
soggiorno.
Quanto
a quelli che sono già dentro, la prospettiva è la promessa fatta da Trump in
campagna elettorale: «Per tenere al sicuro le nostre famiglie prometto la più
grande deportazione della storia del nostro paese». Un’operazione di che
caccerà via 11 milioni di immigrati irregolari.
Un
secondo punto centrale del progetto di Trump è l’autonomia dai vincoli di
organismi internazionali che possono porre dei limiti alla piena sovranità del
governo americano. In particolare da quegli organismi che rappresentano istanze
proposte dalla scienza ufficiale, come quelle ecologiste.
Da
qui il decreto che sancisce il ritiro degli Stati Uniti dagli accordi di Parigi
sul clima e altri che da un lato allentano i limiti alle trivellazioni e
all’estrazione mineraria, dall’altro eliminano alcuni incentivi economici
alla produzione di energia rinnovabile (nonché alla produzione e vendita di
auto elettriche).
Da
qui anche il decreto che segna l’uscita degli Stati Uniti dall’Organizzazione
Mondiale della Sanità, in linea, del resto, con la nomina a ministro della
Salute americana di Robert Kennedy, acceso no-vax, nomina che, in una lettera
inviata al Senato, settantasette premi Nobel avevano definito «un rischio
per la salute pubblica».
Un
altro punto chiave della visione trumpiana è la lotta contro le tasse. In
questo primo giorno di presidenza, il Tycoon ha cominciato cancellando la
Global Minimum Tax, l’imposta del 15% per le aziende con almeno 750 milioni di
dollari di fatturato, istituita dall’OCSE due anni fa allo scopo redistribuire
almeno un minimo della ricchezza senza frontiere delle multinazionali
Nel
suo discorso Trump parlava anche del proposito di «riportare in equilibrio la
bilancia della giustizia». Sulla linea dei suoi continui contrasti con la
magistratura americana (che lo aveva anche da poco condannato per ben 34
reati), con uno dei nuovi decreti il presidente ha graziato più di 1.500
persone che erano state arrestate per l’assalto al palazzo del Congresso del 6
gennaio del 2021, quando migliaia di suoi sostenitori cercarono con la forza di
bloccare la proclamazione di Joe Biden come nuovo presidente.
Per
rendere grande l’America è sembrato opportuno a Trump anche firmare un
ordine esecutivo in cui si stabilisce che esistono solo due generi, quello
maschile e quello femminile, eliminando a livello federale i cosiddetti
programmi di diversità, equità e inclusione (sintetizzati con l’acronimo
inglese “DEI”), che erano stati introdotti per tutelare i gruppi minoritari
nelle procedure di assunzione e nella formazione.
Per
quanto riguarda la politica estera, il nuovo presidente ha confermato la sua
linea decisamente filo-israeliana, bloccando con un altro decreto i
finanziamenti all’Unrwa, l’agenzia dell’Onu che opera in Palestina per
alleviare il disastro umanitario in corso, e annullando le sanzioni che
l’amministrazione Biden aveva imposto verso alcuni coloni israeliani
protagonisti di violenze in Cisgiordania. Secondo «Times of Israel», nel
togliere le sanzioni Trump ha assecondato le esplicite richieste di Netanyahu.
Infine,
come promesso ha anche ordinato
il cambio del nome del Golfo del Messico in “Golfo d’America”.
Un’imbarazzante
analogia
Quello
che Trump senza remore sta presentando al mondo è la forma più pura del
sovranismo. Per quanto siano apparse impressionanti, le sue prese di posizione
non fanno altro che evidenziare gli esiti inevitabili impliciti in questa
prospettiva politica e culturale e che finora spesso sono stati lasciati in
ombra dai suoi sostenitori. A cominciare dai partiti che oggi si trovano al
governo nel nostro paese, il cui programma ha le stesse radici di quello
trumpiano, anche se alcuni punti sono presentati con maggiore cautela.
«Per
l’Italia», si intitolava il programma elettorale con cui la destra è salita al
potere. E il primo punto era: «Politica estera incentrata sulla tutela
dell’interesse nazionale e la difesa della Patria». I patti internazionali non
venivano rotti, però sottolineando continuamente questo primato dell’Italia.
Questo
è quanto ha promesso dalla Meloni: «Siamo pronti a ridare all’Italia il
prestigio e l’autorevolezza che merita. La nostra Nazione deve tornare a
pensare in grande». Tutto il resto viene dopo, in funzione di questo obiettivo.
Esattamente ciò che Trump si propone per gli Stati Uniti. Così come è lo stesso
il meccanismo logico: si svaluta ciò che è stato fatto dai predecessori,
enfatizzando il declino e la marginalità del proprio paese, per ingigantire i
possibili risultati della propria gestione.
Analoga
anche l’agenda per realizzare questo progetto di grandezza. In primo piano
anche in Italia è stata e continua ad essere la strenua lotta contro
l’immigrazione. Da qui la normativa che ha reso sempre più problematico lo
sforzo delle navi delle ONG per salvare i migranti che naufragano nelle acque
del Mediterraneo.
Da
qui l’ostinata sordità alle voci che dal mondo imprenditoriale e dalle stesse
istituzioni pubbliche sottolineano il ruolo indispensabile dell’immigrazione
per la prosperità del nostro paese. Come quella del presidente dell’Inps,
Pasquale Tridico, che, in un’intervista rilasciata l’aprile scorso a «La
Stampa», spiegava che, con l’attuale andamento demografico, dopo il 2040 non si
potranno più pagare le pensioni e indicava come unica soluzione l’apertura
all’ingresso degli stranieri: «Le economie ricche», spiegava il presidente
dell’INPS, «hanno tutte molti migranti».
In
questa logica si colloca anche la decisione di spendere circa 800 milioni di
euro (stima de «Il sole 24ore») in cinque anni per creare i centri di
permanenza in vista dell’eventuale rimpatrio sul territorio albanese, invece
che su quello italiano, dove ovviamente i costi sarebbero stati immensamente
inferiori.
Si
collega alla lotta contro l’immigrazione la recentissima liberazione di un
generale libico, notoriamente responsabile delle torture vero i migranti,
ignorando il mandato d’arresto della stessa Corte penale internazionale, e
confermando così la logica degli accordi per cui l’Italia finanzia e sostiene i
lager disumani dove i libici detengono quanti vorrebbero partire per il nostro
paese. Col risultato, certo, di consentire al nostro governo di vantarsi dei
risultati ottenuti nella riduzione degli sbarchi, senza però spiegare a che
prezzo.
Altra
evidente analogia, la demonizzazione delle tasse, assimilate dalla nostra
premier al «pizzo» che l’analogia impone egli onesti commercianti, fino alla
più recente accusa del vice-premier Salvini, nei confronti dell’Agenzia delle
Entrate, di «tenere in ostaggio» gli italiani.
Per
non parlare dell’eterna battaglia contro la magistratura, accusata di sabotare
l’zione del governo in base ad ideologie politiche.
Per
non parlare della politica filo-israeliana, che ha portato il nostro governo a
disconoscere addirittura i mandati d’arresto emessi dalla Corte penale
internazionale contro Netanyahu.
Un
interrogativo
E
del resto se il solo vero criterio è l’interesse del proprio Stato – o,
meglio, il modo in cui Trump e Meloni interpretano questo interesse per il
loro – , è chiaro che non ci sono più valori a cui appellarsi, neppure
quello della più elementare umanità, per opporsi a
questi comportamenti.
Finora
la nostra premier ha cercato disperatamente di mascherare queste logiche
conseguenze del suo sovranismo, sostenendo la piena compatibilità della sua
politica con la democrazia e con il rispetto dei valori umani e arrivando
perfino a rivendicare l’ispirazione cristiana della sua politica.
Ora
però la brutale franchezza del progetto sovranista di Trump – che di
umanità e di cristianesimo non prova neppure a parlare – svela crudamente
ciò che Meloni pudicamente cercava di nascondere.
A
evidenziare ulteriormente il problema è il feeling che si è creato tra i due
leader. La nostra premer è stata l’unica ad essere invitata, tra quelli
europei, all’insediamento del nuovo presidente, che ad ogni occasione riconosce
la profonda sintonia che li lega, pur sottolineando la subordinazione della sua
alleata (che, in occasione della cerimonia, non è stata neppure ammessa un
colloquio personale, come sperava)
Il
legame è, appunto, il sovranismo. Non a caso tutti gli altri invitati erano i
leder delle destre europee. A differenza di questi, però, Meloni governa uno
Stato. Ed è forse è venuta l’ora, per i cittadini italiani, di chiedersi se
vogliono che il nostro paese riproduca, nel ruolo di vassallo, il modello
dell’America di Trump. E se il vero prestigio dell’Italia può consistere
nell’essere al servizio della potenza illimitata degli Stati Uniti.
*Editorialista
e scrittore. Pastorale della Cultura Arcidiocesi di Palermo
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