e
una disparità inquietante
L’assurda
prigionia di Cecilia Sala
In
prima pagina, su tutti i quotidiani, è apparsa la notizia del commosso incontro
tra due madri, quella di Cecilia Sala, e la nostra premier, Giorgia Meloni, che
le ha assicurato l’impegno concreto del governo italiano per la pronta
liberazione della giovane giornalista, arrestata il 19 dicembre dalle
autorità iraniane «per aver violato la legge della Repubblica islamica
dell’Iran».
Un’accusa
che, per la sua stessa genericità, evidenzia il carattere arbitrario della
misura detentiva a cui la nostra connazionale è stata sottoposta, e giustifica
pienamente l’unanime condanna da parte delle forze politiche e dell’opinione
pubblica italiane.
Da
qui la convocazione urgente di un vertice tra la presidente del
consiglio, il ministro degli Esteri Tajani e quello della Giustizia Nordio
e la convocazione alla Farnesina dell’ambasciatrice italiana a Teheran.
«Immediata liberazione» e «trattamento rispettoso della dignità umana», è la
perentoria richiesta rinnovata ieri dal nostro governo alla Repubblica
iraniana.
E,
sulla stampa, i commenti sono unanimi nel sottolineare la gravità di ciò che
sta accadendo e la sua rilevanza, non solo per una questione prestigio
dell’Italia sul piano internazionale, ma soprattutto perché il comportamento
del governo iraniano evidenzia lo scontro tra due concezioni della persona e
della vita associata.
Una
vicenda parallela stranamente dimenticata
In
questo coro di giustissime proteste colpisce, tuttavia, lo strano silenzio
sull’evidente parallelismo tra la vicenda giudiziaria di Cecilia Sala e
quella di Ilaria Salis, un’altra italiana arrestata e detenuta all’estero, in
Ungheria, il cui caso è stato fino a poco tempo fa anch’esso al centro
dell’attenzione dell’opinione pubblica e che sì è risolto solo con l’elezione
della Salis al Parlamento europeo nel giugno scorso.
Nessuno
sembra ricordare che molte delle cose che si stanno verificando in questi
giorni corrispondono in modo impressionante a ciò che è accaduto allora.
Entrambi
gli arresti sono stati motivati da argomenti molto discutibili. Nel caso di
Cecilia Sala, la sola ragione plausibile dell’accusa di «aver violato la
legge» può essere stata la sua attività di giornalista. Era in Iran per un
servizio, in cui tra l’altro non sembra avesse avuto contatti con ambienti
dell’opposizione al regime. Ma forse è la semplice verità che fa paura ai
regimi dittatoriali. Perciò sono tanti, in questi giorni, a manifestare in suo
favore al grido: «Il giornalismo non è reato».
Più
articolata, ma non meno paradossale, la vicenda che ha portato
all’incriminazione della Salis in Ungheria. In febbraio, a Budapest, si celebra
tutti gli anni il Giorno dell’Onore: neonazisti di tutto il mondo, soprattutto
dalla Germania, dall’Austria e dall’Ungheria, si riuniscono per celebrare i
caduti di un battaglione nazista che nel 1945 tentò di impedire
l’accerchiamento dell’Armata Rossa. Nella sfilata commemorativa i partecipanti
marciano vestiti da nazisti.
Ilaria
Salis, battagliera insegnante antifascista, il 10 febbraio 2023 era lì a
protestare contro questa manifestazione, e il giorno dopo è stata arrestata,
con l’accusa di avere aggredito e picchiato due militanti neonazisti (due
uomini), arrecando loro «lesioni potenzialmente mortali», un reato per
cui è prevista una pena massima di ventiquattro anni.
Anche
se in realtà, stando ai referti dei medici ungheresi, quelle effettivamente
riscontate in ospedale alle due vittime sono state giudicate guaribili in un
caso in otto giorni e nell’altro in cinque.
Ovviamente
diversi sono i tempi della detenzione delle due donne in attesa del processo.
Per Cecilia Sala dura da meno di venti giorni; quella di Ilaria Salis è stata
di quindici mesi. Anche solo per l’inizio del processo che doveva
accertare la sua eventuale colpevolezza, l’insegnante italiana ha dovuto
attendere il 29 gennaio 2024, quasi un anno dall’arresto.
Le
era stato offerto un patteggiamento per cui, se si fosse dichiarata colpevole,
la pena sarebbe stato solo di undici anni, ma lei ha rifiutato, dichiarandosi
sempre estranea ai fatti che le erano contestati.
Molto
simili, invece, le condizioni dell’assurda prigionia delle due donne. La
giornalista italiana ha potuto telefonare alla sua famiglia solo il 1 gennaio.
Si sapeva della sua detenzione in un famigerato penitenziario, destinato ai
dissidenti e dove è abituale il regime carcerario più duro. Il suo racconto lo
ha confermato. Si trova in una cella di isolamento, freddissima, dove deve
dormire senza un materasso o una brandina, sul pavimento, con le luci sempre
accese. È stata privata anche dei suoi occhiali da vista. Non le è stato
neppure dato il pacco consegnato sabato dall’ambasciata alle autorità del
carcere iraniano, che conteneva alcuni articoli per l’igiene, quattro libri,
sigarette, un panettone e una mascherina per coprire gli occhi.
Anche
la Salis è stata trattenuta in un carcere di massima sicurezza, in condizioni
disumane. Era richiusa in una cella non areata assieme ad altre sette persone e
non tutte donne. «Sono trattata come una bestia al guinzaglio, da tre mesi sono
tormentata dalle punture delle cimici nel letto, l’aria è poca, solo quella che
filtra dallo spioncino», ha fatto sapere, appena ha potuto, ai suoi familiari e
ai suoi amici. «Nei primi tempi, in carcere» – ha raccontato Gianluca Tizi, del
Comitato “Liberiamo Ilaria Salis”, nato su iniziativa di compagni e compagne di
università della donna – , Ilaria davvero è stata «trattata come un animale:
vestiti maleodoranti tenuti per giorni senza possibilità di cambiare
nemmeno la biancheria intima. Non aveva nemmeno il necessario per lavarsi.
Aveva le mestruazioni ma non aveva gli assorbenti e nemmeno la carta igienica».
Per
non parlare del suo isolamento. Il primo colloquio con la famiglia è avvenuto a
settembre, sette mesi dopo l’arresto.
Infine,
ha fatto il giro del mondo l’immagine dell’imputata, portata finalmente in
aula, il 29 gennaio, con le manette ai polsi e i piedi legati da ceppi di
cuoio con lucchetti, mentre una donna delle forze di sicurezza la trascinava
con una catena. E questo prima ancora di stabilire se fosse o no colpevole.
Sono
evidenti i punti di contatto tra i due percorsi. In entrambi i casi siamo
davanti a una totale violazione dei diritti umani e della dignità
personale. Violazione resa più grave dalla insussistenza o dalla relativa
futilità delle imputazioni.
Due
reazioni politiche molto diverse
Alla
luce di queste evidenti corrispondenze, appare stupefacente la diversità delle
reazioni del nostro governo e di parte della stampa. Nel caso di Cecilia
Sala, come abbiamo visto, c’è – giustamente – una unanime mobilitazione e una
fermissima presa di posizione.
Fin
dall’inizio, in una nota verbale che la Farnesina, attraverso l’ambasciatrice
Paola Amadei, ha consegnato al governo iraniano, sono state richieste al
governo di Teheran «garanzie totali sulle condizioni di detenzione di Cecilia
Sala» e la sua «liberazione immediata».
Le
cose sono andate molto diversamente nel caso della Salis. Rispondendo a
voci di protesta per quello che appariva un disinteresse delle autorità
italiane, il ministro degli Esteri Antonio Tajani aveva spiegato, a inizio
gennaio, che l’ambasciata aveva sempre lavorato accanto alla famiglia, dando
tutto il supporto necessario per la soluzione del caso.
Si
parlava soprattutto dell’ipotesi di ottenere dall’Ungheria che la Salis
scontasse gli arresti domiciliari in Italia, pur con tutte le garanzie
necessarie per evitarne la eventuale fuga.
E
tutto lasciava sperare che questa soluzione fosse possibile, dati i rapporti di
amicizia che da sempre legano i partiti del nostro governo, e in particolare la
Meloni, ad Orbán, il presidente ungherese.
Tanto
più che in Ungheria, dopo la riforma costituzionale 2012, la magistratura
dipende strettamente dal potere politico, attraverso un organo – l’Ufficio
giudiziario nazionale (OBH) – il cui vertice è di nomina parlamentare
e quindi controllato da Fidesz, il partito del premier.
E
invece, a febbraio, è uscito un comunicato, congiunto di Tajani e del
ministro della Giustizia Nordio, dove si diceva che «i principi di sovranità
giurisdizionale di uno Stato impediscono qualsiasi interferenza sia nella
conduzione del processo sia nel mutamento dello status libertatis
dell’indagato».
Inoltre,
aggiungeva la nota, «una interlocuzione epistolare tra un dicastero italiano e
l’organo giurisdizionale straniero sarebbe irrituale e irricevibile», lasciando
capire che ogni iniziativa del governo avrebbe avuto come solo effetto quello
di irritare la controparte e peggiorare le cose.
Su
questa linea è stata anche la posizione del nostro ministro degli Esteri nel
corso dell’informativa sul caso Salis alla Camera: «Evitiamo di trasformare una
questione giudiziaria, regolata da norme nazionali ed europee, in un caso
politico che regala sicuramente grandi titoli sui giornali, ma non fa il bene
della signora Salis».
La
famiglia della detenuta non l’ha presa bene. «Sono furibondo» – ha
commentato Roberto Salis, padre di Ilaria -. «Ci hanno preso in giro: mia
figlia è stata torturata e dal nostro governo non è arrivata nemmeno una nota.
Adesso dobbiamo continuare a fare da soli perché non abbiamo alcun supporto dal
nostro Stato».
Anche
la stampa di destra, pur condannando il trattamento disumano della Salis, si è
prodigata per evidenziare le ragioni che motivavano l’arresto e la detenzione.
«Il Giornale» ha ospitato una lunga lettera dell’ambasciatore ungherese, che
difendeva la linea del suo paese. E su «Il Tempo» Vittorio Feltri rispondeva
polemicamente all’indignazione di molti per le drammatiche condizioni in cui si
trovava la prigioniera: «Noi italiani non possiamo di sicuro giudicare i
sistemi penitenziari degli altri Stati del continente europeo. Le nostre
prigioni sono tra le peggiori in Europa».
Verissimo.
Ma è strano che in questi giorni, a proposito della violenza subìta da Cecilia
Sala, nessuno (per fortuna!) ripeta questi argomenti, così come è strano che il
governo in questo caso non parli della necessità di «evitare ogni
interferenza», per rispetto dei «principi di sovranità giurisdizionale di uno
Stato». Anche l’Iran è uno Stato sovrano. E se la sua magistratura è
inaffidabile, dipendendo dal potere politico, lo è anche quella ungherese. E
non si dica che in questo caso non c’è il rischio di politicizzare la vicenda
giudiziaria, aggravando la situazione dell’imputata!
Siamo
davanti a un inquietante doppio standard, spiegabile solo con le posizioni
politiche del nostro governo e di quella stampa che lo sostiene. E davanti a
questo diffuso silenzio che lo copre, vengono in mente le parole dette in
questi giorni da qualcuno: «Del giornalismo forte e indipendente di
Cecilia abbiamo tutti disperato bisogno». A quanto pare, è proprio vero.
*Editorialista
e scrittore. Pastorale Scolastica dell’Arcidiocesi di Palermo
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