venerdì 30 aprile 2021

IL MUGHETTO E IL PRIMO MAGGIO

Il  Mughetto è considerato sinonimo di felicità che ritorna e di portafortuna. Secondo la leggenda San Leonardo dovette combattere contro il demonio con sembianze di diavolo. Egli vinse, ma il combattimento fu difficile e le gocce del suo sangue sul terreno si trasformarono in bianchi campanellini.  In Francia durante la festa del primo maggio si offre per buon augurio.

 Il primo maggio del 1561, Carlo IX introdusse la tradizione d’offrire un rametto di mughetto come porta fortuna. Tradizione ancora più antica… e del tutto pagana… era poi il celebrare l’arrivo della primavera offrendo tre rami di mughetto alla persona amata, agli amici, ed alle donne come segno d’amicizia.

Nei tempi antichi poi questa era la data in cui i naviganti uscivano in mare. Per i Celtici, il 1° maggio era poi l’inizio della prima metà del loro anno. Nel Medio Evo col 1° maggio iniziava il mese dei fidanzamenti. Nel Rinascimento, il mughetto era un amuleto portafortuna associato alla celebrazione del Primo Maggio.

Tenere in grande considerazione il primo giorno di Maggio dunque risale ad ancor prima che diventasse la festa del lavoro e dei lavoratori. Dal 1889 infine il 1° maggio è stato universalmente conosciuto come il Giorno della Festa del Lavoro.

Il primo maggio del 1895, al cantante Mayol fu presentato un mughetto dalla sua amica Jenny Cook, e quella sera lo mise all’occhiello al posto della tradizionale camelia. Nel 1900, il primo maggio, il capo delle sartine offrì ai suoi clienti e lavoratori dei mughetti. Da allora la tradizione di associare mughetto,  1° maggio e Festa del Lavoro si è estesa in diversi paesi occidentali… ma resta diffusissima soprattutto in Francia… e nei paesi francofoni.

 Il mughetto è sinonimo di ritorno della felicità e di portafortuna. Trasmette un messaggio d’amore perché fiorisce all’inizio della primavera e l’atto di cercarlo nelle foreste ombreggiate è un’opportunità per le prime passeggiate dell’anno per i boschi ed all'aperto. Ha un profumo così delizioso che è anche usato per creare profumi.

Da Balbruno.Altervista



 

  

PRIMO MAGGIO. LAVORO e DISOCCUPAZIONE

 


PIANO PER LA SCUOLA - ESTATE 2021


 COMUNICATO STAMPA

Il piano per la scuola-estate 2021, emanato con circolare del ministero, apre in buona parte alle  proposte e alle richieste espresse dalle Associazioni Professionali. 

In particolare, la consapevolezza che spetta alla scuola costruire percorsi di collaborazione con  tutti i soggetti disponibili sul territorio, per dare vita ad esperienze educative piene di significato  per l’infanzia e l’adolescenza, provate da mesi di esperienza inedita, sofferta, talvolta drammatica. 

Una scuola aperta, con le porte aperte su tutti gli spazi disponibili per ricostruire socialità,  relazione con il mondo, rimotivazione all’apprendimento anche attraverso una riconquista degli  affetti, della vicinanza, dei luoghi. 

Sarà fondamentale assicurare alle scuole il funzionamento del previsto supporto tecnico e  operativo per l’utilizzo delle risorse disponibili e per garantire sostegno, indirizzo, collaborazione.  

Tutto il piano per l’estate deve essere l’occasione per rilanciare la partecipazione e l’impegno delle  associazioni professionali e delle OO.SS., che è mancato nella fase preliminare e va assicurato ora,  nella fase di avvio e gestione del processo.  

É essenziale che il piano estate non rappresenti una parentesi consolatoria, transitoria, concepita e  realizzata solo come risposta illusoria alla emergenza Covid.  

La scuola non ha bisogno di “ristori”, né di una sterile logica di recuperi scolastici, ma di interventi  capaci di guardare al futuro, sperimentando – a partire da questa estate – il dialogo scuola territorio.  

Per queste ragioni occorrono misure strutturali, un ampio, coinvolgente e condiviso “patto per la  scuola” che preveda risorse adeguate e costanti, e che sia capace di affermare la responsabilità  pubblica dell’istruzione e dell’educazione. 

Solo in tal modo il piano estate rappresenterà davvero un ponte verso un nuovo inizio, sempre che  il nuovo inizio, a partire dal prossimo anno scolastico, sia assicurato per tempo con tutte le  garanzie necessarie, in termini di organici, risorse e protocolli di sicurezza.


AIMC, CIDI, MCE, PROTEOS


Immagine: Comune di Mira

AGIRE DA CATTOLICI IN ITALIA

Francesco all’Azione Cattolica: vi ispiri la vita della gente, non le idee più di moda

Il Papa ha ricevuto in Vaticano il Consiglio dell’associazione laicale: “Vi affido soprattutto chi è stato più colpito dalla pandemia e chi rischia di pagarne il prezzo più alto. Lo stile sia quello del dialogo e della "sinodalità", senza cadere nella "schiavitù degli organigrammi"

 


-         Amedeo Lomonaco – Città del Vaticano

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Quale è il compito di una realtà come l’Azione Cattolica Italiana, in modo particolare in un tempo come quello che stiamo vivendo? Incontrando in Vaticano i membri del Consiglio nazionale di questa associazione di laici impegnata a vivere l’esperienza della fede, Papa Francesco sviluppa la propria riflessione attraverso tre parole: azione, cattolica e italiana.

Azione

La parola “azione”, osserva Francesco, pone prima di tutto un interrogativo cruciale. Di chi è l’azione? “Il Vangelo - afferma il Papa - ci assicura che l’agire appartiene al Signore: è Lui che ne ha l’esclusiva, camminando in incognito nella storia che abitiamo”.

Ricordare che l’azione appartiene al Signore permette però di non perdere mai di vista che è lo Spirito la sorgente della missione: la sua presenza è causa – e non effetto – della missione. Permette di tenere sempre ben presente che «la nostra capacità viene da Dio» (2 Cor 3,5); che la storia è guidata dall’amore del Signore e noi ne siamo co-protagonisti. Anche i vostri programmi, pertanto, si propongono di ritrovare e annunciare nella storia i segni della bontà del Signore. La pandemia ha mandato all’aria tanti progetti, ha chiesto a ciascuno di confrontarsi con l’imprevisto. Accogliere l’imprevisto, invece che ignorarlo o respingerlo, significa restare docili allo Spirito e, soprattutto, fedeli alla vita degli uomini e delle donne del nostro tempo.

Si deve anche “essere molto attenti - fa notare il Papa - a non cadere nell’illusione del funzionalismo”. “E’ triste vedere quante organizzazioni sono cadute nel tranello degli organigrammi”. “State attenti a non cadere nella schiavitù degli organigrammi”. Quello che porta avanti “il Regno di Dio è la docilità allo Spirito, è lo Spirito”. Quali caratteristiche - chiede poi il Pontefice - deve avere l’azione, l’opera dell’Azione Cattolica? Prima di tutto la gratuità perché “la spinta missionaria non si colloca nella logica della conquista ma in quella del dono”. Una seconda caratteristica è quella dell’umiltà, della mitezza: "Sono le chiavi per vivere il servizio, non per occupare spazi ma per avviare processi”.

Cattolica

Cosa significa la parola cattolica? Questo termine, sottolinea Francesco, dice “che la missione della Chiesa non ha confini”. “Essere “con tutti e per tutti (cfr Evangelii gaudium, 273) non significa ‘diluire’ la missione, ‘annacquarla’, ma tenerla ben legata alla vita concreta”.

La parola “cattolica” si può dunque tradurre con l’espressione “farsi prossimo”, perché è universale, “farsi prossimo”, ma di tutti. Il tempo della pandemia, che ha chiesto e tuttora domanda di accettare forme di distanziamento, ha reso ancora più evidente il valore della vicinanza fraterna: tra le persone, tra le generazioni, tra i territori. Essere associazione è proprio un modo per esprimere questo desiderio di vivere e di credere insieme. Attraverso il vostro essere associazione, oggi testimoniate che la distanza non può mai diventare indifferenza, non può mai tradursi in estraneità.

Non si deve guardare da un’altra parte, cedere all’indifferenza, alla freddezza. “È ancora diffusa - afferma poi il Papa - la tentazione di pensare che la promozione del laicato, davanti a tante necessità ecclesiali, passi per un maggiore coinvolgimento dei laici nelle ‘cose dei preti’. Con il rischio che si finisca per clericalizzare i laici”. “Ma voi, per essere valorizzati, non avete bisogno di diventare qualcosa di diverso da quello che siete per il Battesimo. La vostra laicità è ricchezza per la cattolicità della Chiesa”. L’Azione Cattolica, aggiunge il Pontefice, è chiamata in particolare “a portare un contributo originale alla realizzazione di una nuova ecologia integrale”. “La grande sofferenza umana e sociale generata dalla pandemia rischia di diventare catastrofe educativa ed emergenza economica”. Cosa possiamo imparare – chiede allora il Santo Padre - da questo tempo e da questa sofferenza? L’esortazione del Papa è quella di mettersi “in ascolto di questo tempo”.

Vi affido soprattutto chi è stato più colpito dalla pandemia e chi rischia di pagarne il prezzo più alto: i piccoli, i giovani, gli anziani, quanti hanno sperimentato la fragilità e la solitudine. E non dimentichiamo che la vostra esperienza associativa è “cattolica” perché coinvolge ragazzi, giovani, adulti, anziani, studenti, lavoratori: un’esperienza di popolo. La cattolicità è proprio l’esperienza del santo popolo fedele di Dio: non perdete mai il carattere popolare! In questo senso, di essere popolo di Dio.

Italiana

Il terzo termine indicato da Francesco è “italiana”. Si intreccia con la storia dell’Associazione, “inserita nella storia italiana” che aiuta la Chiesa in Italia “ad essere generatrice di speranza” per tutto il Paese. “Una Chiesa del dialogo - spiega Francesco - è una Chiesa sinodale, che si pone insieme in ascolto dello Spirito e di quella voce di Dio che ci raggiunge attraverso il grido dei poveri e della terra”. La sinodalità, sottolinea il Santo Padre, “non è un Parlamento”, “non è cercare una maggioranza”. “Non può esistere sinodalità senza lo Spirito”. “Quello sinodale non è tanto un piano da programmare e da realizzare, ma anzitutto uno stile da incarnare”.

In questo senso la vostra Associazione costituisce una “palestra” di sinodalità, e questa vostra attitudine è stata e potrà continuare ad essere un’importante risorsa per la Chiesa italiana, che si sta interrogando su come maturare questo stile in tutti i suoi livelli. Dialogo, discussione, ricerche, ma con lo Spirito Santo. Il vostro contributo più prezioso potrà giungere, ancora una volta, dalla vostra laicità, che è un antidoto all’autoreferenzialità.

Fare sinodo non è guardarsi allo specchio, “è camminare insieme dietro al Signore e verso la gente sotto la guida dello Spirito Santo”. “Laicità è anche un antidoto all’astrattezza: un percorso sinodale deve condurre a fare delle scelte” partendo dalla realtà “non dalle tre-quattro idee alla moda” o che “sono uscite nella discussione”. Riferendosi infine ai lavori dell’Assemblea dell’Azione Cattolica, Papa Francesco esprime un auspicio: “Possa contribuire a far maturare la consapevolezza che, nella Chiesa, la voce dei laici non deve essere ascoltata “per concessione”, ma per convinzione, perché tutto il popolo di Dio è “infallibile in credendo”. Benedico di cuore voi e tutte le vostre associazioni territoriali”.

 

Vatican News 

PER UNA VERA LIBERTA' ANALOGICA


Oltre la «società dei dati». 

Occorre una nuova libertà analogica

La digitalizzazione crescente di ogni aspetto della nostra vita è un’incognita che grava sul futuro della società Ma il finale della storia non è già scritto. La «cultura digitale» è il prodotto della sterminata produzione quotidiana di dati da parte di ciascuno di noi Ma sono davvero indispensabili, o stanno diventando una minaccia per uno sviluppo equo? Occorre introdurre dispositivi che permettano di abbracciare la realtà tutta intera e non una sua «fotografia» solo numerica.

 

-         di LUCA GAMMAITONI

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Non passa giorno che non ci venga ricordato che viviamo nella società dell’informazione e che questa è forgiata dalla cultura digitale: una cultura che è nata in America circa cinquant’anni fa, grazie all’introduzione di tecnologie basate sull’elettronica, inventate a loro volta trent’anni prima, sempre lì, nei campus universitari delle due coste Usa. Il funzionamento della società dell’informazione e i rischi a essa connessi sono al centro della riflessione di Shoshana Zuboff, docente all’Harvard Business School, che al tema ha dedicato un libro, Il capitalismo della sorveglianza (Avvenire ne ha parlato qui: https://bit.ly/3tRAXlv ) e un articolo pubblicato sul New York Times del 19 gennaio ( The Coup We Are Not Talking About).

Zuboff mette in guardia il lettore circa il crescente pericolo del controllo operato da pochi soggetti economici: «Forti delle loro capacità di sorveglianza e spinti dalla necessità di accumulare profitti, i nuovi imperi hanno architettato un colpo di stato cognitivo, basato su una concentrazione senza precedenti di informazioni sul nostro conto e sul potere incontrollato che deriva da questo patrimonio di conoscenza».

È solo uno dei molti allarmati appelli che negli ultimi anni si sono levati verso un crescente rischio di manipolazione delle regole democratiche grazie alla pervasività delle tecnologie digitali. Il rischio per la nostra civiltà esiste perché esistono i dati, e i dati esistono perché esiste la tecnologia digitale. Ovviamente, le informazioni su di noi e sulle nostre abitudini esistevano anche prima e i polverosi archivi dei servizi segreti ci sono da tempi immemori. Tuttavia la straordinaria capacità di aggregare, analizzare e utilizzare dati è una chiara conseguenza dell’esistenza di quella che chiamiamo cultura digitale. Senza le enormi quantità di dati prodotti ogni giorno, soprattutto grazie a Internet e al nostro uso degli strumenti software che ci mette a disposizione, come i social network (Facebook, Instagram, Twitter...) e i programmi di comunicazione ( WhatsApp, Messenger...), la cultura digitale non esisterebbe e non esisterebbe nemmeno la minaccia incombente di una società della sorveglianza, così come delineata da Zuboff. Nei commenti che circolano a proposito di questa minaccia, fattore comune è l’ineluttabilità dei dati, la loro onnipresenza e indispensabilità per garantire uno sviluppo della conoscenza e della qualità di vita del genere umano. Ma non è così. I dati non sono indispensabili, al contrario: sono un intralcio e, come abbiamo visto, sono la causa principale della crescente minaccia a uno sviluppo equo e democratico. 

Il primo passo per capire perché i dati non sono indispensabili è comprendere che sono semplicemente un prodotto tecnologico: non c’erano appena cent’anni fa e, molto probabilmente, non ci saranno più tra cent’anni. Come tutti i prodotti tecnologici, ai dati succederà quello che è successo ai testi scritti sulle pergamene che affollavano la biblioteca di Alessandria. Le biblioteche rinascimentali, a loro volta, pullulavano di libri a stampa (altro prodotto della tecnologia) e scarseggiavano di pergamene. Le biblioteche contemporanee hanno sempre meno libri a stampa e sempre più testi digitali. Quelle del futuro avranno qualcosa che non abbiamo ancora inventato ma, inevitabilmente, scarseggeranno di testi digitali. I dati, in quanto prodotto tecnologico, vengono creati mediante un processo chiamato digitalizzazione, che dovrebbe essere un processo molto familiare perché viene effettuato da ciascuno di noi, molte volte al giorno, senza che nemmeno ce ne accorgiamo. Stiamo digitalizzando, ad esempio, ogni volta che infiliamo un termometro elettronico sotto l’ascella. Dopo pochi secondi compare un numero – ovvero un dato – che ci informa sulla nostra temperatura. Similmente, quando pesiamo la farina per fare un dolce leggiamo sul display della bilancia elettronica il valore del peso: un altro dato. La produzione di dati è una nostra decisione perché, ad esempio, potremmo scegliere di utilizzare un termometro analogico per controllare se abbiamo la febbre e leggeremmo allora il valore della temperatura su una scala graduata dove un liquido colorato si è espanso fino ad avvicinarsi ad una certa linea. In questo modo non abbiamo fatto alcuna operazione di digitalizzazione, ovvero non abbiamo prodotto alcun dato, ma abbiamo lo stesso ottenuto l’informazione che cercavamo. S i pensa che i dispositivi del passato abbiano molti difetti e pochi vantaggi, a cominciare dalla lentezza, l’ingombro, la scarsa precisione. Anche in questo caso le cose non stanno così. Gli strumenti analogici sono sempre in grado di darci un’informazione più corretta di quelli digitali. Il motivo è che in ogni nostra operazione di digitalizzazione inseriamo un inevitabile errore. Nei corsi di analisi dei dati gli studenti universitari imparano che questo si chiama “errore di quantizzazione”, e per quanti sforzi si facciano possiamo solo cercare di diminuire l’entità dell’errore ma mai di eliminarlo del tutto. Però – mi direte – i computer sono digitali, e chi, sano di mente, oggi si sentirebbe di rinunciare agli enormi benefici che ci portano? Risposta: nessuno, perché non bisogna certo rinunciare ai computer. Non solo, sono esistiti computer analogici ben prima di quelli digitali (qualcuno ricorda il calibro ventesimale?). Ma i computer del futuro, nell’accezione di computer quantistici, sono macchine intrinsecamente analogiche, e dal pieno sfruttamento delle loro capacità potremmo ottenere potenze di calcolo oggi inimmaginabili. Anche la memorizzazione delle informazioni può sopravvivere alla scomparsa dei dati: informazioni vengono immagazzinate in modo analogico dai tempi dei primi graffiti nel paleolitico superiore, e oggi esistono metodi molto più efficienti.

Detto questo, cosa c’è da fare? Non sto proponendo di assaltare le banche dati o di ritirarsi in montagna tagliando i ponti con il resto della società. Vorrei però che si diffondesse l’idea che il realizzarsi della società dei dati, dove il controllo sulle informazioni con cui abbiamo a che fare ogni giorno è in mano a un numero limitato di soggetti non proprio disinteressati, non è inevitabile ma è piuttosto la conseguenza di scelte politiche fatte a livello nazionale e internazionale, che hanno quel controllo come obiettivo e la grande disponibilità di dati come mezzo. Come si supera allora la società dei dati? Per cominciare bisogna ridurre il numero di dati che produciamo ogni giorno e che rendiamo facilmente disponibili. Alessandro Baricco nel suo recente libro The Game ricorda che la cultura digitale, alla base del capitalismo della sorveglianza, nasce dall’azione più o meno consapevole di un gruppo di hippies californiani con l’istinto degli affari che progressivamente si insinua nelle pieghe della società moderna non a suon di proclami, manifesti o rivoluzioni, come si sarebbe fatto nel secolo precedente, ma mediante l’introduzione di piccoli dispositivi ( tool) digitali che con aspetto amichevole e innocuo ci promettono una vita più facile: musica dove vuoi e come vuoi; il telefono che fa anche le foto, la possibilità di controllare la casa a distanza, il sistema per rimanere in contatto sempre e ovunque con chi ti pare... È costituito da questi oggetti il bagaglio del rivoluzionario digitale. È sotto gli occhi di tutti come in pochi anni questa trasformazione si sia ampiamente imposta fino a creare quella che oggi chiamiamo società dei dati. Per superare questo stato di cose, per liberarci della società dei dati e della sua pericolosa minaccia al futuro della nostra democrazia, bisogna essere in grado di proporre nuovi tool che anziché digitali siano analogici, ovvero capaci di superare le limitazioni dovute ai processi di digitalizzazione, per abbracciare la realtà tutta intera e non la sua pallida rappresentazione in termini di dati. Dispositivi analogici che possano elaborare l’informazione senza produzione di dati che altri possano accumulare e utilizzare per manipolare la nostra vita. Sostituire i tool analogici a quelli digitali, aumentando la libertà dei singoli e promuovendo una società più equa e democratica è il compito difficile ma irrinunciabile che attende le nuove generazioni di cittadini scienziati. E il lavoro è appena cominciato.

 

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giovedì 29 aprile 2021

AMORIS LAETITIA ed EDUCAZIONE

 


In occasione dell’Anno Famiglia Amoris Laetitia, la Congregazione per l’Educazione Cattolica è lieta di trasmette alcune utili informazioni in merito alle attività proposte dal Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita. 

Tali iniziative potranno essere utili per promuovere le relazioni con le famiglie nonché il coinvolgimento delle scuole e degli alunni - di ogni ordine e grado - in iniziative volte a valorizzare la bellezza di essere famiglia, tutelando il creato, proteggendo la vita umana e la dignità di ogni persona.

Al seguente link Wetransfer è possibile scaricare la brochure dell’Anno Famiglia Amoris Laetitia in diverse lingue:  https://we.tl/t-FeVN21GgX8

Si segnala, inoltre, il sito www.amorislaetitia.va dove si potranno trovare risorse, spiegazioni e strumenti pastorali sull’Anno Famiglia Amoris Laetitia. 

La Congregazione per l’Educazione Cattolica è vivamente grata se suddette informazioni venissero diffuse e trasmesse attraverso le Vostre reti internazionali. 

Ringraziando fin d’ora per la preziosa collaborazione, profittiamo volentieri della circostanza per confermarci con sensi di distinto ossequio,

                            Congregazione per l’Educazione Cattolica

CONTEMPLAZIONE

       


  di Rosanna Virgili


«Veder fiorire la terra, rompersi il legno dei rami con la delicatezza dei petali, scoprire gli spruzzi vivaci di allegria dei cespugli, sentire l’orchestra di ogni specie di uccelli, è esperienza di un tempo che ha vertici da salvare.

Contemplare è nutrirsi e serbare nel cuore; i fiori dei peschi e dei ciliegi, le primule, le viole, le rose, li scriviamo nel cuore nei loro vertici di bellezza, così come facciamo con i volti, i gesti e le parole delle persone che amiamo».

I versi di Paola Casi sono pura, freschissima contemplazione. Un modo di guardare il mondo che ci rigenera. Letteralmente estasiati, ci tuffiamo nei torrenti dei canti della bella stagione al punto che ci par di sentire che tutte le creature e-stasino in noi, facendosi piccole come semi, cuccioli, neonati, per affiorare nella nostra anima. E allora tutto di noi diventa terra e culla di nuova vita con loro, di mai vista bellezza.

Per un’altra primavera sarà ancora “l’allegria di germogli” e i suoni delle “parole delle persone amate” ci attireranno verso ignoti spazi d’immensità. Si romperà il legno già secco e noi saremo linfa di petali.


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EDGAR MORIN. IL FILOSOFO DELLA COMPLESSITA'


Nel centenario della sua nascita


                                                                          -         di Emmanuel Banywesize Mukambilwa,

 Professore di Epistemologia Facoltà di Arti e Scienze Umane Università di Lubumbashi (RD Congo)

 

 In questo anno 2021, che segna il centesimo compleanno di Edgar Morin[1], è importante rivisitare la sua[2] opera  per evidenziare la sua attualità e il suo impegno epistemologico ed etico. Si tratta di contribuire alla celebrazione mondiale di un grande pensatore, un umanista che ha attraversato il XX secolo e il cui complesso pensiero è costruito a partire da esperienze vissute, progressi e crisi della scienza, della filosofia, delle società e dell'umanità. Questo scritto vuole soprattutto mostrare che Morin influenza e feconda la ricerca scientifica e filosofica nel mondo, promuove un universo dell'incontro il cui orizzonte è l'umanesimo uni-diversale, cioè un umanesimo che riconosce e promuove l'essere umano nella sua unità e diversità (pluralità). Infatti, parafrasando Edgar Morin, l'unità è il tesoro della diversità umana, così come la diversità è il tesoro dell'unità umana[3].

La matrice di questo universo è certamente l'epistemologia della complessità. La sfida di questa epistemologia, non cartesiana, è quella di collegare la conoscenza, di elevare la complessità della conoscenza e della scienza e, inoltre, di complessificare la ragione, che è stata a lungo rinchiusa nei binari riduttivi ed esclusivi istituiti dai principi epistemologici e metodologici del paradigma della semplicità. Sappiamo che ogni cultura riproduce il suo paradigma nelle sue attività cognitive e sociopolitiche. La modernità occidentale ha favorito il paradigma della semplicità che, nel tempo, ha contribuito a installare e legittimare posture disgiuntive e riduttive nel cuore delle pratiche epistemiche e sociali. Questo paradigma ha generato una conoscenza frammentata, riduttiva e persino discriminatoria, le cui conseguenze dannose possono essere viste nel rapporto tra gli esseri umani e il mondo e tra gli stessi esseri umani.


Se la ricerca del semplice è stato a lungo l'ideale epistemologico della scienza, d'ora in poi  (Gaston Bachelard ha avuto il merito di delinearlo in Le nouvel esprit scientifique -1934), la complessità costituisce la sfida del pensiero scientifico e  ......

MORIN - COMPLESSITA'





lunedì 26 aprile 2021

PANDEMIA E LANGUISHING -

NON E' BURNOUT

 MA ASSENZA DI GIOIA


 - Non è burnout, non è depressione, non è una mancanza di speranza. Semplicemente è l’assenza di gioia e di uno scopo. Secondo il New York Times, l’emozione che ci accompagnerà per tutto il 2021 ha un nome: si chiama languishing, che tradotto in italiano suona più o meno come “languire”. ”È un senso di stagnazione e di vuoto. Ti senti come se ti stessi confondendo tra i giorni, come se guardassi la tua vita da un finestrino appannato”, scrive l’autore dell’articolo, Adam Grant, psicologo alla University of Pennsylvania e autore del libro “Think Again: The Power of Knowing What You Don’t Know”. ”È l’assenza di benessere. Non hai sintomi di disagi psichici, ma non neanche sei il ritratto della salute mentale. Non funzioni al massimo delle tue capacità. Il ‘languishing’ spegne la tua motivazione e distrugge la tua capacità di concentrarti”, aggiunge. 

Il termine è stato coniato da un sociologo, Corey Keyes, colpito da quante persone non depresse non stessero comunque prosperando. La sua ricerca rivela che le persone che tra dieci anni soffriranno di depressione e disturbi d’ansia non sono quelle che stanno sperimentando questi sintomi oggi. Sono quelle che oggi stanno ‘languendo’. Ma qual è il pericolo insito in questo status emozionale? Secondo lo psicologo, è l’inconsapevolezza. “Non riesci a percepire te stesso scivolare lentamente nella solitudine. Sei indifferente alla tua indifferenza - scrive sul NYT -. E quando non riesci a capire che stai soffrendo, non puoi cercare aiuto né fare molto per aiutare te stesso”. 

Molto stanno facendo scienziati e medici per curare i sintomi fisici del long Covid. Nel frattempo però molte persone si trovano a fare i conti con le ripercussioni psicologiche. Queste possono colpire duramente e a sorpresa, proprio mentre la paura dello scorso anno si solleva. “All’inizio non ho riconosciuto tutti i sintomi che avevamo in comune - scrive l’autore -. Amici che mi dicevano di avere problemi a concentrarsi. Colleghi che, anche col vaccino all’orizzonte, non erano affatto eccitati per l’arrivo del 2021. E io che invece di balzare giù dal letto ogni mattina mi metto a giocare un’ora a Words with Friends”.

Un antidoto al “languishing” però c’è. Prima di tutto, è necessario dare un nome a questa emozione, capire che non siamo soli, ma che, al contrario, è un qualcosa che in molti stanno sperimentando. Il NYT ricorda che la scorsa estate la giornalista Daphne K Lee ha twittato un’espressione usata in Cina che potrebbe tradursi con il “rimandare l’andare al letto per vendetta”. Sembra che fosse costume comune rimanere svegli a lungo durante la notte reclamando la libertà persa durante il giorno. Un comportamento che rivela una voglia di riprendere il controllo. Tanti lo stavano sperimentando e allora tanto valeva dargli un nome. Lo stesso bisognerebbe fare per il “languishing”.

Come possiamo combattere questa assenza di gioia, questa stasi, dunque? In inglese, c’è la parola flow”, “flusso”/“fluire”, che potrebbe essere proprio l’arma giusta contro l’emozione del 2021. Con questo termine si intende quello stato di abbandono piacevole che proviamo quando siamo completamente assorbiti da qualcosa, quel momento in cui perdiamo la cognizione del tempo, dello spazio. Può essere un progetto a cui teniamo molto o una serie tv su Netflix: entrambi possono avere quel magico potere di trasportarci via. E di salvarci, seppure per un momento, dalla negatività. 

L’ultimo avvertimento che lo psicologo lascia nell’articolo è quello di fare attenzione a dedicare a noi stessi un tempo non frammentato. La pandemia ci ha costretti a cambiare mansione ogni dieci minuti, passando dal nostro lavoro ai nostri figli alla cura della casa in un batter d’occhio. Tutto questo favorisce il “languishing”. Siamo noi ad avere il potere di dargli il colpo di grazia. Ma per farlo non possiamo ignorare la sua esistenza. Non esistono solo le malattie fisiche, ma anche quelle mentali. E questo è un qualcosa che, mentre ci accingiamo a vivere l’epoca postpandemica, dobbiamo assolutamente ricordare. “Se non hai la depressione, non vuol dire che tu non stia soffrendo. Se non hai il burn out non vuol dire che tu non sia esaurito - conclude Grant -. Sapendo che molti di noi stanno ‘languendo’, possiamo finalmente iniziare a dare una voce a questa sommessa disperazione”.

 

Huffigntonpost.it



domenica 25 aprile 2021

LOCK-DOWN E DISABILI INTELLETTIVI

      

  L’impatto psicologico del Covid-19

         e del lockdown sui disabili intellettivi.

Progetto di ricerca su un’associazione di volontariato di Formigine (Mo).

-         di Anna Cuoghi 

Durante i primi mesi di pandemia, una delle categorie trascurate è stata sicuramente quella dei disabili e delle loro famiglie. Le istituzioni non si sono soffermate su cosa facessero le persone disabili lasciate a casa da sole con le loro famiglie, né cosa succedesse nelle strutture residenziali o nelle case-famiglia, dove la carenza di personale non ha permesso di accogliere queste persone tutto il giorno. Per diversi mesi, i laboratori sono rimasti chiusi. La didattica a distanza con i disabili è complessa e richiede il coinvolgimento delle famiglie, già in sovraccarico. A causa della chiusura dei centri diurni e la sospensione di ogni attività quotidiana, le famiglie si sono ritrovate nuovamente ad interagire giorno e notte con i figli disabili, spesso persone adulte, ricreando meccanismi di accudimento che sono ricaduti maggiormente sulle donne, spesso non più giovani.

Questa ricerca è stato ha voluto dar voce a ragazzi “fragili”, poter raccontare, attraverso le loro parole e quelle delle persone che gli sono vicino, i loro vissuti, le emozioni provate durante il primo lockdown, iniziato il 9 marzo e terminato il 18 maggio 2020, e le conseguenze psicologiche che da esso sono derivate. A questo scopo è stato preso in esame un campione formato da 16 giovani italiani con disabilità intellettive e/o disagio sociale e altre comorbilità (9 uomini e 7 donne), di età compresa tra i 16 e i 30 anni, 8 genitori e caregiver, 7 operatori dell’associazione di volontariato #TuttoSiMuove di Formigine, cittadina in provincia di Modena, che opera nel disagio sociale. La tecnica utilizzata è stata quella dello studio di caso, poiché si presta allo studio di unità di analisi ristrette, come singoli soggetti o piccoli gruppi, con caratteristiche di unitarietà e specificità, ed è la strategia migliore per descrivere gli effetti di un evento in contesti reali. 

Al fine di raggiungere l’obiettivo della ricerca, sono state ideate tre interviste semi-strutturate di natura qualitativa con domande diverse in base ai soggetti a cui erano rivolte: una è stata sottoposta ai ragazzi con disabilità, che hanno raccontato in prima persona la loro esperienza; la seconda ai loro genitori, per capire come abbiano vissuto quel periodo in cui sono stati costretti a vivere insieme ai loro figli tutto il giorno per un periodo prolungato di tempo, e l’ultima agli operatori dell’associazione, per sapere se sono rimasti in contatto con gli utenti e le loro famiglie e se hanno notato dei cambiamenti significativi nei ragazzi una volta iniziate di nuovo le attività in presenza. ......

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sabato 24 aprile 2021

DARE LA VITA

 
Il buon pastore 

dà la propria vita per le pecore.

Gv 10,11-18

¹¹Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. ¹²Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; ¹³perché è un mercenario e non gli importa delle pecore.

¹⁴Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, ¹⁵così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. ¹⁶E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. ¹⁷Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. ¹⁸Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».

 Commento di p. Paolo Curtaz

Dare la vita

Per cinque volte in poche righe Gesù spiega come riesce a difendere la nostra vita: dona la sua vita. Donare è il segreto per una vita bella come bello (non solo buono) è il pastore coraggioso che veglia sul gregge radunato per la notte. Dona la vita, la spende, la spande, la frantuma, la divide, la offre, la riversa su di noi, su di me. Ma di un amore libero e maturo, adulto e fiorito. Senza aspettarsi nulla in cambio. Senza giocare ai piccoli, velati ricatti che rischiano di intorbidire anche la più bella delle relazioni. È libero, il Signore, perché vero, perché centrato su Dio, perché orientato verso l’essenziale. Dio è la fonte dell’amore che riversa. Non le sue passioni, le sue emozioni, i suoi sentimenti. Che, sì, sono illuminati anch’essi dall’amore che deriva da Dio. E illuminanti. Siamo amati di un amore divino e se ce ne lasciamo riempire diventiamo capaci di amare di un amore divino. Scoprendoci amati, diventiamo amanti, amabili.

Dare e riprendere

E insiste su un aspetto affatto marginale. La vita la dà e poi se la riprendere, la riprende quando vuole. Un amore maturo sa donare senza lasciarsi travolgere, senza lasciarsi ingabbiare e manipolare. Troppe volte, fra noi cattolici, persone generose che credono al Vangelo cercano di amare come Gesù. E vengono sbranati. Dalle pecore, non dai lupi. Portati via. Fatti a pezzi. Se il gesto di chi ama può essere carico di buone intenzioni, non sempre chi accoglie questo amore agisce allo stesso modo. Anzi.

 Ne ho visti di cristiani amorevoli restare amareggiati e delusi, feriti e piagati dopo avere fatto esperienze di comunità. Ne ho visti pretini luminosi ed entusiasti essere sbranati da falsi devoti che vivono nella finzione. Bene dice altrove il Maestro: Dio comanda di amare gli altri come noi stessi. Di amare noi, quindi, per primi. Ma non dell’amore narcisistico ed egotico tanto di moda oggi, no. Dell’amore libero e concreto che ci deriva da Dio. Quell’amore definitivamente espresso dall’alto della croce, un amore libero e liberante che attira tutti. Ti posso amare bene senza lasciarmi impigliare nelle tue spire divoranti. Ti posso amare bene sapendo che tu, come me, come tutti, porti nel cuore delle ombre. Gesù ama bene. Perciò ci può difendere, anche dal lupo che portiamo nel cuore.

Vocazioni

Oggi la Chiesa prega per le vocazioni. Ci sarebbe tanto da scrivere. Perché i tanti dibattiti su cosa sia una vocazione, una chiamata, rischiano sempre di perdere di vista l’essenziale: Dio non è moralista, non vuole una pia società organizzata. Dio è passione, amore travolgente, bruciante, a volte insostenibile. E così è per chi lo segue. Prete, suora, famiglia, laico.  Siamo tutti vocati. A fare esperienza di Dio come siamo. Come siamo.  Al mercenario, dice Gesù, non importano le pecore. A Dio sì. A Dio importa di me. Essere vocati significa farne esperienza. E raccontare agli altri che anche di loro Dio si occupa. Tutto qui.

 Cerco il tuo volto



 

CORRESPONSABILI NELLE RELAZIONI

Nella rivoluzione della cura 

si realizza il sogno di unità

A caratterizzare la fraternità/sororità non è l’avvolgente e soffocante governo di un’autorità forte: è il senso profondo della corresponsabilità nella relazione

 

-di PINA DE SIMONE*

 

- Dio ha un sogno. Noi abbiamo un sogno. È scritto dentro di noi, nel profondo del nostro cuore. Ed è al fondo della storia: tra le pieghe degli eventi e della loro trama apparentemente disordinata. Ma anche nelle dinamiche dei fenomeni naturali: nel sorgere del sole e nel suo tramontare, nelle stagioni, nel trasformarsi continuo della vita attraverso mille intrecci, perdite, tensioni e rinascite. È il sogno dell’unità. Ma non una piatta, uniforme, unità in cui tutto si confonde e si sovrappone, in cui le diversità scompaiono. L’unità che sogniamo e verso cui tutto tende è una unità fatta di diversità. È una falsa convinzione quella che oppone l’unicità di ciascuno, l’irripetibilità di ciò che è singolare, alla possibilità dell’incontro e alla tensione all’unità. Nella profondità di noi stessi sappiamo bene che non è così, che non può essere così. Che unità sarebbe e quale genere di relazioni si avrebbero in un mondo all’insegna dell’uniformità? B asta scorrere le pagine di lucida profezia della letteratura distopica, i romanzi di Orwell o di Huxley, per vedere dinanzi a noi l’incubo di una unità a tutti i costi che si fa blocco compatto, sistema onnipervasivo di controllo, riproducibilità ad oltranza, funzionalizzazione assoluta. Se l’unità diventa un diktat non può che stritolare, nella sua pretesa di compattezza, ogni singolarità, avvertita inevitabilmente come minaccia; non può che soffocare ogni profondità del sentire e del vivere, in quanto sempre connotata in maniera unica; non può che temere il senso dell’individuale. Ma l’unità non è un “dogma”. Né è un’idea, una teoria più o meno strutturata. L’unità è un desiderio: è il desiderare che nel profondo muove il nostro vivere. E in quanto desiderio, ha il sapore del sogno; ha la forza e la creatività di ciò che è eccedenza rispetto al già dato e che non può che essere tale. Ha il fascino di un cammino che rimane aperto, nella consapevolezza della bellezza e della fragilità del procedere.

Per questo il nome dell’unità è fraternità, ma anche sororità. Fraternità e sororità: perché la differenza che ci abita, e che ha bisogno di essere custodita anche nelle parole, non scompare ma si esprime pienamente nell’unità. E perché il sogno dell’unità è il sogno di relazioni vissute in pienezza in ciò che l’essere in relazione veramente implica ed esige. Ciò che si oppone all’unità non è la sana conflittualità che è dentro la diversità, ma è la pretesa di far valere il dominio o il controllo di uno su altri, la pretesa di assolutizzare una parte a discapito delle altre. L’essere in relazione esige il muoversi essendo alla pari. Diversi, ma alla pari. In un gioco di confronti, di conflittualità, di sinergie e di alleanze come quello che si crea tra fratelli o sorelle appunto. Esige che ci si scopra legati gli uni agli altri, imparando a custodire i legami come bene prezioso, con il loro carico di tensioni, nella inevitabile dialettica della diversità, ma anche con l’insostituibile ricchezza che viene proprio dall’essere diversi.

Non è scontata la fraternità/sororità ed è tutt’altro che semplice, perché ha in sé la fatica dell’alterità in tutta la sua drammatica e straordinaria concretezza. È un esercizio continuo di accoglienza, di pazienza, e anche di perdono, in cui ci si mi- sura con il proprio e con l’altrui limite: con l’ira, il fastidio, il senso di pesantezza generato talvolta dall’altro. Non di conferme di sé è fatta l’esperienza dell’essere fratelli/ sorelle ma della continua esigenza di motivare ciò che si è nel confronto con l’altro e della possibilità di imparare dall’altro, sostenendosi reciprocamente, scontrandosi e poi ritrovandosi, imparando a far valere su tutto la forza dell’essere insieme.

Per questo a caratterizzare la fraternità/ sororità non è l’avvolgente quanto soffocante governo di un’autorità forte sotto la quale collocarsi e da cui lasciarsi condurre; per cui l’esser fratelli/sorelle non sarebbe altro che questo comune dipen- dere. È piuttosto il senso profondo della corresponsabilità e della responsabilità reciproca alla luce della quale comprendere ogni dinamica relazionale. “Chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti” (Mc 10, 44). È questa la logica della fraternità/ sororità, ma anche quella dell’esser padre, madre, dell’essere adulti a fianco dei giovani e dei più piccoli, quella che regge l’esercizio di ogni responsabilità. Perché il bene fiorisca. Perché il bene che è l’altro, unico e irripetibile, fiorisca nella trama liberante di relazioni buone. È la rivoluzione della cura, che in particolare il vissuto delle donne ben conosce, ma che deve poter essere patrimonio condiviso, stile di relazioni e modalità di impegno capace di rigenerare dall’interno gli ambiti della vita comune e di ridare respiro alla progettualità politica. La cura è fatta di tenerezza e di coraggio. È la capacità di chinarsi su ogni frammento, di fare attenzione ai dettagli, di saper cogliere i nessi, le implicazioni, le sfumature delle situazioni, delle storie e dei contesti. È la tenerezza di chi si lascia toccare dalla realtà del-l’altro, non rimane indifferente di fronte al suo grido, impassibile dinanzi ai suoi sogni. È la forma più alta del coraggio. Ed è sempre politica (come osserva Gaël Giraud in un articolo recentemente pubblicato sulla rivista “Dialoghi”). L a tenerezza è ciò di cui la politica, e non soltanto le relazioni intersoggettive della vita quotidiana, ha più che mai bisogno in questo tempo di crescente stanchezza e disorientamento in cui la rabbia rimonta. La tenerezza della cura sa vedere quello che ancora non è ma che può essere, sa scorgere risorse e potenzialità anche dove sembrano esserci solo macerie; sa alimentare la speranza perché mobilita le energie di ciascuno, senza scivolare sui drammi ma facendosi ascolto, sostegno, e soprattutto ricerca, sforzo e impegno autenticamente condivisi. La cura è capacità di andare oltre l’immediatezza degli interessi particolari o dell’emergenza del momento. È lungimiranza e profezia, ma è soprattutto creatività, immaginazione e capacità di visione. Per questo non sopporta il monopolio di un pensiero unico, ma dà spazio alle idee, alle competenze, alla ricerca e alla sperimentazione di percorsi nuovi. L’aver cura che è della fraternità/sororità è il gusto e la passione dell’insieme.

Ha uno sguardo e una intelligenza che include: riconoscendo che l’apporto di tutti è necessario e prezioso e che solo insieme si può stare dentro la realtà senza subirla, e solo insieme si può provare a immaginare e costruire un mondo nuovo “in cui avrà stabile dimora la giustizia” (II Pt 3, 13). Riproporre il senso di questa fraternità/ sororità è allora muoversi in una prospettiva rivoluzionaria e insieme concretissima, è protendersi nell’impresa della rigenerazione di questo mondo che avvertiamo sfaldarsi sotto i nostri occhi. Ma non è forse di questa prospettiva coraggiosa e rivoluzionaria che abbiamo oggi bisogno? Ritornare a sognare, imparando però a sognare insieme, con il cuore, la testa, e le mani: perché la realtà è tessuta di un sogno e dobbiamo solo avere il coraggio di liberarlo.

 

*Docente di Filosofia della religione e responsabile scientifico della Specializzazione in Teologia fondamentale (Teologia dell’esperienza religiosa nel contesto del Mediterraneo) presso la Facoltà Teologica di Napoli. Dal 2017 è direttrice della rivista 'Dialoghi'.

 

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