lunedì 31 ottobre 2022

CHIAMATI ALLA SANTITA'


La santità è per tutti !

“Amare significa questo: servire, disintossicarsi dai veleni dell’avidità e della competizione.

Toccare e guardare la carne di Cristo che soffre nei nostri fratelli.

La santità è questo !

Abbiamo generato un ideale di santità troppo fondato su di noi, sull’eroismo personale, sulla capacità di rinuncia, sul sacrificarsi per conquistare un premio.

Abbiamo fatto della santità una meta impervia, l’abbiamo separata dalla vita di tutti i giorni”.

“La santità non è fatta di pochi gesti eroici, ma di tanto amore quotidiano”.

Papa Francesco

NO ALLE ARMI, SI ALLA PACE


Diciamo No alle armi nucleari 

e SÍ a forti gesti di pace e di dialogo

I presidenti e responsabili di più di 48 associazioni e organizzazioni del mondo cattolico e dei movimenti ecumenici e non violenti su base spirituale, tra i quali il presidente delle Acli Emiliano Manfredonia, guardando alla grande manifestazione per la pace del prossimo 5 novembre ribadiscono il loro appello che da due anni le vede insieme nel sostenere la campagna perché l’Italia aderisca al trattato per la proibizione delle armi nucleari.

Non aver smantellato gli armamenti nucleari, non aver proseguito in questi anni sulla via tracciata dalla caduta del muro di Berlino, ha reso l’umanità ostaggio del rischio di una propria immediata e suicida estinzione.

“Il mondo intero, da più parti, non è più sicuro come profetizzano da decenni i tutori dell’ideologia della sicurezza mondiale. E’ invece sempre più vittima e ostaggio di una guerra globale e di un’economia di guerra fatte di corsa agli armamenti, oligarchie e dittature, legittimate dagli interessi economici delle Nazioni tutte, eserciti spesso privatizzati, che vivono di conflitti, intrecciati con mafie, traffico di esseri umani, paradisi fiscali e terrorismo”, così Stefano Tassinari, Vicepresidente nazionale Acli.

  Qui l’appello integrale:

A pochi giorni dalla grande manifestazione per la pace del 5 novembre a Roma e uniti a Papa Francesco, offriamo questo contributo di riflessione al dibattito e al confronto in corso sul drammatico problema della guerra e sulla necessità di avviare concreti percorsi di pace. Dal 24 febbraio 2022 la Russia di Putin con l’invasione dell’Ucraina ha portato la guerra nel cuore dell’Europa. Una guerra che comporta in prevalenza vittime civili, tra cui in maggioranza donne, bambini e anziani, a causa di bombardamenti su abitazioni, scuole, ospedali, centri culturali, chiese, convogli umanitari. Questa guerra si pone accanto alle tante altre sparse per il mondo, per lo più guerre dimenticate perché lontane da noi. Da quando è apparso sulla terra l’uomo ha cominciato a combattere contro i propri simili: Caino ha ucciso Abele. E poi tutta una sequela di guerre: di conquista e di indipendenza, guerre rivoluzionarie e guerre controrivoluzionarie, guerre sante e guerre di religione, guerre difensive e guerre offensive, crociate…fino alle due guerre mondiali. Con la creazione delle Nazioni Unite si pensava che la guerra fosse ormai un’opzione non più prevista, una metodologia barbara, dunque superata, per la soluzione dei conflitti. E invece no. Eccoci ancora con il dramma della guerra vicino a noi. Don Primo Mazzolari, dopo l’esperienza drammatica di due guerre mondiali, era giunto alla conclusione, in “Tu non uccidere”, che la guerra è sempre un fratricidio, un oltraggio a Dio e all’uomo, e di conseguenza, tutte le guerre, anche quelle rivoluzionarie, difensive ecc., sono da rifiutare senza mezzi termini. È quanto aveva scritto ai governanti dei Paesi belligeranti anche Papa Benedetto XV nel pieno della prima guerra mondiale, indicandola come “una follia, un’inutile strage”. E come non ricordare Paolo VI all’Onu nel 1965 con il suo grido rivolto ai potenti del mondo: “Mai più la guerra, mai più la guerra, lasciate cadere le armi dalle vostre mani. Non si può amare con le armi in pugno”? Un grido, questo, ripetuto da Giovanni Paolo II nel tentativo di scongiurare la guerra in Iraq e l’invasione del Kuwait e da Benedetto XVI ad Assisi accanto ai leader religiosi mondiali.

 Ora, di fronte al drammatico conflitto in corso in Ucraina, è Papa Francesco a ricordarci costantemente che la guerra è “una follia, un orrore, un sacrilegio, una logica perversa”: “Quanto sangue deve ancora scorrere perché capiamo che la guerra non è mai una soluzione, ma solo distruzione? In nome di Dio e in nome del senso di umanità che alberga in ogni cuore, rinnovo il mio appello affinché si giunga subito al cessate il fuoco. Tacciano le armi e si cerchino le condizioni per avviare negoziati capaci di condurre a soluzioni non imposte con la forza, ma concordate, giuste e stabili. E tali saranno se fondate sul rispetto del sacrosanto valore della vita umana, nonché della sovranità e dell’integrità territoriale di ogni Paese, come pure dei diritti delle minoranze e delle legittime preoccupazioni” (Angelus di domenica 3 ottobre 2022). Come realtà del mondo cattolico italiano e dei movimenti ecumenici e nonviolenti a base spirituale, vogliamo unire la nostra voce a quella di Papa Francesco per chiedere un impegno più determinato nella ricerca della pace. Affidarsi esclusivamente alla logica delle armi rappresenta il fallimento della politica. Il nostro Paese deve da protagonista far valere le ragioni della pace in sede di Unione Europea, di Nazioni Unite e in sede Nato. Il dialogo, il confronto, la diplomazia sono le strade da percorrere con determinazione. Servono urgentemente concrete scelte e forti gesti di pace. Di fronte all’evocazione del possibile utilizzo di ordigni atomici, e dunque di fronte al terribile rischio dello scatenarsi di un conflitto mondiale, un gesto dirompente di pace sarebbe certamente la scelta da parte del nostro Paese di ratificare il “Trattato Onu di proibizione delle armi nucleari”, armi di distruzione di massa, dunque eticamente inaccettabili. L’abbiamo già chiesto ad alta voce in 44 presidenti nazionali di realtà del mondo cattolico e come movimenti ecumenici e nonviolenti a base spirituale, con la sottoscrizione, nella primavera del 2021, del documento “L’Italia ratifichi il Trattato Onu di proibizione delle armi nucleari”, e poi con un secondo documento del gennaio 2022. L’hanno chiesto centinaia di Sindaci di ogni colore politico. L’hanno chiesto in un loro documento i vescovi italiani. L’hanno chiesto associazioni e movimenti della società civile. Rinnoviamo ora questa richiesta al nuovo Governo e al nuovo Parlamento affinché pongano urgentemente all’ordine del giorno la ratifica del “Trattato Onu di proibizione delle armi nucleari”, ad indicare che il nostro Paese non vuole più armi nucleari sul proprio territorio e che sollecita anche i propri alleati a percorrere questa strada di pace. Purtroppo, anche dopo tante guerre, noi non abbiamo ancora imparato la lezione e continuiamo ogni volta ad armarci, a fare affari con la vendita di armi e a prepararci alla guerra. Forse sarebbe opportuno con determinazione e coraggio percorrere altre strade. Forse sarebbe opportuno riempire di precise scelte e contenuti quella che Giorgio La Pira chiamava “l’utopia della pace”. Prima che sia troppo tardi. “La vera risposta non sono altre armi, altre sanzioni, altre alleanze politico-militari ma un’altra impostazione, un modo diverso di governare il mondo e di impostare le relazioni internazionali” (Papa Francesco, 24 marzo 2022).

 I FIRMATARI: 

 Emiliano Manfredonia, Presidente nazionale delle Acli

Giuseppe Notarstefano, Presidente nazionale di Azione Cattolica Italiana

Giovanni Paolo Ramonda, Presidente dell’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII

Gabriele Bardo e Cristiana Formosa, Responsabili nazionali del Movimento dei Focolari Italia

Mons. Giovanni Ricchiuti, Presidente nazionale di Pax Christi

Davide Prosperi, Presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione

Adriano Roccucci, Responsabile nazionale per l’Italia della Comunità di Sant’Egidio

Don Luigi Ciotti, Presidente del Gruppo Abele e di Libera

Ernesto Preziosi, Presidente di Argomenti 2000

Ernesto Olivero, Fondatore del Sermig (Servizio Missionario Giovani)

Luigi d’Andrea, Presidente nazionale del MEIC (Movimento Ecclesiale di Impegno Culturale)

Allegra Tonnarini e Tommaso Perrucci, Presidenti nazionali della FUCI (Federazione Universitaria Cattolica Italiana)

Roberta Vincini e Francesco Scoppola, Presidenti del Comitato Nazionale dell’AGESCI

Franco Vaccari, Presidente di Rondine, Cittadella della Pace

Antonio Di Matteo, Presidente nazionale MCL (Movimento Cristiano Lavoratori)

Paola Da Ros, Presidente Federazione Nazionale Italiana Società di San Vincenzo De Paoli ODV

Luciano Caimi, Presidente di Città dell’Uomo – associazione fondata da Giuseppe Lazzati

Ivana Borsotto Presidente della Focsiv (Federazione Organismi Cristiani Servizio Internazionale Volontario)

Rosalba Candela, Presidente dell’UCIIM (Unione Cattolica Italiana Insegnanti Medi)

Giuseppe Desideri Presidente dell’AIMC (Associazione Italiana Maestri Cattolici)

Giovanni Perrone, Segretario generale dell'UMEC-WUCT (Unione Mondiale degli Insegnanti Cattolici)

Don Riccardo Battocchio, Presidente nazionale dell’ATI (Associazione Teologica Italiana)

Lucia Vantini, Presidente del Coordinamento delle Teologhe Italiane

Vittorio Bosio, Presidente nazionale del CSI (Centro Sportivo Italiano)

Massimiliano Costa, Presidente nazionale del MASCI (Movimento Adulti Scout Cattolici Italiani)

Patrizia Giunti, Presidente della Fondazione Giorgio La Pira (Firenze)

Marco Salvatori Centro Internazionale Studenti Giorgio La Pira (Firenze)

Andrea Cecconi Presidente della Fondazione Ernesto Balducci (Fiesole)

Paola Bignardi e Don Luigi Pisani Presidente e vicepresidente della Fondazione Don Primo Mazzolari (Bozzolo)

Agostino Burberi Presidente della Fondazione Don Lorenzo Milani (Barbiana)

Rosanna Tommasi Presidente del Centro Internazionale Hélder Câmara di Milano

Fulvio De Giorgi e Celestina Antonacci Presidenti dell’associazione La Rosa Bianca

Giuseppe Rotunno Presidente del Comitato per una Civiltà dell’Amore

Maria Grazia Di Tullio, Associazione Francescani nel Mondo aps

Franco Ferrari, Presidente dell’associazione Viandanti e della Rete Viandanti (costituita da 19 gruppi e 12 riviste di varie città)

Vittorio Bellavite Coordinatore nazionale di Noi Siamo Chiesa

Don Albino Bizzotto e Lisa Clark Presidente e vicepresidente dell’associazione Beati i Costruttori di Pace

Carla Biavati IPRI-CCP (Istituto Italiano Ricerca per la Pace-Corpi Civili di Pace)

Paolo Sales, Per la Segreteria nazionale delle Comunità Cristiane di Base Italiane

Maurizio Gardini, Presidente nazionale di Confcooperative (Confederazione Cooperative Italiane)

Fabio Caneri, Coordinatore della rete C3dem (Costituzione, Concilio, Cittadinanza,) composta da 26 associazioni di varie parti d’Italia

Gabriele Tomasoni, Presidente nazionale del MEC (Movimento Ecclesiale Carmelitano)

Alfonso Barbarisi, Presidente AIDU – Associazione Italiana Docenti Universitari Cattolici

Enzo Sanfilippo e Maria Albanese, Responsabili italiani della comunità dell’Arca di Lanza Del Vasto

Ambrogio Bongiovanni, Presidente della Fondazione Magis

Pierangelo Monti, Presidente MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione)

Antonio Fersini, Ministro Regionale OFS Lazio

Suor Paola Moggi, Per la segreteria della FESMI (Federazione Stampa Missionaria Italiana)

domenica 30 ottobre 2022

LA SCUOLA CHE DESIDERO

 

- di Italo Fiorin

A che cosa serve soprattutto la scuola? A questa domanda sono molte le risposte possibili. La scuola è il luogo dell’incontro con la cultura, nel quale avviene la trasmissione alle giovani generazioni di un patrimonio prezioso (traditio vuol dire trasmissione). La scuola è però anche il luogo della preparazione al futuro, un invito all’avventura del conoscere (ad ventura significa rivolgersi verso le cose che ancora non ci sono, verso l’inesplorato). E, tra passato (tradizione) e futuro (avventura), la scuola è il luogo dell’incontro con gli altri, delle relazioni, della scoperta di non essere soli al mondo, né il centro del mondo, di non essere monarchi assoluti (ab solutus significa senza legami), ma collegati, interdipendenti, parte di una comunità. Si va a scuola certamente per apprendere conoscenze e sviluppare competenze, non però come monadi isolate le une dalle altre, ma come persone, cioè come esseri in relazione. Come dice un proverbio africano, “noi siamo persone attraverso le altre persone”.

In altre parole, si va a scuola per imparare e per imparare ad apprendere, ma anche per imparare a convivere, pacificamente, costruttivamente, solidarmente con gli altri.

Dunque, si va a scuola per diventare noi stessi (il che significa imparare a scoprire i nostri talenti e a prendercene cura) e, allo stesso tempo, si va a scuola per imparare a farlo insieme agli altri, fatti della nostra stessa pasta umana, non estranei, ma fratelli e sorelle, con i quali condividiamo la stessa casa e lo stesso destino.

Le tre parole della Rivoluzione francese esprimono questa idea di cittadinanza: libertà, uguaglianza, fraternità. Si va a scuola non solo per impararne il significato, ma soprattutto la loro necessaria relazione, perché non sono parole ‘ab solute’, ma collegate, non indipendenti ma interdipendenti. Infatti, la libertà, senza regole, tende a distruggere l’uguaglianza; l’uguaglianza, se imposta, tende a distruggere la libertà; la fraternità non può essere né decretata né imposta, ma è necessaria ad entrambe e va incoraggiata.

Che cosa accade, infatti, senza una fraternità consapevolmente coltivata, senza una volontà politica di fraternità, tradotta in un’educazione alla fraternità, al dialogo, alla scoperta della reciprocità e del mutuo arricchimento come valori?



sabato 29 ottobre 2022

DEVO FERMARMI A CASA TUA

 
Il Vangelo è un libro di strade e di vento. E di incontri. Gesù conosceva l’arte dell’incontro, questo gesto povero e disarmato, potente e generativo. Siamo a Gerico, forse la più antica città del mondo. Gesù va alle radici del mondo, raggiunge le radici dell’umano. Gerico: simbolo di tutte le città che verranno dopo.


 Commento al Vangelo di Luca (Lc 19,1-10 di p. Ermes Ronchi

 Zaccheo cerca di vedere Gesù e scopre che Gesù cerca di vedere lui. Il cercatore si sente cercato, l’amante si scopre amato, ed è subito festa.

C’è un rabbi che riempie le strade di gente, e un piccolo uomo curioso «cercava di vedere Gesù».

Quello di Zaccheo si direbbe un caso disperato. C’è il muro della folla e lui è basso. Gli basta solo vederlo, di parlargli non spera. Ma poi per dirgli cosa, il ladro di Gerico, impuro, esattore delle tasse, ricco di bustarelle, favori, furti? Cosa c’entra lui con l’amico dei poveri?

Zaccheo, piccolo uomo, conosce i propri limiti ma non si piange addosso, piuttosto si inventa una soluzione: l’albero! E quell’albero diventa la sua libertà.

All’avvicinarsi di Cristo si deve sempre sentire aria di libertà.

«Corse avanti e salì su un sicomoro». Tre pennellate precise: corre, sale sull’albero, cambia prospettiva. Ed ecco che la bassa statura diventa la sua fortuna, l’uomo piccolo di valori diventa un gigante di intraprendenza del bene.

Anche Gesù sa cambiare prospettiva: passa e alza lo sguardo. Ed è subito sintonia, tenerezza chiamata per nome: Zaccheo, scendi. Tra l’albero e la strada uno scambio di sguardi centra il cuore del piccolo uomo, raggiungendone la parte migliore.

Poi, la sorpresa delle parole: devo fermarmi a casa tua.

A Dio manca qualcosa, manca Zaccheo, manca l’ultima pecora, manco io.

Zaccheo cerca di vedere Gesù e scopre che Gesù cerca di ve­dere lui. Il cercatore si sente cercato, l’amante si scopre amato, ed è subito festa.

Se Gesù avesse detto: “Zaccheo ti conosco, so che sei un ladro, ma se restitui­sci il maltolto oggi verrò a casa tua”, egli sarebbe sicuramente rimasto sull’al­bero. Invece dice: “devo fermarmi”, per stare con te. Anche Zaccheo come un discepolo (li scelse perché stessero con lui Mc 3, 14).

Dio «deve», ma non per la mia buona condotta, il suo sguardo si posa su ciò che mi manca per una vita piena. Parola che inter­pella la mia parte migliore, che nessun peccato potrà cancellare.

Zaccheo, solito alla legge dello sfruttamento, capisce da Gesù che la vita è altro, e fa più di ciò che esigeva la legge, forse meno di quello che Gesù vorrebbe, ma in totale libertà. Cuore nuovo, cuore libero, vangelo.

Gesù non gli elenca gli errori, non li giudica, non punta il dito. Il rabbi lo conquista con la sorpresa dell’amicizia, che ripara le vite in frantumi.

Allora scese “in fretta” e lo accolse pie­no di gioia. Sono poche paro­le: fretta, accogliere, gioia, ma che dicono sulla conversione più di tanti trattati. E mentre la casa si riempie di amici, Zaccheo si libera delle cose: «Metà di tutto è per i poveri e se ho rubato…». Ora può abbracciare l’intera sua vita di difetti e generosità, può coprire il male di bene.

Così oggi Dio viene a casa mia, a tavola con me. E Gerico diventa ogni strada del mondo dove per ognuno c’è un albe­ro, per ognuno uno sguardo. La casa di Zaccheo è la mia, e sulla soglia ti attendo: vieni!

 Cercoiltuovolto

SE IL METAVERSO CROLLA ...

 Ce ne sono già 

altri tre

 

-  di GIGIO RANCILIO

 

Davvero il Metaverso sta crollando come emerge da alcune cronache di queste ore sul deludente bilancio di Meta, ex Facebook? I dati del terzo trimestre del gigante tecnologico sembrerebbero indicarlo. La divisione Reality Labs di Meta, cuore della scommessa sul Metaverso di Mark Zuckerberg, ha perso 9,5 miliardi di dollari. E ieri, a Wall Street, il titolo Meta ha perso in apertura il 25%. Eppure Zuckerberg sembra intenzionato ad andare avanti nel progetto. Questa rubrica, però, non si occupa di finanza o di bilanci dei giganti digitali.

A noi interessa soprattutto l’impatto che il digitale ha (e avrà) sulle vite di tutti noi. Ed è per questo che dobbiamo far chiarezza non solo su cosa sia il Metaverso ma anche sul fatto che ne esisterebbero non uno ma ben quattro. E, quindi, anche se quello di Meta fallisse (in parte o persino del tutto), la corsa al Metaverso potrebbe non fermarsi. Il nome Metaverso come probabilmente saprete già - deriva da un romanzo del 1992, Snow Crash, dello scrittore Neal Stephenson dove si descriveva un mondo tridimensionale all’interno del quale persone fisiche potevano muoversi e interagire con altre persone attraverso delle loro repliche digitali.

Trent’anni fa non esistevano gli smartphone, non esistevano Facebook e gli altri social, e nemmeno i programmi che normalmente usiamo per navigare sul web. Persino Second Life, il primo mondo ispirato al Metaverso, arrivò 11 anni dopo quel romanzo, nel 2003. A rilanciare un annetto fa il Metaverso come futuro digitale dell’umanità è stato Zuckerberg. Eppure, come abbiamo accennato, il Metaverso non è solo quello di Meta. Ce ne sono almeno quattro.

Li ha messi in fila l’esperto Vincenzo Cosenza, fondatore dell’Osservatorio Metaverso, nella sua Introduzione al Metaverso. «La prima idea di Metaverso – scrive Cosenza – è quella legata alla realtà virtuale, con mondi tridimensionali digitali accessibili attraverso visori e dispositivi dedicati. Le aziende più interessate a sostenere questo approccio sono Meta, HTC, Sony e ByteDance (proprietaria di TikTok)». C’è poi l’idea

di Metaverso come realtà aumentata. «È l’ipotesi caldeggiata da aziende come Niantic (creatrice del gioco Pokémon Go), Snap e Apple.

Per loro il Metaverso, anche se preferiscono non chiamarlo così, è il mondo che vediamo, arricchito da oggetti e informazioni digitali che si sovrappongono alla nostra visione. Oggi per accedervi usiamo lo smartphone, ma l’obiettivo è quello di arrivare alla produzione di occhiali che rendano visibile questo strato informativo digitale in più al momento del bisogno». Un’altra idea di Metaverso è quella di mondi in 3D «accessibili da un browser o da un’applicazione (desktop o mobile)». In questa categoria i nomi più noti in gara sono giochi popolarissimi come Roblox, Minecraft e Fortnite. Non solo. In questa direzione (aggiungiamo noi) si muovono anche i nuovi servizi di videochiamate e di riunioni in 3D di Google. C’è poi una quarta idea di Metaverso, quella di futuro della Rete Internet.

«Per tanti studiosi ed esperti - spiega sempre Cosenza – il Metaverso è qualcosa che ancora non esiste. Sarà la prossima evoluzione di Internet. Dopo l’internet fissa e mobile, avremo una rete non di pagine web, ma di luoghi tridimensionali, immersivi e interconnessi. Da vivere e non da guardare». Una cosa, però, appare chiara fin da ora: al di là dei possibili insuccessi di Zuckerberg, la Rete e il mondo digitale hanno un disperato bisogno di un futuro. Non solo per proseguire nella loro sfrenata corsa alla novità ma anche e soprattutto per dare nuova linfa economica a un mondo che sta perdendo un po’ il suo fascino. C’è solo da sperare che il Metaverso, qualunque sarà, sia anche davvero utile.

 www.avvenire.it

venerdì 28 ottobre 2022

SCUOLA, MERITO E ASCENSORE SOCIALE

IL FALLIMENTO 

DEL 

MODELLO AMERICANO

Il neoministro dell’Istruzione e del Merito Valditara difende la nuova denominazione legandola al riscatto sociale. Ma nella meritocratica America ci vogliono 5 generazioni per passare dalla povertà alla classe media. Mentre nel Nord Europa del welfare ne bastano due, massimo tre.

 - di Orsola Riva

Molti si stanno chiedendo in questi giorni che cosa comporterà l’aggiunta della parola «merito» nella denominazione del ministero dell’Istruzione oltre al rifacimento della carta intestata. Il neoministro Giuseppe Valditara ieri ha provato a spiegarlo. «La scuola – ha detto – deve, in primo luogo, saper individuare, valorizzare e fare emergere i talenti e le capacità di ogni persona, indipendentemente dalle sue condizioni di partenza, perché ciascun giovane possa avere una opportunità nel proprio futuro». «Il merito - ha aggiunto - è anzitutto un valore costituzionale, chiaramente affermato e declinato dall’articolo 34 della Costituzione». E ha concluso: «E’ su questi presupposti che lavoreremo per una scuola che torni a essere un vero ascensore sociale e che non lasci indietro nessuno». Il merito, dunque, come leva indispensabile per favorire l’emancipazione sociale e far ripartire l’ascensore bloccato. Ma siamo sicuri che funzioni?

In America che, a differenza dell’Italia, è un Paese che ha fatto del merito la propria religione, da tempo ci si sta interrogando su cosa non abbia funzionato se – nonostante ciò – anche da loro l’ascensore sociale si è bloccato e, stando ai dati Ocse, ci vogliono in media 5 generazioni perché una famiglia povera riesca a raggiungere il livello della classe media, mentre nei Paesi campioni del welfare nordeuropeo (Danimarca, Finlandia, Norvegia e Svezia) ci vuole la metà del tempo (due, massimo tre generazioni) . Di recente c’è chi – come il professore di Harvard Michael J. Sandel – si è convinto che la favola bella del merito per cui «chiunque può arrivare fin dove i suoi talenti glielo permettono» sia una bugia bella e buona che serve solo a giustificare le sempre maggiori diseguaglianze fra ricchi e poveri. Una narrazione bipartisan, iniziata con Reagan e finita con Obama e Hillary Clinton che, enfatizzando (anche giustamente) l’importanza degli studi fino ai più alti livelli, ha finito per colpevolizzare chi – partendo da condizioni più sfavorevoli - si ferma prima e deve accontentarsi di lavori più umili anche se socialmente essenziali. E per giustificare un darwinismo sociale non molto diverso da quello basato sulla semplice ricchezza. Spingendo i tanti, troppi «looser» direttamente nelle braccia di Trump.

L’esempio della meritocrazia americana dimostra che per garantire a «ciascun giovane un’opportunità nel proprio futuro» non basta valorizzarne i talenti e le capacità «indipendentemente» dalle sue condizioni di partenza. Al contrario: bisogna farlo tenendo conto delle condizioni di partenza, perché per tagliare uno stesso traguardo (scolastico e più tardi lavorativo) chi parte più indietro deve fare più strada. Lo sapevano bene i costituenti quando, in quell’articolo 3 citato «nella lettera e nello spirito» dallo stesso Valditara, assegnarono alla Repubblica «il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Una società è giusta quando riesce a garantire non solo che per un determinato posto sia selezionato il candidato più meritevole, ma anche che il figlio di un operaio abbia le stesse possibilità di diventare un ottimo cardiologo del figlio di un medico. O almeno non trovi sulla propria strada ostacoli insormontabili...




 Corriere della Sera

AIUTIAMOLI A CASA LORO ?


 Ma è davvero una svolta?

- di Giuseppe Savagnone

Dopo gli adempimenti e le cerimonie rituali che hanno accompagnato la nascita del nuovo governo, è l’ora dei fatti. Al di là delle esaltazioni e delle diffidenze preventive, è su di essi che Giorgia Meloni ha chiesto, giustamente, di giudicare la sua svolta. E alcuni fatti cominciano ad esserci e riguardano il delicato capitolo delle migrazioni.

Purtroppo, però, non parlano di “svolta”, ma di una sostanziale continuità col passato (e, mi permetto di aggiungere, col peggio del passato). Come del resto è stato sottolineato dal neo-ministro degli Interni, Matteo Piantedosi, che, nella riunione del Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica, ha rivendicato la legittimità del suo primo atto, la direttiva nei confronti delle navi delle Ong, citando proprio i decreti sicurezza del governo Conte I: «Abbiamo applicato la legge, i famosi decreti sicurezza, rivisitati, ma che sono rimasti sostanzialmente nel loro impianto».

Per chi non ha seguito la vicenda, vale la pena di ricordare che, all’indomani (letteralmente) del suo insediamento al Viminale, Piantedosi non ha trovato nulla di più urgente da fare che inviare ai vertici delle Forze di polizia e Capitaneria di porto una direttiva riguardo a due navi Ong , la «Ocean Viking» e la «Humanity One», con a bordo oltre 300 migranti soccorsi, per segnalare che la loro condotta non è «in linea con lo spirito delle norme europee ed italiane in materia di sicurezza e controllo delle frontiere e di contrasto all’immigrazione illegale» e che perciò è «in corso di valutazione il divieto di ingresso nelle acque territoriali».

Secondo quanto è emerso, le motivazioni che hanno indotto il ministro dell’Interno a definire la condotta delle due Ong non «in linea con lo spirito delle norme» sono legate al fatto che le operazioni di soccorso delle due navi umanitarie sono state svolte «in piena autonomia e in modo sistematico senza ricevere indicazioni dall’Autorità statale responsabile di quell’area Sar, Libia e Malta, che è stata informata solo a operazioni avvenute». Anche l’Italia è stata informata «solo a operazioni effettuate». Insomma, i soccorsi in mare ai migranti in pericolo avrebbero dovuto essere sospesi in attesa che la trafila burocratica prevista a tavolino fosse espletata. Ma siamo sicuri che questa sia la logica di chi vede persone che rischiano di annegare?

Era tutto prevedibile.

Piantedosi è stato capo di gabinetto di Salvini al tempo in cui questi, ministro degli Interni, diceva e faceva esattamente le stesse cose, concentrando quasi esclusivamente sulla lotta contro i migranti dall’Africa tutte le sue preoccupazioni e le sue energie. Oggi il leader leghista non è più al Viminale, ma può contare su un uomo che sembra fin dalle prime battute il suo avatar. Per di più come ministro delle infrastrutture, che fra le sue competenze ha la gestione dei porti, è in grado di dare il proprio apporto alla linea della intransigente «difesa delle frontiere».

Chi ha votato per la Destra del resto sapeva bene che questo era scritto nel programma elettorale: «Difesa dei confini nazionali ed europei come richiesto dall’UE con il nuovo Patto per la migrazione e l’asilo, con controllo delle frontiere e blocco degli sbarchi per fermare, in accordo con le autorità del nord Africa, la tratta degli esseri umani» (n.6).

Lo slogan «Aiutiamoli a casa loro»

A proposito dell’ultima notazione – esplicitamente voluta da Giorgia Meloni, che da sempre parla di un «blocco navale» in grado di impedire già all’origine le partenze – , va ricordato che l’«accordo con le autorità del nord Africa» (in concreto con la Libia) già c’è dall’agosto del 2017 e, se entro il 2 novembre il governo italiano non deciderà per la sua revoca, cosa estremamente improbabile, data la linea del governo, verrà automaticamente rinnovato per altri 3 anni.

Qui dei fatti ci sono già, e sono ben noti. Riguardano le conseguenze di quell’accordo. «Nei miei ventidue anni in Medici Senza Frontiere non avevo mai incontrato un’incarnazione così estrema della crudeltà umana», diceva Joanne Liu, la presidente internazionale di “Medici senza frontiere”, in un’intervista al «Corriere della Sera» del 1° febbraio 2018. La dottoressa Liu (pediatra canadese di origine cinese) si riferisce ai centri libici per la detenzione di migranti e rifugiati. «Ne ho visitati due vicino Tripoli nel settembre scorso. Non li chiamerei campi. Sono depositi di persone».

Racconta di essere entrata in un locale delle dimensioni di una palestra, dove gli internati erano «così tanti che non potevano stendersi per terra. Molti, seduti, trattenevano con le mani le ginocchia piegate». E poi l’accusa, senza mezzi termini, alle scelte fatte dal governo allora in carica, presieduto dall’attuale commissario europeo per l’Economia, Paolo Gentiloni: «Il calo degli sbarchi nel vostro Paese» – ha detto la presidente di “Medici senza frontiere” – «significa, in Libia, aumenti delle torture, degli stupri, di vite in condizioni di fame»

«Aiutiamoli a casa loro» era allora lo slogan. Inventato da Salvini, ripetuto da Renzi, è servito a giustificare agli occhi dell’opinione pubblica moderata – ma la maggior parte degli italiani non si poneva neppure il problema – gli accordi con la Libia. Naturalmente, in nome della lotta contro i “trafficanti d’uomini” e della salvaguardia delle vite dei migranti. Sta di fatto che già poche settimane dopo quegli accordi, il 28 settembre 2017, il commissario dei Diritti umani presso il Consiglio d’Europa, Nils Muiznieks, ha scritto al nostro ministro degli Interni, che allora era il PD Marco Minniti, una lettera in cui chiedeva «quali salvaguardie l’Italia ha messo in atto per garantire che le persone salvate o intercettate non rischino torture e trattamenti e pene inumane». E si ricordava che «consegnare individui alle autorità libiche o altri gruppi in Libia li esporrebbe a un rischio reale di tortura o trattamento inumano o degradante e il fatto che queste azioni siano condotte in acque territoriali libiche non assolve l’Italia dagli obblighi previsti dalla Convenzione sui diritti umani».

Così, non stupisce che, a metà novembre, dopo il Consiglio d’Europa, anche l’ONU sia intervenuta. Durante la riunione del comitato delle Nazioni Unite a Ginevra l’Alto commissario ONU per i diritti umani Zeid Raad al Hussein ha bollato con parole durissime il patto stretto con Tripoli dal governo Gentiloni per conto dell’Unione Europea: «La politica UE di assistere le autorità libiche nell’intercettare i migranti nel Mediterraneo e riportarli nelle terrificanti prigioni in Libia è disumana. La sofferenza dei migranti detenuti in Libia è un oltraggio alla coscienza dell’umanità».

L’Alto commissario ha quindi citato le valutazioni degli osservatori dell’Onu inviati nel Paese nordafricano a verificare sul campo la situazione: «Sono rimasti scioccati da ciò che hanno visto: migliaia di uomini denutriti e traumatizzati, donne e bambini ammassati gli uni sugli altri, rinchiusi dentro capannoni senza la possibilità di accedere ai servizi basilari». «Non possiamo», ha sottolineato, «rimanere in silenzio di fronte a episodi di schiavitù moderna, uccisioni, stupri e altre forme di violenza sessuale pur di gestire il fenomeno migratorio e pur di evitare che persone disperate e traumatizzate raggiungano le coste dell’Europa».

I fatti nuovi assomigliano molto a quelli vecchi

Oggi il governo di destra parla di una svolta. Il paradosso è che su questo punto, sul piano giuridico, non ha bisogno di cambiare quasi nulla. Come ha detto Piantedosi, i governi di “sinistra” non hanno modificato la sostanza dei Decreti sicurezza voluti da Salvini. E gli accordi per bloccare i migranti prima che partano erano stati già fatti da un governo e da un ministro PD.

Certo, non ci sono state, sotto questi ultimi due governi, le sceneggiate clamorose, folkloristiche, che avevano fatto aumentare i consensi di Salvini al 36%. C’è stata più tolleranza verso gli sbarchi e più larghezza nella concessione di permessi. Da questo punto di vista il governo di destra, su questo punto, potrà farci rimpiangere perfino quelli di sinistra che l’hanno preceduto, perché probabilmente sarà dichiaratamente e coerentemente persecutorio nei confronti dei poveri disgraziati che vengono a cercare da noi solo una vita un poco migliore.

Ma anche in passato non si è varata alcuna seria politica di organizzazione e di gestione dei flussi migratori, né si è favorito un graduale e reale inserimento dei nuovi arrivati nella vita sociale e lavorativa. E così molti italiani continuano a vedere gli immigrati come parassiti fannulloni, se non addirittura come una minaccia, senza rendersi conto che a consentire loro di lavorare dovremmo essere noi e chi ci governa.

 Siamo dunque condannati ad assistere alla proiezione di un film già visto cento volte? Forse no. Perché la realtà potrebbe costringere prima o poi i nostri governi – anche quest’ultimo, così deciso nella «difesa dei confini» – a prendere atto che l’Italia non solo non rischia nulla accogliendo gli stranieri, ma ne ha addirittura bisogno. Contrariamente alla bufala per cui essi toglierebbero posti di lavoro ai nostri figli, si sta scoprendo che oggi gli italiani non bastano a coprire quei posti.

Sta di fatto che dal mondo della produzione salgono sempre più insistenti le voci di imprenditori che denunciano la carenza di lavoratori per le loro aziende. Con gli attuali indici di natalità, è possibile prevedere che fra non molto, se non per senso di umanità, almeno per rispetto alle logiche del capitalismo, alla fine questo governo sarà obbligato dai fatti a fare veramente qualcosa di nuovo, smettendola di trattare i migranti come “nuovi barbari” da fermare alle frontiere e forse, addirittura, finendo per accoglierli a braccia aperte.

 *Pastorale della Cultura Diocesi Palermo

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giovedì 27 ottobre 2022

VIOLENZA A SCUOLA

 Pistole e accoltellamenti

 in classe 

Cosa sta succedendo nelle nostre scuole

 Il caso choc di Rovigo: gli studenti hanno colpito l’insegnante con pallini ad aria compressa. La preside: «Pensavano fosse un gioco». A Napoli ferito un alunno. Aule chiuse a Foggia per spray al peperoncino

- di GIULIO ISOLA

 

Aggressioni, violenze, insulti. E non solo da parte degli studenti, se è vero (come è vero) che appena la settimana scorsa ha tenuto banco per giorni la notizia dello scontro tra i genitori arrabbiati perché in classe la figlia non poteva entrare col cellulare e il preside. Preside aggredito e malmenato. Mentre si dibatte di “merito”, polemizzando sul nuovo nome del ministero dell’Istruzione (oltre che su chi è stato chiamato a dirigerlo), ieri è stata l’ennesima giornata di Far West nelle scuole italiane. Cominciata con la notizia di un assurdo tiro al bersaglio (con tanto di pistola ad aria compressa) ai danni di una professoressa andato in scena – e naturalmente ripreso coi telefonini, condiviso in rete, diventato virale – in una scuola di Rovigo. E poi uno studente che ha accoltellato un suo compagno a Napoli, un istituto evacuato a Foggia perché qualcuno ha spruzzato uno spray urticante, o peggio tossico, causando problemi e malori a diversi studenti.

L’episodio di Rovigo è senz’altro il più choccante: gli studenti di una classe prima dell’Istituto Viola Marchesini hanno rischiato di ferire in modo grave una loro professoressa, sparandole contro, nel bel mezzo di una lezione, due colpi con una pistola ad aria compressa, e colpendola in pieno. Non contenti di questo, i ragazzi hanno filmato la bravata, piazzando un cellulare vicino alla cattedra, e l’hanno diffusa via chat. L’episodio si è verificato la scorsa settimana, ed è stato infine pubblicato anche sui media locali. La professoressa sarebbe stata colpita due volte, prima alla testa e poi a un occhio.

Disarmante la ricostruzione della dirigente dell’istituto, Isabella Sgarbi, che oltre ad assumere i necessari provvedimenti disciplinari verso i ragazzi, ha avvertito la Polizia e convocato i genitori, cercando di avviare un percorso di rieducazione e non soltanto di punizione. «Come docenti – ha commentato – più che allarmati siamo affranti dal punto di vista educativo, perché i ragazzi non hanno percepito il disvalore del loro gesto, hanno reagito come fosse un gioco. Si è trattato di allievi di una prima classe, quindi giovani, che si sono anche autodenunciati del fatto. Non provengono da famiglie con disagio, sono ragazzi normali. Solo hanno preso la cosa come un gioco. Ma hanno irriso un pubblico ufficiale, non hanno capito la scala dei valori» ha sottolineato. Ancora sconcerto, ancora superficialità, questa volta a Foggia. Dove circa 300 studenti sono stati evacuati dagli istituti Einaudi e Lanza, facenti parte di un medesimo complesso, perché accusavano problemi respiratori. I vigili del fuoco hanno ipotizzato che sia stato sparso nell’ambiente dello spray al peperoncino, o forse anche una sostanza tossica, nel corridoio che collega le due scuole: tra i sintomi registrati fra i ragazzi vi è stata soprattutto la lacrimazione degli occhi. Alcuni studenti sono andati in pronto soccorso per farsi medicare e perché spaventati. A chiamare i vigili del fuoco sono stati i dirigenti scolastici. E a Napoli, nel quartiere di Miano, un ragazzino di 15 anni è stato accoltellato nell’area scolastica di un istituto professionale per servizi di enogastronomia e ospitalità alberghiera. Ora è ricoverato nel reparto di rianimazione dell’ospedale Cardarelli, ma non sarebbe in pericolo di vita. La Tac cui è stato sottoposto non ha evidenziato lesioni ad organi vitali, ha una ferita al braccio e una al torace. Autore dell’agguato, un suo coetaneo. Episodi che fanno dire all’ex sottosegretario all’Istruzione, Rossano Sasso, come «la scuola debba recuperare autorevolezza ». «Ormai per molti adolescenti – scrive Sasso – è saltato il confine tra ciò che è bene e ciò che è male, non si ha alcun timore reverenziale né rispetto nei confronti degli insegnanti, anzi si aggrediscono tra le risate dei compagni. Immagini queste che fanno veramente male a chi come me (e non solo) ama fortemente la scuola. Casi isolati? Purtroppo no. La scuola deve immediatamente recuperare autorevolezza contro questa deriva».

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mercoledì 26 ottobre 2022

CATTOLICI E POLITICA


Riannodare “il dialogo fecondo tra la Parola di Dio e la Costituzione italiana”.

Intervista a Domenico Santangelo

- di Rocco Gumina *

 

Le elezioni politiche si sono appena concluse. Dal momento elettorale ereditiamo due fattori negativi. Da un lato il clima politico costantemente alimentato da scontri tra i partiti su temi lontani dai bisogni reali del Paese; dall’altro il crescente astensionismo che rischia ancor di più di sminuire le partecipazione attiva dei cittadini ai processi politici. In questo contesto, i cattolici in politica sono apparsi quanto mai irrilevanti. Il magistero di Papa Francesco invita all’impegno politico come forma di testimonianza in grado di generare un bene per tutti.

Nonostante ciò, i credenti – sia come singoli sia in quanto associati – faticano a organizzarsi e a rappresentare una proposta in grado di essere popolare. Di questo tema discutiamo con Domenico Santangelo. Sacerdote e docente di Teologia Morale presso l’Istituto superiore di scienze religiose Ecclesia mater della Pontificia Università Lateranense, Santangelo è autore del libro Quale democrazia in tempo di globalizzazione? Analisi etico-politica e valutazione della concezione di Amartya Sen alla luce della Dottrina Sociale della Chiesa (Rubbettino, 2018) e curatore del volume: “Quale migliore politica? L’impegno responsabile dei cristiani e l’intelligenza generativa di Giuseppe Dossetti tra Vangelo e storia” (Marcianum Press, 2021).

Professore Santangelo, l’astensionismo record di queste elezioni politiche appena concluse è un dato più che preoccupante. L’insegnamento della Chiesa, a partire dello scritto A Diogneto, sostiene che nessun uomo – credente o meno – può sottrarsi o dichiararsi indifferente rispetto alle questioni che riguardano tutti siano queste politiche, sociali o economiche. Cosa occorre fare per invertire la tendenza e, quindi, per invitare ad una maggiore partecipazione ai processi comunitari?

La partecipazione alla vita comunitaria, che ogni sana riflessione scientifica laica o credente ha sempre sostenuto essere compito di ciascuno e di tutti al fine di generare e attuare il “bene comune” – espressione di quel confronto, dialogo ed integrazione che tutti deve unire e far convergere in processi di matura corresponsabilità – è l’unica risposta a tutte le forme di astensionismo, esplicitazione di quella delusione e crisi della vita democratica, tra le cui cause più gravi – insieme alla sfiducia e alla protesta verso la politica, vi è il «grande rischio del mondo attuale […] una tristezza individualistica che scaturisce dal cuore comodo e avaro, dalla ricerca malata di piaceri superficiali, dalla coscienza isolata» (Esort. ap. Evangelii gaudium, n. 2).

Questo è verificabile tanto più oggi che la globalizzazione è diventata un processo “irreversibile” e nessuno – se vuole vivere con frutto il suo essere al mondo – può rinchiudersi dentro i suoi interessi corporativi o nei suoi piccoli e limitati contesti (di qualsiasi natura), emarginandosi dalla vita pubblica e distaccandosi da ogni altro, che – per sua natura, chiunque sia – col suo sguardo mi interpella a non isolarmi nelle mie convinzioni, anche positive, ma sempre mutilate e impoverite se non educate a promuovere una cultura dell’incontro e della relazione capace di trasmettere alle generazioni di oggi e di domani ragioni di vita e di speranza. Non siamo solo individui, consumatori e spettatori di quel “divide et impera” protezionistico e sovranista che tutto massifica, indebolendo la dimensione comunitaria e più ampiamente solidale e universale dell’esistenza. Solo con una presa in carico attiva, in prima persona, da parte di tutti, a beneficio di quella “casa comune” che può vivere se si riscopre e alimenta una fiducia vitale e una collaborazione reciproca a partire dalle relazioni di piccolo gruppo fino a quelle di livello macro (rapporti sociali, economici, politici), può scaturire un servizio generoso da parte di ogni membro del corpo sociale idoneo a contrastare l’apatia, il disinteresse e la disaffezione verso la vita politica, facendo così progredire la qualità della vita democratica, migliorando le condizioni di vita di ogni persona e gruppo sociale, in particolare dei più miseri e bisognosi di libertà, di giustizia e di misericordia.

– Il Novecento ha consegnato ai cattolici italiani numerose testimonianze di credenti impegnati in politica. Fra questi, spicca Giuseppe Dossetti per il quale non esiste incompatibilità tra fede e impegno politico purché quest’ultimo si viva a certe condizioni. Perché è importante recuperare la sua lezione?

Il testo “Quale migliore politica?” (Marcianum Press 2021) si sofferma nella seconda parte sul fondamentale contributo che la ricca e profetica figura umana e cristiana, del sacerdote e politico italiano don Giuseppe Dossetti ha saputo incarnare nell’ambiente storico-culturale del tempo in cui è vissuto (1913-1996) e può offrire oggi nel dialogo con i cattolici democratici e con tutti coloro che vogliono vivere con coerenza l’impegno sociale e politico odierno e del prossimo futuro come scelta etica imprescindibile e doverosa per le sorti della convivenza.

Temi centrali e attualissimi che caratterizzarono la vita e l’opera di don Dossetti, il cui filo conduttore può delinearsi attorno ad una fortissima esigenza di radicalità evangelica, che il Reggiano ha saputo testimoniare in modo assoluto e insieme creativo con obbedienza umile e pacifica: il dialogo fecondo e vitale tra la Parola di Dio e la Costituzione italiana, il primato della storia e la responsabilità sociale e politica, la predilezione per i piccoli e gli ultimi.

È vivo nella vicenda del padre costituente ed educatore di intere generazioni di giovani il messaggio del Papa buono: «la Chiesa si presenta quale è, e vuol essere, come la Chiesa di tutti, e particolarmente la Chiesa dei poveri» (Radiomessaggio a un mese dal Concilio Ecumenico Vaticano II, 11 settembre 1962). È Dossetti poi che influenza notevolmente il celebre discorso sulle povertà del Card. Lercaro del 7 dicembre 1962 secondo il quale «Il tema centrale del Concilio dovrebbe essere la chiesa dei poveri». Il sogno di Dossetti è quindi quello di una Chiesa per i poveri, per i piccoli e per gli ultimi, che con loro diventa a sua volta povera, piccola ed ultima: «tra Chiesa e povertà c’è un’intrinseca relazione, un nesso costitutivo» (C. LOREFICE, Dossetti e Lercaro.

La Chiesa povera e dei poveri nella prospettiva del Concilio Vaticano II, Paoline, Milano 2011, p. 267). Solo stando con Gesù sulla via da Lui assunta e vissuta: quella della debolezza, della umiltà, della mitezza, della povertà, è possibile affrontare e contrastare idoneamente ogni forma di indigenza, privazione, sofferenza, emarginazione, “scarto”. Pensando alla realtà odierna, vivendo una convincente opzione

preferenziale per i poveri (intesi come sacramento della presenza di Cristo e, quindi, luogo teologico e umano cruciale dell’annuncio cristiano) si possono ripensare, comprendere e rinnovare, sia la Chiesa/comunità cristiana che la vita sociale e politica, pena lo svuotamento e sterilità del loro impegno.

– Il messaggio evangelico, la lezione dei padri della Chiesa, il magistero insegnano chiaramente che fra religione e politica non può esserci confusione o separazione poiché l’annuncio di salvezza riguarda tutto l’uomo e il bene della società che abita. Un principio da tenere in considerazione dinanzi alle continue strumentalizzazioni della religione per fini elettorali. È così?

Si tratta sempre di andare oltre, allargando gli spazi della razionalità “in re sociali”. Ecco il messaggio centrale e la sfida fondamentale che il dato biblico, la Tradizione e il Magistero della Chiesa, come anche la sana esperienza umana credente e non credente insegnano e trasmettono in merito al rapporto corretto che esiste tra fede e vita e più specificamente tra religione e politica.

In particolare, su quest’ultimo ambito, dal punto di vista metodologico è sempre ineludibile, al fine di edificare una società giusta capace di far vivere insieme una vita pacifica e riconciliata, smascherare ed evitare i due rischi opposti: né separazione, né confusione tra religione e politica. La corretta visione tra politica e religione trova un inquadramento nella Costituzione pastorale del Vaticano II, all’interno della trattazione del rapporto tra la comunità politica e la Chiesa, che qui riportiamo essenzialmente: «La Chiesa che, in ragione del suo ufficio e della sua competenza, in nessuna maniera si confonde con la comunità politica e non è legata ad alcun sistema politico, è insieme il segno e la salvaguardia del carattere trascendente della persona umana. La comunità politica e la Chiesa sono indipendenti e autonome l’una dall’altra nel proprio campo. Ma tutte e due, anche se a titolo diverso, sono a servizio della vocazione personale e sociale degli stessi uomini.

Esse svolgeranno questo loro servizio a vantaggio di tutti in maniera tanto più efficace,quanto più coltiveranno una sana collaborazione tra di loro, secondo modalità adatte alle circostanze di luogo e di tempo. L’uomo infatti non è limitato al solo orizzonte temporale, ma, vivendo nella storia umana, conserva integralmente la sua vocazione eterna» (Cost. past. Gaudium et spes, n. 76).

L’incontro più autentico tra politica e religione si realizza nell’ordine morale: infatti, «la comunità politica e l’autorità pubblica hanno il loro fondamento nella natura umana e perciò appartengono all’ordine fissato da Dio» (Ibid., n. 74). Da qui, due elementi da approfondire: da un lato, il rapporto tra autonomia delle realtà temporali e riferimento al Creatore (cfr. Ibid., n. 36); dall’altra parte, il conseguimento del bene comune, crocevia etico dove si raccordano l’ambito politico e quello religioso (cfr. Ibid., nn. 74-75).

 

– Da più parti, e non solo di recente, si diffondono discorsi e ragionamenti volti a modificare la nostra costituzione. Sebbene abbia più di settant’anni, il dettato costituzionale ha un’impronta personalista che risulta assai contemporanea. Pensa che questo sia un aspetto da salvaguardare in vista di eventuali modifiche?

La Costituzione del 1948 è il luogo naturale in cui convergono i valori principali del nostro sistema politico democratico, a testimonianza della coscienza civile propria del nostro popolo, il cui ethos condiviso è stato lì depositato. Nell’arco di vita della nostra Legge fondamentale si sono modificate più volte alcune delle regole in essa contenuta e il rischio – affatto astratto – è che anche nell’attuale contesto post-ideologico molto emotivo, riscrivendo le regole, si vogliano rivedere anche i valori fondamentali che reggono la struttura basilare dell’ordinamento italiano. Tra questi, il valore senz’altro più essenziale – fondamento di tutti gli altri – è rappresentato dalla persona umana e la connessa dignità che ha pervaso di una impostazione fortemente personalista e comunitaria tutto il dettato costituzionale, merito dei politici cattolici che hanno saputo lavorare nell’Assemblea costituente (1946-1948) facendo convergere attorno ad essa, impostazioni di altra natura, come quella liberale e socialista.

In particolare, risalta l’articolo 2 della Carta Costituzionale (frutto di un ordine del giorno di Giuseppe Dossetti) che introduce il principio personalista e quello pluralista, strutturato sulle “formazioni sociali” e che «pone come fine ultimo della organizzazione sociale lo sviluppo di ogni singola persona umana» (CORTE COSTITUZIONALE, sent. n. 167/1999, Giur. Cost. 1999), così che l’uomo non è soltanto individuo, ma è intrinsecamente sociale, nelle sue varie forme, non esaurentesi nello Stato. In tal modo, sono sempre da evitare i rischi connessi ai due eccessi, quello individualistico e quello totalitaristico, riduzionismi questi purtroppo molto attuali che indeboliscono l’uomo nella sua consistenza irrevocabile, nella sua dignità incomparabile, in altre parole, nella sua vocazione, la cui forza è racchiusa nel primato della persona, principio, soggetto e fine della società.

Può risultare senz’altro di indubbio valore nel contesto odierno sempre più plurale comprendere e attualizzare la densa e inesauribile ricchezza personalista e relazionale racchiusa nella Legge fondamentale dello Stato, promuovendo una appassionata difesa creativa dei principi fondamentali della Carta repubblicana, come ha fatto uno dei “padri” fondatori della Costituzione, Giuseppe Dossetti, che dopo un lungo silenzio “pubblico”, contro ogni spinta separatista affermò: «la Costituzione italiana del 1948 […] porta l’impronta di uno spirito universale e in un certo modo trans-temporale» (G. DOSSETTI, «Le radici della Costituzione. Monteveglio 16 settembre 1994», in ID., I valori della Costituzione, Edizioni San Lorenzo, Reggio Emilia 1995, p. 68).

– Per Francesco, il partito “cattolico” è tema del secolo scorso. Tuttavia, Bergoglio stimola sempre i credenti all’impegno politico, sociale ed economico. A suo parere quale presenza di cristiano nel mondo – e nella politica – avanza il vescovo di Roma?

 Nel suo Magistero è continuo l’invito di papa Francesco rivolto a tutti – cittadini e leaders – ad attivare nuovi processi di discernimento e di riforma, sviluppando percorsi sostenibili di dialogo paziente e accogliente nutriti da legami solidali di amicizia sociale non polarizzati autoreferenziali, perché il bene generato possa essere veramente comune, dove ognuno – con onestà generosa e sincera dedizione – è chiamato a prendere parte attiva, in prima persona, alla vita pubblica: «ci vuole solo il desiderio gratuito, puro e semplice di essere popolo, di essere costanti e instancabili nell’impegno di includere, di integrare, di risollevare chi è caduto […].

Alimentiamo ciò che è buono e mettiamoci al servizio del bene» (Enc. Fratelli tutti, n. 77). L’intento fondamentale del Pontefice è quello di ripensare in chiave propositiva e dinamica l’impegno e la testimonianza della comunità cristiana, chiamata in questi anni a vivere percorsi di autentica sinodalità, le cui chiavi principali (comunione, partecipazione e missione) possono offrire ai giovani e agli adulti che abitano i diversi contesti sociali (ecclesiali e più ampiamente civili) percorsi educativi di cittadinanza responsabile. Fin dall’inizio del suo pontificato, ed in continuità con il suo ministero episcopale svolto a Buenos Aires (dove frequente ricorreva all’espressione: «Uscite dalle grotte» – salgan de las cuevas), il Papa ci mette in guardia dai rischi di una comunità ripiegata sul proprio interno, autoreferenziale, che, ossessionata da se stessa, rischia di perdere di vista la propria finalità e la propria identità, senza corrispondere alle necessità più vere e profonde della storia degli uomini.

È come se dicesse: solo nella fedeltà e coerenza all’evento originario della Chiesa – la storia di Gesù – c’è la possibilità per la Chiesa stessa di incarnare nel mondo la salvezza di cui il Signore le ha fatto dono, di cui Essa vive e che tutti possono vivere se si lasciano irradiare dalla luce e la vita del Risorto. Per comprendere questo ripensamento e impegno responsabile del cristiano è necessario riprendere e incidere in ciascuno di noi lo stile evocato dal pontefice e dinamicamente offerto nel suo documento programmatico: una perenne uscita da sé per adempiere il servizio della carità, che tutto «comprende, assiste e promuove» (Esort. ap. Evangelii gaudium, n. 179).

 

* Rocco Gumina insegna Religione nell'Arcidiocesi di Palermo. Dal 2014 è presidente dell'associazione culturale "A. De Gasperi". Pubblica, su riviste specialistiche, articoli che sviluppano temi legati alla relazione fra teologia, spiritualità e politica.

 

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