Per il disagio dei ragazzi serve una parola nuova: edupsicopenia
Il
Centro italiano aiuti all'infanzia lancia un neologismo per descrivere la
frequente coesistenza di povertà educativa e malessere psicologico. Nessuna
equazione, ma una complessità che ci sfida a pensare interventi
multifattoriali, gli unici efficaci. La parola? Edupsicoπenia
A
spiegare il senso della parola edupsicopenia e la complessità della condizione
che essa descrive sono Paola Cristoferi, responsabile del Programma
Italia di Ciai e Alessandra Santona, professoressa ordinaria di
Psicologia Dinamica all’Università Milano Bicocca e responsabile scientifica
del Ciai.
Qual
è la nuova realtà che avete osservato tra i bambini e gli adolescenti?
Paola
Cristoferi: Ovviamente non abbiamo scoperto qualcosa di
assolutamente nuovo. Il fatto che esista un’associazione significativa tra
povertà educativa e disagio psicologico giovanile è qualcosa che sta nella
consapevolezza di tutti coloro che si occupano di minori, di adolescenti, di
scuola, di educazione, di contesti svantaggiati. Lo vediamo tutti i giorni, in
bambini e bambine concreti. È una cosa tanto diffusa che abbiamo sentito il
bisogno di una parola per dirla.
Perché?
Cristoferi: Perché
con le parole esistenti avevamo difficoltà ad esprimere un contesto così
complesso qual è quello che osserviamo nei presidi educativi. Non abbiamo la
presunzione di pensare che edupsicopenia sia la parola perfetta per descrivere
la realtà, ma sicuramente ci permette di mettere insieme due fenomeni che
ancora troppo spesso sono pensati – e di conseguenza affrontati – come due
fenomeni diversi. In questi anni abbiamo imparato tutti a parlare di povertà
educativa minorile, abbiamo imparato a differenziarla dalla povertà materiale e
abbiamo iniziato a capire che cosa ci sta dietro. Siamo arrivati a riconoscere
che la povertà educativa non è semplicemente un tema di insuccesso scolastico,
ma è l’impossibilità di accedere a delle possibilità in più, oltre a quelle che
l’istruzione pubblica offre. È l’impossibilità di essere accompagnati quando si
hanno delle difficoltà a riconoscere i propri talenti e le proprie capacità. Se
l’educazione ha a che fare con il tema del fiorire, la povertà educativa è il
rimanere indietro in questo fiorire, il rimanere passivi, diciamo così.
Non
abbiamo la presunzione di pensare che edupsicopenia sia la parola perfetta per
descrivere la realtà, ma sicuramente ci permette di mettere insieme due
fenomeni che ancora troppo spesso sono pensati – e di conseguenza affrontati –
come due fenomeni diversi
Poi
è arrivato il Covid e tutti hanno iniziato a parlare del malessere psicologico
degli adolescenti…
Cristoferi: Come
sappiamo, il Covid ha fatto solo da amplificatore. Però sì, nel post-Covid è
emersa con forza questa emergenza del malessere psicologico degli adolescenti,
ma io direi anche dei preadolescenti: non è solo qualcosa che noi operatori
intercettiamo, è proprio che i ragazzi questo malessere lo esprimono sempre di
più e sempre prima, è aumentata tantissimo anche la consapevolezza del
malessere. Quindi ci siamo resi conto che guardare a questi due
fenomeni come a due cose distinte significava delegare il primo tema al mondo
dell’educazione e il secondo al mondo della psicologia, senza capire che ormai
davvero – nelle scuole ma anche negli interventi del sociale – il bisogno più
forte è quello di integrare i saperi e gli sguardi. Questo
tecnicamente significa essere capaci di parlare linguaggi diversi, di
confrontarsi con competenze e specialisti diversi, ma dall’altra parte vuol
dire anche osservare, concretamente, che un bambino che va male a scuola ha
dietro quasi sicuramente dell’altro e quell’andare male a scuola genera dei
vissuti che possono diventare anche fattori di rischio non solo per un
abbandono scolastico ma anche per un ritiro sociale per esempio. Voglio essere
chiara, questo non significa avere un approccio determinista o meccanicistico,
però sicuramente noi vediamo che i problemi spesso sono tanti tasselli che si
uniscono tra loro. Di conseguenza, se non hai la capacità di cogliere come
questi aspetti rischiano di integrarsi fra loro, finisci per guardare soltanto un
lato della luna.
Come
possiamo descrivere meglio questa realtà degli adolescenti di oggi, che ci
porta a sentire l’esigenza di un termine nuovo?
Alessandra
Santona: La edupsicopenia è un fenomeno
multidimensionale, le cui dimensioni principali sono appunto il malessere
psicologico e la difficoltà ad accedere alle risorse, quindi tutto il tema
della povertà educativa. La copresenza di queste due dimensioni nell’esperienza
della medesima persona è ormai nota alla letteratura scientifica, agli
operatori che lavorano con i bambini e agli psicologi. Una meta-analisi
realizzata nel 2023 mette in evidenza che le giovani e i giovani provenienti da
contesti di povertà educativa mostrano livelli più elevati di malessere
psicologico, caratterizzato da sintomi come ansia, depressione, bassa autostima
e sentimenti di isolamento. Quella sulla correlazione tra due
dimensioni distinte della povertà è una riflessione che è già stata fatta
parlando di povertà economica e di povertà educativa. Un passaggio simile, in
questo momento, siamo chiamati a farlo sul versante psicologico: non vuol dire
che tutte le volte in cui c’è un basso accesso alle risorse (soprattutto a
quelle educative) c’è anche una forte dimensione di malessere psicologico,
affettivo e relazionale… Nessuna equazione, piuttosto un indicatore di
rischio che ci richiama ad immaginare che c’è una fetta molto ampia dei bambini
e delle bambine che vivono l’esperienza della povertà educativa che possono
avere anche sintomi che hanno a che vedere con le loro potenzialità di crescita
in senso più ampio, con caratteristiche che minano la strutturazione della loro
persona. A quel punto potremmo fare un intervento di massimizzazione
del benessere oppure un intervento preventivo.
Che
cosa cambia il fatto di iniziare a considerare il fenomeno come composto da
entrambe queste due dimensioni?
Santona: Innanzitutto
che andremo a programmare gli interventi tenendole presenti entrambe, riducendo
gli interventi che prendono in considerazione solo uno o solo l’altro aspetto,
perdendo di efficacia. Quello dell’efficacia dell’intervento è un tema molto
importante, che Ciai introducendo questo neologismo vuole sottolineare.
Interventi multifattoriali, dove le risposte al disagio psicologico e quelle al
disagio rispetto all’accesso alle risorse educative viaggiano di pari passo nel
medesimo progetto, con interventi psicoeducativi o educativi-psicologici –
visto l’ordine delle parole – che permettano sia l’accesso alle risorse
educative sia il supporto personale, coinvolgendo tutte quelle dimensioni che
massimizzano il benessere delle persone.
Questo
è un tema centrale: come si risponde al bisogno multifattoriale e complesso che
avete appena descritto? Davvero finora abbiamo dato per lo più risposte che
guardano solo a uno dei due elementi?
Cristoferi: Sempre
no, lo stessi Ciai – e non da oggi – ha équipe dove sono presenti entrambi gli
sguardi, quello educativo e quello psicologico, vuoi perché gli educatori sono
anche psicologi, vuoi perché gli educatori sono accompagnati da una figura che
ha una competenza psicologica, che fa anche un lavoro di osservazione dei
bambini e delle bambine, dei ragazzi e delle ragazze e di supporto alle
famiglie. Le parole multidimensionale e integrazione rappresentano moltissimo
l’approccio di Ciai, che si traduce anche nella costruzione di una comunità
competente rispetto a questo fenomeno multidimensionale. Quello che voglio dire
è che Ciai – o un altro ente – può anche avere competenze interne che sono sia
educative sia psicologiche, ma questo non basta. Serve una cultura diffusa su
questo approccio multidimensionale.
Ciai
– o un altro ente – può anche avere competenze interne sia educative sia
psicologiche, ma questo non basta. Serve una cultura diffusa su questo
approccio multidimensionale
Se
pensiamo alla scuola, per esempio, la cronaca continua a riportarci che questo
sguardo multifattoriale, che tenga insieme tutti gli aspetti della persona,
manca anche se i ragazzi lo chiedono esplicitamente…
Cristoferi:
La scuola ovviamente è competente rispetto delle questioni educative, però in
certe situazioni mettere in campo solo quel tipo di risposta non è efficace
perché dietro ci sono dei vissuti personali e delle condizioni familiari che
per forza devono essere prese in considerazione per poter fare un intervento
che sia efficace anche sul versante educativo. Ma non è solo la scuola:
dobbiamo far crescere questo tipo di approccio anche nel Terzo settore e nei
servizi sociali. Spessissimo ci troviamo a “riavvolgere il filo” della storia
di un bambino e a capire che dobbiamo tirar dentro la scuola, i genitori, la
catechista piuttosto che l’imam, la comunità di appartenenza… È questa
integrazione di sguardi diversi, anche informali, che poi rende davvero
efficace l’intervento.
Qual
è allora la sfida che questa parola esplicita?
Santona: Direi
che a partire da una lunga esperienza affiancata da una solida consapevolezza
scientifica, con la parola edupsicopenia Ciai pone di fronte chi si occupa di
questi temi – e naturalmente a noi stessi – la sfida di considerarlo un
fenomeno complesso che non può essere affrontato solo da uno o dall’altro punto
di vista. Non è banale, perché nella realtà sociale spesso bellissimi
interventi sono stati fatti considerando queste due dimensioni a se stanti. Ma
quell’approccio vanifica l’impegno profuso. Vale per la scuola, quando non
considera la dimensione psicologica così come per noi psicologi, che a volte
pensiamo che basti poi stare nel nostro studio e aiutare le persone a lavorare
sulla propria autostima. La vera sfida è riuscire a costruire progetti che
tengano conto della molteplicità delle dimensioni coinvolte e che pensino
l’intervento tenendole insieme dal principio.
Con
la parola edupsicopenia Ciai pone di fronte chi si occupa di questi temi – e
naturalmente a noi stessi – la sfida di considerarlo un fenomeno complesso che
non può essere affrontato solo da uno o dall’altro punto di vista
Che
cosa cambia da oggi per Ciai nella progettazione del suo intervento?
Cristoferi: Avremo
un impegno ancora maggiore a tenere a mente questa sfida, nel provare a tener
testa a questa complessità, a starci dentro senza sottrarci agli specialismi,
ovviamente, ma cercando di coltivare la capacità di integrare gli sguardi.
Santona: Che
è una sfida sociale, se ci pensiamo. Abbiamo attraversato anni molto fruttuosi,
in cui la parcellizzazione dei saperi ci ha portato a tante consapevolezze
importanti. È come se ora ci ricordassimo che abbiamo un po’ scordato la
persona come una dimensione unitaria, dove tutte le cose si influenzano l’una
con l’altra in maniera osmotica. L’iperspecializzazione fa perdere di
efficacia. Quindi la sfida è filosofica, politica, sociale: l’idea di guardare
la complessità come punto di partenza e non usare il riduzionismo per perdere
la soggettività. Di fronte a problemi complessi, le risposte devono essere
integrate. Per me la vera sfida è considerare ogni aspetto come una possibile
porta di ingresso, che appunto sono tante e non possono essere codificate da
principio.
Abbiamo
attraversato anni molto fruttuosi, in cui la parcellizzazione dei saperi ci ha
portato a tante consapevolezze importanti. Ma l’iperspecializzazione fa perdere
di efficacia
La
richiesta di essere attenti alla persona, con tutti i suoi aspetti, è
esattamente quello che ci stanno dicendo i ragazzi che fanno per scelta “scena
muta” all’orale della maturità. No?
Santona: Io
sono un docente universitario ma sono molto favorevole alle loro posizioni, sia
perché mi sembra una posizione attiva dopo tanti anni in cui gli abbiamo tolto
la possibilità di parola. Si stanno riprendendo uno spazio, in modo più o meno
adeguato, più o meno composto: ma va bene, sono adolescenti, è giusto che la
loro modalità sia scomposta. I ragazzi – che sia nei questionari che gli
proponiamo all’università o con questa modalità al liceo – continuano a dirci
che loro da noi adulti vorrebbero uno sguardo più umano, che fossimo in grado
di vederli come persone e anche che noi ci proponessimo come persone, che non
ci riconoscessimo soltanto in una funzione. Che noi non fossimo degli
insegnanti, ma delle persone che insegnano. E loro delle persone che apprendono.
È quello a cui ci richiama l’Unione europea da tanti anni, dicendoci appunto
che più che degli apprendimenti dobbiamo occuparci delle persone che apprendono
e del modo in cui si apprende. Continuiamo a raccontarcelo, lo scriviamo nelle
pubblicazioni ma poi di fatto…
Perché
di fronte a queste proteste dei ragazzi, come mondo adulto ci viene un po’ da
liquidare questa loro richiesta di essere visti come persone e poi però li
mandiamo e andiamo tutti dallo psicologo alla prima difficoltà?
Santona: Mi
veniva da rispondere questa generazione di adulti manda i figli dallo
psicologo, però poi non vuole che quello che il figlio con l’aiuto dello
psicologo capisce, venga poi detto pubblicamente, diventi legittimazione di un
bisogno.
Cristofori:
Io ho in mente una frase che ho letto proprio su VITA, dove una ragazza diceva:
“Voi vi lamentate che siamo fragili, ma siamo la prima generazione che è capace
di dirlo”. Mi ha abbastanza illuminato, perché effettivamente è questo. Nel
momento in cui i ragazzi ci dicono “vogliamo un mondo più umano”, siccome
questa cosa è difficile per gli adulti da fare, la releghiamo a scompostezza
adolescenziale.
Per
il disagio dei ragazzi serve una parola nuova: edupsicopenia
Il
Centro italiano aiuti all'infanzia lancia un neologismo per descrivere la
frequente coesistenza di povertà educativa e malessere psicologico. Nessuna
equazione, ma una complessità che ci sfida a pensare interventi
multifattoriali, gli unici efficaci. La parola? Edupsicoπenia
Ci vuole una parola nuova, per dire una realtà nuova. La parola è edupsicopenia, si rifà chiaramente al greco e l’ha coniata il Centro Italiano Aiuti all’Infanzia-Ciai per restituire con maggiore ricchezza di sfumature i bisogni dei tanti bambini e adolescenti che incontra nei suoi presidi educativi, attualmente attivi a Milano, Palermo e Bari. È l’esperienza sul campo, affiancata da una solida consapevolezza scientifica, che porta ad evidenziare il fenomeno dell’edupsicopenia (edupsicoπenia), che si verifica là dove alla povertà educativa si affianca anche un malessere psicologico, anche profondo. Sempre più spesso le due cose si intrecciano e un intervento efficace non può non guardare a entrambe, con uno sguardo integrato fin dalla progettazione dell’intervento.
A
spiegare il senso della parola edupsicopenia e la complessità della condizione
che essa descrive sono Paola Cristoferi, responsabile del Programma
Italia di Ciai e Alessandra Santona, professoressa ordinaria di
Psicologia Dinamica all’Università Milano Bicocca e responsabile scientifica
del Ciai.
Qual
è la nuova realtà che avete osservato tra i bambini e gli adolescenti?
Paola
Cristoferi: Ovviamente non abbiamo scoperto qualcosa di
assolutamente nuovo. Il fatto che esista un’associazione significativa tra
povertà educativa e disagio psicologico giovanile è qualcosa che sta nella
consapevolezza di tutti coloro che si occupano di minori, di adolescenti, di
scuola, di educazione, di contesti svantaggiati. Lo vediamo tutti i giorni, in
bambini e bambine concreti. È una cosa tanto diffusa che abbiamo sentito il
bisogno di una parola per dirla.
Perché?
Cristoferi: Perché
con le parole esistenti avevamo difficoltà ad esprimere un contesto così
complesso qual è quello che osserviamo nei presidi educativi. Non abbiamo la
presunzione di pensare che edupsicopenia sia la parola perfetta per descrivere
la realtà, ma sicuramente ci permette di mettere insieme due fenomeni che
ancora troppo spesso sono pensati – e di conseguenza affrontati – come due
fenomeni diversi. In questi anni abbiamo imparato tutti a parlare di povertà
educativa minorile, abbiamo imparato a differenziarla dalla povertà materiale e
abbiamo iniziato a capire che cosa ci sta dietro. Siamo arrivati a riconoscere
che la povertà educativa non è semplicemente un tema di insuccesso scolastico,
ma è l’impossibilità di accedere a delle possibilità in più, oltre a quelle che
l’istruzione pubblica offre. È l’impossibilità di essere accompagnati quando si
hanno delle difficoltà a riconoscere i propri talenti e le proprie capacità. Se
l’educazione ha a che fare con il tema del fiorire, la povertà educativa è il
rimanere indietro in questo fiorire, il rimanere passivi, diciamo così.
Non
abbiamo la presunzione di pensare che edupsicopenia sia la parola perfetta per
descrivere la realtà, ma sicuramente ci permette di mettere insieme due
fenomeni che ancora troppo spesso sono pensati – e di conseguenza affrontati –
come due fenomeni diversi
Poi è arrivato il Covid e tutti hanno iniziato a parlare del malessere psicologico degli adolescenti…
Cristoferi: Come
sappiamo, il Covid ha fatto solo da amplificatore. Però sì, nel post-Covid è
emersa con forza questa emergenza del malessere psicologico degli adolescenti,
ma io direi anche dei preadolescenti: non è solo qualcosa che noi operatori
intercettiamo, è proprio che i ragazzi questo malessere lo esprimono sempre di
più e sempre prima, è aumentata tantissimo anche la consapevolezza del
malessere. Quindi ci siamo resi conto che guardare a questi due
fenomeni come a due cose distinte significava delegare il primo tema al mondo
dell’educazione e il secondo al mondo della psicologia, senza capire che ormai
davvero – nelle scuole ma anche negli interventi del sociale – il bisogno più
forte è quello di integrare i saperi e gli sguardi. Questo
tecnicamente significa essere capaci di parlare linguaggi diversi, di
confrontarsi con competenze e specialisti diversi, ma dall’altra parte vuol
dire anche osservare, concretamente, che un bambino che va male a scuola ha
dietro quasi sicuramente dell’altro e quell’andare male a scuola genera dei
vissuti che possono diventare anche fattori di rischio non solo per un
abbandono scolastico ma anche per un ritiro sociale per esempio. Voglio essere
chiara, questo non significa avere un approccio determinista o meccanicistico,
però sicuramente noi vediamo che i problemi spesso sono tanti tasselli che si
uniscono tra loro. Di conseguenza, se non hai la capacità di cogliere come
questi aspetti rischiano di integrarsi fra loro, finisci per guardare soltanto un
lato della luna.
Come
possiamo descrivere meglio questa realtà degli adolescenti di oggi, che ci
porta a sentire l’esigenza di un termine nuovo?
Alessandra
Santona: La edupsicopenia è un fenomeno
multidimensionale, le cui dimensioni principali sono appunto il malessere
psicologico e la difficoltà ad accedere alle risorse, quindi tutto il tema
della povertà educativa. La copresenza di queste due dimensioni nell’esperienza
della medesima persona è ormai nota alla letteratura scientifica, agli
operatori che lavorano con i bambini e agli psicologi. Una meta-analisi
realizzata nel 2023 mette in evidenza che le giovani e i giovani provenienti da
contesti di povertà educativa mostrano livelli più elevati di malessere
psicologico, caratterizzato da sintomi come ansia, depressione, bassa autostima
e sentimenti di isolamento. Quella sulla correlazione tra due
dimensioni distinte della povertà è una riflessione che è già stata fatta
parlando di povertà economica e di povertà educativa. Un passaggio simile, in
questo momento, siamo chiamati a farlo sul versante psicologico: non vuol dire
che tutte le volte in cui c’è un basso accesso alle risorse (soprattutto a
quelle educative) c’è anche una forte dimensione di malessere psicologico,
affettivo e relazionale… Nessuna equazione, piuttosto un indicatore di
rischio che ci richiama ad immaginare che c’è una fetta molto ampia dei bambini
e delle bambine che vivono l’esperienza della povertà educativa che possono
avere anche sintomi che hanno a che vedere con le loro potenzialità di crescita
in senso più ampio, con caratteristiche che minano la strutturazione della loro
persona. A quel punto potremmo fare un intervento di massimizzazione
del benessere oppure un intervento preventivo.
Che
cosa cambia il fatto di iniziare a considerare il fenomeno come composto da
entrambe queste due dimensioni?
Santona: Innanzitutto
che andremo a programmare gli interventi tenendole presenti entrambe, riducendo
gli interventi che prendono in considerazione solo uno o solo l’altro aspetto,
perdendo di efficacia. Quello dell’efficacia dell’intervento è un tema molto
importante, che Ciai introducendo questo neologismo vuole sottolineare.
Interventi multifattoriali, dove le risposte al disagio psicologico e quelle al
disagio rispetto all’accesso alle risorse educative viaggiano di pari passo nel
medesimo progetto, con interventi psicoeducativi o educativi-psicologici –
visto l’ordine delle parole – che permettano sia l’accesso alle risorse
educative sia il supporto personale, coinvolgendo tutte quelle dimensioni che
massimizzano il benessere delle persone.
Questo
è un tema centrale: come si risponde al bisogno multifattoriale e complesso che
avete appena descritto? Davvero finora abbiamo dato per lo più risposte che
guardano solo a uno dei due elementi?
Cristoferi: Sempre
no, lo stessi Ciai – e non da oggi – ha équipe dove sono presenti entrambi gli
sguardi, quello educativo e quello psicologico, vuoi perché gli educatori sono
anche psicologi, vuoi perché gli educatori sono accompagnati da una figura che
ha una competenza psicologica, che fa anche un lavoro di osservazione dei
bambini e delle bambine, dei ragazzi e delle ragazze e di supporto alle
famiglie. Le parole multidimensionale e integrazione rappresentano moltissimo
l’approccio di Ciai, che si traduce anche nella costruzione di una comunità
competente rispetto a questo fenomeno multidimensionale. Quello che voglio dire
è che Ciai – o un altro ente – può anche avere competenze interne che sono sia
educative sia psicologiche, ma questo non basta. Serve una cultura diffusa su
questo approccio multidimensionale.
Ciai
– o un altro ente – può anche avere competenze interne sia educative sia
psicologiche, ma questo non basta. Serve una cultura diffusa su questo
approccio multidimensionale
Se pensiamo alla scuola, per esempio, la cronaca continua a riportarci che questo sguardo multifattoriale, che tenga insieme tutti gli aspetti della persona, manca anche se i ragazzi lo chiedono esplicitamente…
Cristoferi:
La scuola ovviamente è competente rispetto delle questioni educative, però in
certe situazioni mettere in campo solo quel tipo di risposta non è efficace
perché dietro ci sono dei vissuti personali e delle condizioni familiari che
per forza devono essere prese in considerazione per poter fare un intervento
che sia efficace anche sul versante educativo. Ma non è solo la scuola:
dobbiamo far crescere questo tipo di approccio anche nel Terzo settore e nei
servizi sociali. Spessissimo ci troviamo a “riavvolgere il filo” della storia
di un bambino e a capire che dobbiamo tirar dentro la scuola, i genitori, la
catechista piuttosto che l’imam, la comunità di appartenenza… È questa
integrazione di sguardi diversi, anche informali, che poi rende davvero
efficace l’intervento.
Qual
è allora la sfida che questa parola esplicita?
Santona: Direi
che a partire da una lunga esperienza affiancata da una solida consapevolezza
scientifica, con la parola edupsicopenia Ciai pone di fronte chi si occupa di
questi temi – e naturalmente a noi stessi – la sfida di considerarlo un
fenomeno complesso che non può essere affrontato solo da uno o dall’altro punto
di vista. Non è banale, perché nella realtà sociale spesso bellissimi
interventi sono stati fatti considerando queste due dimensioni a se stanti. Ma
quell’approccio vanifica l’impegno profuso. Vale per la scuola, quando non
considera la dimensione psicologica così come per noi psicologi, che a volte
pensiamo che basti poi stare nel nostro studio e aiutare le persone a lavorare
sulla propria autostima. La vera sfida è riuscire a costruire progetti che
tengano conto della molteplicità delle dimensioni coinvolte e che pensino
l’intervento tenendole insieme dal principio.
Con
la parola edupsicopenia Ciai pone di fronte chi si occupa di questi temi – e
naturalmente a noi stessi – la sfida di considerarlo un fenomeno complesso che
non può essere affrontato solo da uno o dall’altro punto di vista
Alessandra
Santona, professoressa di psicologa, responsabile scientifica di Ciai
Che
cosa cambia da oggi per Ciai nella progettazione del suo intervento?
Cristoferi: Avremo
un impegno ancora maggiore a tenere a mente questa sfida, nel provare a tener
testa a questa complessità, a starci dentro senza sottrarci agli specialismi,
ovviamente, ma cercando di coltivare la capacità di integrare gli sguardi.
Santona: Che
è una sfida sociale, se ci pensiamo. Abbiamo attraversato anni molto fruttuosi,
in cui la parcellizzazione dei saperi ci ha portato a tante consapevolezze
importanti. È come se ora ci ricordassimo che abbiamo un po’ scordato la
persona come una dimensione unitaria, dove tutte le cose si influenzano l’una
con l’altra in maniera osmotica. L’iperspecializzazione fa perdere di
efficacia. Quindi la sfida è filosofica, politica, sociale: l’idea di guardare
la complessità come punto di partenza e non usare il riduzionismo per perdere
la soggettività. Di fronte a problemi complessi, le risposte devono essere
integrate. Per me la vera sfida è considerare ogni aspetto come una possibile
porta di ingresso, che appunto sono tante e non possono essere codificate da
principio.
Abbiamo
attraversato anni molto fruttuosi, in cui la parcellizzazione dei saperi ci ha
portato a tante consapevolezze importanti. Ma l’iperspecializzazione fa perdere
di efficacia
La richiesta di essere attenti alla persona, con tutti i suoi aspetti, è esattamente quello che ci stanno dicendo i ragazzi che fanno per scelta “scena muta” all’orale della maturità. No?
Santona: Io
sono un docente universitario ma sono molto favorevole alle loro posizioni, sia
perché mi sembra una posizione attiva dopo tanti anni in cui gli abbiamo tolto
la possibilità di parola. Si stanno riprendendo uno spazio, in modo più o meno
adeguato, più o meno composto: ma va bene, sono adolescenti, è giusto che la
loro modalità sia scomposta. I ragazzi – che sia nei questionari che gli
proponiamo all’università o con questa modalità al liceo – continuano a dirci
che loro da noi adulti vorrebbero uno sguardo più umano, che fossimo in grado
di vederli come persone e anche che noi ci proponessimo come persone, che non
ci riconoscessimo soltanto in una funzione. Che noi non fossimo degli
insegnanti, ma delle persone che insegnano. E loro delle persone che apprendono.
È quello a cui ci richiama l’Unione europea da tanti anni, dicendoci appunto
che più che degli apprendimenti dobbiamo occuparci delle persone che apprendono
e del modo in cui si apprende. Continuiamo a raccontarcelo, lo scriviamo nelle
pubblicazioni ma poi di fatto…
Perché
di fronte a queste proteste dei ragazzi, come mondo adulto ci viene un po’ da
liquidare questa loro richiesta di essere visti come persone e poi però li
mandiamo e andiamo tutti dallo psicologo alla prima difficoltà?
Santona: Mi
veniva da rispondere questa generazione di adulti manda i figli dallo
psicologo, però poi non vuole che quello che il figlio con l’aiuto dello
psicologo capisce, venga poi detto pubblicamente, diventi legittimazione di un
bisogno.
Cristofori:
Io ho in mente una frase che ho letto proprio su VITA, dove una ragazza diceva:
“Voi vi lamentate che siamo fragili, ma siamo la prima generazione che è capace
di dirlo”. Mi ha abbastanza illuminato, perché effettivamente è questo. Nel
momento in cui i ragazzi ci dicono “vogliamo un mondo più umano”, siccome
questa cosa è difficile per gli adulti da fare, la releghiamo a scompostezza
adolescenziale.
Nessun commento:
Posta un commento