domenica 29 novembre 2020

IDENTITA' DI GENERE A SCUOLA. PERCHE' E COME PARLARNE


 Sulla proposta della legge Zan di celebrare una Giornata nazionale contro l’omofobia

La posizione secondo cui non sarebbe corretto affrontare in classe determinati argomenti perché “divisivi” non regge: i giovani cercano informazioni, si guardano dentro per capire e per capirsi. Nella norma prevista si può cogliere un’occasione per capire e accompagnare il cammino dei nostri figli più disorientati.

I ragazzi oggi chiedono di non fingere indifferenza, e di essere aiutati a capire Ma chi ha le competenze e gli strumenti per farlo in modo coerente e sereno?

 di Luciano Moia *


L’articolo 6 della legge Zan approvata alla Camera stabilisce che il 17 maggio di ogni anno venga celebrata la Giornata nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia, anche con iniziative organizzate dalle pubbliche amministrazioni e dalle scuole, comprese quelle primarie. Scelta ideologica? Tentativo di introdurre tra i bambini i veleni della cosiddetta cultura gender? Un rischio, certo. Nella lettera scritta al direttore di “Avvenire” il relatore della legge, Alessandro Zan, assicura tuttavia che «non si prevede in alcuna parte della legge l’introduzione di fantasmatiche “ore di gender”, né si espongono studentesse e studenti a chissà quali contenuti scabrosi. Si prevede semplicemente che, in occasione della Giornata nazionale contro l’omotransfobia, possano svolgersi nelle scuole iniziative dedicate a richiamare i valori del rispetto e del contrasto delle discriminazioni e della violenza motivate da orientamento sessuale e identità di genere». Obiettivi in larga parte condivisibili. Sarà però decisivo capire come verranno declinati questi propositi e, soprattutto, come potrebbe essere strutturato nelle scuole il percorso di avvicinamento a questa Giornata se la legge dovesse superare l’esame del Senato.

Un altro punto interrogativo è legato agli insegnanti. Quelli che dovessero affrontare la questione con serietà – certamente la maggior parte – non potrebbero evitare di confrontarsi con argomenti complessi come il corpo, la differenza, il rispetto, le emozioni, gli affetti, le relazioni. E dovrebbero farlo, come ha spiegato su queste colonne la pedagogista Livia Cadei, che è anche presidente della Confederazione italiana dei consultori di ispirazione cristiana, con la sapienza educativa del «giusto momento», sempre ponendosi dalla parte dei bambini, con un’opera di mediazione efficace e rispettosa delle diverse sensibilità. Occorrerebbero linguaggi adatti e vicini ma, soprattutto, nel caso sarà opportuno chiedere e offrire alle famiglie quella collaborazione giocata sulla reciproca fiducia e sulla trasparenza degli obiettivi che finora è troppo spesso mancata. E si tratta anche qui di un punto decisivo. Nessuna scuola può pensare, su un punto così delicato come l’educazione sessuale, di marciare in senso contrario alla sensibilità dei genitori.

Ma se ogni situazione è occasione, perché la legge Zan, pur con tutti i suoi aspetti problematici che abbiamo già messo in luce, non potrebbe rivelarsi un’opportunità anche in chiave educativa per ri- flettere, anche nelle scuole, su temi ormai irrinunciabili? La posizione secondo cui non sarebbe corretto affrontare a scuola questi argomenti perché “divisivi” o addirittura imbarazzanti non regge in alcun modo. I nostri ragazzi non solo ne parlano, cercano informazioni, si guardano dentro per capire e per capirsi, ma arrivano a definire come “normali” scelte che interrogano e, in molti casi, spiazzano noi adulti.

Nell’ultimo Rapporto Giovani della Fondazione Toniolo (Adolescenti e relazioni significative. Indagine generazione Z 2018-2019) che indaga, tra l’altro, sulle relazioni sentimentali della fascia d’età tra i 13 e 18 anni, si evidenzia che il 10,3 dei ragazzi e il 4,6 delle ragazze dichiara di avere un rapporto stabile omosessuale. I ricerca- tori che si sono trovati di fronte a queste risposte sorprendenti, non fosse altro per le percentuali, che tra i ragazzi non corrispondono a ciò che le statistiche hanno frequentemente indicato per quanto riguarda la consistenza numerica della popolazione non eterosessuale (3-5%), hanno cercato di capire quanto fossero credibili queste dichiarazioni. Ma da una parte la garanzia dell’anonimato, dall’altro l’esame di una serie di parametri che svelano la credibilità o meno delle risposte, non hanno potuto che confermarne l’attendibilità. Possiamo prendere questi dati come trascurabili? Possiamo fingere che non facciano emergere una tendenza o non rivelino nulla di significativo? Certo, possiamo farlo. Ma anche ammettendo il peso di curiosità. condizionamenti culturali e propensione, in alcuni, a farsi affascinare dalle tendenze più trasgressive, la libertà con cui una percentuale così rilevante di ragazzi ha messo nero su bianco all’interno un sondaggio le proprie preferenze sessuali, indica un livello di trasparenza – o un grido di aiuto – che forse pochi anni sarebbe stato impensabile. E questo non diventa interessante solo per i sociologi, ma rappresenta soprattutto per le famiglie un dato urgente su cui riflettere perché ripropone con la forza dei fatti, la questione dell’orientamento sessuale. Una questione “anche” educativa – oltre che esperienziale, ormonale, genetica, culturale, ecc. – che non può essere elusa né dai genitori, né dalla scuola.

Non basta ribadire come un mantra l’evidente suddivisione binaria della natura umana. Una parte dei nostri ragazzi vive anche “quelle” esperienze e ci chiede di non fingere indifferenza, di essere accolta e aiutata a capire. Ma chi ha competenze e strumenti per farlo in modo coerente e sereno? E in questo modo non si aprirebbero le porte ai propugnatori della cosiddetta cultura gender? Qualche considerazione è necessaria. Non tutti gli approfondimenti sulla questione del genere – come illustrato lo scorso anno dal documento della Congregazione per l’educazione cattolica, Maschio e femmina li creò. Per una via di dialogo sulla questione del gender nel- l’educazione – sono un cedimento alla cultura che, secondo la semplificazione corrente, vorrebbe appiattire la differenza sessuale nella logica di un’autodeterminazione senza limiti e senza barriere. Ma il documento vaticano spiega che è necessario fare una distinzione tra ideologia e studi sul gender. Mentre la prima, come ricordato anche da papa Francesco, nel «rispondere a certe aspirazioni a volte comprensibili», finisce per imporsi come «un pensiero unico che determina anche l’educazione dei bambini», non mancano ricerche sul “gender” che cercano di approfondire adeguatamente il modo in cui si vive nelle diverse culture la differenza sessuale tra uomo e donna. «In relazione a questi studi – si dice nel documento vaticano – è possibile aprirsi all’ascolto, al ragionamento e alle proposte».

E su questi aspetti, si ammette, ci sono alcuni elementi di ragionevole condivisione, come il rispetto di ogni persona nella sua peculiare e differente condizione, affinché nessuno, a causa delle proprie condizioni personali (disabilità, razza, religione, tendenze affettive, ecc.), possa diventare – scrivono gli esperti vaticani – oggetto di bullismo, violenze, insulti e discriminazioni ingiuste. Che è poi quello che papa Francesco scrive in Amoris laetitia (n. 250). Che sono, poi, le intenzioni migliori della legge Zan. Ecco perché, pur considerando i rischi ideologici oggettivi e già evidenziati, non è stravagante cogliere nell’articolo della legge che sollecita le scuole ad approfondire, insieme alla questione omofobia, gli indispensabili aspetti antropologici per comprenderne significati e relazioni, un’occasione per capire e accompagnare il cammino dei nostri figli più disorientati.

Sarebbe molto comodo concludere che questo disorientamento sia causato dalla persistente invasione del “gender”. Ma è davvero cosi? Non c’è una minima percentuale di responsabilità anche nel fatto che le famiglie, a loro volta confuse, hanno smesso di essere un riferimento educativo? E che nelle scuole e nelle altre agenzie educative sia così difficile organizzare progetti di educazione all’affettività e alla sessualità capaci di mescolare con saggezza la norma dell’ideale con l’umanità del bene possibile?

www.avvenire.it

 

*Luciano Moia, sposato, due figli, è da oltre vent’anni caporedattore del mensile di Avvenire dedicato alla famiglia, prima Noi genitori & figli, ora Noi famiglia & vita. Nello stesso quotidiano è stato anche responsabile della redazione Catholica (informazione religiosa) e della redazione Interni (cronaca e politica nazionale). In precedenza, ha lavorato per un decennio a il Giornale di Montanelli, poi a La Voce e L’Eco di Bergamo. Laureato in Lettere con orientamento storico, ha scritto una ventina di saggi tra cui: Famiglia, morale, bioetica con il cardinale Dionigi Tettamanzi (Piemme, 1999); Figli televisivi? (Edizioni San Paolo, 2001); Crescere insieme. Genitori e figli adolescenti alla scoperta dell’età adulta (Elledici, 2002) e La famiglia la parrocchia la pastorale. Storie vere di famiglie aperte alla Chiesa e al mondo con Paola Tettamanzi (Edizioni San Paolo, 2004). Ha curato gli ultimi due ebook di AvvenireLe bugie del gender (2015) e Amoris laetitia. Un anno formidabile, 8 aprile 2016-8 aprile 2017.

 

 

sabato 28 novembre 2020

VEGLIATE !

 

Il commento al Vangelo di domenica 29 Novembre 2020 –

- Dal Vangelo secondo Marco – Mc 13,33-37

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il momento. È come un uomo, che è partito dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai suoi servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vegliare.
Vegliate dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino; fate in modo che, giungendo all'improvviso, non vi trovi addormentati. Quello che dico a voi, lo dico a tutti: vegliate!».

 COMMENTO DI P. PAOLO CURTAZ

“Il Cenone di Natale? Un suicidio”. “Si lavora per salvare il Natale che sarà comunque a distanza”. “Con questi morti il Covid è lunare”.

Non c’è da stare allegri, nel leggere i titoloni dei giornali che ogni giorno devono in qualche modo farsi strada nelle nostre menti assuefatte per innalzare la soglia dell’attenzione (e della paura). Quindi il problema sarà che, con ogni probabilità, salterà il Cenone di Natale.  Rileggo e non so se mettermi a ridere: il Cenone di Natale. 

Penso ai tantissimi che in questi anni mi hanno comunicato il loro disagio all’idea di vivere da soli quel momento, o in compagnia di persone sopportate con fatica. Penso al tanto dolore oscuro che quel magnifico evento, il Natale, non il Cenone, suscita in coloro che vengono travolti dal clima forzatamente festoso che li attornia. Penso a quante volte ho invitato a guardare ai troppi che vivono il giorno di Natale come al peggior giorno dell’anno…

E, birichino, ho anche vagheggiato di una moratoria sul Natale, proponendo di sospenderlo per qualche anno. Sospendere quel Natale, fatto di apparenza e di illusione.

Per riappropriarci del Natale. Buffo: forse accadrà, allora.  Forse, sul serio, quell’antipatico del signor Covid, dopo averci costretto a celebrare la Pasqua in casa, come sapevano fare le comunità primitive, dopo averci resi tutti cattolici non praticanti per qualche mese, riscoprendoci, infine, cercatori di Dio, ci obbligherà anche a lasciar stare pacchi e pacchetti, luci e lustrini, per andare di notte a Betlemme. Troppo forte.

Nella notte

Sarà un avvento diverso, come diversa è stata la quaresima e il tempo di Pasqua. Sarà, per chi lo vorrà, occasione per prendere ancora in mano il timone della barca della nostra vita, prendendo il largo. Sarà l’occasione per attendere. Non per far finta che poi Gesù nasce, perché il Signore è nato nella Storia e tornerà nella gloria, ma per farlo nascere in noi. Oggi, qui, quest’anno di pandemia, questo momento in cui tutto viene rimescolato, messo in discussione, amplificato.

Bella storia. Bella Storia. Una Storia che è salvezza.  Sarà un avvento di attesa.  Di attesa di normalità, di attesa di abbracci e baci, di lunghe serate e ridere e scherzare, di amici che se la raccontano, di fratelli e sorelle nella fede che cantano nella notte davanti ad una icona. Sarà un avvento di attesa. Di senso, di salvezza, di bene, di Dio. Ma ad una condizione: quella di restare svegli.

Servi e portinai

La parabola di oggi è di immediata comprensione: il padrone di casa, il Signore Gesù, è assente ma tornerà nella gloria. In questo tempo di mezzo, fra la storia e la gloria, affida a noi, suoi servi, il compito di vigilare, di costruire brandelli di Regno, di annunciare la sua venuta.  Una venuta che, come meglio bisognerebbe tradurre, non avviene alla fine della notte, ma continuamente.  Lo aspettiamo nella gloria, il Cristo, ma anche nella vita di ciascuno di noi, qui, ora, oggi. Ai servi è affidato ogni potere. Sciocco di un Cristo. Ingenuo! Come se davvero fossimo in grado di gestire il potere d’amore che ha inaugurato! Eppure accade proprio così: a queste fragili e sudicie mani il Signore affida il suo Vangelo. Come un tesoro custodito in vasi creta. A noi, servi inutili.

E ai portinai, a coloro, cioè, che hanno maggiori responsabilità, quella di aprire la casa, la Chiesa, la comunità, a chi cerca il Signore, chiede di vigilare ancora di più, con maggiore convinzione e sforzo. Quanto è terribile vedere portinai ignavi, impigriti, imborghesiti, sedersi al posto del padrone! Quanto scandalo suscitiamo quando dimentichiamo chi siamo veramente! Servi inutili.

Nella notte

Viene nella notte, il Signore, lo Sposo. Noi, come le ragazze coraggiose delle scorse domeniche, sfidiamo ogni notte con una piccola fiammella in mano. Sfidiamo questa notte fatta di incertezza e di paura, di lugubri ombre e di amici e famigliari morti in solitudine, di comunità azzoppate e distante, proprio come fanno quelle ragazze. Ragazze coraggiose.  Non proprio come facciamo noi. Che accampiamo mille scuse alla realizzazione della nostra felicità. Se fossi, se avessi, se potessi…

Non abbiamo tempo o opportunità o cultura sufficiente per essere felici. Meglio maledire il buio, meglio rannicchiarsi in un angolo tappandosi le orecchie. Sì, certo, è buio fitto. Basta guardarsi intorno per capirlo. Per vedere il tasso di violenza, nelle parole, nei pensieri, che attanaglia le persone, tutte rabbiose con tutti, tutti convinti di essere vittime di qualcuno. Non è così, smettiamola di nasconderci dietro ad un dito.

C’è chi maledice la notte. Chi accende una luce. Chi attende un aiuto. Come i deportati in Babilonia. Se tu squarciassi il cielo e scendessi! Il lamento straziante sale dalla bocca di uno degli autori del libro del profeta Isaia, in esilio dopo la durissima sconfitta contro Nabucodonosor. Nessuna speranza all’orizzonte, nessuna possibilità di riscatto, solo l’amarezza dell’esilio e della schiavitù.

Per la prima volta nella Bibbia, il Dio dei patriarchi viene invocato col titolo padre.  Titolo che non veniva usato perché comune nell’invocazione pagana alle proprie divinità. Ma ora non c’è più remora, né timore di essere ambigui. Non c’è più il tempio, né la città santa, né il re. Tutto è perduto. Solo sale quell’invocazione fatta quasi sottovoce, una immensa ricerca di salvezza, un grido silente. Se tu squarciassi il cielo e scendessi! Un grido che ancora sale da questa terra d’esilio in cui siamo. Un grido di avvento mentre ci prepariamo a celebrare la nascita di Cristo in ciascuno di noi, nell’attesa del suo ritorno definitivo.

Pregare

Come restare desti? Come nutrire la nostra anima? Come riempire d’olio le lampade che si consumano? Nell’orto degli ulivi, ai discepoli oppressi dal sonno e dalla tristezza, Gesù chiede di pregare. Una preghiera che è intimo dialogo col Padre, che è relazione fiduciosa ed appassionata con lui, che è nutrimento dell’anima nel silenzio della lettura orante della Parola di Dio.

Ciò che cercheremo di fare in questo ennesimo avvento, in questo breve tempo in cui cercheremo di sostenerci a vicenda, incoraggiandoci, restando svegli. Perché, purtroppo, anche lo stravolgimento di senso che abbiamo operato nei confronti del Natale rischia di essere un anestetico. Mortale. E nella preghiera, come un mantra, ripetiamo quanto abbiamo udito dalla Parola: Mai si udì parlare da tempi lontani, orecchio non ha sentito, occhio non ha visto che un Dio, fuori di te, abbia fatto tanto per chi confida in lui.

Vegliamo allora, noi, che aspettiamo la manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo. 

 

Cerco il tuo volto

 

LA BEATITUDINE DELLA QUOTIDIANITA'


 José  Tolentino Mendonça

Beati coloro che moltiplicano con larghezza i gesti di misericordia, poiché la misericordia li illuminerà. 

Beati coloro che donano fino a restare a mani vuote, poiché Dio di nuovo le riempirà. 

Beati coloro che credono nel potere di moltiplicazione che il dono detiene, poiché vedranno manifestarsi molte volte il miracolo dell’amore. 

Beati coloro che non si sottraggono all’incontro con i poveri, poiché con i poveri impareranno cose che ignoravano riguardo a Dio. 

Beati coloro che non si barricano nel condominio dell’indifferenza, poiché scopriranno che è nello spazio aperto della vita solidale che il vento di Dio spira meglio. 

Beati i compassionevoli, poiché vedranno cadere a terra tanti pregiudizi. 

Beati coloro che con la mitezza rompono il muro delle certezze implacabili, poiché sperimenteranno dentro di sé che sono altre le vie della consolazione.

Beati coloro che per la giustizia provano vera fame e vera sete: non mancheranno di essere saziati. 

Beati coloro che sanno il valore di uno sguardo puro, poiché nel mezzo della confusione del mondo vedranno Dio stesso. 

Beati coloro che avvertono l’appello ad afferrare il presente con mani gentili, poiché diverranno, senza saperlo, anche le levatrici del futuro. 

Beati coloro che faticano quotidianamente per la pace: questo fa dei mortali i figli di Dio.

 

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DIDATTICA, IN PRESENZA O A DISTANZA?


In presenza o a distanza

 la didattica merita di più

Lo schermo di un computer non è un luogo, ma un mezzo. Aula fisica e digitale non sono orizzonti opposti, che si escludono a vicenda: possono essere pensati come dimensioni compresenti, risorse di cui disporre per allestire dei mix 

di PIER CESARE RIVOLTELLA

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Nel maggio del 2000, a Cerro Grande, nel New Mexico, un incendio programmato per ragioni di protezione civile sfugge al controllo di chi lo aveva generato provocando danni per un miliardo di dollari, bruciando 170 km quadrati di vegetazione, lasciando 400 famiglie senza casa. Prende spunto da questo caso la riflessione di Weick e Suttcliffe in un libro, 'Governare l’inatteso', che diventa presto un classico della letteratura organizzativa. E 'Governare l’inatteso' ha intitolato la Sirem (la Società Italiana di Ricerca sull’Educazione Mediale di cui sono presidente) un miniciclo di due webinar dedicati a discutere di Scuola e Università al tempo del Covid (o del post-Covid?). L’idea alla base dell’iniziativa era di andare oltre i luoghi comuni, di superare la discorsivizzazione facile, di provare a pensare oltre le scorciatoie cognitive. Quelle, per intenderci, che animano il dibattito sui social e cui spesso non sfugge nemmeno certo giornalismo.

Una scorciatoia cognitiva è una scelta che consente di risparmiare tempo e fatica, così almeno sembra. Significa affidarsi a semplificazioni, basarsi su quel che si era fatto in passato in casi analoghi e aveva avuto successo, accontentarsi di riproporlo. L’impressione è che l’emergenza che abbiamo vissuto (e che ancora non sembra risolta) sia stata affrontata proprio facendo ricorso ad alcune di queste scorciatoie cognitive. È una scorciatoia impostare tutto il dibattere sulla base della contrapposizione (o dell’alternanza) tra presenza e distanza. La presenza è il valore, la distanza il ripiego. La presenza comporta dei rischi, la distanza mette in sicurezza. La presenza garantisce le relazioni, la distanza le impoverisce. Sembra che basti dosare i due ingredienti: un po’ di distanza e un po’ di presenza; in presenza fin che si può, poi nella peggiore delle ipotesi si torna a distanza. Ma la scuola e l’università è presenza e distanza? Non c’è dell’altro? E la relazione, piuttosto che dipendere dalla situazione, non dipende forse dall’intenzionalità educativa? Posso essere in aula e totalmente non relazionale. Posso lavorare in rete ed essere vicinissimo ai miei studenti. Una scorciatoia, chiaro. E una semplificazione evidente.

Ma anche costruire tutto sulle procedure è una scorciatoia: distanze, protezioni, sanificazione, controllo delle temperature, test, quarantene, banchi singoli, mascherine. Cosa resta della scuola? Che esperienza si propone agli studenti? Qual è il senso di una presenza a tutti i costi – nella scuola come nell’Università – quando si tratta di una presenza “ospedalizzata”, quando è impossibilità di contatto ed esperienza dei vincoli piuttosto che della relazione, quando

devi tornare a sospenderla? Ancora una volta una scorciatoia cognitiva, una semplificazione. Proviamo allora a vedere cosa potrebbe voler dire evitare tutto questo. Comporta di adottare alcune scelte di fondo. Anzitutto l’idea che lo schermo del computer non sia un luogo, ma un mezzo. Perché starci davanti senza muoverlo? Perché non usarlo mentre ci muoviamo noi nello spazio della casa? Perché non allontanarlo e avvicinarlo secondo le necessità? Ecco allora che le cucine di casa possono sostituire i laboratori inaccessi- bili di un Alberghiero, o il salotto di casa trasformarsi in una palestra per il lavoro sul corpo e sul movimento (come nei laboratori di drammaturgia didattica del mio corso di laurea, dove si formano i maestri di domani). Ed ecco che la mia lezione universitaria non mi condanna a fare per forza il mezzobusto: posso inquadrarmi mentre sono in piedi, mi muovo, mostro dei libri, altri oggetti.

Anche sul tempo si può lavorare. Lo si può scandire in porzioni, microsessioni di lavoro più agevoli per l’attenzione degli studenti. Queste sessioni si possono intervallare con dei sondaggi, dei quiz. Si può dividere la classe in gruppi e farli lavorare approfittando delle breakout sessions di cui la maggior parte degli ambienti di videocomunicazione è fornita. E il docente può “girare” tra i gruppi, vedere come lavorano, dare supporto. Ma è più in generale il tempo classe che può essere ripensato con creatività: tra sincrono e asincrono, lavoro preparatorio (flip- ped) e discussione con il docente, consegna dell’insegnante e lavoro autonomo dello studente. Ancora, la presenza e il digitale, invece di essere concettualizzati come orizzonti opposti, che si escludono a vicenda, possono invece essere pensati come dimensioni compresenti, come risorse di cui disporre per allestire dei mix ogni volta diversi, secondo le esigenze della lezione o le specificità della disciplina. È l’idea di una didattica blended, che non vuol dire solo “un po’ di presenza e un po’ di distanza”, ma dosatura di metodi, tecniche, spazi, modi di apprendere. La vera didattica integrata è: lezioni liquide, distribuite; metodi attivi e partecipativi; valutazione tra pari, diffusa; ambienti di apprendimento ubiqui, multimodali, sociali. C ambia anche l’idea del docente. La didattica trasmissiva che ne fa il detentore di contenuti da trasferire deve lasciare il posto all’idea di un docente-tutor in grado di accompagnare gli apprendimenti, discutere i problemi, spendere la propria esperienza e le proprie competenze per attualizzare, applicare, far progredire la conoscenza. 

Le retoriche sull’aula, sulla presenza, sulle lezioni non coincidono con le aspettative degli studenti, come abbiamo capito molto bene durante il webinar sull’Università da una bella intervista a uno dei membri del coordinamento nazionale degli studenti universitari. Come pensare, allora, al futuro? Cosa può contenere l’agenda per la scuola e l’Univer- sità dei prossimi anni? La scuola ha sicuramente bisogno di formazione e sviluppo professionale in tema di innovazione. Che non vuol dire, però, training all’uso dello strumento. Occorre non confondere le competenze informatiche di base con l’expertise nelle tecnologie educative: è un problema di pedagogie e di didattiche, non di icone da cliccare. Serve anche rilanciare l’importanza di documentare le pratiche e le esperienze. Serve a far crescere il sistema, a contaminare anche i contesti più tradizionali e refrattari al cambiamento. Infine, occorre promuovere ricerca. La ricerca educativa deve guidare le politiche educative. Su questo punto il nostro Paese ha bisogno di uscire da una doppia autoreferenzialità: quella di politiche che decidono senza ascoltare la ricerca e quella di una pedagogia che non sa ispirare le decisioni della politica.

L’Università, da parte sua, deve fare i conti con un mercato della formazione profondamente cambiato. Serve ripensare curricoli, immaginare spazi diversi, come ha suggerito il Rettore della Luiss Andrea Prencipe. Serve pensare a una Università aperta, modulare, multimodale, come ha ipotizzato il Rettore dell’Università di Foggia Pierpaolo Limone, proponendo una “alleanza degli innovatori”. Nel 2000 l’Università di Padova dedicava la sua Biennale della Didattica Universitaria proprio all’Università aperta e virtuale. In quella Biennale erano presenti alcuni dei principali esperti europei. Durante il dibattito, Otto Peters aveva parlato di università «flessibile e virtuale», Luciano Galliani di «open distance learning» e Desmond Keagan, provocatoriamente, aveva preconizzato che «il telefonino sarebbe diventato l’Università». Forse è venuto il tempo di pensare a questi spunti.

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MARADONA, UNA MORTE CHE HA SCOSSO MOLTI


- di Giuseppe Savagnone *

La morte di un essere umano è sempre un evento doloroso. In certi casi, però, a darle un significato che va oltre la sua intrinseca drammaticità sono le reazioni che suscita negli altri. È il caso della morte di Diego Armando Maradona. Giornali, televisione, radio, social di tutto il mondo hanno dato a questa notizia un risalto che ha oscurato per un momento i problemi legati alla pandemia e alle elezioni americane. I mass media, peraltro, non hanno fato altro che dare risonanza a un lutto reale, che ha profondamente scosso l’opinione pubblica mondiale. Si sono viste immagini di persone che si abbracciavano piangendo, di gente che usciva per le strade inneggiando al campione argentino e manifestando il suo dolore.  

Un nuovo rito

Un’eco così vasta merita forse qualche riflessione. Non tanto su Maradona, quanto sul vuoto che sembra aver aperto la sua scomparsa. La prima che viene in mente è l’importanza che lo sport – non tanto quello praticato, quanto quello spettacolarizzato –, e il gioco del calcio in particolare, ha avuto nella nostra storia recente, alimentando un business di proporzioni immani e soprattutto polarizzando l’interesse di una società secolarizzata e disillusa dalle ideologie.

Malgrado un certo declino, registrato in questi ultimi anni, malgrado la crisi determinata dalla pandemia, resta il ruolo che il calcio ha svolto, per decenni, riempiendo – grazie anche alla radio, alla televisione, ai quotidiani sportivi – la vita di milioni di persone e scandendo la loro settimana con un calendario divenuto, con il moltiplicarsi delle “coppe”, sempre più ricco.

Un tempo la domenica era il giorno del Signore, santificato con la partecipazione alla santa Messa. Ormai, per molti, è diventata il giorno della partita. Nel declino della partecipazione alle funzioni religiose, l’appuntamento con la “partita” è diventato un nuovo rito.

Una “fede” e i suoi “idoli”

Questa assonanza con la sfera religiosa, che può apparire esagerata, è in realtà evidente a chi ha modo di conoscere e frequentare tanti che non esitano a definire il tifo per la propria squadra una “fede”. Si spiegano così anche gli episodi di fanatismo e di violenza che purtroppo hanno a volte visto degenerare la passione sportiva – al pari di ciò che può accadere alla fede religiosa – in forme di intolleranza e di violenza.

Stando così le cose, non può meravigliare che, come ogni religione, anche quella calcistica abbia i suoi “santi”. O forse sarebbe meglio dire – in assenza di un vero e proprio Dio unico – i suoi idoli. Anche qui siamo davanti a una terminologia che può apparire a prima vista poco appropriata, ma che in realtà è stata resa abituale dai mass media, per cui un campione è, appunto, un “idolo” delle folle dei suoi tifosi, che non solo lo ammirano, ma lo venerano e lo glorificano come solitamente i seguaci di una religione fanno con la divinità.

Un messia?

In questo contesto si può capire perché la vita e la morte di Maradona siano state così importanti, in primo luogo per milioni di suoi connazionali, che hanno riconosciuto nella sua persona una specie di “messia”, in grado di riscattare il paese dai suoi ricorrenti disastri economici e perfino di vendicare le umiliazioni subite sul piano militare nella guerra delle Maldive. Non è un caso che, a proposito del primo gol fatto dal “Pibe de oro” alla squadra inglese, nel campionato del mondo del 1986 – gol realizzato in effetti con l’aiuto di una mano –, si sia parlato di «mano di Dio» …

Ma dovremo parlare anche del significato che Maradona ha avuto per i napoletani, consentendo a una città (e a una intera regione) con immensi problemi economici, sanitari, lavorativi, di sbaragliare – nel campionato di calcio – le squadre di Milano e di Torino e strappando loro uno scudetto che sembrava il simbolo della loro superiorità in ogni campo.

L’illusione era già da tempo dissolta, per la verità. Ma il mito no. Non solo in Argentina, non solo a Napoli, ma ovunque, in questo momento si piange, perfino la morte del campione argentino potrà contribuire ad alimentarlo e a farne oggetto di trasmissione di padre in figlio, facendo dimenticare i risvolti poco onorevoli che le cronache di questi anni avevano rivelato.

Vera e falsa religione

Viene in mente la tesi di Marx secondo cui «la religione è l’oppio dei popoli», intendendo con questo che gli esseri umani tendono a chiudere gli occhi sui loro reali problemi terreni, proiettandone la soluzione in un cielo immaginario e rinunziando a cercarla su questa terra. Come accade a chi cerca nella droga una via di fuga che lo esoneri dall’affrontare le difficoltà della sua vita.

Probabilmente questa analisi si applica, più che alla religione come tale, a certe sue contraffazioni, che della religione sono un surrogato e che subentrano quando essa cessa di avere una reale incidenza nella vita personale e sociale. La morte di Maradona, a questo punto di vista, più che aprire un vuoto, lo rivela. Una società che ha bisogno di idoli ha già perduto qualcosa di più valido a cui affidare il senso della sua vita.

E questo è tanto più vero se il vero idolo, alla fine, non era Maradona, ma il mito del successo e del denaro che irradiava dalla sua persona. Come del resto nel caso di altre celebrità: di idoli, per definizione, ce ne sono sempre tanti e il mondo attuale è politeista.

Il vuoto delle ideologie

Questo quadro di perplessità non sarebbe completo senza un riferimento al tema delle ideologie. Anche di esse, come della fede religiosa, il nostro tempo ha già ampiamente registrato il tramonto. Qualcuno in questi giorni ha indicato nel campione argentino un ultimo sostenitore del comunismo, o almeno di quella sua versione sudamericana che è stata incarnata da leader come Fidel Castro o Hugo Chavez. Si è menzionata, a questo proposito, l’amicizia che legava Maradona a questi due personaggi.

Ma la morte del campione, così come svela il vuoto rappresentato da una falsa religione, evidenzia anche l’illusorietà di una ideologia ridotta a mera proclamazione velleitaria. Maradona non era Che Guevara. Non aveva, come lui, lasciato tutto – il successo, i beni, il potere, la famiglia –, per andare a rischiare la vita lottando contro governi dittatoriali e corrotti. E il suo unico impegno politico sembra sia consistito nell’appoggiare un personaggio discutibile e discusso – proprio dal punto di vista democratico – come la presidentessa argentina Kirchner.

Un vero campione

Maradona, dunque, non era il messia – tanto meno un dio – né un modello di impegno politico e sociale. Ma, negandogli un’aureola che non era sua, non lo si svilisce. Era un vero, un grande campione e la sua bravura ha allietato tanti che hanno gioito delle sue imprese sportive. Se non si trasforma in una religione e in un surrogato della fede, l’affetto dei suoi tifosi è pienamente legittimo. E le sue fragilità non hanno bisogno di essere nascoste, se lo si considera per quello che semplicemente era: un uomo. Nei cui confronti, come nei confronti di qualunque altro essere umano, vale il divieto evangelico di giudicare l’intimo dei cuori.

Resta il problema di una società che ha bisogno di avere idoli perché non riesce più a trovare Dio e che deve appigliarsi alla parodia delle ideologie, perché non riesce più neppure ad avere idee. Ma questo non è colpa di Maradona: è colpa nostra.

 *Pastorale Cultura Diocesi Palermo

www.tuttavia.eu

 

 

venerdì 27 novembre 2020

IL FUTURO SI CHIAMA SPERANZA

 Il Papa al Festival della dottrina sociale: per noi cristiani il futuro è speranza

La speranza - afferma Francesco nel videomessaggio per l’aperura dei lavori - è la “virtù di un cuore che non si chiude nel buio, non si ferma al passato, non vivacchia nel presente, ma sa vedere il domani. Per noi cristiani cosa significa il domani? È la vita redenta, la gioia del dono dell'incontro con l'amore trinitario”

                                                                                                                                Amedeo Lomonaco – Città del Vaticano

 Ricordare che siamo parte di una storia che si muove dentro un grande abbraccio, recuperare l’originaria ispirazione al Bene, riappacificandoci col passato che, dissodato da nostalgia o rammarico, diviene terreno fertile per costruire il futuro. Sono queste le direzioni che guidano la decima edizione del Festival della dottrina sociale, in programma dal 26 al 29 novembre e incentrato sul tema “Memoria del futuro”. È un'edizione diversa dal solito, condizionata dalla pandemia e senza la presenza di don Adriano Vincenzi, animatore di nove edizioni del Festival, morto lo scorso 13 febbraio. 

Frequentare il futuro

Al Festival partecipano rappresentanti del mondo degli imprenditori, dei professionisti, dell’ambito istituzionale, della cooperazione, dell'economia e della cultura. Nel videomessaggio per l’apertura dei lavori, Papa Francesco esorta a “frequentare il futuro”, ad avere sguardo e cuore “orientati escatologicamente”.

Per noi cristiani, il futuro ha un nome e questo nome è "speranza". La speranza è la virtù di un cuore che non si chiude nel buio, non si ferma al passato, non vivacchia nel presente, ma sa vedere il domani. Per noi cristiani cosa significa il domani? È la vita redenta, la gioia del dono dell'incontro con l'amore trinitario. In questo senso essere Chiesa significa avere lo sguardo e il cuore creativi e orientati escatologicamente senza cedere alla tentazione della nostalgia che è una vera e propria patologia spirituale.

Vivere la memoria del futuro

Il Papa esorta a cogliere la più autentica “dinamica dei cristiani” che “non è quella - afferma nel videomessaggio - del trattenere nostalgicamente il passato, quanto piuttosto di accedere alla memoria eterna del Padre e questo è possibile vivendo una vita di carità”. Dunque, “non la nostalgia che blocca la creatività e ci rende persone rigide e ideologiche anche nell'ambito sociale, politico ed ecclesiale”. Piuttosto la memoria “così intrinsecamente legata all'amore e all'esperienza, che diventa una delle dimensioni più profonde della persona umana”. “Innestati nella vita dell'amore trinitario diventiamo capaci di memoria, della memoria di Dio”. Papa Francesco ricorda quindi il senso del Festival di quest'anno:

Vivere la memoria del futuro significa impegnarsi a far sì che la Chiesa, il grande popolo di Dio (LG, 6) possa costituire in terra l'inizio e il germe del regno di Dio. Vivere da credenti immersi nella società manifestando la vita di Dio che abbiamo ricevuto in dono nel Battesimo perché si possa fare memoria ora di quella vita futura nella quale saremo insieme dinanzi al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo. Questo atteggiamento ci aiuta a superare la tentazione dell'utopia, di ridurre l'annuncio del Vangelo nel semplice orizzonte sociologico o di farci ingaggiare nel marketing delle varie teorie economiche o fazioni politiche. Nel mondo con la forza e la creatività della vita di Dio in noi: così sapremo affascinare il cuore e lo sguardo delle persone al Vangelo di Gesù, aiuteremo a far fecondare progetti di nuova economia inclusiva e di politica capace di amore.

Parte di una storia

Memoria del futuro – sottolineano i promotori del Festival - è ricordare che siamo parte di una storia. Far memoria del futuro ha un risvolto sociale: fa vedere le cose nella loro giusta dimensione, libera dai ruoli e dagli egoismi corporativi, restituisce la visione di insieme, attiva collaborazioni, rende possibile il perseguimento del bene di tutti e di ciascuno. Far memoria del futuro restituisce la corretta idea di sviluppo, di sviluppo integrale, e mette in cammino comunità, territori e popoli consapevoli che il futuro attende persone che lo rendano presente. Far memoria del futuro è la vera garanzia della libertà, vocazione e destino dell’uomo, chiamato non tanto a fare nuove cose, ma a far nuove tutte le cose.

Il programma del Festival prevede vari eventi, tra cui seminari e convegni, che si potranno seguire sul sito www.dottrinasociale.it attraverso dirette in streaming.

 

Leggi: MESSAGGIO DEL PAPA

 

Vatican News

INTELLIGENZA IN PERICOLO NEI PAESI SVILUPPATI


 Christophe Clave *

 Il Quoziente d'Intelligenza (QI) medio della popolazione mondiale è in continuo aumento (effetto Flynn). Questo almeno dal secondo dopoguerra fino alla fine degli anni 90. Da allora il QI è invece in diminuzione... È l'inversione dell'Effetto Flynn. La tesi è ancora discussa e molti studi sono in corso da anni senza riuscire a placare il dibattito. Sembra che il livello d'intelligenza misurato dai test diminuisca nei Paesi più sviluppati. Molte possono essere le cause di questo fenomeno. Una di queste potrebbe essere l'impoverimento del linguaggio. Diversi studi dimostrano infatti la diminuzione della conoscenza lessicale e l'impoverimento della lingua: non si tratta solo della riduzione del vocabolario utilizzato, ma anche delle sottigliezze linguistiche che permettono di elaborare e formulare un pensiero complesso.

La graduale scomparsa dei tempi (congiuntivo, imperfetto, forme composte del futuro, participio passato) dà luogo a un pensiero quasi sempre al presente, limitato al momento: incapace di proiezioni nel tempo. La semplificazione dei tutorial, la scomparsa delle maiuscole e della punteggiatura sono esempi di «colpi mortali» alla precisione e alla varietà dell'espressione. Solo un esempio: eliminare la parola «signorina» (ormai desueta) non vuol dire solo rinunciare all'estetica di una parola, ma anche promuovere involontariamente l'idea che tra una bambina e una donna non ci siano fasi intermedie.

Meno parole e meno verbi coniugati implicano meno capacità di esprimere le emozioni e meno possibilità di elaborare un pensiero. Gli studi hanno dimostrato come parte della violenza nella sfera pubblica e privata derivi direttamente dall'incapacità di descrivere le proprie emozioni attraverso le parole. Senza parole per costruire un ragionamento, il pensiero complesso è reso impossibile. Più povero è il linguaggio, più il pensiero scompare. La storia è ricca di esempi e molti libri (Georges Orwell - 1984; Ray Bradbury - Fahrenheit 451) hanno raccontato come tutti i regimi totalitari hanno sempre ostacolato il pensiero, attraverso una riduzione del numero e del senso delle parole. Se non esistono pensieri, non esistono pensieri critici. E non c'è pensiero senza parole.

Come si può costruire un pensiero ipotetico-deduttivo senza il condizionale? Come si può prendere in considerazione il futuro senza una coniugazione al futuro? Come è possibile catturare una temporalità, una successione di elementi nel tempo, siano essi passati o futuri, e la loro durata relativa, senza una lingua che distingue tra ciò che avrebbe potuto essere, ciò che è stato, ciò che è, ciò che potrebbe essere, e ciò che sarà dopo che ciò che sarebbe potuto accadere, è realmente accaduto?

Cari genitori e insegnanti: facciamo parlare, leggere e scrivere i nostri figli, i nostri studenti. Insegnare e praticare la lingua nelle sue forme più diverse. Anche se sembra complicata. Soprattutto se è complicata. Perché in questo sforzo c'è la libertà. Coloro che affermano la necessità di semplificare l'ortografia, scontare la lingua dei suoi «difetti», abolire i generi, i tempi, le sfumature, tutto ciò che crea complessità, sono i veri artefici dell'impoverimento della mente umana.

Non c'è libertà senza necessità. Non c'è bellezza senza il pensiero della bellezza.

Quoziente intelligenza

 *Docente di Strategia e Politica d’impresa,  Institut d'Etudes Politiques de Paris


NATALE, UN EVENTO, UN MISTERO, UNA CHIAMATA - webinar

  


NATALE, perché?  come?

WEBINAR

Venerdì 4 dicembre 2020, 

ore 16,30 – 19 - 

 

Natale: un evento, un mistero, una chiamata

L’annuale ricorrenza delle feste natalizie, connotata da aspetti religiosi, sociali, consumistici   …,

 ci coinvolge ed interroga. La conoscenza dei fatti e dei fenomeni religiosi è necessaria per comprendere la realtà in cui si vive.

 Il Natale è una grande festività cristiana celebrata, in vario modo, in gran parte del mondo. Perciò, siamo sollecitati a fare interagire, nel cammino di preparazione, aspetti teologici, spirituali, storici, sociali e pedagogico-didattici, perché questa festa non sia uno dei tanti eventi da consumare e da riporre - poi- in soffitta o … nella spazzatura.

 Il webinar ci stimolerà a porci domande, a intravedere percorsi, a tessere relazioni

  Alcuni esperti (che ringraziamo vivamente) ci aiuteranno:

     P. Cosimo Scordato, teologo, Pontificia Facoltà Teologica di Sicilia

-         Giuliana Paterniti Bardi, insegnante, Saronno

-         Sandra Cavallini, insegnante, Livorn

-         Concluderà S.E. Mons. Vincent Dollmann,

                                                  Arcivescovo di Cambrai, A.E. UMEC-WUCT

 

È opportuno iscriversi sollecitamente (entro il 2 dicembre).

Il link di partecipazione sarà comunicato, tramite e-mail*, il giorno prima dell’inizio del webinar.

 

Nel caso di sopravvenuta impossibilità a partecipare, vi preghiamo di comunicarlo rapidamente a  sezione.palermo@aimc.it  (allo stesso indirizzo si può scrivere per eventuali comunicazioni).

 

 Link scheda iscrizione:   https://forms.gle/Mqg2wPh4wfk7xuyx7

 

*Vi preghiamo di scrivere con esattezza l’indirizzo di posta elettronica (e-mail)

GIOVANI E NOVECENTO. UN BILANCIO AMARO

  Se il Novecento delle grandi speranze è stato un 'secolo breve', ancor più breve è stato 'il secolo dei giovani', quando ci fu addirittura chi teorizzò come 'nuova classe' quella che era soltanto una classe d’età. I giovani sono stati protagonisti del secolo per un tempo molto breve e non privo di contraddizioni,

La Prima guerra mondiale durò dal 1914 – ma in Italia dal 1915 – al 1918, e ha 'fatto', secondo i conteggi ufficiali, circa dieci milioni di morti; si è trattato quasi soltanto di soldati al fronte, in massima parte giovani sotto i trent’anni di età. È stata combattuta nelle trincee, lontano dalle città, e ha coinvolto solo le truppe belligeranti, molto raramente i civili. La Seconda ne ha 'fatti' (o 'totalizzati', nel linguaggio delle statistiche) circa sessanta milioni, perché è stata combattuta ricorrendo anche a una nuova meraviglia del progresso tecnico, l’aeroplano. La gran parte dei morti fu provocata dai bombardamenti aerei, alcuni terribili come quello su Dresda, e due in particolare effettuati sperimentando per la prima volta in guerra e su popolazioni civili la bomba detta 'atomica', sulle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki. Altre enormi novità tecnologiche hanno caratterizzato la 'macchina' dello sterminio messa a punto dal Genio tedesco nei campi di concentramento di Auschwitz e altri, al cui confronto non sfigurarono i modi più 'classici' delle deportazioni di massa in una federazione che osava dirsi socialista o comunista ma che rinnovò e perfezionò su immensa scala i modi del 'dispotismo orientale'. Fu una gara, quella dello sterminio, che in campo 'democratico', cioè capitalista, si affidò alla più sciagurata delle invenzioni del secolo, la scissione dell’atomo, sognata dagli scienziati come portatrice di grandi benefici per l’umanità e usata quasi soltanto come bomba, la più micidiale mai immaginata e creata. Gli incauti ed entusiasti studiosi che hanno osato chiamare il Novecento 'il secolo dei giovani' non pensavano certamente al numero dei giovani morti nelle due guerre (e nelle tante altre che lo hanno insanguinato, col pretesto di questa o quella ideologia) ma alle nuove forme di protagonismo giovanile che si affermarono in reazione alle due 'grandi' guerre, e ai modi di neutralizzarle messi in atto nel mondo occidentale capitalista dopo la Seconda, con la diffusione o imposizione dei modelli della American way of life, infine vincenti. Il dominio parte sempre dai giovani, si serve dei giovani, manda al massacro i giovani per primi, e questo il Novecento ha saputo ben ricordarcelo, insegnarcelo.

Se il Novecento delle grandi speranze è stato un 'secolo breve', ancor più breve è stato 'il secolo dei giovani', quando ci fu addirittura chi teorizzò come 'nuova classe' quella che era soltanto una classe d’età. I giovani sono stati protagonisti del secolo per un tempo molto breve e non privo di contraddizioni, lo sono stati almeno tra la metà degli anni cinquanta e la fine dei settanta, quando il malaugurato 'ritorno a Lenin' ha soffocato, di fronte alla loro crisi di crescita, tutte le novità. Ma lo sono stati. E hanno perfino avuto teorici all’altezza delle aspirazioni di una o due generazioni, in grado di analizzare e spiegare i mutamenti sociali, i nuovi assetti del capitale, le nuove servitù della cultura. Ci sono stati dei grandi 'padri' come Paul Goodman e Herbert Marcuse o in Italia fratelli maggiori come i 'piacentini' e Elvio Fachinelli, e ci sono stati fratelli veri 'fratelli' come Guy Debord, male ascoltati e mal capiti o non studiati e subito del tutto dimenticati da chi è venuto dopo. 'Corri, ragazzo, ché il vecchio mondo vuole riacciuffarti' recitava un manifesto del Sessantotto francese, con l’immagine di un giovane in fuga inseguito dalle vecchie immagini del potere: poliziotti, politici, mamme, preti e quant’altro... ma il timore della récupération fu avvertito dovunque solo da pochi, dai migliori, nel movimento degli studenti. E il resto, se non è silenzio – ché ancora in qualche luogo qualche giovane sogna e pensa un mondo migliore – è comunque un’esile non-accettazione che si scontra con l’accettazione del mondo così come lo impongono i nuovi poteri, l’antico e sempre nuovo capitalismo con le sue invenzioni (il suo 'progresso') e con la sua acutissima attenzione (nata dalla riflessione sui pericoli corsi...) per le tecnologie della comunicazione. È sopraggiunto il tempo della 'cultura del narcisismo' – vedi i saggi di Christopher Lasch, il più acuto interprete di una sconfitta storica forse definitiva e dei suoi esiti nel ripiegamento dei giovani sul proprio io – che non è un modo di liberare alcunché ma una forma di castrazione volontaria che procura consolazioni superficiali, costruite sul vuoto, nell’accettazione del mondo come gli altri te lo impongono in cambio di palliativi peggio che imbecilli, peggio che farseschi.

La cultura del narcisismo e l’attenzione spasmodica del capitale alle forme della comunicazione e del controllo hanno compiuto l’opera. Grazie al fallimento delle rivoluzioni e delle rivolte, delle speranze di una e più generazioni di poter allo stesso tempo 'cambiare il mondo' e 'cambiare la vita', come era nel sogno dei surrealisti, come era nel sogno dell’incontro tra il messaggio di Marx e quello di Rimbaud.

Altro che 'nuova classe sociale'! I giovani sembrano essere perfino tra i principali strumenti, oggi, del potere distruttivo del capitale. La sola speranza che può contrastare questa constatazione è quella di nuove rivolte a partire da minoranze coscienti e determinate, che possano incontrare su un terreno di lotta comune gli oppressi di tutto il mondo; ed essa può nascere oggi solo da una coscienza ecologica che esige bensì altrettanta coscienza del funzionamento del potere e dei modi in cui esso inganna, corrompe e distrugge. Che tante Greta nascano e lottino, cercando e trovando nuove alleanze! Ma che stiano attente a non farsi ingannare dai loro nemici e dai più subdoli tra loro che sono proprio la cultura, il consumo e la produzione culturale come droghe che addormentano la coscienza. In altre parole, la scuola e soprattutto l’università come oggi sono, e la schiera infinita dei loro funzionari servili


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