domenica 31 dicembre 2023

MESSAGGIO DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA


Messaggio di fine anno 

del Presidente della Repubblica

 Sergio Mattarella


Care concittadine e cari concittadini,

 questa sera ci stiamo preparando a festeggiare l’arrivo del nuovo anno. Nella consueta speranza che si aprano giorni positivi e rassicuranti.

 Naturalmente, non possiamo distogliere il pensiero da quanto avviene intorno a noi. Nella nostra Italia, nel mondo.

 Sappiamo di trovarci in una stagione che presenta tanti motivi di allarme. E, insieme, nuove opportunità.

 Avvertiamo angoscia per la violenza cui, sovente, assistiamo: tra gli Stati, nella società, nelle strade, nelle scene di vita quotidiana.

 La violenza.

 Anzitutto, la violenza delle guerre. Di quelle in corso; e di quelle evocate e minacciate.

 Le devastazioni che vediamo nell’Ucraina, invasa dalla Russia, per sottometterla e annetterla.

 L’orribile ferocia terroristica del 7 ottobre scorso di Hamas contro centinaia di inermi bambini, donne, uomini, anziani d’Israele. Ignobile oltre ogni termine, nella sua disumanità.

 La reazione del governo israeliano, con un’azione militare che provoca anche migliaia di vittime civili e costringe, a Gaza, moltitudini di persone ad abbandonare le proprie case, respinti da tutti.

 La guerra – ogni guerra – genera odio.

 E l’odio durerà, moltiplicato, per molto tempo, dopo la fine dei conflitti.

 La guerra è frutto del rifiuto di riconoscersi tra persone e popoli come uguali. Dotati di pari dignità. Per affermare, invece, con il pretesto del proprio interesse nazionale, un principio di diseguaglianza.

 E si pretende di asservire, di sfruttare. Si cerca di giustificare questi comportamenti perché sempre avvenuti nella storia.      Rifiutando il progresso della civiltà umana.

 Il rischio, concreto, è di abituarsi a questo orrore. Alle morti di civili, donne, bambini. Come - sempre più spesso – accade nelle guerre.

 Alla tragica contabilità dei soldati uccisi. Reciprocamente presentata; menandone vanto.

 Vite spezzate, famiglie distrutte. Una generazione perduta.

 E tutto questo accade vicino a noi. Nel cuore dell’Europa. Sulle rive del Mediterraneo.

 Macerie, non solo fisiche. Che pesano sul nostro presente. E graveranno sul futuro delle nuove generazioni.

 Di fronte alle quali si presentano oggi, e nel loro possibile avvenire, brutalità che pensavamo, ormai, scomparse; oltre che condannate dalla storia.

 La guerra non nasce da sola. Non basterebbe neppure la spinta di tante armi, che ne sono lo strumento di morte. Così diffuse. Sempre più letali. Fonte di enormi guadagni.

 Nasce da quel che c’è nell’animo degli uomini. Dalla mentalità che si coltiva. Dagli atteggiamenti di violenza, di sopraffazione, che si manifestano.

 La pace

È indispensabile fare spazio alla cultura della pace. Alla mentalità della pace.

 Parlare di pace, oggi, non è astratto buonismo. Al contrario, è il più urgente e concreto esercizio di realismo, se si vuole cercare una via d’uscita a una crisi che può essere devastante per il futuro dell’umanità.

 Sappiamo che, per porre fine alle guerre in corso, non basta invocare la pace.

 Occorre che venga perseguita dalla volontà dei governi. Anzitutto, di quelli che hanno scatenato i conflitti.

 Ma impegnarsi per la pace significa considerare queste guerre una eccezione da rimuovere; e non la regola per il prossimo futuro.

 Volere la pace non è neutralità; o, peggio, indifferenza, rispetto a ciò che accade: sarebbe ingiusto, e anche piuttosto spregevole.

 Perseguire la pace vuol dire respingere la logica di una competizione permanente tra gli Stati. Che mette a rischio le sorti dei rispettivi popoli. E mina alle basi una società fondata sul rispetto delle persone.

 Per conseguire pace non è sufficiente far tacere le armi.

 Costruirla significa, prima di tutto, educare alla pace. Coltivarne la cultura nel sentimento delle nuove generazioni. Nei gesti della vita di ogni giorno. Nel linguaggio che si adopera.

 Dipende, anche, da ciascuno di noi.

 Pace, nel senso di vivere bene insieme. Rispettandosi, riconoscendo le ragioni dell’altro. Consapevoli che la libertà degli altri completa la nostra libertà.

 Vediamo, e incontriamo, la violenza anche nella vita quotidiana. Anche nel nostro Paese.

 Quando prevale la ricerca, il culto della conflittualità. Piuttosto che il valore di quanto vi è in comune; sviluppando confronto e dialogo. 

 La violenza.

 Penso a quella più odiosa sulle donne.

 Vorrei rivolgermi ai più giovani. Cari ragazzi, ve lo dico con parole semplici: l’amore non è egoismo, dominio, malinteso orgoglio. L’amore – quello vero – è ben più che rispetto: è dono, gratuità, sensibilità.

 Penso anche alla violenza verbale e alle espressioni di denigrazione e di odio che si presentano, sovente, nella rete.

 Penso alla violenza che qualche gruppo di giovani sembra coltivare, talvolta come espressione di rabbia.

 Penso al risentimento che cresce nelle periferie. Frutto, spesso, dell’indifferenza; e del senso di abbandono.

 Penso alla pessima tendenza di identificare avversari o addirittura nemici. Verso i quali praticare forme di aggressività. Anche attraverso le accuse più gravi e infondate. Spesso, travolgendo il confine che separa il vero dal falso.

 Queste modalità aggravano la difficoltà di occuparsi efficacemente dei problemi e delle emergenze che, cittadini e famiglie, devono affrontare, giorno per giorno.

 Il lavoro che manca. Pur in presenza di un significativo aumento dell’occupazione.

 Quello sottopagato. Quello, sovente, non in linea con le proprie aspettative e con gli studi seguiti.

 Il lavoro, a condizioni inique, e di scarsa sicurezza. Con tante, inammissibili, vittime.

 Le immani differenze di retribuzione tra pochi superprivilegiati e tanti che vivono nel disagio.

 Le difficoltà che si incontrano nel diritto alle cure sanitarie per tutti. Con liste d’attesa per visite ed esami, in tempi inaccettabilmente lunghi.

 La sicurezza

La sicurezza della convivenza. Che lo Stato deve garantire. Anche contro il rischio di diffusione delle armi.

 Rispetto allo scenario in cui ci muoviamo, i giovani si sentono fuori posto. Disorientati, se non estranei a un mondo che non possono comprendere; e di cui non condividono andamento e comportamenti.

 Un disorientamento che nasce dal vedere un mondo che disconosce le loro attese. Debole nel contrastare una crisi ambientale sempre più minacciosa. Incapace di unirsi nel nome di uno sviluppo globale.

 In una società così dinamica, come quella di oggi, vi è ancor più bisogno dei giovani. Delle speranze che coltivano. Della loro capacità di cogliere il nuovo.

 Dipende da tutti noi far prevalere, sui motivi di allarme, le opportunità di progresso scientifico, di conoscenza, di dimensione umana.

I diritti

 Quando la nostra Costituzione parla di diritti, usa il verbo “riconoscere”.

 Significa che i diritti umani sono nati prima dello Stato. Ma, anche, che una democrazia si nutre, prima di tutto, della capacità di ascoltare.

 Occorre coraggio per ascoltare. E vedere - senza filtri – situazioni spesso ignorate; che ci pongono di fronte a una realtà a volte difficile da accettare e affrontare.

 Come quella di tante persone che vivono una condizione di estrema vulnerabilità e fragilità; rimasti isolati. In una società pervasa da quella “cultura dello scarto”, così efficacemente definita da Papa Francesco.

 Cui rivolgo un saluto e gli auguri più grandi. E che ringrazio per il suo instancabile Magistero.

 Affermare i diritti significa ascoltare gli anziani, preoccupati di pesare sulle loro famiglie, mentre il sistema assistenziale fatica a dar loro aiuto.

 Si ha sempre bisogno della saggezza e dell’esperienza. E di manifestare rispetto e riconoscenza per le generazioni precedenti. Che, con il lavoro e l’impegno, hanno contribuito alla crescita dell’Italia.

 Affermare i diritti significa prestare attenzione alle esigenze degli studenti, che vanno aiutati a realizzarsi. Il cui diritto allo studio incontra, nei fatti, ostacoli. A cominciare dai costi di alloggio nelle grandi città universitarie; improponibili per la maggior parte delle famiglie.

 Significa rendere effettiva la parità tra donne e uomini: nella società, nel lavoro, nel carico delle  responsabilità familiari.

 Significa non volgere lo sguardo altrove di fronte ai migranti.

 Ma ascoltare significa, anche, saper leggere la direzione e la rapidità dei mutamenti che stiamo vivendo. Mutamenti che possono recare effetti positivi sulle nostre vite.

La tecnologia 

La tecnologia ha sempre cambiato gli assetti economici e sociali.

Adesso con l’intelligenza artificiale che si autoalimenta, sta generando un progresso inarrestabile. Destinato a modificare profondamente le nostre abitudini professionali, sociali, relazionali.

 Ci troviamo nel mezzo di quello che verrà ricordato come il grande balzo storico dell’inizio del terzo millennio. Dobbiamo fare in modo che la rivoluzione che stiamo vivendo resti umana. Cioè, iscritta dentro quella tradizione di civiltà che vede, nella persona - e nella sua dignità - il pilastro irrinunziabile.

 Viviamo, quindi, un passaggio epocale. Possiamo dare tutti qualcosa alla nostra Italia. Qualcosa di importante. Con i nostri valori. Con la solidarietà di cui siamo capaci.

 La democrazia

Con la partecipazione attiva alla vita civile.  A partire dall’esercizio del diritto di voto.

 Per definire la strada da percorrere,  è il voto libero che decide. Non rispondere a un sondaggio, o stare sui social.  Perché la democrazia è fatta di esercizio di libertà.

 Libertà che, quanti esercitano pubbliche funzioni - a tutti i livelli -,  sono chiamati a garantire.

 Libertà indipendente da abusivi controlli di chi, gestori di intelligenza artificiale o di  potere, possa pretendere di orientare  il  pubblico sentimento.

 Non dobbiamo farci vincere dalla rassegnazione. O dall’indifferenza. Non dobbiamo chiuderci in noi stessi per timore che le impetuose novità che abbiamo davanti portino soltanto pericoli.

 Prima che un dovere, partecipare alla vita e alle scelte della comunità  è un diritto di libertà. Anche un diritto al futuro. Alla costruzione del futuro.

 Partecipare significa farsi carico della propria comunità. Ciascuno per la sua parte.

 Significa contribuire, anche fiscalmente. L’evasione riduce, in grande misura, le risorse per la comune sicurezza sociale. E ritarda la rimozione del debito pubblico; che ostacola il nostro sviluppo.

 Contribuire alla vita e al progresso della Repubblica, della Patria, non può che suscitare orgoglio negli italiani.

 Ascoltare, quindi; partecipare; cercare, con determinazione e pazienza, quel che unisce.

 Perché la forza della Repubblica è la sua unità.  Unità non come risultato di un potere che si impone.

 L’unità della Repubblica è un modo di essere. Di intendere la comunità nazionale. Uno stato d’animo; un atteggiamento che accomuna; perché si riconosce nei valori fondanti della nostra civiltà: solidarietà, libertà, uguaglianza, giustizia, pace.

 I valori che la Costituzione pone a base della nostra convivenza. E che appartengono all’identità stessa dell’Italia.

 Questi valori – nel corso dell’anno che si conclude - li ho visti testimoniati da tanti nostri concittadini.  

Li ho incontrati nella composta pietà della gente di Cutro. Li ho riconosciuti nella operosa solidarietà dei ragazzi di tutta Italia che, sui luoghi devastati dall’alluvione, spalavano il fango; e cantavano ‘Romagna mia’.

 Li ho letti negli occhi e nei sorrisi dei ragazzi con autismo che lavorano con entusiasmo a Pizza aut. Promossa da un gruppo di sognatori. Che cambiano la realtà.

 O di quelli che lo fanno a Casal di Principe. Laddove i beni confiscati alla camorra sono diventati strumenti di riscatto civile, di impresa sociale, di diffusione della cultura. Tenendo viva la lezione di legalità di don Diana.

 L'ho visto nel radunarsi spontaneo di tante ragazze, dopo i terribili episodi di brutalità sulle donne. Con l’intento di dire basta alla violenza. E di ribellarsi a una mentalità di sopraffazione.

 Li vedo nell’impegno e nella determinazione di donne e uomini in divisa. Che operano per la nostra sicurezza. In Italia, e all’estero.

 Nella passione civile di persone che, lontano dai riflettori della notorietà, lavorano per dare speranza e dignità a chi è in carcere.

 O di chi ha lasciato il proprio lavoro – come è avvenuto - per dedicarsi a bambini, ragazzi e mamme in gravi difficoltà.

 A tutti loro esprimo la riconoscenza della Repubblica.  Perché le loro storie raccontano già il nostro futuro.  Ci dicono che uniti siamo forti.

 Buon anno a tutti!

Quirinale

sabato 30 dicembre 2023

NUNC DIMITTIS

 


31 dicembre 2023 – Vangelo Lc 2,22-40

- I Domenica di Natale

22Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la legge di Mosè, portarono il bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore - 23come è scritto nella legge del Signore: Ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore - 24e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o due giovani colombi, come prescrive la legge del Signore. 25Ora a Gerusalemme c'era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione d'Israele, e lo Spirito Santo era su di lui. 26Lo Spirito Santo gli aveva preannunciato che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Cristo del Signore. 27Mosso dallo Spirito, si recò al tempio e, mentre i genitori vi portavano il bambino Gesù per fare ciò che la Legge prescriveva a suo riguardo, 28anch'egli lo accolse tra le braccia e benedisse Dio, dicendo:

 29«Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola, 30perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, 31preparata da te davanti a tutti i popoli: 32luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele».

 33Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui. 34Simeone li benedisse e a Maria, sua madre, disse: «Ecco, egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione 35- e anche a te una spada trafiggerà l'anima -, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori». 36C'era anche una profetessa, Anna, figlia di Fanuele, della tribù di Aser. Era molto avanzata in età, aveva vissuto con il marito sette anni dopo il suo matrimonio, 37era poi rimasta vedova e ora aveva ottantaquattro anni. Non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere. 38Sopraggiunta in quel momento, si mise anche lei a lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme. 39Quando ebbero adempiuto ogni cosa secondo la legge del Signore, fecero ritorno in Galilea, alla loro città di Nàzaret. 40Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui.

 Commento di Sabino Chialà

 In questa domenica dopo Natale la liturgia ci invita a sostare su Gesù attorniato dai suoi primi custodi: Maria, la giovane donna di Nazaret che lo aveva accolto nel proprio grembo, e Giuseppe, l’uomo giusto discendente di Davide, che di quel bambino è stato il primo custode. Funzioni diverse, ma ambedue svolte in obbedienza a una parola rivolta loro da Dio attraverso i suoi messaggeri.

 Una famiglia un po’ speciale quella di Gesù, di cui facciamo memoria in questa domenica. Maria e Giuseppe sono madre e padre in forza di una parola da essi ricevuta e accolta, in tempi e modi diversi. Non che il legame di sangue con Maria non sia ritenuto importante, ma non è quello il punto essenziale, come Gesù stesso dirà poco oltre, in Luca per ben due volte. A chi, infatti, gli riferiva che “sua madre e i suoi fratelli” desideravano vederlo, Gesù ribatte: “Mia madre e i miei fratelli sono questi: coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica” (Lc 8,21); e poco oltre, a chi lodava il grembo che lo aveva portato e il seno che lo aveva allattato, dice: “Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano” (Lc 11,28).

 L’obbedienza alla Parola: ecco ciò che conta per Gesù e ciò che è primario in tutte le vicende che si intrecciano attorno ai primi istanti della vita del Figlio di Dio, Parola fatta carne. La Parola di Dio, quando è obbedita, crea non solo un legame solido di chi la accoglie con il Padre che l’ha inviata, ma anche tra gli esseri umani che se ne fanno discepoli. E così nelle scene evangeliche che seguono la nascita di Gesù a Betlemme, i vari personaggi che vi si incontrano hanno in comune questo tratto: l’obbedienza a una parola che li conduce al bambino e intanto ne intreccia le esistenze.

 Così era stato per i pastori, giunti alla stalla perché avevano dato credito alle parole di un angelo (v. 10) e lì avevano incontrato “Maria e Giuseppe e il bambino” (v. 16). Anche Maria e Giuseppe vivono il loro particolarissimo rapporto di coppia in forza di una parola rivolta a ciascuno, e si recano al tempio in obbedienza alla Legge, per presentare il loro primogenito: “Come prescrive la legge del Signore” (v. 24). La loro genitorialità cresce e si articola intorno a quello che la Legge del Signore chiede loro. Conducono così Gesù al tempio dove incontrano Simeone ed Anna, altri due piccoli d’Israele che sono lì in obbedienza allo spirito profetico che li abita (v. 26 e 36). L’obbedienza alla “Legge del Signore” è infine menzionata nell’ultimo segmento del racconto, dove si parla del ritorno a Nazaret che avviene “quando ebbero adempiuto ogni cosa secondo la Legge del Signore” (v. 39).

 Se dunque la notte di Natale abbiamo contemplato la Parola fatta carne, il Salvatore, in questa prima domenica, l’evangelo ci invita a volgere lo sguardo verso gli altri volti che si muovono e s’incontrano attorno a lui. Esso ci invita a cogliere ciò che rende possibile il loro convergere verso quel bambino e degli uni verso gli altri, e dunque ciò che forma quella particolarissima famiglia credente. Ebbene l’ordito della tela che si va componendo attorno al Bambino è l’accoglienza obbediente di ciò che egli è innanzitutto: Parola rivolta a ciascuno, che conduce a lui e che crea comunione.

 Questo ci ricorda come ogni relazione passa per l’obbedienza alla Parola e come ogni tradimento di relazione è effetto di un allontanamento dalla Parola. In questo ci sono di insegnamento Maria e Giuseppe, specialissima coppia di sposi, che vivono la loro vocazione sponsale in forza dell’obbedienza a una parola loro rivolta. Vivranno in forza della medesima obbedienza anche la loro genitorialità nei confronti di Gesù, custodendone la crescita nel rispetto del mistero di cui era abitato e che, in quei primi anni a Nazaret, vedevano prendere forma il lui che “cresceva e si fortificava, pieno di sapienza e grazia” (v. 40).

 Così è anche per Simeone e Anna che, nell’accoglienza di quel bambino, sentono compiersi la loro attesa, che è quella di un intero popolo: la “consolazione d’Israele”, attesa da Simeone (v. 25) e la “redenzione di Gerusalemme” attesa da Anna (v. 38); e compiersi la loro stessa esistenza, che giunge a pienezza, nell’offerta grata che Simeone ne fa, prendendo “tra le braccia” il piccolo Gesù e cantando il suo congedo dalla vita terrena (v. 28).

 Tutto, in queste scene, sa di legami pacificati, con se stessi e con gli altri. Legami resi solidi e pacificati dal comune riferimento alla Parola, promessa nelle antiche Scritture e ora adempiuta nel bambino di Betlemme. È lì che tutto si compone ed è lì che tutto rinasce. Non la carne e il sangue, ma la comune obbedienza alla Parola rendono possibile la comunione, ovunque e in ogni genere di relazione.

 Monastero di Bose

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IL VIRTUALE SPIETATO


 Paolo Crepet "Il virtuale è spietato con i nostri ragazzi. 

E oggi i genitori vogliono essere più giovani dei figli"

Intervista a Paolo Crepet a cura di Walter Veltroni

 

Come vedi l’esplodere del disagio tra i ragazzi del nostro tempo?

 «Coesistono due fenomeni: da una parte la tendenza all’autoisolamento, la diffusa perdita di speranze, la difficoltà di vedere il futuro. Ma non è solo questo, il senso di rinuncia convive con un atteggiamento opposto: la rabbia, la violenza, la prepotenza del bullismo. Non è un fenomeno nuovo, se ci si pensa. Negli anni in cui eravamo giovani una parte dei ragazzi precipitò, fino a morirne, nell’eroina, la cui improvvisa esplosione è un fenomeno mai indagato davvero, e un’altra nel terrorismo che, in fondo, era una forma di indifferenza e di cinismo nei confronti della vita altrui. E persino della propria. Se si vuole il racconto più drammatico di quella condizione di disagio bisognerebbe rileggere le lettere a Lotta Continua. In quel tempo esisteva, infatti, una diffusa e coinvolgente partecipazione politica e civile. Ciò che manca, oggi. Sia chiaro, comunque: un adolescente non inquieto è inquietante».

 Quanto ha pesato la pandemia?

 «È stato un big bang. Ha prodotto disagio per il modo in cui è stata gestita: chiusura delle scuole, didattica a distanza, conseguente chiusura in casa dei ragazzi, isolati dal contesto sociale. È stata dura per tutti, ma per loro è stata un’esperienza afflittiva. A scuola si va certo per imparare, certo perché è un dovere. Ma si va anche perché c’è un cortile, un corridoio, una ricreazione. Lì si trovano gli amici, gli amori, si costruisce la ragnatela fondamentale, la prima, dei rapporti sociali. I ragazzi sono stati rinchiusi nel loro cellulare. Quando una ragazza di un liceo di Bologna alla quale è stato tolto il cellulare ti dice, due settimane dopo, “Non è male, questo esperimento, finalmente siamo tornati a parlare” ci sta parlando di una possibilità. Se io prendo una ragazza di sedici anni e la chiudo con le cuffiette, con una visione del mondo che passa solo attraverso lo schermo, è chiaro che qualcosa in quella esperienza umana accade. Dovremmo studiarla bene».

 Cosa pensi degli sviluppi tecnologici annunciati, come il visore Apple e l’intelligenza artificiale?

 «Tim Cook ha ragione a dire che il visore sarà una rivoluzione. La terza tappa: il computer, l’Iphone, ora il visore. Ma il visore porta a un mondo prevalentemente virtuale. La prima cosa che mi viene in mente è la follia. Il mondo della psicosi è sempre stato descritto come un mondo altro, in cui tu costruisci una tua vita virtuale. Parli da solo, pensi da solo. È l’uomo sull’albero di Amarcord di Fellini. Mondi altri, costruiti per sfuggire a quello reale. Che inquieta, fa soffrire. Il virtuale è stare su quell’albero».

 Il nostro tempo è causa di infelicità?

 «Mi viene in mente il caso del “ragazzo selvaggio” magnificamente raccontato nel film di Francois Truffaut. Un adolescente trovato nel bosco dove aveva trascorso i primi dodici anni della sua vita che si cerca di riportare nel mondo civile. Siamo in pieno illuminismo e la domanda che si fanno i medici che lo curano è: la civiltà porta felicità?».

 Nel caso del ragazzo la risposta è no. Non riuscì mai a integrarsi, morì infelice.

 «Perché citare questo caso? Perché questo è il tema. E se le tecnologie, nel separarci e relegarci in un mondo virtuale costruissero la nostra infelicità? “Think different” diceva Apple: era un messaggio di libertà, di innovazione, era una promessa di libertà e di felicità. È stato davvero così? Gran parte del disagio giovanile nasce o si alimenta in relazione con questi strumenti. Torniamo all’illuminismo: libertè, egalitè, fraternitè. Cos’è la fraternitè, Facebook? E cos’è la libertè, il metaverso? Tutto questo crea appagamento, dipendenza o maggiore libertà? Forse è venuto il momento di ragionarne senza le catene dell’ovvio o del politicamente corretto imposte dallo spirito del tempo».

 Cosa è del conflitto generazionale?

 «Mia mamma non amava i Beatles. Ai genitori di oggi piacciono i Maneskin. Il conflitto è diventato una sorta di baratto. La rivoluzione dei ragazzi è stata taciuta dalla comunità, che l’ha avvolta in un conservatorismo estremo. Pasolini sarebbe molto preoccupato, la sua denuncia del consumismo si è inverata. Oggi il nonno compra le stesse cose dei suoi nipoti, non è mai successo nella storia umana. Quella cesura era un fatto salutare, ognuno viveva il tempo giusto della sua esistenza. Oggi i genitori vogliono essere più giovani dei figli, tutto questo appiattisce e amicalizza un rapporto che invece deve essere fondato sul riconoscimento dei ruoli. Non esiste più il capitano, il punto di riferimento. È forse il compimento del ‘68, dalla rivolta antiautoritaria. Ma ora una generazione che ha contestato i padri è diventata serva dei propri figli. Non è capace di dire i no, di orientare senza usare l’autoritarismo, ma l’esperienza. C’è un armistizio: io ti faccio fare quello che vuoi, tu non mi infliggi la tensione di un conflitto. Ma così si spegne il desiderio di autonomia, l’ansia di recidere i cordoni, l’affermazione piena della propria identità. Il conflitto generazionale è sparito. E non è un bene».

 Ma ti sembra che si sia spento il desiderio, da quello sessuale a quello di cambiare il mondo?

 «Se hai tutto, non cerchi nulla. Una delle applicazioni di intelligenza artificiale più usate dai ragazzi si chiama “Replica”. Non è assurdo? Ogni generazione ha cercato di creare, non di replicare. Si voleva non ribadire, ma stupire, non accettare il frullato di quello che c’è, ma l’invenzione del nuovo. Noi stiamo diventando soli e ne siamo contenti. Abbiamo smesso di parlarci. Nelle scuole, in famiglia, nelle sezioni, nelle parrocchie, nei circoli o nelle piazze. Se vogliamo salvarci dobbiamo disallinearci, dobbiamo rinunciare all’ovvio, vivere la vita da un punto di vista originale. Non dobbiamo replicare, dobbiamo inventare».

 E la sessualità?

 «Oggi è vissuta senza desiderio. I ragazzi che frequentano giovanissimi i siti porno aumentano la fruizione ma finiscono col banalizzare il meraviglioso mistero del sesso. L’erotismo è scoperta, non fruizione. Casanova diceva “L’erotismo è l’attesa” e invece ora è tutto spiattellato. Troppo e troppo presto. Celebriamo la libertà sessuale uccidendo l’erotismo».

 È giusto, come ha proposto Ammaniti, non dare ai ragazzi il cellulare prima dei dodici anni?

 «So per certo che bisogna far venire ai ragazzi la voglia di fare a meno di un uso parossistico del cellulare. Bisogna inventare altri interessi, il bisogno di relazione e di scambio. Possibile che la tradizione educativa italiana — Montessori, Lodi, Don Milani — non produca una cultura del desiderio di conoscenza e di profondità? Io ai ragazzi di quell’età non darei il cellulare, farei insieme a loro le ricerche per aiutarli a decifrare i codici della comunicazione digitale. Così come non capisco come si possa, da parte dei genitori, pensare di geolocalizzare i figli. Se ne comprime la libertà per placare le proprie ansie. Tutte ansie individuali. Bisogna fare insieme, non da soli».

 Nell’esperienza delle generazioni precedenti l’unico momento di giudizio sociale era la scuola. Spesso duro ma contenuto nelle dimensioni. Ora ogni adolescente può essere destrutturato da un giudizio che diventa subito universale. Di qui il bisogno costante di conferme della propria autostima. È così?

 «L’esposizione permanente, l’esistenza di un proprio pubblico, quello dei follower, il carattere virale di ogni forma di comunicazione costituiscono motivo di stress e di ansia. La scuola educava anche a conoscere le sconfitte, a far fronte a momenti di difficoltà e di delusione. La dimensione limitata del giudizio, quello delle mura di una classe, ti consentiva di ripartire, se eri caduto. Ora tutto è universale, rapido, spietato. Bisogna riconquistare una giusta dimensione del tempo, uscire dalla fretta del momento. Io credo che questa generazione smarrita cerchi ragioni per sognare e tornare a sperare. Dal buio si esce cercando la via. C’è bisogno di parole, di conflitti sani, di visioni che appassionino. Invece ci circonda il silenzio. Sembra, in questo tempo, che si possa solo aspettare Godot. Ma Godot non c’è».

 

Fonte: Corriere della Sera


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DA UN ANNO ALL'ALTRO


 Quello che trasmetteremo



 -         José Tolentino Mendonça



Frase ricca di speranza, quella che scrisse Albert Camus: «In mezzo ai flagelli ci sono negli uomini più cose da ammirare che non da disprezzare». È vero: approfittiamo allora del trascorrere del tempo come di un’opportunità.

Possiamo forse attivare la nostra responsabilità nei confronti di un’ecologia integrale, celebrando un nuovo contratto sociale con la Creazione.

O forse investire nella ricerca di equilibri più soddisfacenti: tra il profitto e il dono, tra la crescita e la sostenibilità, tra l’individuale e il comunitario, tra il diritto a usare e il dovere di riutilizzare, tra il furore della tecnologia digitale e la natura artigianale della nostra umanità.

O forse imparare a interagire in modo più intelligente con la complessità del mondo, ma anche con una più grande disponibilità a meravigliarci della sua disarmante semplicità.

O forse mettere tra le competenze che più ci adoperiamo a esercitare la gentilezza e la fraternità.

O forse, come così chiaramente percepiamo il posto dell’educazione fisica o di quella scientifica, a saper cogliere il posto anche dell’educazione emozionale e spirituale.

O forse, infine, a preoccuparci più di quello che trasmetteremo, che non di quanto erediteremo.

Penso a quel versetto del salmo biblico: «Insegnaci a contare i nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore».

www.avvenire.it

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ANNO NUOVO. SIGNORE INSEGNACI A PREGARE


Signore, insegnaci a non amare noi stessi,

 a non amare soltanto i nostri,

a non amare soltanto quelli che amiamo.

Insegnaci a pensare agli altri

ed amare in primo luogo quelli che nessuno ama.

 

Signore, facci la grazia di capire che ad ogni istante,

mentre noi viviamo una vita troppo felice,

protetta da Te,

ci sono milioni di esseri umani,

che sono pure tuoi figli e nostri fratelli,

che muoiono di fame

senza aver meritato di morir di fame,

che muoiono di freddo

senza aver meritato di morire di freddo,

che muoiono a causa delle guerre

senza aver meritato

di divenire vittime

di folli conflitti.

 

Signore,

abbi pietà di tutti i poveri e gli oppressi del mondo.

E non permettere più,

Signore,

che noi viviamo felici da soli.

 

Raoul Follereau

 

 


GUERRA ISRAELO-PALESTINESE E PARADOSSI DELL'OCCIDENTE

 


-         di Giuseppe Savagnone

 

Le crescenti perplessità sull’azione di Israele a Gaza

Diventano sempre più frequenti e pressanti le richieste degli alleati di Israele perché cambi le modalità del suo intervento armato nella Striscia di Gaza.

 In particolare, sembra impressionare i governi occidentali il costo che l’offensiva israeliana sta comportando per la popolazione civile palestinese: ad oggi più di 21.000 morti, di cui una larghissima percentuale donne e 8.000 bambini. Conseguenza inevitabile dei furiosi bombardamenti che hanno devastato città e campi profughi, radendo al suolo abitazioni civili, scuole, ospedali, chiese, moschee.

 Per cercare di sfuggire alle bombe, la gente non ha avuto altra scelta che piegarsi ai perentori ultimatum delle autorità israeliane e abbandonare, in tempi brevissimi la propria casa, il proprio lavoro e la propria vita ordinaria.

 Non meno drammatico, dal punto di vista umano, il blocco, deciso da Israele, dei rifornimenti di viveri e di carburante, che da più di due mesi priva due milioni e mezzo di persone del cibo, dell’acqua, della luce, delle cure ospedaliere, come attestano le reiterate, drammatiche denunzie di tutte le agenzie internazionali, da quelle dell’ONU ad Amnesty International a Medici senza frontiere.

 Da qui una sollevazione dell’opinione pubblica, nelle città e nelle università americane ed europee, che non si registrava dal tempo della guerra del Vietnam e che ha cominciato a preoccupare i governi, prima attestati sulla formula secondo cui “Israele ha il diritto di difendersi”.

 Il presidente francese Macron ha recentemente dichiarato: «Non possiamo permettere che si radichi l’idea che una lotta efficace contro il terrorismo implichi appiattire Gaza o attaccare indiscriminatamente le popolazioni civili».  

 Lo stesso presidente degli Stati Uniti – il più fedele e tradizionale alleato dello Stato ebraico – ha espresso la sua preoccupazione per questa strage di civili e ha avvertito il governo israeliano che questi metodi non fanno altro che accrescere il livello dei dissensi  nei confronti della sua politica.

 Le parole e i fatti

Secondo il governo di Tel Aviv, non si tratta solo degli interessi di Israele, ma di quelli della stessa popolazione palestinese. A questo proposito il ministro degli esteri israeliano Ely Cohen ha parlato di “liberare” Gaza da Hamas, «per creare un futuro migliore agli abitanti della regione».

 Quanto ai costi umani, sia il presidente Netaniahu sia i comandi dell’esercito di Tel Aviv hanno ripetutamente assicurato che le operazioni militari a Gaza si svolgono nel pieno rispetto delle leggi internazionali e che Israele «segue il diritto internazionale e prende tutte le precauzioni possibili per mitigare i danni civili».

 Intanto però affiorano sempre nuovi elementi che smentiscono queste affermazioni. Due recentissime indagini realizzate, indipendentemente l’una dall’altra, dal «New York Times» e dalla CNN, hanno dimostrato che l’aviazione dello Stato ebraico, nei mesi di ottobre e novembre, ha bombardato aree che le autorità miliari avevano indicato come “sicure”, spingendo gli abitanti di Gaza a rifugiarsi in esse, dopo l’inizio dell’operazione di terra.

 E non solo: lo ha fatto usando bombe MK-84 da 900 chili di peso, le più distruttive degli arsenali militari occidentali, che, secondo gli esperti militari americani consultati dal «New York Times», non vengono sganciate dalle forze statunitensi in aree densamente popolate, proprio per i rischi che rappresentano per la popolazione civile.

 E non si è trattato di un ricorso eccezionale: secondo le indagini, accuratissime, del quotidiano e della emittente Usa, sono stati almeno 208 i casi che provano l’uso, da parte degli israeliani, delle MK-84. L’ultimo, alla vigilia di Natale, il bombardamento del campo profughi di Al Maghazi, che ha causato più di cento morti innocenti.

 Intanto altri episodi fanno sempre più dubitare anche delle “regole d’ingaggio” delle truppe di terra di Tel Aviv. Ha destato molta impressione la notizia che tre ostaggi israeliani, sfuggiti al controllo dei loro carcerieri, sono stati uccisi dal “fuoco amico”, pur essendosi presentati a torso nudo (per assicurare che non nascondevano esplosivi) e sventolando una bandiera bianca. Qualcuno si è chiesto cosa è successo, allora, a tanti civili che non usavano queste estreme precauzioni…

 Una risposta inquietante viene dal comunicato del Patriarcato latino di Gerusalemme, secondo cui un cecchino israeliano ha sparato sua una madre e una figlia che si stavano rifugiando in una chiesa, uccidendole.

 Ma la violazione dei diritti umani non si manifesta solo nei massacri. Fanno sempre più impressione le fotografie di gruppi di civili, compresi donne e bambini  – presentati come sospetti di essere terroristi – seminudi, seduti, inginocchiati, o in marcia, sotto il controllo di soldati israeliani. È stato osservato da molti che cose simili le facevano i nazisti.

 Il paradosso dell’Occidente

Il paradosso, in tutto questo, è che lo Stato ebraico può permettersi di alimentare continuativamente da più di due mesi questa tempesta di fuoco solo grazie alle forniture di armi da parte degli stessi paesi occidentali – compresa l’Italia, tramite la «Leonardo» – che  a parole lo invitano a fermarla o almeno a limitarla.

 Secondo i dati del Pentagono, da ottobre gli Stati Uniti hanno inviato a Israele oltre 5.000 bombe MK-84 – quelle del cui effetto devastante sui civili gli stessi americani sono ben consapevoli.

 Un paradosso analogo riguarda ciò che sta accadendo in Cisgiordania, dove in questi ultimi decenni si sono moltiplicati gli insediamenti illegali di coloni israeliani, ripetutamente condannati dall’ONU perché contrari alla risoluzione del 1947, secondo cui questi territori dovrebbero far parte del futuro Stato palestinese  (e certo non sono stati acquistati mediante compravendite private!).

Proprio in questi giorni il parlamento israeliano ne sta finanziando di nuovi, come ha denunziato l’alto rappresentante per la politica estera dell’Unione europea, Josep Borrell: «L’Unione Europea è seriamente preoccupata per l’impegno di finanziamenti aggiuntivi per la costruzione degli insediamenti e le attività correlate approvati dalla Knesset nel bilancio modificato per il 2023».

 E ha aggiunto, riferendosi ai gravi episodi che anche il presidente americano Biden ha recentemente menzionato e duramente condannato: «L’approvazione di questo bilancio aggiuntivo avviene in un contesto di crescente violenza contro i palestinesi da parte dei coloni estremisti nella Cisgiordania occupata, che ha raggiunto livelli senza precedenti. Dopo gli attacchi terroristici di Hamas contro Israele il 7 ottobre, la violenza dei coloni è aumentata drasticamente e circa 1.000 palestinesi sono stati costretti ad abbandonare le proprie case».

 Ma proprio l’Occidente in questi decenni ha assistito indifferente al moltiplicarsi di questi insediamenti illegali. Gli Stati Unti hanno addirittura riconosciuto la proclamazione di Gerusalemme a capitale dello Stato ebraico, in aperta violazione della risoluzione del 1947 delle Nazioni Unite, che riservava a questa città, in considerazione del suo valore simbolico per tre religioni, uno statuto internazionale.

 Un comportamento molto diverso da quello che è stato tenuto nei confronti delle violenze scatenate Putin, con mezzi altrettanto efferati, contro l’Ucraina. In quel caso i crimini di guerra russi sono stati colpiti duramente da sanzioni economiche e  da un isolamento totale – almeno da parte dei paesi della Nato – , e il dittatore russo è stato condannato dalla  Corte penale internazionale. Nulla di lontanamente simile verso Netaniahu.

 Si obietterà che in quel caso i russi erano gli aggressori, mentre in questo gli israeliani  hanno subito per primi un attacco di una ferocia disumana. Verissimo. Ma l’unanime indignazione e le sanzioni non sono state dovute solo alle origini della guerra (Stati che ne attaccano altri se ne sono sempre visti…), bensì al modo   con cui i russi l’anno condotta, in totale dispregio dei diritti umani.

 Ora, i civili morti in Ucraina a causa di questa violenza indiscriminata sono ad oggi circa 10.000, meno delle metà di quelli palestinesi. Con l’aggravante che questi ultimi, per ammissione dello stesso governo di Tel Aviv, non sono i responsabili dell’aggressione del 7 ottobre ma, se mai, le vittime di Hamas.

 Un vicolo cieco

Colpisce, peraltro, l’assoluta sordità del governo israeliano di fronte ad ogni appello. «La guerra continuerà fino a che Hamas non verrà eliminato, fino alla vittoria. Chi pensa che ci fermeremo, non è collegato alla realtà», ha detto il premier Benyamin Netanyahu.

 Gli obiettivi da raggiungere prima di concluderla, secondo lui, sono due: la liberazione degli ostaggi e la distruzione di Hamas. Ma per entrambi la continuazione delle operazioni militari, così come si sono svolte finora, sembra assolutamente inadatta.

 Che ciò sia vero per il primo, sono le famiglie degli ostaggi a ripeterlo incessantemente, con le loro manifestazioni di protesta contro il governo. E in effetti, in più di due mesi e mezzo, neppure un ostaggio è stato liberato, mentre alcuni sono stati involontariamente uccisi da quelli che dovevano essere i loro salvatori.

 Quanto al secondo obiettivo, può anche darsi che alla fine Hamas sia annientato, ma quel che è certo è che la sua inaspettata capacità di tenere in scacco per tutto questo tempo l’esercito è più forte del Medio oriente l’ha ormai trasformato in un mito agli occhi del mondo palestinese e, dopo la sua eventuale fine, rinascerà prima o poi in nuovi epigoni che si ispireranno al suo modello. 

 Anche perché le prevaricazioni e le violenze  dello Stato ebraico, oltre ad avere l’effetto di far dimenticare, assurdamente all’opinione pubblica mondiale la ferocia inaudita di cui Hamas ha dato prova il 7 ottobre, non possono che accrescere sempre più l’odio dei palestinesi nei confronti  di Israele, contribuendo a rendere questa campagna militare un fallimento.

 A questo proposito il segretario alla Difesa americano, Lloyd Austin, ha recentemente dichiarato, intervenendo al Forum alla Reagan National Defense: «Ho imparato una o due cose sulla guerriglia urbana dal tempo che ho trascorso in Iraq. L’unico modo di vincere una guerriglia urbana è proteggendo i civili. In questo tipo di battaglia, il centro della gravità è la popolazione civile. Se la si spinge fra le braccia del nemico, si sostituisce una vittoria tattica con una sconfitta strategica».

 La verità è che Israele, che aveva vinto trionfalmente tutte le guerre combattute finora contro gli eserciti degli Stati arabi, ha già perduto questa, perché l’ha trasformata, di fatto, nella spietata punizione di un popolo che non era neppure il suo nemico.

 Ma l’Occidente in questo disastro sta avendo un ruolo decisivo. Certo, Israele è uno Stato sovrano e nessuno può imporgli la pace. Ma dipende da noi continuare a dargli, oppure no, le bombe con cui fa la guerra. Decideremo di fermarlo, oppure continueremo ad accompagnarlo, di fatto al di là delle parole, in questo vicolo cieco di violenza?

 *Scrittore ed editorialista. Pastorale della Cultura. Arcidiocesi Palermo.

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