"Libertà è una parola fraintesa e vilipesa, solo la scuola può
ricostruirne il senso"
Nasciamo tutti in
catene, come nel mito della caverna di Platone: il nostro compito è
liberarcene. Per farlo dobbiamo sottoporre a una critica spietata tutto ciò che
è già stato detto e fatto
-di
Massimo
Cacciari
Nessun
augurio più bello: che il prossimo sia l'anno della libertà – eppure nessuna
parola più fraintesa, vilipesa, offesa di questa. Spesso ce ne vantiamo, noi
democratici di Occidente, come ne fossimo gli unici depositari, chiamati dal
Signore a insegnarne al mondo le virtù. E questo ci esonera dal pensarne il
significato. Nessuno nasce libero. All'opposto, tutti nasciamo "in
catene", esattamente come le famose figure di Platone nel mito della
caverna, condizionati da ogni lato, all'interno di abitudini, tradizioni,
credenze, che non abbiamo né fatto né voluto. Che siano buone o cattive potremo
deciderlo solo in seguito, ma comunque esse saranno il presupposto
ineliminabile di ogni nostro atto, così come la lingua che apprendiamo col
latte materno. Questo significa una cosa sola: che la libertà è un compito. In
nostro potere è solo diventare liberi, sottoponendo a critica, a spietata
critica, vorrei dire, tutto ciò che ci viene trasmesso, ogni forma del
già-detto e già-fatto.
Ma
non basta. Questa è la parte più semplice del nostro compito. Tutti coloro che
hanno affrontato con realismo l'enigma della nostra natura, senza consolatori
infingimenti, i veri "psicologi", sanno che in essa si contengono gli
opposti. Parlare dell'umano contrapposto all'inumano è la più vuota delle
chiacchiere, che la storia smentisce categoricamente. L'umano è, a un tempo,
l'oltre-umano di chi è capace di amare lo stesso nemico e il sub-umano di chi
cerca assolutamente il male dell'altro fino a volerlo annientare. L'umano è
tutto ciò che tra questi due poli si agita ed è compreso, ivi compresi questi
stessi poli. Ma il primo soltanto possiamo chiamarlo quello della libertà,
poiché in esso nessun odio, nessun risentimento, nessuna invidia, nessuna volontà
di sopraffazione possono condizionarci. E l'altro polo è quello del male per
gli altri, anzitutto, ma anche per noi stessi. Chi si orienta su di esso
finisce col distruggersi. Allora il compito della libertà consiste nel superare
la "cattiveria" che sussiste nella nostra natura e che in ogni
momento può esplodere, se non la combattiamo alla radice. Non so se le nostre
sole forze e la nostra sola ragione bastino a un tale fine. Forse no, anzi:
certamente no per raggiungere quell'oltre-umano di cui ho detto – forse sì, se
comprendiamo che perseguire il male dell'altro per esaltare la nostra potenza
minaccia a morte anche noi stessi.
Auguriamoci
di essere capaci di adempiere al compito più elementare, e tuttavia
difficilissimo, che dovrebbe competere a chi si ritiene libero: liberare.
Andremo invano a caccia di una dimostrazione "logica" della nostra
libertà. Possiamo soltanto credere di poterla mostrare nei fatti – e lo
possiamo soltanto liberando. Liberando dalla fame chi ha fame, dalla sofferenza
chi soffre, dalla guerra chi la guerra massacra, facendosi prossimi con ogni
mezzo a chi è torturato da odiose tirannie, ma non infliggendogli tormenti
maggiori con guerre "di liberazione", che odiosamente non mascherano
altro che volontà di potenza. Non è libero chi ha cura soltanto della propria securitas;
libero è solo chi agisce per liberare.
Ma
non libererà mai nessuno chi non ha liberato sé stesso. E questo è un compito
che si ripete ogni giorno, nella nostra vita e nelle nostre professioni. Un
compito che diventa sempre più oggettivamente arduo, per l'efficacia e la
pervasività di ogni sorta di "persuasore occulto", per l'impotenza
delle istituzioni che garantivano, bene o male, l'esercizio della discussione
critica, la partecipazione alla vita politica. Il "pensiero unico"
esige che il valore di ogni attività sia pesato sulla sua resa economica, sulla
sua utilità. Essere liberi significherà, allora, anche cercare, per quanto
possibile, di liberare la ricerca dalla sua dipendenza sempre più marcata da
interessi economici e mercantili. E una politica che ne persegua la libertà
sarà il migliore alleato di ricercatori e scienziati.
Essere
liberi per costoro significherà anche liberarsi dalle assurdità
ministerial-burocratiche che ne ledono l'autonomia nelle scuole e negli atenei,
incastrandone il lavoro in rigidi schemi, impedendo la circolazione di
esperienze, la comunicazione tra i diversi saperi. Sempre in base all'idea del
tutto illiberale che la scuola debba servire a finalità economico-produttive
determinate. Docenti, ricercatori, scienziati debbono ogni giorno liberare sé
stessi per servire davvero allo sviluppo della propria scienza. E soltanto una
scuola liberata da "pensieri unici" e ideologie produttivistiche può
aspirare a essere il centro di una educazione alla libertà come compito.
Nessuna
famiglia, nessun organismo tradizionale potranno mai garantire la formazione
nel giovane di un pensiero autonomo e critico. Soltanto la scuola può insegnare
il compito della libertà. Oggi la nostra scuola minaccia di tradire questa sua
fondamentale missione. Ricercatori, docenti e scienziati in primis debbono
liberarla da tale degradante condizione. O mostreranno di non essere liberi
neppure loro.
Fonte: La Stampa
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