geopolitica della
gentilezza
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Di Riccardo Redaelli
Questi
primi giorni sono un diluvio di ordini esecutivi, alcuni palesemente
incostituzionali, che vanno a minare alcuni dei principi cardine della
democrazia americana. Stupisce la brutale crudezza con cui la nuova
amministrazione intende trattare i migranti: separare le madri dai figli
piccoli, come promesso dal nuovo “zar” della lotta all’immigrazione, Tom Homan;
attuare una grande deportazione di donne e uomini, abolire l’automatismo dello ius
soli, cardine fondativo della società statunitense: se nasci in America
sei americano.
Ma
a destare ancor più stupore è l’amara costatazione che tutto ciò
venga accolto dai sostenitori repubblicani con grande
soddisfazione. La crudele indifferenza verso la sofferenza altrui viene
celebrata come una virtù da esibire e da premiare; la brutalità delle
politiche, il disprezzo verso chi raccomanda prudenza e solidarietà divengono
mosse elettorali vincenti.
Sarebbe
tuttavia troppo facile ritenere che tutto ciò sia il simbolo di una “malattia”
confinata negli Stati Uniti. Perché gli atteggiamenti muscolari, l’arroganza e
la violenza del potere sembrano un aspetto comune di un bel pezzo del mondo
contemporaneo.
Dalla
Russia di Putin, che massacra cinicamente i nemici quanto i suoi stessi
soldati, alla politica minacciosa di Xi Jiping verso Taiwan e contro ogni
dissenso interno; dal premier indiano Modi, il quale ha fatto dell’induismo
un’ideologia politica intimidatoria nei confronti delle minoranze cristiane e
musulmane, al razzismo messianico dell’ultradestra israeliana che ha impedito
per mesi di fermare la sanguinosa guerra a Gaza.
E
questa “ferocia della politica” non risparmia l’Europa. I movimenti sovranisti
e della destra estrema avanzano quasi ovunque nel Vecchio Continente, con i
loro proclami di deportazioni di migranti, frontiere chiuse e intolleranza,
speculando sulle paure nei confronti del futuro che ci attende. In Italia hanno
comunque pagato i proclami elettorali per un “blocco navale” impossibile
giuridicamente e tecnicamente. Che deve fare l’Europa, ci si chiede
continuamente, ora che la Russia si fa più aggressiva e che gli Stati
Uniti minacciano di rompere quel legame speciale di amicizia e alleanza
che rappresentava il pilastro dell’Occidente? In molti spingono per un riarmo
massiccio, addirittura si parla di un 5% dei nostri bilanci per la difesa; una
cifra iperbolica che assorbirebbe le risorse destinate al welfare. Altri
suggeriscono di scimmiottare la minacciosa arroganza di Trump, per costruire
una “fortezza Europa”.
Ma
snaturare i valori che sono stati alla base della costruzione
dell’Unione Europea non sembra essere una cura ragionevole. Una
massima di un generale britannico nell’India coloniale recitava:
«Dimostriamo a questi selvaggi che possiamo essere più
selvaggi di loro». Ecco, questa sarebbe la ricetta per perderci
definitivamente. Non si tratta di voler immaginare un Europa incatenata a
un buonismo sciocco e velleitario. Dobbiamo rafforzarci? Lo faremo. Dobbiamo
essere più pronti a difenderci? Impareremo a farlo. Ma senza rinunciare ai
nostri valori fondativi, che ci impongono di prediligere la diplomazia alla forza,
la cooperazione agli ultimatum, il sedersi attorno a un tavolo piuttosto che
rovesciarlo. Insomma, all’aggressività della politica neo-imperiale di Trump,
alla cinica durezza esibita da troppi leader nel mondo, opponiamo una
“geopolitica della gentilezza”, che guardi sì ai nostri interessi nazionali e
continentali – sarebbe assurdo non volerlo fare – ma senza umiliare o
minacciare gli altri. Diventare meno inconcludenti e farraginosi evitando di
trasformarci in lupi affamati non deve suonare un’utopia velleitaria, ma il
miglior regalo che possiamo fare a noi stessi.
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