- di Massimo Recalcati
Lo Stato laico separa la vita politica dalla fede religiosa. Si tratta di una separazione che ispira sin dalle sue origini la vita della democrazia. Uno dei fondamenti della democrazia consiste, infatti, nel non confondere il piano della dialettica politica e dei suoi inevitabili conflitti con quello della lotta tra religioni.
Fare,
al contrario, della lotta politica una guerra tra religioni è lo spirito che
anima ogni forma di fanatismo che si colloca in netta alternativa allo spirito
laico della democrazia. Freud faceva notare come l’esperienza della
psicoanalisi fosse intimamente laica in quanto fondata sul rifiuto
dell’esistenza di verità ultime. Quello che conta non è il possesso
indubitabile della Verità ma la sua ricerca continua.
Invocare Dio
nella lotta politica significa invece sottrarre la politica al dubbio e,
dunque, alla sua dialettica più vitale. È quello che sta accadendo nel
conflitto israeliano-palestinese ma è anche uno dei tratti più inquietanti che
ai miei occhi unisce la figura di Putin a quella di Trump.
Nel suo recente
discorso di insediamento alla Casa Bianca il neo presidente degli Stati Uniti
si presenta come un unto del Signore, salvato miracolosamente dall’attentato
che durante la campagna elettorale avrebbe potuto ucciderlo. Non si è trattato
dunque di un episodio drammatico che si è risolto fortunatamente bene, ma di un
vero e proprio segno che identifica Trump come l’uomo della provvidenza in
grado di liberare gli Stati Uniti dalla corruzione dei costumi, dalle pastoie
di un sistema politico votato all’impotenza, dal decadimento attuale del suo
prestigio mondiale.
È questo un
nesso piscologico che troviamo storicamente alla base di ogni tendenza
anti-democratica: se Dio mi ha nominato, il mio insediamento non dipende dalla
meschinità invidiosa degli umani, ma da una consacrazione che si situa al di là
di ogni Legge.
L’evidente
tratto narcisistico di personalità di Trump si fonde così con l’altrettanta
evidente spinta megalomanica a porsi come il salvatore dell’America e il
redentore dei suoi irrinunciabili valori morali.
Con l’aggiunta
che questa narrazione non ha più i toni del fanatismo ideologico che troviamo
nel Novecento, ma quelli di un cinismo disincantato. Per questa ragione non
deve stupire più di tanto che i panni del restauratore della moralità e dei
valori della tradizione vengano indossati da chi personalmente questi panni li
ha sempre di fatto ritenuti zavorre insignificanti.
È qualcosa che
conosciamo bene: la vita privata di un leader può presentarsi come discutibile
dal punto di vista valoriale, ma questo non gli impedisce di proporsi come
guida morale del proprio paese e del suo popolo. Si tratta però di una evidente
scissione. La stessa che Trump applica politicamente nella lotta contro la
parte più marginale della società della quale i migranti rappresentano il
simbolo più rilevante.
Se la religione
universalista nel suo afflato solidale si manifesta per la sua inclusività — è
il continuo appello alla fratellanza di papa Francesco — la religione nazionalista che
sostiene la spinta antidemocratica trumpiana non è affatto inclusiva, ma tende
a generare, appunto, scissione, discriminazione e esclusione.
Non a caso la
vescova Marianne Budde ricorda a Trump questa contraddizione nel suo appello
alla pietas come forma di inclusione politica. Ma il punto è che Trump, come
Putin, utilizza il discorso religioso non per salvare gli ultimi o per dare a
loro speranza, ma per giustificare il carattere tendenzialmente assoluto del
proprio potere. Essi fanno, seppure in modi e in contesti culturali diversi,
della lotta politica una lotta tra religioni contraddicendo il principio
cardine della democrazia.
La distruzione
sistematica (Putin) o la profonda allergia (Trump) nei confronti di ogni forma
di dissenso riflette questa logica religiosa. Il dittatore russo non intende
rappresentare la Legge perché è la Legge. Non a caso uno dei suoi più potenti
alleati è la Chiesa ortodossa di Mosca. Il rifiuto della democrazia coincide
con il rifiuto tout court dell’Occidente che viene interpretato come
degenerazione morale e nichilismo valoriale.
Sia in Putin
che in Trump la riaffermazione nazionalista e sovranista si combina così con la
restaurazione dei valori della tradizione che vengono sostenuti come delle
verità religiose assolute. Ma se la posizione di Putin è chiara nella sua
franca opposizione al cancro dell’Occidente, Trump appare invece come una sorta
di corpo paradossale che per un verso è del tutto estraneo alla cultura della
democrazia ma, per un altro verso, è il suo prodotto mostruoso.
È, infatti, la
maggioranza degli americani che lo ha scelto come proprio leader. È il rischio
che abita ogni democrazia in quanto forma necessariamente incompiuta e
fallibile di governo, ovvero quello, in tempi di crisi, di volgere il proprio
sguardo verso le forme più autoritarie del potere.
Ritroviamo qui
in primo piano una considerazione hobbesiana di Freud di fronte
all’affermazione dei totalitarismi nel Novecento: nel tempo di massima
incertezza e paura, il potere tende a configurarsi come quello di un Dio al
quale sottomettere la propria volontà in cambio di sicurezza e protezione.
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