“Il mondo
nelle mani dei potenti
(ultrasettantenni)
prigionieri del passato”
- -di
Mauro Magatti
-
Oggi
il potere globale è saldamente nelle mani di ultrasettantenni (maschi)
cresciuti all’epoca della Guerra Fredda e del mondo diviso in blocchi: Donald
Trump classe 1947, Narendra Modi 1950, Vladimir Putin, 1952, Xi Jinping 1953.
E
potremmo aggiungere il brasiliano Lula del 1945 e il turco Erdogan, il più
“giovane” del gruppo, del 1954.
Evaporata
l’idea della globalizzazione e della crescita economica lineare – attorno a cui
per un trentennio si erano conformate il pensiero e le pratiche delle élites
planetarie – ora il pendolo oscilla pericolosamente verso la polarità opposta,
con un allineamento all’idea di un mondo diviso e destinato fatalmente al
conflitto economico se non alla guerra armata.
Sembra
così avverarsi la previsione di Zygmunt Bauman che, in una delle sue ultime
opere, aveva parlato di “retrotopia”, della tendenza cioè a rifugiarsi in
visioni idilliache del passato per sfuggire alle incertezze del presente.
Così,
Xi sogna la “grande rinascita della nazione cinese” guardando alle glorie
imperiali. Putin vuole “rimettere insieme” i pezzi dell’Unione Sovietica e
della Russia zarista, rivendicando territori e identità con la forza.
Trump,
col suo “make America great again”, scuote il mondo intero con decisioni di cui
l’unica razionalità è l’interesse nazionalistico.
E
Modi persegue una politica identitaria immaginando l’India come potenza
regionale.
Tutti
progetti politici che pescano nel mito del passato, non nel futuro.
Che
si tratti di scelte commerciali, politiche ambientali, migrazioni o conflitti
armati, la retorica è sempre la stessa: noi contro loro.
L’America
di Trump contro la Cina, la Russia contro l’Occidente, la Cina contro il
“contenimento” statunitense.
Non
c’è più spazio per la costruzione di beni comuni globali.
La
politica mondiale è oggi caratterizzata da una potente vena nostalgica.
Non
ci sono idee nuove, solo varianti dello stesso tema: recuperare, restaurare,
ripristinare.
Non
c’è una visione di come potrebbe essere il mondo domani, solo il desiderio di
ritornare a quello di ieri.
Le
grandi trasformazioni tecnologiche, i cambiamenti climatici, la mutazione delle
forme di lavoro e di vita sembrano sfuggire all’agenda dei governi.
È
come se questi leader – e le élite che li sostengono – non riuscissero a
immaginare un mondo che non sia già esistito.
Colpisce
altresì, come a questi protagonisti del nostro tempo sfugga la consapevolezza
della fine.
Essere
nell’ultima parte della loro vita non li spinge a moderare la volontà di
potenza.
A
usare la saggezza accumulata nel corso di una vita intera.
Al
contrario, per non lasciare spazio a ciò che verrà dopo di loro, essi
trascinano interi popoli – e generazioni più giovani – nel vortice dell’odio e
della guerra.
Il
loro sguardo fisso al passato alimenta conflitti che nessuno vorrebbe più
combattere: guerre territoriali nell’era della crisi climatica, muri nell’epoca
della mobilità, armi nucleari nell’era delle emergenze sanitarie globali.
Il
problema, allora, non è anagrafico.
È
generazionale.
Fatica
a realizzarsi quel ricambio che è necessario per aprire pagine nuove della
storia.
Invece
di accogliere l’idea che ogni generazione ha diritto di reinventare il mondo a
modo suo, i leader attuali vogliono imporre la loro idea di mondo fino
all’ultimo respiro.
Di
conseguenza, il cambiamento è lento e doloroso.
Con
un conflitto intergenerazionale che cova sotto la cenere: molti giovani vedono
il loro futuro sequestrato da chi guarda solo indietro.
Non
basta la tecnologia a rendere il mondo moderno, se la politica resta
prigioniera del passato.
Servono
idee nuove, all’altezza delle sfide del tempo.
Che
possono venire solo da chi non è cresciuto dentro le paure della Guerra Fredda
o il sogno infranto della globalizzazione.
La
retrotopia è una trappola che rischia di costare carissima.
Perché
la nostalgia è comprensibile, ma non è in grado di disegnare un programma
politico in positivo.
Per
uscire dalle spire di un potere che non sa morire e permettere finalmente alla
svolta generazionale di fare il suo corso, occorre prestare ascolto e dare
spazio alle sensibilità che affiorano, al di là delle tante contraddizioni,
nelle teste e nei cuori delle nuove generazioni. Come avverrà tra qualche
giorno a Roma, col Giubileo dei giovani.
Non
per rottamare, ma per rigenerare.
Non
per dimenticare il passato, ma per dare vita a una nuova stagione di
creatività.
Di
fronte alla complessità del mondo che abbiamo costruito, non serve camminare
con la testa rivolta al passato.
Serve
camminare in avanti con gli occhi fissi verso l’orizzonte e i piedi ben
piantati sulla terra.
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