sabato 30 novembre 2019

BENVENUTI IN AVVENTO. ARRIVA GESU' !

Dal Vangelo secondo Matteo - (Mt 24,37-44)
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Come furono i giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo. Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti: così sarà anche la venuta del Figlio dell’uomo. Allora due uomini saranno nel campo: uno verrà portato via e l’altro lasciato. Due donne macineranno alla mola: una verrà portata via e l’altra lasciata.
Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Perciò anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo».

Il commento al Vangelo di domenica 1 Dicembre 2019 –  a cura di Paolo Curtaz:

Arriva
Arriva il diluvio, e facciamo finta di niente. Oppure è già arrivato, l’acqua ci arriva alle ginocchia, e speriamo che smetta di piovere.  O saliamo su un gradino facendo finta di niente.
Arriva il diluvio e pensiamo di non esserne coinvolti, la colpa è degli altri, e poi cosa mai potrei fare? Meglio trovarsi un rifugio protetto, arrampicarsi su un albero, che so.
Arriva il diluvio.
Diluvio di parole grevi, di rabbia, di contrapposizioni, di sospetti, di ignoranza, di frasi gridate, di disinteresse, di disonestà, di narcisismo.
Arriva il diluvio. E possiamo continuare a non vedere, a mangiare e bere, a flirtare, a figliare, come ai tempi di Noè.
Guardando con commiserazione qualche esaltato che si costruisce una gigantesca arca per galleggiare a trovare una terra nuova. E immaginare che ci sia qualche interesse nascosto. Qualche affare losco e putrescente.
Arriva il diluvio e possiamo fingere. E scomparire.
Oppure.
Oppure fermarci a riflettere. Oppure alzare lo sguardo. Oppure trovare una soluzione.
Oppure dedicarsi qualche tempo per fare spazio, per accogliere una Parola che giunge da lontano e porta lontano. Per accogliere un vagito.
Benvenuti in Avvento.
Arriva il Signore.
Non siamo qui a far finta che poi nasce Gesù.  È nato nella Storia, tornerà nella gloria e qui, in mezzo, ci siamo noi.
Ci diamo un tempo per fermarci, per lasciare che la nostra anima ci raggiunga, per smettere di far finta di niente. Ancora una volta.
Ancora un Natale. Per nascere. Per rinascere. Per farlo nascere ancora e ancora questo Cristo, questo Dio, questo atteso.
Questo Dio che chiede ancora di nascere in ciascuno di noi. In noi che da tanti anni lo accogliamo e che rischiamo di abituarci allo stupore. In chi vi ha rinunciato, travolto dal dolore o dal peccato. In chi crede di credere e ancora non ha incontrato il Dio bellissimo di Gesù. In questa Chiesa talora stanca e spenta, confusa e affannata.  Sì, abbiamo bisogno di una scrollata. Di una profezia.
Profezie
Arriva la pace. L’arte della guerra si è fatta precisa e scientifica, Isaia.
E preferiamo forgiare armi, fondendo gli aratri. E deponiamo le falci, per affilare le lance.
Dopo tanti anni di odio e di guerra, nonostante tutto, nonostante le cataste di cadaveri dell’ultimo secolo, l’uomo non cambia. Le diversità diventano divisione, le opinioni altrui una minaccia, il modo di vedere le cose un ostacolo. L’altro è avversario, nemico, pericolo.
In Siria come in Libia, nell’agone politico come sugli spalti degli stadi, come, che tristezza sconfinata, fra i cattolici. Diversità non come opportunità ma come sfida e aggressività.
Cosa vede Isaia? Non il futuro, ma interpreta il presente. Accogliere Dio, accogliere questo Dio, il nostro Dio, il Dio di Israele definitivamente manifestatosi in Gesù, vediamo oltre, non dopo.
Oltre le nostre divisioni, oltre le nostre piccole battaglie, oltre l’evidenza.
È una sfida, certo.
Ma come ricorda Paolo ai Romani: la notte è avanzata, indossiamo le armi della luce.  Più è buio, più splendo della luce del Vangelo.
Arriva Dio.
L’Avvento ci viene donato per alzare lo sguardo. Per costruire l’Arca. Per indossare Cristo.
Gesù viene, continuamente, nelle nostre vite. Nella quotidianità del lavoro, della donna che macina, dell’uomo che lavora nei campi. Viene furtivamente, il Signore e ci avverte: uno è preso, l’altro lasciato.
Uno incontra Dio, l’altro no. Uno è riempito, l’altro non si fa trovare.
E leggendo questa pagina, che non capiamo, che pensiamo parli di disgrazie e di fine del mondo, gridiamo: speriamo di essere lasciati!
No, affatto: speriamo di essere presi. Presi dall’amore. Rapiti dall’amore. Riempiti.
Dio è discreto, modesto, quasi timido, non impone la sua presenza, come la brezza della sera è la sua venuta. A noi è chiesto di spalancare il cuore, di aprire gli occhi, di lasciar emergere il desiderio.
Viene come un ladro, perché sa che siamo preziosi.
Sa che dentro la cassaforte del nostro cuore brilla il diamante del desiderio e dell’amore ancora da scoprire, ancora da donare.
Prende, rapisce, svuota. Perché, come ci siamo ripetuti nelle ultime domeniche, solo dalla consapevolezza del nulla scaturisce il desiderio, si innesca la ricerca.
Voglio essere preso, Signore, ancora.
Arriva. Ci sei?
Stai sveglio, amico che leggi. Svegliati.  Smettila di fare la vittima. Smettila di proiettare addosso a Dio le tue paranoie.  Viene, davvero, oggi, adesso.
Trovati il modo di esserci. Stai sveglio nella tua anima. Prega, ama, medita.
Ritagliati uno spazio quotidiano alla preghiera, per meditare la Parola. Magar regalati una domenica pomeriggio per fare un paio d’ore di silenzio e di preghiera, fai una piccola deviazione andando al lavoro per entrare in una chiesa.
Se vissuti bene, aiutano anche i simboli del Natale cristiano: prepara un presepe, addobba un albero, partecipa alla novena. Fai qualcosa, una piccola cosa, per chiederti se Cristo è nato in te, per non lasciarti travolgere dal diluvio di parole e cose che ognuno vive.
Come dice splendidamente Bonhoeffer: «Nessuno possiede Dio in modo tale da non doverlo più attendere. Eppure non può attendere Dio chi non sapesse che Dio ha già atteso lungamente lui»




LA TRAGEDIA DELLE DONNE VITTIME DI VIOLENZA

-   di Giuseppe Savagnone

È di alcuni giorni fa la pubblicazione di una statistica dell’Eures, secondo cui in questi primi dieci mesi dall’inizio dell’anno, sono state uccise in Italia 94 donne. Una ogni tre giorni.
Nel 2018 i femminicidi erano stati 142 – il 38% degli omicidi commessi in Italia –, di cui 78 per mano di partner o ex partner. Dal 2000 ad oggi le donne uccise in Italia sono state 3.230. E il trend di questi ultimi anni è quello di una continua crescita, in controtendenza rispetto a quello degli omicidi nel loro insieme, che nel nostro Paese sono in forte calo anno dopo anno.
Qualcuno si stupisce dell’enfasi posta sul termine “femminicidio”, per descrivere il fenomeno e si chiede se si possa parlare di una categoria a se stante di reati. La risposta è nella definizione di questo termine nel libro di Diana Russell nel libro Femicide, del 1992: «Una violenza estrema da parte dell’uomo contro la donna proprio perché donna (…) in un contesto sociale che permette e avalla la violenza degli uomini contro le donne».
Una violenza a senso unico
Ovviamente questo non significa che non ci siano casi di donne che uccidono uomini. Ce ne sono anche che li aggrediscono o li maltrattano. Ma, sempre secondo i dati Eures, nel 2018 il 92% delle violenze sessuali, il 76% delle denunce per stalking e l’81% di quelle per maltrattamenti in famiglia sono state fatte da donne.
Per non parlare delle tante mogli o figlie che non hanno il coraggio di denunziare i loro mariti o padri. Il fenomeno peraltro non accenna ad attenuarsi. Un rapporto della Polizia di Stato rileva che per esempio nel mese di marzo 2019, in media, ogni 15 minuti è stata registrata una vittima di violenza di genere di sesso femminile. In questo quadro, è difficile parlare di una reciprocità …
Le leggi necessarie
Si sta cercando di far fronte a questa piaga sul piano legislativo. Nello scorso agosto è entrata in vigore la legge n. 69, cosiddetta “Codice rosso”, che ha innovato e modificato la disciplina penale, sia sostanziale che processuale, della violenza domestica e di genere, rendendo più celere l’avvio del procedimento penale e più aspra la sanzione per i reati dii maltrattamento in famiglia, stalking, violenza sessuale, prevedendo anche una maggiore tempestività per eventuali provvedimenti di protezione delle vittime.
Al divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, il giudice può aggiungere l’utilizzo di mezzi elettronici come l’ormai più che collaudato braccialetto elettronico.
Tutto ciò è giustissimo e su questa via possono essere sicuramente ottenuti risultati significativi; però non risolve il problema dei femminicidi alla sua radice, che è culturale.
La crisi della virilità
A prima vista, è vero, essi sembrerebbero risalire a ragioni che da sempre caratterizzano la dialettica del rapporto uomo-donna. Secondo Eures «il principale movente dei femminicidi familiari risulta quello della gelosia e del possesso (impropriamente definito passionale), riscontrato nel 32,8% dei casi; seguono, con ampi scarti, le liti e i dissapori (16%) e il disagio della vittima (15,1%)».
Ma a questo, che sicuramente rimane lo sfondo, oggi bisogna aggiungere un fatto nuovo che, almeno in Occidente, sta modificando radicalmente i termini di questa dialettica. Mi riferisco al declino di quell’insieme di fattori psicologici, caratteriali e culturali che tradizionalmente venivano definiti “virilità”.
Sono ovviamente consapevole delle distorsioni maschiliste che questo termine ha rivestito per secoli e che, soprattutto nel Meridione, hanno dato luogo a una serie di drammatici equivoci riguardanti l’onore di un uomo. Ma il suo tramonto, nell’uso corrente, non è legato soltanto al felice superamento di quelle distorsioni e di quegli equivoci. C’è qualcosa di più profondo, che assume un significato epocale alla luce dell’affermazione del movimento femminista nei Paesi occidentali.
Lo smarrimento del maschio
Perché questa affermazione, che ha cambiato radicalmente la concezione della donna, i suoi atteggiamenti e il suo ruolo nella società, ha profondamente inciso – né poteva essere diversamente – sul modo in cui gli uomini vedono se stessi e si rapportano all’altro genere.
Abituato da sempre a un predominio di genere, che prescindeva dalle qualità personali dei singoli e si fondava aprioristicamente sul possesso di alcune caratteristiche anatomiche, il maschio si è trovato, nel giro di pochi decenni, totalmente spiazzato dall’ascesa vertiginosa di donne sempre più capaci di rimettere in discussione il suo primato sia nel campo degli studi e del lavoro, che in quello della vita sessuale ed affettiva.
Il feminicidio come segno di debolezza
Forse andrebbe cercata qui la spiegazione del diffondersi della tragedia dei femminicidi. Alla base, nella maggior parte dei casi, c’è un disperato tentativo dell’uomo di riaffermare il proprio potere su una compagna che ormai ha una propria vita professionale, a volte più riuscita della sua, e che anche nei rapporti di coppia rivendica il proprio diritto a non essere solo un oggetto, ma una persona, libera come tale di fare le sue scelte.
Se questa lettura è corretta, i crimini in questione non sono, come potrebbe credersi a prima vista, la prova del perpetuarsi dell’antico dominio del maschio, ma il segno di specie di disperazione, la rabbiosa reazione alla scoperta di una impotenza, un sordo risentimento a cui i più fragili non trovano altro sfogo che quello di uccidere.
Non è un caso che a volte questo folle gesto venga percepito dallo stesso assassino come una forma di autodistruzione, portandolo al suicidio o a denunciarsi spontaneamente.
Più in generale, oggi si registra una diffusa difficoltà degli uomini di accettare e di vivere la propria virilità in un mutato contesto relazionale, che ne ha cambiato i connotati tradizionali, ma che potrebbe portare alla sua riscoperta in termini nuovi.
Una potenzialità non compresa
Perché l’emancipazione delle donne non dovrebbe, di per sé, minacciare l’identità maschile, anzi potrebbe costituire un suo approfondimento, liberandola dagli stereotipi quasi macchiettistici che si accompagnavano all’immagine del “maschio”.
La denunzia, da parte del movimento femminista, delle storture  di una civiltà fallo-logo-centrica fondata sulla logica del dominio e su una interpretazione riduttiva  della razionalità, potrebbe costituire una lezione importante a cui non solo le donne, ma soprattutto gli uomini dovrebbero essere attenti, per ripensare la loro identità virile in una prospettiva la liberi dalle storture del passato.
Non si tratterebbe per loro di una rinunzia, di una resa, ma di una conquista. Perché sono stati loro, innanzi tutto, le vittime della società che essi stessi hanno costruito sul mito del potere, del denaro e del successo, sacrificando spesso al lavoro e al guadagno le relazioni umane. Quanti professionisti incapaci di anticipare il ritorno a casa per godersi la semplice gioia della vita familiare!
Per non parlare della violenza sistematica nei confronti della terra – si è parlato di una specie di stupro – da parte di una tecnica ispirata alla logica maschile della penetrazione e volta allo sfruttamento illimitato della natura, con i risultati disastrosi che sono sotto gli occhi di tutti.
Una possibile involuzione del femminismo
La protesta del femminismo contro tutto ciò non è stata solo una rivendicazione unilaterale da parte di un genere contro l’altro, bensì un prezioso servizio ad entrambi.
Se mai sono le sue involuzioni che, tradendone l’esigenza di fondo, hanno a volte fatto sì che, invece di aiutare gli uomini a vivere in modo più autentico la loro virilità e le donne la loro femminilità, in un contesto di reciprocità e di pari dignità, questa lotta si sia risolta talora in un indebolimento di entrambe, dando luogo a donne sempre più “maschilizzate” e a uomini sempre più effeminati. Da qui il fenomeno sempre più diffuso di una “donna in carriera”, che insegue il successo sopra ogni altro valore, e di un uomo sempre più fragile, irresoluto, smarrito e – come logica conseguenza – violento.
Evitare una sconfitta per tutti
Si badi bene: come la vittoria delle donne non avrebbe dovuto essere una sconfitta degli uomini, ma la crescita di una relazione che avrebbe potuto arricchire entrambi, così il declino dell’uomo non è una vittoria per le donne, che sono le prime, oggi, a risentire e a soffrire, nella prospettiva di una vita di coppia, del vuoto di virilità che colpisce l’altro genere.
Resta il fatto che il femminicidio è un prezzo che una società civile non può e non deve accettare di pagare. Ben vengano, per questo, le misure repressive. Ma, un tempo in cui si parla molto, giustamente, dei passi ancora da fare per riconoscere alle donne i loro diritti, forse sarebbe il caso di tenere presente che tra questi c’è anche quello ad avere di fronte degli uomini che siano tali.


venerdì 29 novembre 2019

I GENDER CARTOONS. CUI PRODEST?

E' opportuno vigilare !

di ROBERTO COLOMBO

Sono pochi gli italiani della mia generazione che sono cresciuti senza avere letto i fumetti di Topolino, il periodico che illustrava le allegre avventure del più popolare personaggio disneyano, Mickey Mouse, e della sua corte di animali dalle virtù e dai vizi umani. Nella famiglia del generoso Paperino era possibile leggere antropomorficamente le nostre famiglie, con i membri ben riconoscibili nella loro identità personale e nei loro rapporti affettivi e generativi: da nonna Papera a madre Ortensia e agli allegri nipoti Qui, Quo e Qua, dallo stravagante cugino Paperoga all’ingegnoso zio Pico De Paperis e al ricco e avaro zio Paperone.
Settant’anni fa nasceva la rinnovata versione italiana a libretto di Topolino, erede degli albi editi da Nerbini prima e successivamente da Mondadori. Un libretto di cento pagine al prezzo di 60 lire, con cadenza mensile e poi settimanale, la cui uscita il mercoledì era da molti di noi ragazzi attesa in edicola con impazienza e dai nostri genitori con la fiducia di chi metteva nelle mani dei propri figli una lettura di sano divertimento, mai diseducativa. Questa sintonia con la reale antropologia della famiglia – simbolica, colorata e affascinante, come si conviene per i piccoli lettori, ma apprezzata anche dai grandi – ha caratterizzato la lunga fortuna dei personaggi e delle loro storie usciti dalla penna degli artisti della Walt Disney Company.
Una sintonia che ha iniziato a spezzarsi domenica 26 gennaio 2014, quando Disney Channel, canale televisivo destinato all’infanzia, ha mandato in onda un episodio della serie 'Buona fortuna Charlie', per la prima volta, con le due mamme lesbiche.
Da qualche anno, la Disney sembra avere imboccato una strada diversa nel creare e presentare i suoi cartoni animati, che la sta portando ad abbracciare l’agenda della 'rivoluzione del gender' nel concepire e presentare le figure e le avventure dei suoi personaggi, la cui identità sessuale stilizzata risulta sempre più fluida e le cui relazioni affettive e generative assumono ogni possibile orientamento e immaginazione, accendendo nella curiosità e fantasia dei giovanissimi destinatari del 'prodotto da divertimento' tensioni e accenti in direzione opposta alla realtà della famiglia in cui vivono e al percorso educativo proposto dai loro genitori e da quanti collaborano con essi nella formazione dei figli.
Si tratta di un errore pedagogico perché nasce da un errore antropologico e coinvolge i più sensibili e fragili tra i soggetti da accompagnare educativamente nella vita, introducendoli passo dopo passo alla realtà della persona umana e delle sue genuine relazioni affettive e generative.
In questo giudizio ci è di guida il Santo Padre Francesco che a Napoli, l’11 marzo 2015, ammoniva i giovani a diffidare di «quello sbaglio della mente umana che è la teoria del gender, che crea tanta confusione». Riprendeva così le parole di Benedetto XVI: «La profonda erroneità di questa teoria e della rivoluzione antropologica in essa soggiacente è evidente» (21 dicembre 2012).
Il 20 novembre scorso è stata consegnata al Parco Disney di Orlando (Florida), una petizione di genitori, nonni ed educatori (oltre 485mila firme) che chiedono ai manager e agli amministratori della Walt Disney Company di invertire la rotta lungo il pendio scivoloso della genderizzazione dei prodotti di divertimento per bambini, cartoons e non solo. «I parchi di divertimento Disney sono considerati un luogo sicuro dove le famiglie possono divertirsi insieme – ricordano – e la Disney ha un primato particolare nell’intrattenere e affascinare i bambini ». Per questo i genitori chiedono che la Disney «non indottrini i loro figli con un’agenda politica» indirizzata dalle teorie Lgbtq.
Una richiesta ragionevole da parte del soggetto primario dell’educazione dei figli che sono i genitori, indirizzata a chi ha fatto dell’intrattenimento multimediale dei bambini l’oggetto della propria attività artistica e produttiva e di una fortuna economica internazionale, perché siano rispettati nel loro percorso di crescita umana i più piccoli e fragili tra i fruitori del divertimento.
Roberto Colombo




DEMOCRAZIA A RISCHIO. LA PRODUZIONE SOCIALE DELL'IGNORANZA

Un’intervista di Anna Spena al prof. Fabrizio Tonello, in vita.it del 27 novembre 2019
Nel libro “Democrazia a rischio. La produzione sociale dell’ignoranza” di Fabrizio Tonello, professore di Scienza Politica presso l’Università degli Studi di Padova, l’autore si interroga: “Perché alcune società prendono decisioni disastrose?”. Undici capitoli intesi per capire come e perché viene prodotta tutta questa “ignoranza diffusa”.

La democrazia è veramente a rischio? «Certo», dice Fabrizio Tonello, professore di Scienza Politica presso l’Università degli Studi di Padova, che ha pubblicato il libro “Democrazia a rischio. La produzione sociale dell’ignoranza”.
Un volume da leggere, che parte dal dibattito su ignoranza e democrazia e poi esamina il funzionamento dei media nel loro complesso. E poi i processi di infantilizzazione degli adulti, post – verità e fake news. Si indaga sul successo di leader politici come Donald Trump e Boris Johnson. Della scuola che rimane un’emergenza educativa forte. «Il nostro pianeta è a rischio», scrive Tonello. «Le democrazie sono a rischio. Il pianeta è a rischio perché le democrazie sono a rischio. Questa forma di regime politico sembra non garantire più le necessarie capacità di autogoverno alle comunità umane che non vogliono sparire. La domanda a cui bisogna rispondere è: “Perché alcune società prendono decisioni disastrose?”. Undici capitoli intesi per interrogarci su come e perché viene prodotta tutta questa “ignoranza diffusa”.

La democrazia è veramente a rischio?
Certo. la deriva oligarchica delle democrazie industriali sembra oggi presentarsi in due versioni: una che propone l’autoritaritarismo “soft” dei partiti tradizionali e delle istituzioni sovranazionali e una che offre l’autoritarismo apertamente xenofobo e violento dei partiti populisti. Il rischio di nuovi successi per questi ultimi è tutt’altro che remoto e si basa sulle stesse condizioni strutturali che facilitarono l’ascesa del fascismo e del nazismo tra le due guerre mondiali. Fascismo e nazismo erano figli della crisi: delusione e scontento in Italia dopo la Prima guerra mondiale, disoccupazione di massa in Germania dopo l’inflazione del 1923 e il crack di Wall Street nel 1929. Soprattutto, confusione, disorientamento, paura: le società sottoposte a gravi stress per lunghi periodi finiscono per accettare qualsiasi cosa. L’espressione sociale del rancore verso le élite tradizionali è oggi improvvisa, e il “contenimento” dei movimenti fascistoidi in Germania, Francia e Spagna che sembra aver funzionato finora può benissimo trasformarsi nel crollo dei vecchi partiti alle prossime elezioni.
Come si contrasta la “produzione sociale dell’ignoranza?”
Creando dei movimenti di massa per difendere la scuola e la cultura, soprattutto in luoghi neutrali e collettivi come le biblioteche pubbliche. Combattendo ciò che Roberto casati definisce il “colonialismo digitale” in tutte le sue forme.
Ma che cosa significa essere ignoranti oggi?
Basta guardare su Youtube i video di Toninelli, Di Maio, Borgonzoni e altri per capirlo…
Come viene prodotta dalla società l’ignoranza diffusa?
Prima di tutto c’è un problema generale, che riguarda gli esperti: l’accresciuta tribalizzazione dei saperi, sempre più specialistici e chiusi in aree incomunicanti fra loro; chi si occupa di diritto amministrativo a stento capisce il gergo di chi studia diritto costituzionale, e viceversa. Ancor peggio nelle scienze della vita. Questo provoca, anche ad alto livello, una vera e propria ignoranza della dimensione sistemica dei problemi: il cambiamento climatico non è un problema dei metereologi ma richiede l’intervento di scienziati di ogni tipo e di politici lungimiranti, questi ultimi ormai estinti, come i dinosauri 60 milioni di anni fa. A livello del grande pubblico, invece, dobbiamo constatare l’abbandono della scuola, o la sua trasformazione in un puro percorso di addestramento al lavoro, che ostacola in ogni modo la formazione di un sapere critico. Ci sarebbe anche da riflettere sulla sciagurata mania delle novità, che pretende di migliorare la didattica introducendo le tecnologie digitali, che hanno già di per sé effetti negativi sulle capacità di concentrazione e di apprendimento: su questo si veda il libro di Roberto Casati “Contro il colonialismo digitale”
Qual è la relazione tra mass media e democrazia?
In Italia, il populismo è stato creato dalle televisioni commerciali e, in particolare, dalla Fininvest. I talk show politici non hanno migliorato la situazione. In Italia ce ne sono a dozzine e il logoramento del format è palese: sempre più i conduttori devono invitare ospiti a sorpresa o personaggi stravaganti nel tentativo di rubare qualche punto di share ai concorrenti. La loro proliferazione, in realtà, ha poco a che fare con la passione politica e molto con le esigenze industriali della televisione, che è un medium costoso da gestire. Il vantaggio dei talk show è che riempire un’ora di chiacchiere fra giornalisti e politici costa soltanto lo stipendio del conduttore: gli ospiti vengono ben volentieri gratis. La formula di Porta a Porta e altri prodotti simili è quella di usare la politica come spettacolo, facendone una forma di intrattenimento, non di partecipazione, e incentivando la passività del pubblico. Le questioni politiche vengono personalizzate (oggi Di Maio avversario di Salvini dopo essere stato un suo fedele alleato, ieri Renzi contro Bersani e Prodi contro Berlusconi). Si crea una nuova forma di cultura popolare: le celebrità vengono politicizzate (calciatori, attrici e cantanti vengono invitati a esprimere le loro opinioni) mentre i politici di prima fila rafforzano la loro popolarità mostrandosi esperti di cucina piuttosto che di calcio. Nei talk show c’è un movimento fluido tra intrattenimento e politica, una situazione in cui Silvio Berlusconi e Donald Trump, con le loro performance da consumati uomini di spettacolo, sono un ottimo esempio. Per il dibattito politico razionale, per il funzionamento della democrazia rappresentativa questo però è devastante.
Cosa ha comportato lo svuotamento delle classi medie?
Partiamo dal fatto che l’industrializzazione, l’espansione della burocrazia statale e, più tardi, l’espansione del welfare state avevano creato “nuove” classi medie impiegatizie che contavano sulle proprie capacità per fare carriera, in particolare verso posizioni lavorative con maggiore autonomia (dirigenti di medio livello sia nel settore pubblico che privato, ingegneri e altri specialisti). Fungendo da settore trainante delle economie di mercato per gran parte del ventesimo secolo, la produzione industriale di massa aveva creato le condizioni economiche per l’espansione della classe media. La novità dell’ultimo quarto di secolo è il fatto che proprio manager e tecnici di medio livello sono stati invece colpiti duramente dalle chiusure, ristrutturazioni e delocalizzazioni nell’industria oppure dal blocco delle carriere e delle assunzioni nei servizi pubblici. Mentre alcuni specialisti si salvavano perché situati in posizioni chiave, o addirittura salivano verso posizioni dirigenziali, la grande maggioranza doveva accettare un peggioramento delle condizioni di lavoro, quando non il licenziamento, o il cambio di impiego. 
La tendenza alla polarizzazione ai due estremi della scala sociale si può constatare anche nelle vecchie classi medie superiori, quelle delle professioni liberali riconosciute e protette da ordinamenti corporativi: avvocati, medici, architetti. Per tutti costoro mantenersi in una condizione di relativo privilegio, malgrado le protezioni di legge, è diventato sempre più difficile. A un’estremità stanno i professionisti ben inseriti a livello politico, o in grado di lavorare all’estero, con redditi elevati e ottime prospettive di carriera. Al polo opposto stanno i giovani laureati, destinati a lunghe fasi di precariato, di lavoro gratuito o sottopagato, di incertezza sul futuro, quando non di rinuncia al mestiere per cui avevano studiato. Inutile dire che questo gruppo include la maggioranza dei professionisti. Fino a ieri si pensava che l’economia della conoscenza, spesso descritta come un paradiso della creatività, in cui giovani inventori davano vita a nuovi servizi, nuovi gadget e nuove possibilità di comunicazione, producesse una nuova classe media, dinamica e in rapida ascesa. Questo storytelling oggi non ha più alcuna credibilità.

Scheda Libro: “Democrazia a rischio. La produzione sociale dell’ignoranza” di Fabrizio Tonello, 
pagine 157, editore Pearson, prezzo: 21 euro





giovedì 28 novembre 2019

LA COMUNICAZIONE NON OSTILE, OVVERO COMUNICARE PER COSTRUIRE

Il MANIFESTO é una carta che elenca dieci princìpi di stile utili a migliorare lo stile e il comportamento di chi sta in Rete.
Il Manifesto della comunicazione non ostile è un impegno di responsabilità condivisa.
Vuole favorire comportamenti rispettosi e civili.
Vuole che la Rete sia un luogo accogliente e sicuro per tutti.
Le parole sono macigni, specialmente in rete!
 Bambini e ragazzi ( .... ma anche adulti!) approcciano il mondo del web e la comunicazione online sempre prima, ma senza aver ricevuto una formazione specifica, tale da tutelarli dai rischi della comunicazione. Comunicare, infatti, ci espone ad una serie di piccoli e grandi rischi, dei quali spesso non siamo consapevoli. Possiamo ferire le persone, incrinare una relazione o danneggiare la nostra credibilità e la nostra immagine.
L’Associazione Parole Ostili, nata a Trieste nel 2017, ha pubblicato un Manifesto della comunicazione non ostile, utile proprio come vademecum per ricordare ai ragazzi i principali effetti delle loro parole e per dirigerle in modo costruttivo.


MANIFESTO DELLA COMUNICAZIONE NON OSTILE

  1. Virtuale è reale
    Dico e scrivo in rete solo cose che ho il coraggio di dire di persona.
  2. Si è ciò che si comunica
    Le parole che scelgo raccontano la persona che sono: mi rappresentano.
  3. Le parole danno forma al pensiero
    Mi prendo tutto il tempo necessario a esprimere al meglio quel che penso.
  4. Prima di parlare bisogna ascoltare
    Nessuno ha sempre ragione, neanche io. Ascolto con onestà e apertura.
  5. Le parole sono un ponte
    Scelgo le parole per comprendere, farmi capire, avvicinarmi agli altri.
  6. Le parole hanno conseguenze
    So che ogni mia parola può avere conseguenze, piccole o grandi.
  7. Condividere è una responsabilità
    Condivido testi e immagini solo dopo averli letti, valutati, compresi.
  8. Le idee si possono discutere. Le persone si devono rispettare
    Non trasformo chi sostiene opinioni che non condivido in un nemico da annientare.
  9. Gli insulti non sono argomenti
    Non accetto insulti e aggressività, nemmeno a favore della mia tesi.
  10. Anche il silenzio comunica
    Quando la scelta migliore è tacere, taccio.



PATTO GLOBALE PER L'EDUCAZIONE - ANCHE NOI SIAMO CHIAMATI AD IMPEGNARCI

Un'alleanza per ricostruire il patto educativo globale


«TUTTI, MA SOPRATTUTTO I BAMBINI E I GIOVANI, HANNO BISOGNO DI UN CONTESTO ADEGUATO,
DI UN HABITAT REALMENTE UMANO, IN CUI SI VERIFICHINO LE CONDIZIONI PER IL LORO SVILUPPO
PERSONALE ARMONIOSO E PER IL LORO INSERIMENTO NELL'HABITAT PIÙ GRANDE DELLA SOCIETÀ.
QUANTO RISULTA ALLORA IMPORTANTE L'IMPEGNO PER CREARE UNA "RETE" ESTESA E FORTE DI LEGAMI
REALMENTE UMANI, CHE SOSTENGA I BAMBINI, CHE LI APRA IN MODO SERENO E FIDUCIOSO ALLA REALTÀ,
CHE SIA UN AUTENTICO LUOGO D'INCONTRO, IN CUI IL VERO, IL BUONO E IL BELLO TROVINO
UNA GIUSTA ARMONIA».
Leggi finalità e programmi: 


mercoledì 27 novembre 2019

SCUOLE "AD ALTO INQUINAMENTO ACUSTICO". DANNI ALLA DIDATTICA E ALLA SALUTE

L’allarme: 
scuole italiane troppo rumore! 

.... ma anche
 in famiglia 
non si scherza!

Sarà capitato a tutti di avere difficoltà a concentrarsi quando si è circondati da un rumore fastidioso, voci o urla. Lavorare, studiare o anche solo scrivere in un ambiente chiassoso, infatti, può essere complicato e se in un ufficio è più facile ottenere silenzio, non si può dire la stessa cosa di una classe piena di bambini dai 6 ai 10 anni. Gli esperti lanciano un allarme proprio sul legame tra l’eccesso di decibel nelle scuole italiane e la riduzione delle capacità di apprendimento dei bambini.
Nelle classi del nostro Paese, infatti, a causa del brusio, delle chiacchiere, dello stridere del gesso sulla lavagna, delle sedie e dei banchi che strisciano sul pavimento, dal parlare ad alta voce (o addirittura dal gridare degli insegnanti) si superano spesso e volentieri i 70 decibel (in alcune città, invece, l’inquinamento acustico supera i 90 decibel).
Studi recenti dimostrano che un eccesso di rumore può impattare negativamente sul rendimento degli allievi, non solo diminuendo le loro capacità mnemoniche, ma peggiorando anche la loro comprensione dei testi e delle lezioni.
A volte, però, la colpa non è solo di studenti e insegnanti: il 12% delle scuole italiane, infatti, si trova vicino a un aeroporto, il 9% è nei pressi di un’autostrada e l’8% si trova a un chilometro da una zona ad alto inquinamento acustico.
Forse è per questo che oggi quasi 1 adolescente su 5 convive con un disturbo uditivo da rumore che, se non identificato e trattato, si associa a scarsi risultati scolastici e nel lungo periodo potrà tradursi in basse performance lavorative e quindi in minori opportunità professionali.
Ma cosa accade esattamente a livello cerebrale? La continua esposizione ai rumori può indurre il rilascio di cortisolo: un eccesso di questo ormone compromette la funzione nella corteccia prefrontale, impattando negativamente sul ragionamento, sul controllo degli impulsi e sulla capacità di pianificazione.
Ma non solo, perché la corteccia prefrontale ha anche un ruolo nelle capacità mnemoniche a breve termine. Inoltre, lo stress derivante da un continuo rumore di sottofondo può far diminuire i livelli di dopamina, impattando in maniera negativa sull’apprendimento e sulla memoria.
Per tutti questi motivi, secondo Claudia Aimoni, professoressa del Dipartimento di Scienze biomediche e chirurgico specialistiche dell’Università di Ferrara, “l’importante oggi è abbassare i decibel nelle scuole”. In che modo? Per esempio si può incentivare l’uso delle lavagne elettroniche e posizionare feltrini sotto le sedie e i banchi, ma anche educare i bambini a tenere un volume di voce medio-basso e, per quanto riguarda le maestre, cercare di non urlare per sovrastare il brusio dei bambini. Anche in famiglia occorre prestare attenzione a non fare tanto ... fracasso. Lo stesso vale per qualsiasi ambiente: a volte sembra di stare in una società di sordi! Crescere in ambienti più sereni e meno rumorosi fa bene a grandi e piccoli.


lunedì 25 novembre 2019

COMPITI A CASA, L'OSSIMORO DELLA SCUOLA ITALIANA

-     di Simone Consegnati

Poche cose preoccupano i genitori più dei compiti a casa, soprattutto se parliamo di bambini della scuola primaria e a maggior ragione se questi pargoli frequentano la scuola a tempo pieno. In rete ho letto che le paure più grandi, dopo la morte, sarebbero quelle legata ai traslochi e al dover parlare in pubblico, ma niente – e sottolineo niente – è paragonabile al brivido che corre lungo la schiena dei genitori quando il venerdì pomeriggio all’uscita da scuola chiedono ai loro figli quanti compiti hanno per il fine settimana. Di solito le reazioni sono polarizzate: “Mamma, sono pieno”, con faccia triste del pargolo oppure ”Papà, questa volta ne ho pochissimi” con sorriso di soddisfazione compiaciuta annessa. Nessun compito è un’opzione poco battuta. Uscendo dall’ironia dobbiamo constatare come l’argomento “compiti a casa” sia tra i più divisi e complessi della storia dell’umanità.
Da un lato abbiamo gli ultras dello studio, estremisti del senso del dovere, nostalgici del “ai miei tempi si studiava comunque di più” e che credono che una maggiore quantità di studio, anche per i bambini più piccoli sia sinonimo di più cultura, più saggezza e maggiore intelligenza. Studiando di più, si impara di più, stop.
           Dall’altro abbiamo i genitori libertini, quelli che scrivono le giustificazioni per i figli che non fanno mai i compiti o, peggio, si sostituiscono a loro e fanno i compiti al posto dei figli, che denigrano il ruolo dei docenti o che pubblicamente, davanti ai figli, sostengono l’inutilità dei compiti a casa. Entrambe le posizione, credo, dannose e diseducativi.
In primis una considerazione: dobbiamo  uscire fuori dalla logica quantitativa dei compiti. Più esercizi, soprattutto se legati alla dimensione mnemonica, ripetitiva, standardizzata non migliorano le capacità logiche, deduttive, induttive, riflessive dei nostri alunni. Un’altra considerazione cruciale è sul ruolo del riposo e dell’educazione informale e non formale. Dopo otto ore di scuola, in contesti molto spesso rigidi e formali, nei quali chiediamo ai bambini di stare seduti e in silenzio, dovremmo riflettere sul perché non imparino come vorremmo. E la soluzione non può essere continuare sulla strada del dare più compiti. Forse dovremmo introdurre un principio di pluralità degli apprendimenti, tra dimensione formale e informale, e a fianco alle pagine sulle sillabe, dovremmo chiedere ai nostri bambini di dedicarsi alla musica, ad approfondire la passione per le arti, per la tecnologia (che non significa giocare al tablet), per lo sport, il movimento e la natura. Secondo l’Istat in Italia 1 bambino su 3 è sovrappeso o obeso.[1] Alcuni genitori illuminati devono rosicchiare il poco tempo a disposizione per far partecipare i figli a corsi sportivi, teatrali, musicali. Pensate che stress: dalle sei alle otto ore a scuola, poi (per fortuna non sempre) compiti a casa, poi un breve spazio dove poter fare altro e pronti che domani si ricomincia. C’è qualcosa che non va.
Ripartiamo dalla pluralità delle educazioni, dall’importanza dei contesti informali e non formali, dal desiderio di promuovere la passione per la ricerca e l’apprendimento. Il tempo da vivere e dedicare alla famiglia può giocare un ruolo chiave nella crescita armonica del bambino: è necessario incrementare, incentivare e promuovere un tempo di qualità dedicato alla scoperta, al gioco e, ogni tanto, all’ozio. Promuovere una cultura dell’apprendimento lungo tutto l’arco della vita (il cosiddetto life long learning) passa dalla scelta strategica di valorizzare apprendimenti significativi a discapito di quelli puramente meccanici, tenendo in considerazione tutti gli aspetti della persona.
Fare meno compiti, in altre parole, non renderebbe i nostri figli più ignoranti. Non farli per niente, d’altronde, rischia di non insegnare loro l’importanza di percorso costante di formazione. Non perdiamo mai di vista, in nessun caso, che la scuola deve essere a servizio del bambino e non viceversa e che studiare senza insegnare a riflettere è un po’ come voler capire il libretto d’istruzioni dell’IKEA senza dover comprare, né montare alcunché. Sicuri che questo modo di fare scuola aiuti i nostri bambini?







sabato 23 novembre 2019

RICORDATI DI ME

DUE LADRONI


Lc 23, 35-43
Dal Vangelo secondo Luca

In quel tempo, [dopo che ebbero crocifisso Gesù,] il popolo stava a vedere; i capi invece deridevano Gesù dicendo: «Ha salvato altri! Salvi se stesso, se è lui il Cristo di Dio, l'eletto».
Anche i soldati lo deridevano, gli si accostavano per porgergli dell'aceto e dicevano: «Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso». Sopra di lui c'era anche una scritta: «Costui è il re dei Giudei».
Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!». L'altro invece lo rimproverava dicendo: «Non hai alcun timore di Dio, tu che sei condannato alla stessa pena? Noi, giustamente, perché riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni; egli invece non ha fatto nulla di male».
E disse: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». Gli rispose: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso».

Il filosofo Heidegger disse: ?Veniamo dal nulla ed andiamo verso il nulla. E non c'è spiegazione di nulla né alcun senso per alcunché?. Noi siamo invece decisamente di un altro avviso! Non veniamo dal nulla né tantomeno andiamo verso il nulla. L'intero Universo ha un re: Dio, che in Gesù si è fatto uomo: il re è Gesù Cristo, Signore del tempo e della storia. La vita in ogni sua forma ha una origine e una meta: Cristo Signore. Oggi lo festeggiamo, lo celebriamo, lo proclamiamo con gioia. Eppure il testo del Vangelo sembrerebbe suggerire altro. Vediamo Gesù crocifisso e deriso da tutti. Non era meglio mettere un altro testo? Ovviamente no. Sulla testa di Gesù leggiamo infatti: Costui è il re dei Giudei. Gesù è dunque re. Ma che tipo di re? È un re che rovescia le nostre logiche e le nostre aspettative umane. Noi siamo abituati a pensare ai re come ai signori, ai dominatori a cui tutti sono sottomessi; a delle persone quasi inarrivabili, abituate a farsi servire, a dettar legge dal trono. Noi, così inclini all'egocentrismo, a metterci in mostra, a voler apparire, ad avere potere, pensando a Gesù come re, pensando dunque a Dio come re, vorremmo che fosse in un certo senso la proiezione delle nostre attese: uno che domina dall'alto, che si impone, che schiaccia il nemico... e invece ecco la croce. Ecco la croce come trono, le spine come corona, un mantello intriso di sangue come veste regale. Ecco Gesù in croce, l'uomo-Dio ridotto a uno straccio, insultato, percosso e trafitto; e fin lì questo re continua a fidarsi del Padre, ad amare e perdonare le sue creature, facendosi carico del loro peccato pur di salvarle. Chi è dunque il nostro re? Uno che dà la vita, uno che dà fino in fondo la vita degli altri, uno che fino alla fine non cerca il proprio interesse ma sempre e solo la volontà del Padre e il bene degli altri. Il nostro re ci mostra la strada del cielo, cosa significhi amare, cosa comporti amare; e amando anche nel dolore, trasforma persino la sofferenza in luogo di salvezza.
Alla fine dell'anno liturgico contempliamo il nostro re che ci spalanca le porte del cielo e ci mostra la via, perché seguendolo possiamo giungervi anche noi. Dal trono della croce, Gesù attrae tutti a sé; da questo patibolo egli regna, e ci mostra cosa significhi davvero regnare: sapersi fidare fino in fondo di Dio, donarsi fino alla fine, servendo nelle piccole come nelle grandi cose. Grazie o Dio, nostro re, che ci mostri che servire è regnare e davvero grande è chi più sa amare!