sabato 31 dicembre 2022

IL SIGNORE TI BENEDICA

  Benedite, 

non maledite

I cristiani hanno sempre legato la tradizionale festa di capodanno a qualche motivo della loro fede. Prima del Concilio si celebrava la circoncisione di Gesù, avvenuta, secondo quanto ci riferisce Luca, otto giorni dopo la nascita (Lc 2,21). Poi questo giorno è stato dedicato a Maria madre di Dio e, a partire dal 1968, il primo gennaio è divenuto, per volontà di papa Paolo VI, la “giornata mondiale della pace”. Le letture riflettono questa varietà di temi: la benedizione per iniziare bene il nuovo anno (prima lettura); Maria, modello di ogni madre e di ogni discepolo (vangelo); la pace (prima lettura e vangelo); la figliolanza divina (seconda lettura); lo stupore di fronte all’amore di Dio (vangelo), il nome con cui Dio vuole essere identificato e invocato (prima lettura e vangelo).

Benedire e benedizione sono termini che ricorrono frequentemente nella Bibbia, si ritrovano quasi ad ogni pagina (552 volte nell’AT, 65 nel NT). Fin dall’inizio Dio benedice le sue creature: gli esseri viventi perché siano fecondi e si moltiplichino (Gen 1,22), l’uomo e la donna perché dominino su tutto il creato (Gen 1,28) e il sabato, segno del riposo e della gioia senza fine (Gen 2,3).

 Abbiamo bisogno di sentirci benedetti da Dio e dai fratelli. La maledizione allontana, separa, indica il rifiuto, la benedizione invece avvicina, rafforza la solidarietà, infonde fiducia e speranza.

 “Il Signore ti benedica e ti protegga”: sono le prime parole che la liturgia ci fa udire in questo giorno perché ci rimangano impresse nel cuore e le ripetiamo ad amici e nemici lungo tutto l’anno. 

 Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo: “Insegnaci, Signore, a benedire chi ci insulta, a sopportare chi ci perseguita, a confortare chi ci calunnia”.

Prima Lettura (Nm 6, 22-27)

22 Il Signore aggiunse a Mosé: 23 “Parla ad Aronne e ai suoi figli e riferisci loro: Voi benedirete così gli israeliti; direte loro: 24 Ti benedica il Signore e ti protegga. 25 Il Signore faccia brillare il suo volto su di te e ti sia propizio. 26 Il Signore rivolga su di te il suo volto e ti conceda pace. 27 Così porranno il mio nome sugli israeliti e io li benedirò”.

 È molto fiorente anche oggi il mercato delle benedizioni e delle maledizioni, delle magie e dei sortilegi, delle fatture e del malocchio. Lo era molto di più nei tempi antichi quando si pensava che la parola – soprattutto se accompagnata da gesti e pronunciata da chi era dotato di poteri sovrumani e misteriosi – realizzasse quello che esprimeva.

 Sempre efficace era ritenuta, naturalmente, la parola di Dio che, “con la sua parola ha creato i cieli… parla e tutto è fatto, comanda e tutto esiste” (Sal 33,6.9). Si temevano le sue maledizioni e si invocavano le sue benedizioni. Egli benediceva il suo popolo quando lo colmava di beni, quando elargiva prosperità e salute, successi e vittorie, piogge e fecondità ai campi e agli animali (Dt 28,1-8). Sventure, malattie, carestie, sconfitte erano i segni della sua maledizione (Dt 28,15-19).

 C’erano anche dei mediatori delle benedizioni divine: il padre di famiglia (“La benedizione del padre consolida le case dei figli” – Sir 3,9), il re (Gn 14,18ss.) e i sacerdoti.

 La nostra lettura riporta il testo della più famosa delle benedizioni, quella insegnata dal Signore stesso a Mosè. Doveva essere usata dai “figli di Aronne” per “porre il nome del Signore sugli israeliti” (vv.  23.27). Era impiegata al termine della liturgia quotidiana nel tempio. Il sacerdote usciva sulla porta del santuario e, stendendo le mani sulla folla che lo attendeva, proferiva questa formula sacra.

 In essa, per tre volte, viene invocato il nome del Signore – YHWH – nome ineffabile che solo ai sacerdoti era permesso pronunciare e solo per benedire, mai per maledire.

 A ognuna delle tre invocazioni del nome santo sono aggiunte due richieste:  

– il Signore ti benedica e ti protegga;

 – il Signore faccia splendere il suo volto su di te e ti sia propizio;

 – il Signore diriga il suo sguardo verso di te e ti conceda la pace.

 Sono sei immagini che esprimono la richiesta di grazie e favori.

 Il volto raggiante è segno di amicizia e di benevolenza, ispira fiducia, apre il cuore a lieta speranza. Con linguaggio molto umano, il pio israelita chiede spesso al Signore di “rasserenare il suo volto”, di “non nascondergli il suo volto” (Sal 27,9), di non mostrarsi adirato. “Fa risplendere il tuo volto – supplica il salmista – e saremo salvi” (Sal 80,4); “risplenda su di noi la luce del tuo volto, Signore” (Sal 4,7).

 Non soltanto Dio benedice l’uomo, ma anche l’uomo è chiamato a benedire Dio. Nei Salmi torna insistente l’invito: “Benedite il Signore, voi tutti, servi del Signore. Alzate le mani verso il santuario e benedite il Signore” (Sal 134,1-2); “Benedite il suo nome, raccontate la sua gloria, a tutte le nazioni dite i suoi prodigi” (Sal 96,2-3). Il pio israelita comincia tutte le sue preghiere con la formula: “Benedetto sei tu Signore…”.

 La benedizione che l’uomo rivolge al Signore è la risposta ai benefici ricevuti. È il segno che ha preso coscienza che tutto il bene viene da lui, che è dono suo.

 La Bibbia parla continuamente di benedizioni di Dio e anche – molto raramente – delle sue maledizioni. Si tratta di un linguaggio umano per descrivere le conseguenze disastrose provocate non da Dio, ma dal peccato. Chi si allontana dal cammino della vita attira su di sé le peggiori sventure. Lo aveva già compreso il saggio Ben Sira: “Il male si riversa su chi lo fa” (Sir 27,27). Da Dio viene solo la benedizione.

 Quale risposta ha dato il Signore alle suppliche del suo popolo?

 Israele si attendeva dal Signore una benedizione, una pace, uno shalom molto “materiale”. Nella pienezza dei tempi Dio ha inviato la sua pace, suo Figlio, “egli è la nostra pace” (Ef 2,14). La sorpresa è stata così grande che ha fatto esclamare a Paolo: “Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo” (Ef 1,3) e a Zaccaria: “Benedetto il Signore Dio d’Israele che ha visitato e redento il suo popolo” (Lc 1,68).

 “Dio l’ha mandato per portare la benedizione” (At 3,25-26). In lui tutte le maledizioni si sono trasformate in benedizione (Gal 3,8-14). Se in Cristo Dio ha rivelato il suo volto sempre benedicente, all’uomo non rimane che benedire sempre, anche i nemici: “Benedite e non maledite” (Rm 12,14) , “non rendete male per male, né ingiuria per ingiuria, ma al contrario, rispondete benedicendo; poiché a questo siete stati chiamati per avere in eredità la benedizione” (1 Pt 3,9).

 Seconda Lettura (Gal 4, 4-7)

4 Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, 5 per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l’adozione a figli. 6 E che voi siete figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre! 7 Quindi non sei più schiavo, ma figlio; e se figlio, sei anche erede per volontà di Dio.  In questo brano della Lettera ai galati Paolo ricorda la verità centrale del vangelo: dopo che Dio ha inviato il suo figlio, “nato da donna”, cioè, in tutto simile a noi, eccetto che nel peccato, noi possiamo chiamare Dio: “Abbà, padre!” (v.  6). Questa è la bella notizia!

 Anche i pagani chiamavano Dio “padre di tutti gli uomini”. Cos’hanno di specifico i cristiani? Perché Paolo afferma commosso che ora il cristiano non è più schiavo, ma figlio e che può gridare: “Abbà”? Il Padre nostro è una preghiera che tutti gli uomini possono recitare?  A quest’ultima domanda tutti probabilmente risponderemmo “sì” e c’è un testo evangelico che giustifica questa risposta: “Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti” (Mt 5,44-45). La benevolenza di Dio non fa alcuna distinzione fra gli uomini, tutti sono suoi figli.

   È vero: Dio è padre di tutti gli uomini.

 Ma quando un pagano e un cristiano invocano Dio padre non intendono la stessa cosa. Il pagano lo chiama padre perché è cosciente di aver ricevuto da lui il dono dell’esistenza. Il cristiano si sente figlio di Dio ad un altro livello: sa che oltre all’esistenza ha ricevuto da lui lo Spirito, la sua stessa vita divina. Per questo nei primi secoli la preghiera del Padre nostro era consegnata solo qualche giorno prima del battesimo, cioè, solo quando i catecumeni erano in grado di comprenderne pienamente il significato.

 Anche questa lettura è legata al tema della festa della pace. Chi ha ricevuto lo Spirito e chiama Dio “Abbà” non può che sentirsi fratello di tutti gli uomini e divenire costruttore di pace.

 Vangelo (Lc 2,16-21)

16 Andarono dunque senz’indugio e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, che giaceva nella mangiatoia. 17 E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro. 18 Tutti quelli che udirono, si stupirono delle cose che i pastori dicevano. 19 Maria, da parte sua, serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore. 

20 I pastori poi se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com’era stato detto loro.

21 Quando furono passati gli otto giorni prescritti per la circoncisione, gli fu messo nome Gesù, come era stato chiamato dall’angelo prima di essere concepito nel grembo della madre.

  Il vangelo di oggi è la continuazione del brano letto nella notte di Natale. Accanto alla culla di Gesù compaiono nuovamente i pastori (vv. 16-17).  

Seguendo l’annuncio ricevuto dal cielo, essi vanno a Betlemme e trovano Giuseppe, Maria e il bambino che giace nella mangiatoia.

Si noti: non trovano nulla di straordinario. Vedono solo un bambino con suo padre e sua madre. Eppure, in quell’essere debole, bisognoso di aiuto e di protezione, essi riconoscono il Salvatore. Non hanno bisogno di segni straordinari, non verificano miracoli e prodigi. I pastori rappresentano tutti i poveri, gli esclusi che, quasi per istinto, riconoscono nel bambino di Betlemme il Messia del Cielo.

 Nelle raffigurazioni i pastori compaiono in genere in ginocchio davanti a Gesù. Ma il vangelo non dice che essi si sono prostrati in adorazione, come hanno fatto i magi (Mt 2,11). Sono rimasti semplicemente ad osservare – stupiti, estasiati – l’opera meravigliosa che Dio aveva operato in loro favore, poi hanno annunciato ad altri la loro gioia e quanti li ascoltavano rimanevano essi pure meravigliati (v. 18).

 Nei primi capitoli del suo vangelo, Luca rileva spesso lo stupore e la gioia incontenibile delle persone che si sentono coinvolte nel progetto di Dio. Elisabetta, scoprendo di essere incinta, ripete a tutti: “Ecco cos’ha fatto per me il Signore!” (Lc 1,25); Simeone e la profetessa Anna benedicono Dio che ha concesso loro di vedere la salvezza preparata per tutte le genti (Lc 2,30.38); anche Maria e Giuseppe rimangono meravigliati, stupefatti (Lc 2,33.48).

 Tutti costoro hanno gli occhi e il cuore del bambino che accompagna con lo sguardo ogni gesto del padre, rimane rapito di fronte ad ogni suo gesto e sorride, sorride perché in tutto ciò che il padre fa coglie un segno del suo amore. “Il regno di Dio appartiene a chi è come loro – dirà un giorno Gesù – e chi non accoglie il regno di Dio come un bambino non entrerà in esso” (Mc 10,14-15).

 La prima preoccupazione dei pastori non è di tipo etico: non si chiedono che cosa dovranno fare, quali correzioni dovranno apportare alla loro vita morale non sempre esemplare, quali peccati dovranno impegnarsi ad evitare… Si fermano a gioire per ciò che Dio ha fatto. Dopo, solo dopo essersi sentiti amati sono in grado di ascoltare i consigli, le proposte di vita nuova rivolti loro dal Padre. Solo così si verranno a trovare nella condizione giusta per accordargli fiducia.

 Nella seconda parte del vangelo (v. 19) viene sottolineata la reazione di Maria al racconto dei pastori: “Conservava tutte queste cose nel suo cuore e le meditava” (letteralmente: le metteva insieme).

 Luca non intende dire che Maria “teneva a mente” tutto ciò che accadeva, senza dimenticare alcun particolare. E nemmeno vuole – come qualcuno ha sostenuto – indicare in Maria la sua fonte di informazioni sull’infanzia di Gesù. La portata teologica della sua affermazione è ben maggiore. Egli dice che Maria metteva insieme i fatti, li collegava tra loro e ne sapeva cogliere il senso, ne scopriva il filo conduttore, contemplava il realizzarsi del progetto di Dio. Maria (ragazzina di dodici-tredici anni) non era superficiale, non si esaltava quando le cose andavano bene e non si abbatteva di fronte alle difficoltà. Meditava, osservava con occhio attento ogni avvenimento, per non lasciarsi condizionare dalle idee, dalle convinzioni, dalle tradizioni del suo popolo, per essere recettiva e preparata alle sorprese di Dio.

 Una certa devozione mariana l’ha allontanata dal nostro mondo e dalla nostra condizione umana, dalle nostre angosce, dai nostri dubbi e incertezze, dalle nostre difficoltà a credere. L’ha avvolta in un nimbo di privilegi che – secondo i casi – l’hanno fatta ammirare o invidiare, ma non amare.

 Luca la presenta nell’ottica giusta, come la sorella che ha compiuto un cammino di fede non diverso dal nostro.

 Maria non capisce tutto fin dall’inizio: si stupisce di ciò che Simeone dice del bambino, è quasi colta di sorpresa (Lc 2,33). Si stupisce come rimarranno stupiti gli apostoli e tutto il popolo di fronte alle opere di Dio (Lc 9,43-45). Non comprende le parole di suo figlio che ha scelto di occuparsi delle cose del Padre suo (Lc 2,50), come i Dodici avranno difficoltà a capire le parole del Maestro: “Non compresero nulla di tutto questo, quel parlare restava oscuro per loro e non capivano ciò che egli aveva detto” (Lc 18,34).

 Maria non capisce, ma osserva, ascolta, medita, riflette e, dopo la Pasqua (non prima!) capirà tutto, vedrà chiaramente il senso di ciò che è accaduto.

 Luca la ripresenterà, per l’ultima volta, all’inizio del libro degli Atti degli apostoli. La collocherà al suo posto, nella comunità dei credenti: “Tutti erano assidui e concordi nella preghiera, insieme con alcune donne e con Maria, la madre di Gesù e con i fratelli di lui” (At 1,14). Lei, la beata perché ha creduto (Lc 1,45).

 Il vangelo di oggi si conclude con il ricordo della circoncisione. Con questo rito Gesù entra ufficialmente a far parte del popolo d’Israele. Ma non è questa la ragione principale per cui Luca ricorda il fatto. È un altro il particolare che gli interessa, è il nome che viene dato al bambino, nome che non era stato scelto dai genitori, ma che era stato indicato direttamente dal Cielo.

 Per i popoli dell’antico Oriente il nome non era solo un mezzo per indicare le persone, per distinguere gli animali, per identificare gli oggetti. Era molto di più, esprimeva la natura stessa delle cose, formava un tutt’uno con chi lo portava. Abigail dice di suo marito: “Egli è esattamente ciò che indica il suo nome. Si chiama Nabal (lett.: “folle”) ed in lui non c’è che follia” (1Sam 25,25). Essere chiamati con il nome di un altro voleva dire impersonarlo, renderlo presente, avere la sua stessa autorità, richiamarne la protezione (Dt 28,10).

 Tenendo presente questo contesto culturale, siamo in grado di capire l’importanza che Luca attribuisce al nome dato al bambino. Si chiama Gesù che significa: Il Signore salva. Matteo spiega: fu chiamato così perché salverà il suo popolo dai suoi peccati (Mt 1,21).

 Nel commento alla prima lettura dicevamo che il nome di Dio – YHWH – non poteva essere pronunciato. Ma senza nome si rimane nell’anonimato. Chi non conosce il nostro nome non può che instaurare un rapporto superficiale con noi.

 Se Dio avesse voluto entrare in dialogo con l’uomo avrebbe dovuto dirgli come voleva essere chiamato, doveva indicare il suo nome, rivelare la sua identità.

 Lo ha fatto. Scegliendo il nome di suo Figlio, Dio ha detto chi egli è.

 Ecco la sua identità: colui che salva, colui che non fa altro che salvare. Nei vangeli questo nome è ripetuto per ben 566 volte, quasi a ricordarci che le immagini di Dio incompatibili con questo nome devono essere cancellate.

 Ora comprendiamo la ragione per cui nell’AT Dio non permetteva che fosse pronunciato il suo nome: perché solo in Gesù ci avrebbe detto chi era.

 È interessante notare chi sono, nel vangelo di Luca, coloro che chiamano Gesù per nome. Non sono i santi, i giusti, i perfetti, ma solo gli emarginati, coloro che sono in balia delle forze del male. Sono gli indemoniati (Lc 4,34); i lebbrosi: “Gesù, maestro, abbi pietà di noi!” (Lc 17,13); il cieco: “Gesù, figlio di Davide, abbi pietà di me!” (Lc 18,38) e il criminale che muore in croce accanto a lui: “Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno” (Lc 23,42).

 Lo ricorderà Pietro ai capi religiosi del suo popolo: “Nessun altro nome infatti sotto il cielo è stato concesso agli uomini, per il quale possano essere salvati”.

 AUTORE: p. Fernando Armellini

Cerco il tuo volto

E' TORNATO ALLA CASA DEL PADRE

Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta solo la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno; e non solo a me, ma anche a tutti coloro che attendono con amore la sua manifestazione.



(cit. San Paolo) 

venerdì 30 dicembre 2022

BILANCIO DI FINE ANNO


 “Ringraziare Dio a fine anno

 e non sprecare più gli auguri”


L’importanza di bilanci veritieri

 e di saper riconoscere il bene.

 

- di Marco Pappalardo

 

Nella tradizione cattolica la sera del 31 dicembre viene cantato il “Te Deum laudamus” (Dio ti lodiamo), l’inno di ringraziamento per eccellenza dell’anno appena trascorso.

Non sono ormai tanti purtroppo i cattolici che celebrano questo momento, forse neanche molto invitati o spinti a viverlo nelle comunità, una buona parte distratti dall’organizzazione del cenone o a prepararsi per parteciparvi.

Per loro – soprattutto per i praticanti - è quasi un paradosso non ringraziare Dio alla fine dell’anno, considerato che il termine stesso “eucaristia” significa “rendimento di grazie”, ma è più facile inginocchiarsi davanti al “santo Capodanno” e ai suoi riti!

E chi non crede, non pratica una religione, si professa ateo o agnostico non dovrebbe porsi il problema del ringraziamento? Tutto è sempre dovuto, normale che ci venga dato, un diritto acquisito sia che venga dal divino, dalla natura, da altri uomini o donne?

Se, giunti alla fine di un anno, ci voltiamo indietro e, pensando a ciò che abbiamo vissuto, siamo pronti solo a lamentarci, davvero non ne vale la pena; eppure, se siamo nelle condizioni di farlo, dunque vivi e vegeti, forse anche un piccolo grazie verso il cielo, la terra, una persona potremmo persino esprimerlo.

Del resto, chi ha mai vissuto un anno senza problemi, dolori, lutti, sbagli, cadute?

E chi mai senza una gioia, una bella realizzazione, un sospiro di sollievo, una mano tesa d’aiuto, un segno di vita?

Certo, posto tutto sui piatti di una bilancia, spesso c’è uno sbilanciamento verso le difficoltà; tuttavia, capita anche di non essere abituati o capaci di trovare il bene nella nostra esistenza e in quella di chi ci sta vicino.

Iniziamo un anno pieno di propositi più o meno buoni dimenticandoci di fare un bilancio di com’è andata veramente nei 365 giorni precedenti, facendo cioè un preventivo privo del consuntivo, cosa che sbilancia l’economia della vita.

Sugli auguri invece siamo parecchio preparati, almeno per convenzione ne regaliamo e riceviamo a fiumi, non soffermandoci probabilmente sul fatto che ogni augurio è un bell’impegno visto che è un desiderio che qualcosa (di norma bella e positiva) accada per sé e per gli altri.

Ora, possibile che alla fine dell’anno nessuno si chieda che fine abbiano fatto tutti questi desideri e auguri?

Ha senso un tale “spreco” di parole per poi non ringraziare almeno per uno?

Allora, per riflettere un attimo tra auguri e grazie, sulla nostra piccolezza e sulla grandezza che ci abbraccia, ci lasciamo ispirare da una poesia di Erri De Luca dal titolo “Prontuario per il brindisi di capodanno”:

Bevo a chi è di turno, in treno, in ospedale, cucina, albergo, radio, fonderia, in mare, su un aereo, in autostrada, a chi scavalca questa notte senza un saluto, bevo alla luna prossima, alla ragazza incinta, a chi fa una promessa, a chi l’ha mantenuta, a chi ha pagato il conto, a chi lo sta pagando, a chi non è invitato in nessun posto, allo straniero che impara l’italiano.

Bevo a chi studia la musica, a chi sa ballare il tango, a chi si è alzato per cedere il posto, a chi non si può alzare, a chi arrossisce, a chi legge Dickens, a chi piange al cinema, a chi protegge i boschi, a chi spegne un incendio, a chi ha perduto tutto e ricomincia, all’astemio che fa uno sforzo di condivisione, a chi è nessuno per la persona amata, a chi subisce scherzi e per reazione un giorno sarà eroe.

Bevo a chi scorda l’offesa, a chi sorride in fotografia, a chi va a piedi, a chi sa andare scalzo, a chi restituisce da quello che ha avuto, a chi non capisce le barzellette, all’ultimo insulto che sia l’ultimo, ai pareggi, alle ics della schedina, a chi fa un passo avanti e così disfa la riga, a chi vuol farlo e poi non ce la fa.

Bevo, infine bevo a chi ha diritto a un brindisi stasera/ e tra questi non ha trovato il suo.

 


XXII CONGRESSO NAZIONALE AIMC - Il programma

 

CONGRESSO NAZIONALE - IL PROGRAMMA



giovedì 29 dicembre 2022

SICURI DI ANNEGARE

 Le lacrime di Giorgia

 e il decreto sicurezza 

sulle Ong


 

- di Giuseppe Savagnone *

 

Al di là delle polemiche, cosa dice questo decreto?

Il nuovo “decreto sicurezza” varato in questi giorni dal governo è stato oggetto di vivaci e opposte prese di posizione. «Finalmente è lotta alle Ong», titolava in prima pagina «Il Giornale» del 29 dicembre scorso, riferendo la notizia. «L’umanità annegata», era invece il gioco di parole contenuto nel titolo della «Stampa».

La prima cosa da fare, in questi casi, è capire di che cosa si sta parlando. Siamo davanti a un codice di comportamento a cui le Ong (Organizzazioni non governative), impegnate da anni nei Mediterraneo per soccorrere i migranti a rischio di naufragio, dovranno da ora in poi sottostare.

Le operazioni di soccorso devono essere immediatamente comunicate alle autorità italiane e allo Stato di bandiera, ed effettuate nel rispetto delle indicazioni delle predette autorità. Appena effettuato il soccorso, deve essere richiesta l’assegnazione del porto di sbarco. E quest’ultimo, indicato dalle competenti autorità, deve essere raggiunto senza ritardi. Da quel momento i soccorritori non potranno effettuare altre soste, ad esempio per effettuare un altro soccorso – tranne se espressamente autorizzati – , fino allo sbarco nel porto assegnato.

Una normativa che complica ed ostacola

Si tratta, chiaramente, di una normativa volta a restringere e ostacolare l’attività delle navi che in questi anni hanno pattugliato il Mediterraneo alla ricerca di migranti in difficoltà, spesso raccogliendoli in momenti e circostanze diverse, fino al completo riempimento degli spazi disponibili a bordo. Da ora in poi sarà esercitato su ogni salvataggio un controllo rigoroso, obbligando la nave soccorritrice a recarsi immediatamente nel porto assegnatole dall’autorità italiana.

Riguardo a questo punto, bisogna anche notare che, negli ultimi tempi, è diventata frequente l’indicazione alle navi delle Ong di porti di sbarco diversi da quelli usuali e più vicini, in Sicilia e in Calabria. È successo alla «Rise Above 2», a cui è stato assegnato il porto di Gioia Tauro, e alla «Sea-Eye », mandata a Livorno. Secondo il Viminale, allo scopo di alleggerire quelle regioni, per i critici, allo scopo di allontanare le navi dall’area di ricerca e soccorso per limitare i salvataggi.

Al comandante della nave che non rispetti le prescrizioni del decreto sono applicate sanzioni amministrative da 10mila a 50mila euro. In solido ne rispondono anche l’armatore e il proprietario della nave. Alla multa si aggiunge il fermo per due mesi dell’imbarcazione. La confisca del mezzo scatta invece in caso di “recidiva”. Sanzioni severe, ma solo di ordine economico-amministrativo e non penale, come al tempo di Salvini.

Il significato del testo secondo i suoi fautori

Questo dice il testo del decreto. Ma quale ne è il significato? Per i suoi fautori, si tratta un provvedimento necessario per regolamentare un flusso indiscriminato di clandestini che incombe sui nostri confini nazionali e minaccia la sicurezza del nostro paese. Di questo flusso le navi delle Ong sarebbero in buona parte responsabili, con un comportamento ambiguo che le spinge a girovagare per le acque del Mediterraneo andando, come ha scritto un giornale di destra, «a pesca» di migranti e rendendo così più facile il compito degli scafisti, che sanno di poter contare su questo sostegno esterno per svolgere il loro traffico criminale di esseri umani.

Secondo questa lettura, gli appelli umanitari a favore delle Ong che si appellano alla necessità di salvare delle vite in pericolo, nascondono, consapevolmente o no, il fatto che, al contrario, le vite dei migranti sono messe in pericolo proprio da questo sistema perverso di oggettiva (e forse in taluni casi volontaria) complicità tra scafisti e soccorritori. Senza l’“appuntamento”, più o meno concordato, con le navi di questi ultimi, verrebbe meno il fenomeno dei viaggi della disperazione e ci sarebbero molti meno morti.

Il vero aiuto alle popolazioni svantaggiate, come anche papa Francesco ha recentemente ricordato, non è comunque in queste misure di emergenza, ma in un aiuto internazionale che le aiuti a risolvere il problema della povertà “a casa loro”, senza doverne fuggire.

In ogni caso, l’Italia non si può permettere di ospitare un numero potenzialmente illimitato di migranti che vengono ad appesantire la nostra economia e a togliere posti di lavoro agli italiani, oltre che a minacciare la nostra identità nazionale sul piano culturale e religioso. Dev’essere l’Europa che si fa carico del problema dei flussi migratori e, finché non lo fa, l’Italia deve provvedere a difendersi.

Ma il problema erano le Ong?

Queste argomentazioni non vanno misconosciute e respinte a priori – come spesso si fa da parte dei difensori della linea “umanitaria”, che per questo a volte appaiono, una parte consistente dell’opinione pubblica, prigionieri di una facile retorica “buonista” – , ma devono essere vagliate seriamente, riconoscendone sia l’anima di verità, sia i limiti.

Perché è verissimo che il problema dei flussi migratori è molto grave e non può essere risolto con l’accoglienza indiscriminata. Meno vero, anzi falso, è che le Ong ne siano all’origine e che per fronteggiarlo sia stato necessario prendere provvedimenti nei loro confronti.

Intanto perché le loro navi nel 2022 hanno soccorso appena l’11,2% delle poco più di centomila persone approdate sulle coste italiane. Gli altri o arrivano con i propri mezzi, i famosi “barconi”, oppure sono soccorsi da altre navi, con la Guardia costiera e la Marina militare in prima fila. Il «Giornale», commentando il decreto sicurezza, parlava di «decreto anti-sbarchi». Sarebbe stato più onesto spiegare ai lettori che la misura del governo riguarda poco più del 10% di questo fenomeno e perciò non solo non è risolutiva, ma risulta ben poco rilevante per i fini che vengono ufficialmente indicati.

E soprattutto, se è vero che non sono le migrazioni la soluzione ai problemi dell’Africa, è tuttavia chiarissimo che attualmente il progetto di “aiutarli a casa loro” è reso impraticabile dalla difficoltà di trovare nei governi locali – si pensi a quello libico! – degli interlocutori credibili e dalla scarsa volontà dei governi europei (a cominciare dal nostro) di investire le proprie risorse per favorire il decollo di quelle economie. Perciò, allo stato attuale delle cose, continueranno in ogni caso ad esserci migliaia di persone che fuggono dai loro territori resi invivibili dalle guerre, dalla desertificazione o anche semplicemente da una povertà endemica.

La domanda, allora, non è se questa è una situazione accettabile, ma come noi dobbiamo fronteggiarla. Lasciando annegare i migranti – o rendendo comunque più difficile il loro salvataggio da parte di chi, come le navi delle Ong, cerca di evitare che muoiano?

Davanti a questo interrogativo tutti gli argomenti a favore del decreto sicurezza diventano relativi. Certo che bisogna accordarsi con gli altri paesi europei, ma, finché il nostro governo – come del resto quelli precedenti – non riesce a coinvolgerli, la soluzione è di sperare che la minore efficienza dei soccorsi, causando un numero sempre maggiore di tragedie di cui sono vittime degli innocenti, scoraggi dal partire?

È la scelta adottata dal nostro governo. Ma essa, oltre ad essere cinica, finora non ha funzionato. Pur di sfuggire alle persecuzioni, alla miseria, ai lager libici, le persone si sono imbarcate egualmente su mezzi di fortuna, affrontando il pericolo. La “stretta sulle Ong” di cui hanno parlato i giornali è in realtà solo una stretta sulle possibilità di sopravvivenza dei migranti.

Certo, nel decreto non c’è un divieto assoluto alle navi delle Ong di svolgere la loro missione. Ma, ha osservato «Avvenire», in esso «il governo comunica una visione dei salvataggi in mare come un’attività dannosa, da circoscrivere, scrutare, penalizzare». Come se si trattasse di un traffico di rifiuti altamente inquinanti.

Non era un’esigenza economica, ma ideologica

Perché il governo Meloni ha fatto questo? Perché ha dovuto tener conto delle esigenze della nostra economia, soprattutto in questo tempo di crisi?

I dati lo smentiscono. A livello internazionale, il rapporto Ocse 2021 ha già evidenziato che «i migranti contribuiscono in tasse più di quanto ricevono in prestazioni assistenziali, salute e istruzione». Ma anche guardando al nostro paese, i numeri dicono che, sommando il gettito fiscale e i contributi previdenziali e sociali, i contribuenti stranieri in questi anni hanno assicurato entrate per le casse dello Stato di diversi miliardi di euro. Che sono serviti per pagare le nostre pensioni, in un momento in cui la gravissima crisi demografica che attraversiamo rende impossibile contare sui contributi versati dai soli lavoratori italiani per mantenere i loro genitori.

 Quanto all’argomento della invasività sul piano culturale e religioso, bisognerebbe onestamente chiedersi se la profonda crisi che il nostro paese e l’Europa intera attraversano sotto questo profilo sia veramente effetto dell’accoglienza degli stranieri, o non costituisca invece un fenomeno autonomo, causato da ben altre ragioni.

 Alla fine, purtroppo, il solo significato del “decreto sicurezza” è quello di una bandiera identitaria, finalizzata a esprimere la visione di un fronte politico, la destra, che finora ha potuto fare ben poco, da quando è al governo, per creare discontinuità con il passato che aveva sempre criticato (si ricordino i violentissimi attacchi di Salvini al ministro Lamorgese e la richiesta della leader di Fratelli d’Italia di un “blocco navale”), e che vuole dimostrare la coerenza di una posizione ideologica. Il guaio è che questa ideologia, a quanto pare condivisa da molti italiani (tra cui molti buoni cattolici), parla di discriminazione e di indifferenza per la vita di tanti esseri umani troppo poveri per meritare rispetto.

Pochi giorni fa Giorgia Meloni si è visibilmente commossa parlando delle vittime delle persecuzioni razziali durante la cerimonia per la festa ebraica Hannukkah al museo ebraico. Il suo intervento è iniziato asciugandosi le lacrime: «Noi femmine ogni tanto facciamo questa cosa un po’ così… Di essere troppo sensibili… Noi mamme in particolare…». Calorosi applausi di simpatia. Chi sa, però, se, nell’approvare il decreto sicurezza, la Meloni ha pensato a tutte le mamme che annegheranno, insieme ai loro bambini, per la sua tenace volontà di dimostrare di “essere Giorgia”.

 * Pastorale della Cultura – Diocesi Palermo

www.tuttavia.eu

 

MIGRANTI E SICUREZZA

 Dl sicurezza, Perego: il problema non sono le ong che salvano chi è in pericolo

Il presidente della Fondazione Migrantes analizza il decreto approvato ieri con le nuove norme previste per le navi di soccorso in mare. "È fondato su un segnale di insicurezza che è fasullo. La politica superi l'impatto ideologico sulle migrazioni. La mobilità è una struttura fondamentale del futuro delle nostre città"

 - di Antonella Palermo - Città del Vaticano

 Paradossi, opacità e limiti. Sono quelli espressi ai nostri microfoni dal vescovo Gian Carlo Perego, presidente della Fondazione Migrantes, a proposito del decreto-legge con disposizioni urgenti per la gestione dei flussi migratori, approvato ieri dal Consiglio dei ministri.

 Le nuove regole per le ong che soccorrono in mare

Il decreto contiene le nuove regole per le ong che operano per salvare i migranti nel Mediterraneo. Tra le novità, multe e confische per chi non rispetta le nuove prescizioni. Le navi potranno transitare e intervenire solo per i soccorsi, e comunque sotto il controllo e le indicazioni delle autorità territoriali. Di una "idoneità tecnica" per la sicurezza nella navigazione dovrà essere dotata la nave di soccorso. Per il resto delle misure sulla sicurezza il governo lavora ad un nuovo decreto che sarà pronto a gennaio. Si tratta di un risultato di compromesso frutto di numerose riunioni tecniche e diversi confronti politici, caratterizzati da momenti di tensione all'interno della maggioranza. Intanto continuano gli sbarchi: sono 112 i migranti arrivati fra la notte e l'alba, con tre diversi barchini, a Lampedusa. La prima barca, con a bordo 14 persone (8 minori) originarie di Costa d'Avorio e Tunisia, è stata agganciata al largo dalla motovedetta V1102 della Guardia di finanza. A Cala Madonna sono stati bloccati 36 (10 donne e 3 minori) bengalesi, senegalesi, malesi e gambiani. L'imbarcazione utilizzata per la traversata non è stata ritrovata. All'alba, sempre la motovedetta delle Fiamme gialle, ha bloccato un barcone di 12 metri con a bordo 62 (15 donne e 4 minori) originari di Mali, Guinea, Costa d'Avorio e Camerun. Ventuno algerini - tra loro anche sei donne e tre minori - sono stati intercettati ieri notte al largo di Sant'Antioco dalla Guardia di Finanza e poi traportati al sicuro al porto. Quindi il trasferimento al centro di accoglienza di Monastir (Cagliari) a cura della Polizia di Stato.

"Non sono le ong a generare insicurezza"

Abbiamo chiesto una valutazione complessiva dell'impianto del decreto a monsigno Gian Carlo Perego, presidente della Fondazione Migrantes.

Monsignor Perego, quale analisi può offrici sul decreto appena approvato?

Una prima considerazione è se siano le ong il problema della sicurezza dell'Italia o se invece sono proprio le ong le navi che salvano persone, che sappiamo da quali Paesi provengono, cioè Paesi in forte crisi internazionale, 40 in guerra e diversi dove anche i cambiamenti climatici hanno costretto a partire. Forse sono proprio le ong che creano sicurezza più che mettere in pericolo. Una seconda considerazione è che mi sarei aspettato che, a fronte eventualmente di una regolamentazione delle azioni delle ong che di fatto limitano il salvataggio delle persone, ci fosse un impegno italiano ed europeo per proprie navi di salvataggio di persone che continueranno a fuggire da situazioni disperate. La terza considerazione è che bisogna capire se sono legittime, alla luce del diritto internazionale e del diritto del mare, alcune indicazioni che sono presenti nel decreto. Infine, nel decreto sicurezza non c’è una parola sulla sicurezza delle persone in pericolo e che sono in fuga. È un decreto che dimentica che sono le persone che si trovano in mare il soggetto insicuro e che hanno bisogno di approdo.

Che ne sarà del lavoro degli immigrati?

Per quanto riguarda i lavori degli immigrati, contemplati negli ultimi numeri di questo decreto, c’è molta incertezza. Si parla della necessità del visto di ingresso per un permesso di soggiorno che dovrebbe essere conseguente a un corso di formazione del lavoratore. Non si capisce se questo corso deve avvenire in patria, online… e poi non si capisce cosa significa che la questura dà un silenzio assenso, di fatto, in ordine a questo visto di ingresso. Il che sta allora a indicare che forse la questura, di fronte a un nominativo fa una verifica, con la polizia internazionale, l’interpol o la banca dati europea, riservandosi di verificare se la persona ha delle situazioni particolare...

Così come non si capisce perché il corso di formazione ha una validità solo di sei mesi: se è un corso di formazione deve essere fatto e poi rimanere un patrimonio del lavoratore, senza scadenze. Se ci sono degli aggiornamenti da fare nella formazione si fanno. Quindi è un decreto sicurezza che è nato soprattutto per le navi ong, inserisce questo elemento dei lavoratori stranieri che è una grande necessità perché tutte le categorie del mondo del lavoro hanno chiesto più lavoratori e prepara in maniera imprecisa il decreto flussi, si parla di 89mila persone, 10mila in più rispetto al decreto flussi ultimo di Draghi.

La matrice che ha ispirato il decreto è ancora l’idea che siano le ong ad alimentare gli scafisti... risulta evidente che non si riesce a rompere questo convincimento...

Sì, è paradossale che uno strumento che in questi anni è stato di sicurezza per almeno il 10% delle persone che sono sbarcate nel nostro Paese e in Europa sia considerato uno strumento di insicurezza. Da questo punto di vista credo che questo decreto cadrà presto, nel senso che è costruito sul nulla, costruito soprattutto su un segnale di insicurezza che è in realtà è fasullo.

Qui si parla di sanzioni pesanti che arriverebbero a 50mila euro in caso di mancato rispetto delle norme...

Come sempre si utilizza anche lo strumento della sanzione per indebolire e impedire questo tipo di azione delle ong che, di fatto, già precedentemente avvertivano sempre la guardia costiera di tutto… il percorso che qui è indicato è quello che più volte i responsabili delle diverse ong hanno detto di seguire da sempre. Queste sanzioni amministrative non penali stanno dunque a dire che si vuole inserire una serie di elementi i quali di fatto non sono importanti in ordine alla gestione di questa realtà.

 Alcune ong, tra cui per esempio Emergency, lamentano già che, impedendo il decreto di fare ulteriori salvataggi dopo il primo soccorso, esso porterà da un lato all’aumento dei morti in mare e dall’altro al respingimento ancora una volta verso la Libia…

Certamente. Che ci sia nel decreto l’intenzione di limitare le possibilità di salvataggio da parte delle ong e che questo porterà a maggiori respingimenti è una conseguenza inevitabile. Non si capisce perché una nave che ha a bordo delle persone salvate e che nel tragitto ne incontra delle altre non possa e non debba fermarsi per salvarle.

L'Emilia-Romagna, la Regione in cui lei vive, si prepara ad accogliere i 113 migranti soccorsi al largo della Libia dalla nave 'Ocean Viking' della ong Sos Méditerranée. L'arrivo al porto di Ravenna è previsto sabato. Tra di loro ci sono 23 donne, alcune incinte, 34 minori non accompagnati e 3 neonati, il più piccolo ha solo tre settimane. Quale è il suo stato d'animo di fronte a queste scene in questo tempo di Natale?

Che questo è il Natale da vivere: il Natale dei bambini che stanno fuggendo come il Bambino Gesù in fuga e che chiedono di essere accolti, chiedono casa, città, chiedono un Paese dove crescere e vivere e dare il meglio di sé. L’Emilia-Romagna è una delle Regioni che già sta accogliendo moltissime di queste persone. Proprio ieri sera ero in un Centro di accoglienza qui a Ferrara dove hanno ospitato una famiglia che sono andati a prendere al porto e ne stanno aspettando altre. Questi segnali sono quelli che ci aiutano a vivere il Natale in maniera diversa e che provocano la politica a superare un impatto ideologico sulle migrazioni. Bisogna riuscire a capire che la mobilità è una delle strutture fondamentali del cambiamento futuro delle nostre città.

 Vatican News

 

PENSIERO CRITICO E DIGITALIZZAZIONE

 

Nel mondo della digitalizzazione è ancora possibile sviluppare il «pensiero critico»?

 Una riflessione rigorosa sulle caratteristiche dei social media in ordine a questa domanda.

 - di Maurizio Radaelli*

La vita di tutti oggi è pervasa dall’uso incondizionato dei social media, anche se talora in modo indiretto e/o inconsapevole. Nati come strumenti di comunicazione per coprire lontananze spaziali e lentezze temporali, sono via via diventati principalmente mezzo di reperimento veloce di informazioni. L’autore ne discute questa caratteristica in relazione alla «formazione del pensiero critico» degli utilizzatori che è indispensabile per ogni forma di dialogo tra uomini in termini di realtà/verità. La riflessione proposta, essenziale e rigorosa, è anche una traccia per un approfondimento personale di un tema fondamentale in una società che appare sempre più «stanca della ragione», un aspetto questo ormai paradossalmente presente anche a scuola. 

La cultura occidentale si è strutturata intorno al tema del pensiero critico, cioè della capacità di «giudicare» la realtà (questo significa il verbo greco κρίνειν – krìnein -, da cui deriva l’aggettivo critico), in quanto elemento decisivo per una «intelligenza della realtà» che non sia illusoria. La disputa fra Socrate e i sofisti verteva proprio su questo: la possibilità di esprimere giudizi che corrispondessero alla realtà, che fossero perciò «veri», e non fossero delle pure «opinioni» soggettive. Passando per il «principio di realtà» di Tommaso d’Aquino (secondo cui conoscere è adaequatio intellectus ad rem e proprio perciò contra factum non valet argumentum) e per il criticismo kantiano, questa centralità, pur con tutte le differenziazioni nei vari sistemi di pensiero, è rimasta tale.

Il problema del pensiero critico oggi

Il pensiero postmoderno, divenuto dominante nella nostra epoca, ha messo invece in discussione questa centralità, in nome di un relativismo individualistico, applicabile a tutti gli ambiti: etico, conoscitivo, sociale, politico. Si tratta del cosiddetto «pensiero debole», che si illude di trarre spunto dal metodo scientifico, mentre ne è invece l’immagine speculare e distorta: il dubbio metodico del metodo scientifico non nega infatti la conoscibilità della realtà/verità, ma anzi la presuppone, nel suo continuo cercare di comprenderla un po’ alla volta, con ipotesi sempre aperte alla verifica ma mai ridotte a pura opinione.

Non a caso l’opinione è divenuta «arbitro ultimo» di ogni discussione: «è la mia opinione» è ora il modo di chiudere ogni possibilità di dialogo.

 Le caratteristiche del pensiero critico

Il pensiero critico è la capacità di pensare «fuori dagli schemi», di giudicare fatti e opinioni in modo libero, senza adeguarsi al pensiero corrente, ed è realmente razionale, cioè non si ferma all’impressione o alla reazione del momento.

Ciò significa non dare per scontato quasi nulla, ma solo ciò che è immediatamente e indiscutibilmente evidente. Pensare in modo critico significa quindi pretendere le «prove» delle opinioni altrui come delle proprie, mettendo costantemente in discussione sé e gli altri.

Ma il pensiero critico non nasce dal nulla. Per poter parlare di pensiero critico occorrono anzitutto informazioni attendibili, adeguate e complete; attendibili, perché non possiamo accontentarci delle opinioni fuori contesto di chi non ha le competenze necessarie; adeguate, perché non ci basta una informazione corretta ma superficiale; complete, perché non possiamo dimenticare che la miglior menzogna è una verità parziale.

Ma non basta; occorrono gli strumenti per capire in modo corretto le informazioni: se acquisto un libro di fisica quantistica, ci trovo tutte le informazioni che mi servono, ma non è detto che io sia in grado di comprenderle fino in fondo; il rischio anzi che ne ricavi un giudizio totalmente errato non è per nulla trascurabile.

Infine occorre, come già detto, essere disposti a mettersi in discussione, a non restare prigionieri del proprio punto di vista e dei propri pregiudizi. Già Platone sosteneva che la «maledizione» dell’essere umano era la sua «condizione prospettica»1, cioè l’essere inevitabilmente legato al proprio punto di vista: non a caso le sue opere hanno quasi sempre forma di dialogo.

 Molte informazioni corrispondono a molta conoscenza?

Quello che abbiamo detto finora valeva 2500 anni fa come oggi. Ciò che è tipico del nostro tempo è invece l’illusione che molte informazioni significhino molta conoscenza, che affastellare dati – magari attendibili, adeguati e completi – significhi di per sé aver ottenuto conoscenze maggiori.

Proviamo a esaminare il problema, partendo da una vignetta tratta dal fumetto Dylan Dog.

 Vai al PDF dell’intero articolo

 

*Maurizio Redaelli (Laureato in filosofia, ha lavorato nel settore della comunicazione come responsabile marketing in aziende di servizi finanziari e come collaboratore di Agenzie pubblicitarie nazionali e internazionali)

Il Sussiidario


 

PREGHIERA PER IL NUOVO ANNO


Dio Onnipotente che sei presente in tutto l’universo

e nella più piccola delle tue creature.

Tu che circondi con la tua tenerezza tutto quanto esiste.

 Riversa in noi la forza del tuo amore affinché ci prendiamo cura della vita e della bellezza. Inondaci di pace, perché viviamo come fratelli e sorelle senza nuocere a nessuno.

O Dio dei poveri, aiutaci a riscattare gli abbandonati

e i dimenticati di questa terra che tanto valgono ai tuoi occhi.

 Risana la nostra vita affinché proteggiamo il mondo e non lo deprediamo,

affinché seminiamo bellezza e non inquinamento e distruzione.

Tocca i cuori di quanti cercano solo vantaggi a spese dei poveri e della terra.

Insegnaci a scoprire il valore di ogni cosa, a contemplare con stupore,

a riconoscere che siamo profondamente uniti con tutte le creature

nel nostro cammino verso la tua luce infinita.

Grazie perché sei con noi tutti i giorni.

Sostienici, per favore, nella nostra lotta per la giustizia, l’amore e la pace.

 Amen.

 

Papa Francesco


mercoledì 28 dicembre 2022

LA STELLA DEI MAGI

La stella dei Magi nella notte 

di Cesare Pavese

 

- p. Giuseppe Oddone

 

-   Il 28 dicembre del 1944, in pieno clima natalizio, Cesare Pavese leggeva un libro a lui imprestato dal P. G. Baravalle, il futuro padre Felice de “La casa in collina”, e precisamente A. Gratry, Commentario sul Vangelo secondo S. Matteo, Ed. Marietti, 1923. In quest’opera dapprima viene riportato il testo del Vangelo di Matteo diviso in episodi omogenei ed in versetti e subito dopo segue il commento dell’autore.

Pavese rimase impressionato da quanto viene detto sulla nascita di Gesù e sull’episodio dei Magi e ne “Il Mestiere di vivere” cita espressamente A. Gratry (1805-1871) ed il suo commentario a Matteo annotando: “ ll semplice sospetto che il subcosciente sia Dio, che Dio viva e parli nel nostro subcosciente, ti ha esaltato.

Se ripassi con l’idea di Dio tutti i pensieri qui sparsi de subconscio, ecco che modifichi tutto il tuo passato e scopri molte cose. Soprattutto il tuo travaglio verso il simbolo si illumina di un contenuto infinito”.[i]

E’ bene ora sintetizzare le riflessioni di Gratry, che possono aver colpito lo scrittore. Il sacerdote francese sostiene che con la nascita di Cristo una nuova generazione incomincia sulla terra. Prima si erano sviluppati i tre grandi regni, quello minerale, vegetale ed animale, poi era sopravvenuto il regno dell’uomo, re della terra. Con Cristo arriva il regno di Dio e dei figli di Dio. Questo ultimo regno trasfigura, corona ed innalza tutti gli altri regni. Nel lento passaggio dei vari ordini fino all’umano ed al cristiano c’è un germe divino che l’uomo può scoprire sia con la luce diurna della ragione, che con quella notturna dell’ispirazione.

Pavese sottolinea questo pensiero: “La venuta dell’uomo sulla terra, era l’incarnazione della ragione e della libertà nella animalità; nello stesso modo la venuta di Cristo è l’incarnazione di Dio medesimo nella ragione, nella libertà, in tutto l’uomo”.[ii]

Commentando la stella dei Magi Gratry aggiunge che tutte le anime intravedono, più o meno, questa stella che brilla in Oriente e continua con questa riflessione evidenziata da Pavese con un tratto a matita: “Un grande amore della giustizia, la conoscenza delle rivelazioni primitive, e soprattutto l’ispirazione attuale di Dio, hanno potuto mostrare a qualche savio, i segni precursori del principale avvenimento della storia”.[iii]

Ad un certo punto Gratry esclama: “Potessi io dirvi bene ciò che è la stella e dove la si può vedere! La si vede in quel luogo dell’anima dove si raccolgono le pure e semplici idee e dove la verità si fa intendere. La stella è l’idea semplice, l’idea prima e necessaria, che ogni coscienza deve vedere. È la verità implicita, raccolta quasi in un punto impercettibile come una stella, ma racchiudente in quella umile semplicità tutti i tesori della luce e dei mondi nuotanti in quei flutti. La nostra stella è l’idea di Dio”.[iv]

Gli spiriti che, come i Magi, seguiranno questa stella “non cercheranno la verità solamente discorrendo superficialmente o all’infuori dello spirito, ma anche e soprattutto nelle viscere dell’anima e nelle profondità feconde del sentimento. Cercheranno la verità nel raccoglimento delle impressioni che Dio opera in noi; nella profusione immensa impersonale della ispirazione continua, che è la sorgente e l’oriente dell’anima, che è l’atto per il quale Dio non ristà dal crearci e dal vivificarci… Sì l’idea del Dio vivente che ci porta e ci vivifica è la stella”.[v]

Questa stella che brilla tuttavia non appare nello splendore del giorno, raggio di un unico sole, simbolo della ragione, ma nella luce notturna e siderale, simbolo dell’ispirazione poetica, luce composta dai raggi di parecchi miliardi di soli: è un invito a sondare il mistero, le sue immensità e le sue profondità. E’ vero, questa stella che scintilla verso di me – aggiunge Gratry – non è che un punto nella notte. “Ma in realtà è un sole altrettanto grande e più grande del nostro, circondato da venti mondi altrettanto grandi o più grandi di questo globo dove si sviluppa la nostra umanità. E la stella medesima non è che un punto in quegli immensi nugoli di stelle che ci offre lo spettacolo delle notti. La luce notturna dell’anima, dunque sarebbe essa pure immensa? Sarebbe allora tutto l’universo che l’anima presente ed intravede? Sarebb’essa le anime di tutti i luoghi e di tutti i tempi e con queste assemblee d’anime il Padre delle anime, che cercano dolcemente di elevarci verso la vita eterna e la luce immensa?”[vi]

Gratry conclude il suo eloquente commento alla stella dei Magi con l’invito a non impedire la segreta nutrizione dell’anima in Dio, a non soffocare lo sviluppo di quel germe (l’idea di Dio) che cresce e si sviluppa, sia che l’uomo vegli, sia che dorma.

Torniamo a Pavese. Le riflessioni di Gratry, il suo invito a sondare le profondità dell’uomo, l’affermazione che la stella dei Magi è l’idea di Dio, un germe che vive in noi, che può essere intravisto da chi cerca la verità, che questa presenza di Dio è attiva e  presente nelle zone notturne dell’anima e nell’ispirazione poetica, nell’inconscio e nel subconscio, folgorarono lo scrittore, lo fecero riflettere sulle sue indagini in corso in quell’anno che riguardavano il subcosciente, il primitivo e il selvaggio, quella condizione aurorale dell’animo umano in cui si formano immagini, simboli e miti.

Un sospetto semplice ed immediato si presentò al suo pensiero: se Dio, come indica la stella dei Magi, agisce nella profondità della notte è forse possibile che il subcosciente sia Dio, che Dio viva e parli nel subcosciente?  Il semplice sospetto che questo potesse avvenire gettò Pavese in una specie di mistica esaltazione, non estranea al suo animo, analoga a quella che aveva provato all’inizio di quello stesso anno 1944, quando aveva avvertito oggettivamente nella sua sofferenza, senza il filtro della memoria o del simbolo, lo sgorgo di divinità ed aveva sperimentato un reale contatto con Dio.[vii]

E la riflessione viene ripresa nel pensiero successivo: “Se ripassi con l’idea di Dio” - qui il riferimento a Gratry è scoperto: “la nostra stella è l’idea di Dio… l’idea del Dio vivente che ci porta e ci vivifica è la stella!”[viii] -  tutti i pensieri qui sparsi de subconscio (e sono davvero molti, disseminati in tutte le opere di Pavese) ecco che modifichi tutto il tuo passato e scopri molte cose. È dunque possibile per Pavese rileggere alla luce dell’idea di Dio tutta la propria vicenda umana e culturale, vedervi un filo conduttore, scoprire molte cose.  Soprattutto il tuo travaglio verso il simbolo s’illumina di un contenuto infinito. E quanti simboli nella poetica di Pavese, tutti animati da una vibrante passione che li rende poetici: la collina, il paese, la donna, la terra, la vigna, il prato, la selva, il sentiero, la luna, i falò, il sangue, ecc. e quanto travaglio in questa ricerca, travaglio già segnalato in un pensiero del 17 luglio del 1944, ove Pavese parla di fatica e spossatezza nel portare in superficie la vita dell’inconscio![ix]  Ma qui c’ è una luce che brilla, la luce notturna dei Magi, la stella, l’idea del Dio che vive e parla nel subcosciente, che illumina d’un contenuto infinito questa sofferta ricerca di immagini e di simboli.

E Pavese pare qui mettersi in cammino dietro i Magi e guardare alla luce della stella nella ricerca di Dio e di Cristo.

È questo l’ultimo pensiero ne “Il Mestiere di vivere” di quell’annata strana (il 1944), cominciata e finita con Dio, con riflessioni assidue sul primitivo e sul selvaggio. Avrebbe potuto essere la più importante della sua vita, se avesse perseverato in Dio[x].

Pavese non perseverò in questo cammino, si immerse in altre esperienze di vita.

Ma nella sua notte la stella dei magi ritornò di tanto in tanto a brillare fino alle soglie del suo suicidio, quando ha ancora uno scatto improvviso, un grido lacerante davanti ad un’altra realtà che gli balena davanti improvvisa, spalancando le porte del futuro, il Tu divino, il Dio della grazia e della rivelazione, il Dio dell’ispirazione, intravisto nella stella dei Magi che conduce a Cristo: “O Tu, abbi pietà. E poi?”.[xi]

 



[i]
                 C. Pavese, Il mestiere di vivere, Einaudi, 1952, 28 dicembre 1944, pag. 269. In questa edizione c’è un errore di trascrizione dal manoscritto (Fratry invece di Gratry)

[ii]          A. Gratry, Commentario sul Vangelo secondo S. Matteo, Ed. Marietti, 1923, pag. 5

[iii]          A. Gratry, op. cit., pag. 9

[iv]         A. Gratry, op. cit., pag. 16

[v]          A. Gratry, op. cit., pag. 18

[vi]         A. Gratry, op. cit., pag. 21

[vii]         Cfr. Il mestiere di vivere, op. cit., 29 gennaio e 1 febbraio 1944, pag.248

[viii]        A. Gratry, op. cit., pagg. 17-18

[ix]         Cfr. Il mestiere di vivere, op. cit., 17 luglio 1944, pagg.260-261

[x]          Cfr. Il mestiere di vivere, op. cit., 9 gennaio 1945, pag. 270

[xi]         Il mestiere di vivere, op. cit., 18 agosto 1950, pag. 362