IL MISTERO
DELL'INTELLIGENZA
La vera intelligenza non è algoritmica
ma è la capacità di comprendere,
cioè di intus-legere, di capire in profondità,
di essere aperti all’inatteso
e di trovare connessioni tra scibili diversi.
Nell’era dell’IA, una riflessione tra persona,
responsabilità ed educazione.
- di Elena Beccalli
Per
entrare nel mistero dell’intelligenza, vorrei partire dalla definizione che si
trova nel dizionario Treccani: «Quel complesso di facoltà psichiche e mentali
che consentono all’uomo di pensare, comprendere o spiegare i fatti o le azioni,
elaborare modelli astratti della realtà, intendere e farsi intendere dagli
altri, giudicare, e lo rendono insieme capace di adattarsi a situazioni nuove e
di modificare la situazione stessa quando questa presenta ostacoli
all’adattamento». Questa definizione di intelligenza è indubbiamente riferita a
quella umana. Tuttavia, negli ultimi decenni ci troviamo a fare i conti con un
altro tipo di cosiddetta “intelligenza”, quella artificiale. Coniato nel 1955
da John McCarthy, il termine indica «la teoria e lo sviluppo di sistemi
informatici in grado di eseguire compiti che normalmente richiedono
intelligenza umana» (English Oxford Living Dictionary), come ad esempio language
processing, machine learning e machine vision.
Ma
che cosa è l’intelligenza dell’intelligenza artificiale (IA)? Per
spiegarlo riprendo Ciro De Florio («Vita e Pensiero», 2023, 2), che richiama
due tra i numerosi approcci a questo tema. Il primo è caratterizzare
l’intelligenza facendo leva sulla capacità di elaborazione dell’informazione
per un adattamento massivo all’ambiente circostante. Una seconda strada è
quella dell’intuizione controfattuale: l’IA permette di costruire macchine che
eseguono compiti tali che, se fossero effettuati da esseri umani, richiederebbero
intelligenza. In questa diffusa definizione, l’assunzione filosofica è
profonda: in sostanza, facciamo esperienza di un solo tipo di intelligenza,
cioè quella umana.
Ora
siamo nella fase di un ulteriore sviluppo dell’intelligenza artificiale, quella
generativa, come ChatGpt. Un’evoluzione che sembra avvicinarci al sogno di Alan
Turing, quello, cioè, di costruire una macchina in grado di ingannare gli
esseri umani circa la sua natura. Ma cosa manca all’intelligenza
artificiale rispetto a quella umana? Per rispondere a questa domanda può essere
d’aiuto immediato l’aforisma che Fritz Lang aveva posto già nel 1927 nel film
Metropolis a proposito del rapporto uomo-macchina: «Il mediatore fra testa e
mani dev’essere il cuore!». La distanza dell’intelligenza artificiale da
quella umana, dunque, risulta siderale e a fare la differenza è quell’assenza
della “sapienza del cuore”, di cui parla papa Francesco nell’ultima lettera
enciclica Dilexit nos.
L’inventore
del microprocessore Federico Faggin mette ben a fuoco questa distanza siderale
tra intelligenza umana e quella artificiale, quando afferma che la creatività,
l’etica, il libero arbitrio possono venire solo dalla coscienza e non dalla
macchina (Irriducibile, Mondadori, 2022). Secondo Faggin, i computer sono
macchine deterministiche classiche, in contrasto con gli organismi viventi, che
sono sia quantistici sia classici. Questi ultimi sono quindi più complessi dei
microchip perché possono ospitare la coscienza e il libero arbitrio.
La
vera intelligenza non è algoritmica ma è la capacità di comprendere, cioè
di intus-legere, ossia di leggere dentro, di capire in profondità,
di essere aperti all’inatteso e di trovare connessioni insospettate tra scibili
diversi. E capire non è riconducibile a un algoritmo, come spiega Lorenzo
Magnani in un suo saggio in cui ha esplorato la relazione tra macchine
computazionali e creatività umana («Polyedrum», 2024). Pertanto, per
fronteggiare le domande che ci pone la macchina dobbiamo partire dalla
comprensione profonda della natura umana.
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