domenica 31 dicembre 2017

PAPA FRANCESCO A CHIUSURA DELL'ANNO: GRATITUDINE E RESPONSABILITA'

" ..... In questa atmosfera creata dallo Spirito Santo, noi eleviamo a Dio il rendimento di grazie per l’anno che volge al termine, riconoscendo che tutto il bene è dono suo.
Anche questo tempo dell’anno 2017, che Dio ci aveva donato integro e sano, noi umani l’abbiamo in tanti modi sciupato e ferito con opere di morte, con menzogne e ingiustizie. Le guerre sono il segno flagrante di questo orgoglio recidivo e assurdo. Ma lo sono anche tutte le piccole e grandi offese alla vita, alla verità, alla fraternità, che causano molteplici forme di degrado umano, sociale e ambientale. Di tutto vogliamo e dobbiamo assumerci, davanti a Dio, ai fratelli e al creato, la nostra responsabilità.
Ma questa sera prevale la grazia di Gesù e il suo riflesso in Maria. E prevale perciò la gratitudine, che, come Vescovo di Roma, sento nell’animo pensando alla gente che vive con cuore aperto in questa città.
Provo un senso di simpatia e di gratitudine per tutte quelle persone che ogni giorno contribuiscono con piccoli ma preziosi gesti concreti al bene di Roma: cercano di compiere al meglio il loro dovere, si muovono nel traffico con criterio e prudenza, rispettano i luoghi pubblici e segnalano le cose che non vanno, stanno attenti alle persone anziane o in difficoltà, e così via. Questi e mille altri comportamenti esprimono concretamente l’amore per la città. Senza discorsi, senza pubblicità, ma con uno stile di educazione civica praticata nel quotidiano. E così cooperano silenziosamente al bene comune.
Ugualmente sento in me una grande stima per i genitori, gli insegnanti e tutti gli educatori che, con questo medesimo stile, cercano di formare i bambini e i ragazzi al senso civico, a un’etica della responsabilità, educandoli a sentirsi parte, a prendersi cura, a interessarsi della realtà che li circonda.... ".

sabato 30 dicembre 2017

1° gennaio 2018 - GIORNATA MONDIALE DELLA PACE - Messaggio di Papa Francesco

MESSAGGIO 
DEL SANTO PADRE
FRANCESCO

PER LA CELEBRAZIONE DELLA 
LI GIORNATA MONDIALE DELLA PACE
1° GENNAIO 2018

Migranti e rifugiati: uomini e donne in cerca di pace



1. Augurio di pace
Pace a tutte le persone e a tutte le nazioni della terra! La pace, che gli angeli annunciano ai pastori nella notte di Natale,[1] è un’aspirazione profonda di tutte le persone e di tutti i popoli, soprattutto di quanti più duramente ne patiscono la mancanza. Tra questi, che porto nei miei pensieri e nella mia preghiera, voglio ancora una volta ricordare gli oltre 250 milioni di migranti nel mondo, dei quali 22 milioni e mezzo sono rifugiati. Questi ultimi, come affermò il mio amato predecessore Benedetto XVI, «sono uomini e donne, bambini, giovani e anziani che cercano un luogo dove vivere in pace».[2] Per trovarlo, molti di loro sono disposti a rischiare la vita in un viaggio che in gran parte dei casi è lungo e pericoloso, a subire fatiche e sofferenze, ad affrontare reticolati e muri innalzati per tenerli lontani dalla meta.
Con spirito di misericordia, abbracciamo tutti coloro che fuggono dalla guerra e dalla fame o che sono costretti a lasciare le loro terre a causa di discriminazioni, persecuzioni, povertà e degrado ambientale.
Siamo consapevoli che aprire i nostri cuori alla sofferenza altrui non basta. Ci sarà molto da fare prima che i nostri fratelli e le nostre sorelle possano tornare a vivere in pace in una casa sicura. Accogliere l’altro richiede un impegno concreto, una catena di aiuti e di benevolenza, un’attenzione vigilante e comprensiva, la gestione responsabile di nuove situazioni complesse che, a volte, si aggiungono ad altri e numerosi problemi già esistenti, nonché delle risorse che sono sempre limitate. Praticando la virtù della prudenza, i governanti sapranno accogliere, promuovere, proteggere e integrare, stabilendo misure pratiche, «nei limiti consentiti dal bene comune rettamente inteso, [per] permettere quell’inserimento».[3] Essi hanno una precisa responsabilità verso le proprie comunità, delle quali devono assicurare i giusti diritti e lo sviluppo armonico, per non essere come il costruttore stolto che fece male i calcoli e non riuscì a completare la torre che aveva cominciato a edificare.[4]
2. Perché così tanti rifugiati e migranti?
In vista del Grande Giubileo per i 2000 anni dall’annuncio di pace degli angeli a Betlemme, San Giovanni Paolo II annoverò il crescente numero di profughi tra le conseguenze di «una interminabile e orrenda sequela di guerre, di conflitti, di genocidi, di “pulizie etniche”»,[5] che avevano segnato il XX secolo. Quello nuovo non ha finora registrato una vera svolta: i conflitti armati e le altre forme di violenza organizzata continuano a provocare spostamenti di popolazione all’interno dei confini nazionali e oltre.
Ma le persone migrano anche per altre ragioni, prima fra tutte il «desiderio di una vita migliore, unito molte volte alla ricerca di lasciarsi alle spalle la “disperazione” di un futuro impossibile da costruire».[6] Si parte per ricongiungersi alla propria famiglia, per trovare opportunità di lavoro o di istruzione: chi non può godere di questi diritti, non vive in pace. Inoltre, come ho sottolineato nell’Enciclica Laudato si’, «è tragico l’aumento dei migranti che fuggono la miseria aggravata dal degrado ambientale».[7] ......


LA VECCHIAIA DEL MONDO E L'ETERNA GIOVINEZZA DI DIO

VANGELO DELLA DOMENICA
Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la legge di Mosè, [Maria e Giuseppe] portarono il bambino [Gesù] a Gerusalemme per presentarlo al Signore – come è scritto nella legge del Signore: «Ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore» – e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o due giovani colombi, come prescrive la legge del Signore.
 Ora a Gerusalemme c'era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione d'Israele, e lo Spirito Santo era su di lui. Lo Spirito Santo gli aveva preannunciato che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Cristo del Signore. [...]
   
    Maria e Giuseppe portarono il Bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore. Una giovanissima coppia col suo primo bambino arriva portando la povera offerta dei poveri, due tortore, e la più preziosa offerta del mondo: un bambino. Non fanno nemmeno in tempo a entrare che subito le braccia di un uomo e di una donna si contendono il bambino. Sulle braccia dei due anziani, riempito di carezze e di sorrisi, passa dall'uno all'altro il futuro del mondo: la vecchiaia del mondo che accoglie fra le sue braccia l'eterna giovinezza di Dio.
       Il piccolo bambino è accolto non dagli uomini delle istituzioni, ma da un anziano e un'anziana senza ruolo ufficiale, però due innamorati di Dio che hanno occhi velati dalla vecchiaia ma ancora accesi dal desiderio. Perché Gesù non appartiene all'istituzione, ma all'umanità. L'incarnazione è Dio che tracima dovunque nelle creature, nella vita che finisce e in quella che fiorisce.
      «È nostro, di tutti gli uomini e di tutte le donne. Appartiene agli assetati, a quelli che non smettono di cercare e sognare mai, come Simeone; a quelli che sanno vedere oltre, come la profetessa Anna; a quelli capaci di incantarsi davanti a un neonato, perché sentono Dio come futuro» (M. Marcolini). Lo Spirito aveva rivelato a Simeone che non avrebbe visto la morte senza aver prima veduto il Messia.
      Sono parole che lo Spirito ha conservato nella Bibbia perché io, noi, le conservassimo nel cuore: anche tu, come Simeone, non morirai senza aver visto il Signore. È speranza. È parola di Dio. La tua vita non finirà senza risposte, senza incontri, senza luce. Verrà anche per te il Signore, verrà come aiuto in ciò che fa soffrire, come forza di ciò che fa partire.
       Io non morirò senza aver visto l'offensiva di Dio, l'offensiva del bene, l'offensiva della luce che è già in atto dovunque, l'offensiva del lievito. Poi Simeone canta: ho visto la luce da te preparata per tutti. Ma quale luce emana da Gesù, da questo piccolo figlio della terra che sa solo piangere e succhiare il latte e sorridere agli abbracci? Simeone ha colto l'essenziale: la luce di Dio è Gesù, luce incarnata, carne illuminata, storia fecondata, amore in ogni amore.
         La salvezza non è un opera particolare, ma Dio che è venuto, si lascia abbracciare dall'uomo, è qui adesso, mescola la sua vita alle nostre vite e nulla mai ci potrà più separare. Tornarono quindi alla loro casa. E il Bambino cresceva e la grazia di Dio era su di lui. 
         Tornarono alla santità, alla profezia e al magistero della famiglia, che vengono prima di quelli del tempio. Alla famiglia che è santa perché la vita e l'amore vi celebrano la loro festa, e ne fanno la più viva fessura e feritoia dell'infinito.

(Letture: Genesi 15,1-6; 21,1-3; Salmo 104; Ebrei 11,8.11-12.17-19; Luca 2,22-40)
  
Ermes Ronchi
 

(tratto da www.avvenire.it)

UN ANNO NUOVO .... MEMORIA E SPERANZA

L’anno che viene non è un tuffo nel buio.
 È la memoria il vero motore di speranza

«Ogni fine anno ci affacciamo all’inizio di quello nuovo, con una strana speranza, con tanti piccoli e grandi propositi». Abbiamo scritta dentro una tensione, un’attesa istintiva di vita. E Benedetto XVI invitava ad «avere memoria della bontà di Dio»

Mi ha sempre meravigliato, nella notte di Capodanno, il vedere come anche nei luoghi e nelle case dei più poveri e sfortunati si festeggi: quanto si attenda con ansia lo scoccare dell’anno nuovo, e come in un gran rito collettivo si marchi questo passaggio con brindisi, e fuochi d’artificio, e tappi di bottiglie che saltano con un botto, lasciando andare generoso lo spumante. Ho sempre osservato queste feste, cui pure partecipavo, con una tacita domanda che è in fondo la stessa posta dalla lettrice: sapendo cosa riserva la realtà, come si fa, ogni anno, a sperare ancora?
Indubbiamente, mi sono detta crescendo, abita gli uomini una tenace testarda speranza. Abbiamo scritta dentro una tensione, un’attesa istintiva di vita; e per quanto provati o messi alle corde, risorge sempre la speranza che i giorni a venire siano migliori. È una speranza che può virare anche sull'irrazionale, e che qualcuno, e anzi molti, alimentano leggendo oroscopi, che scrutino nel futuro e annuncino abbondanza.
Allora quell'istinto naturale di vita può cadere nell'illusione, nell'autoinganno.
Ma come si fa invece, davanti al calendario nuovo e immacolato, a nutrire una speranza che sia cristiana e realistica? Anni fa, nell'ottobre 2011, Benedetto XVI in un’Udienza parlò del rapporto tra memoria e speranza. Misi da parte quel testo. Benedetto partiva dal Salmo 136, il Grande Hallel, quello che viene cantato al termine della Pasqua ebraica ed è un inno di lode e grazie a Dio per ciò che ha fatto per Israele. La struttura fondante del Salmo, spiegava il Papa, è che «Israele si ricorda della bontà del Signore. In questa storia ci sono tante valli oscure, ci sono tanti passaggi di difficoltà e di morte, ma Israele si ricorda che Dio era buono e può sopravvivere in questa valle oscura, in questa valle della morte, perché si ricorda. Ha la memoria della bontà del Signore, della sua potenza; la sua misericordia vale in eterno».
E questo, aggiungeva Benedetto, è importante anche per noi: avere memoria della bontà di Dio: «La memoria diventa forza della speranza. La memoria ci dice: Dio c’è, Dio è buono, eterna è la sua misericordia. E così la memoria apre, anche nell’oscurità di un giorno, di un tempo, la strada verso il futuro: è luce e stella che ci guida». Imparare dunque a fare memoria di tutto il bene che ci è stato dato nella nostra vita: madre e padre, famiglia, amici, insegnanti, lavoro, malattie e guarigioni, sconfitte e rinascite, e via via tutti i volti e le circostanze che ci hanno accompagnato, anche nel dolore. Ripercorrendo la nostra storia possiamo ricostruire la trama sottesa di un disegno che ci ha condotto. Riconoscendo quel percorso come in filigrana comprendiamo che possiamo fidarci, e affidarci. Che l’anno che viene, sconosciuto, non è un tuffo nel buio, ma l’andare verso il compimento di noi. Così la memoria diventa realmente motore di speranza. Autentica, però, e fortemente radicata: non attesa superstiziosa che si culla nel frastuono dei fuochi d’artificio. Quei botti della mezzanotte, che mi hanno sempre fatto pensare a bambini che fanno rumore, perché hanno paura del buio.
Marina Corradi


venerdì 29 dicembre 2017

GOVERNANCE ISTITUZIONI SCOLASTICHE - RUOLO DEL DIRIGENTE - CORSO DI FORMAZIONE


Il percorso formativo prevede: Prove di verifica e colloqui; Esercitazioni mediante simulazioni;  analisi e studio di casi; commento critico delle prove di verifica

Iscrizioni entro il 10 gennaio


            SCHEDA DI PRENOTAZIONE






IL MAESTRO - dicembre 2017

Leggi: IL MAESTRO

LA GRANDEZZA DELL'ESSER MODESTI

       
“La modestia è una virtù essenziale per chi vuole essere conforme a Gesù, mite e umile di cuore”; questo è l’odierno Tweet di Papa Francesco, una frase ripresa dall’Angelus del 5 novembre 2017.
          Il tema delle virtù cristiane è molto caro al Santo Padre che in varie occasioni ha sottolineato l’importanza di esprimerle nella vita quotidiana. “Noi discepoli di Gesù non dobbiamo cercare titoli di onore, di autorità o di supremazia”, ha affermato il Pontefice addolorato “vedere persone che psicologicamente vivono correndo dietro alla vanità delle onorificenze”.
        Papa Francesco invita a vivere a servizio del prossimo e essere modesti: “La modestia è essenziale per una esistenza che vuole essere conforme all’insegnamento di Gesù, il quale è mite e umile di cuore ed è venuto non per essere servito ma per servire.”
     Exemplum virtutis citato dal Santo Padre è Maria, umile e modesta, che “riconosce di essere piccola davanti a Dio, ed è contenta di essere così”.

LA NOSTRA VITA SIA UN CANTO DI GIOIA E DI SPERANZA

“Il cristiano è un uomo e una donna di gioia.
Questo ci insegna Gesù, ci insegna la Chiesa, in questo tempo in maniera speciale. Che cosa è, questa gioia? E’ l’allegria? No: non è lo stesso. L’allegria è buona, eh?, rallegrarsi è buono. Ma la gioia è di più, è un’altra cosa. E’ una cosa che non viene dai motivi congiunturali, dai motivi del momento: è una cosa più profonda. E’ un dono. L’allegria, se noi vogliamo viverla tutti i momenti, alla fine si trasforma in leggerezza, superficialità, e anche ci porta a quello stato di mancanza di saggezza cristiana, ci fa un po’ scemi, ingenui, no?, tutto è allegria … no. La gioia è un’altra cosa.  
La gioia è un dono del Signore. Ci riempie da dentro. E’ come una unzione dello Spirito. E questa gioia è nella sicurezza che Gesù è con noi e con il Padre”.L’uomo gioioso, ha proseguito, è un uomo sicuro. Sicuro che “Gesù è con noi, che Gesù è con il Padre”. Ma questa gioia, si chiede il Papa, possiamo “imbottigliarla un po’, per averla sempre con noi?”:“No, perché se noi vogliamo avere questa gioia soltanto per noi alla fine si ammala e il nostro cuore diviene un po’ stropicciato, e la nostra faccia non trasmette quella gioia grande ma quella nostalgia, quella malinconia che non è sana. Alcune volte questi cristiani malinconici hanno più faccia da peperoncini all’aceto che proprio di gioiosi che hanno una vita bella. La gioia non può diventare ferma: deve andare.
La gioia è una virtù pellegrina. E’ un dono che cammina, che cammina sulla strada della vita, cammina con Gesù: predicare, annunziare Gesù, la gioia, allunga la strada e allarga la strada. E’ proprio una virtù dei grandi, di quei grandi che sono al di sopra delle pochezze, che sono al di sopra di queste piccolezze umane, che non si lasciano coinvolgere in quelle piccole cose interne della comunità, della Chiesa: guardano sempre all’orizzonte”.
Il cristiano canta con la gioia, e cammina, e porta questa gioia.
E’ una virtù del cammino, anzi più che una virtù è un dono: “E’ il dono che ci porta alla virtù della magnanimità. Il cristiano è magnanimo, non può essere pusillanime: è magnanimo. E proprio la magnanimità è la virtù del respiro, è la virtù di andare sempre avanti, ma con quello spirito pieno dello Spirito Santo.
E’ una grazia che dobbiamo chiedere al Signore, la gioia. In questi giorni in modo speciale, perché la Chiesa si invita, la Chiesa ci invita a chiedere la gioia e anche il desiderio: quello che porta avanti la vita del cristiano è il desiderio. Quanto più grande è il tuo desiderio, tanto più grande verrà la gioia. Il cristiano è un uomo, è una donna di desiderio: sempre desiderare di più nella strada della vita.
Chiediamo al Signore questa grazia, questo dono dello Spirito: la gioia cristiana. Lontana dalla tristezza, lontana dall’allegria semplice … è un’altra cosa. E’ una grazia da chiedere.

                                                                                                                             Papa Francesco

ADESIONI ALL'AIMC PER IL 2018 - Aderire per un cammino comune

giovedì 28 dicembre 2017

MASCHIO o FEMMINA. QUALE IDENTITÀ' ?

IL SIGNIFICATO DELL'IDENTITA' 

       Il libro di Francesco Pesce, “Due Nessuno Centomila. Genere, gender e differenza sessuale” (EDB, 2017), spiega le varie declinazioni del termine “gender” nei vari contesti.
        Quante volte, in questi ultimi anni, abbiamo sentito parlare di gender? Troppo o troppo poco? 
      C’è chi minimizza il problema e c’è chi non perde l’occasione per proiettare paure e catastrofi imminenti attaccando tutto e tutti. Ognuno faccia le proprie considerazioni. Una cosa però è certa: oggi, come ricorda Papa Francesco, non siamo di fronte ad un’epoca di cambiamenti ma ad un cambiamento d’epoca. 
     Libri sull’argomento (gender) ne sono stati pubblicati molti negli ultimi anni, ma la distinzione va fatta all’origine: con questo termine si indicano, da una parte, i cosiddetti “Gender studies” (studi di genere) che cercano di approfondire il significato dell’identità maschile e dell’identità femminile; dall’altra, invece, l’ideologia gender tenta di promuovere un’idea di identità slegata dal corpo, dalle relazioni, dalla storia, dal contesto e, perciò, tutta incentrata sul soggetto stesso. 
      Segnalo un interessante e sintetico libro sull’argomento scritto da Francesco Pesce, dal titolo “Due Nessuno Centomila. Genere, gender e differenza sessuale” (2017, Edizioni Dehoniane Bologna). 
      L’autore precisa subito che, data l’ambiguità di significato della parola “gender”, bisogna fare molta attenzione ai contesti in cui viene utilizzata. Infatti la frase “il gender (o la teoria del gender) non esiste” può essere vera o falsa a seconda del contesto in cui viene pronunciata. Se ci troviamo nell’ambito scientifico, tale cosiddetta “teoria” risulta non documentata e perciò irrilevante. In un dialogo tra genitori all’uscita di una scuola, la stessa frase potrebbe essere falsa: per rendersene conto, basta leggere qualche titolo di giornale o guardare agli incontri organizzati in classe per la distribuzione di alcuni “libretti”. Quindi bisogna fare molta attenzione. 
        Uno degli spunti più interessanti offerti dall’autore è il capitolo che cerca di individuare le cause di questa ideologia. E se fosse per paura di un sereno confronto con l’altro? Mi spiego meglio. La domanda dalla quale si parte è la seguente: perché cercare nell’altro l’identico a sé? Nella Bibbia possiamo leggere «voglio fargli un aiuto che gli corrisponda». 
     Richiamando Enzo Bianchi, potremmo dire che «l’uomo e la donna sono, infatti, l’uno per l’altro, ma al tempo stesso l’uomo è un problema per la donna e la donna per l’uomo». La donna è un aiuto per l’uomo proprio perché è di fronte a lui e contro di lui (e viceversa): l’altro modo di pensare mi è di aiuto proprio perché mi è contro, perché non posso esserne il padrone, perché resta un mistero, e mi spinge oltre me. 
     L’altro/a è un mondo che sfugge alla presa: per incontrarlo sono chiamato a dominare l’animalità interiore. Per tale motivo la differenza sessuale è impegnativa, spinge l’altro ad una presa di coscienza oppure a… scappare. 
     L’altro sesso mette le persone alla pari, le fa uscire da sé, provoca a diventare adulti. Le relazione (uomo-donna) permette di decentrarsi, perché fa fare i conti con un mondo differente, completamente altro: un altro modo di vedere la realtà. 
     Con Gilles Bernheim (rabbino di Francia), possiamo dire che: «Ogni persona è portata, prima o poi, a riconoscere che possiede solo una delle due varianti fondamentali dell’umanità e che l’altra le sarà per sempre inaccessibile. La differenza sessuale è quindi un segno della nostra finitezza. Io non sono tutto l’umano. Un essere sessuato non è la totalità della sua specie, ha bisogno di un essere dell’altro sesso per produrre il suo simile». 
     Allontanandoci dall’altro sesso ci si allontana, sostanzialmente, dalla possibilità feconda di diventare genitori, con tutto quello che comporta la relazione uomo-donna. Cercare, come si fa oggi, il neutro, l’ibrido, l’androgino, l’unisex fino ad arrivare al “queer” (termine che indica le persone che non si riconoscono in nessun genere) può essere un modo di evitare la fatica della differenza sessuale. 
     Conseguenza? Ci si snatura per non affrontare, consapevolmente, l’altro sesso e per non confrontarsi con la natura del nostro essere persone di sesso maschile o femminile. Comunque la si pensi, occorre convenire che ci troviamo di fronte a problematiche di scottante attualità con cui, o prima o poi, dovremo fare i conti. 

Domenico De Angelis




ALBERO DI NATALE. PERCHÉ'?

         Il primo albero di Natale, un abete sempre verde addobbato di candele accese, fu allestito presso le popolazioni germaniche nel 724 da San Bonifacio,(680-754), vescovo e martire, inglese di nascita, noto nella storia della Chiesa come l’Apostolo della Germania. 
       Mentre si stava per compiere un rito sacrificale di alcuni bambini, San Bonifacio gridò: “Questa è la vostra Quercia del Tuono e questa è la croce di Cristo che spezzerà il martello del falso dio Thor”, in tutta risposta ai sacrifici dei pagani.
      Presa una scure, cominciò a colpire la quercia. Un forte vento si levò all’improvviso, l’albero cadde e si spezzò in quattro parti. Dietro l’imponente quercia stava un giovane abete verde. San Bonifacio si rivolse nuovamente ai pagani: “Questo piccolo albero, un giovane figlio della foresta, sarà il vostro sacro albero questa notte. È il legno della pace, poiché le vostre case sono costruite di abete. È il segno di una vita senza fine, poiché le sue foglie sono sempre verdi. Osservate come punta diritto verso il cielo. Che questo sia chiamato l’albero di Cristo Bambino; riunitevi intorno ad esso, non nella selva, ma nelle vostre case; là non si compiranno riti di sangue, ma doni d’amore e riti di bontà”.
      Nei secoli che seguirono, la tradizione cattolica di usare un albero sempreverde per celebrare la nascita di Gesù si diffuse in tutta la Germania, e immigrati tedeschi nel XVIII secolo portarono questa usanza in America, fino a che  diventò una consuetudine natalizia globale. 
      Le candele simboleggiavano la discesa dello Spirito Santo sulla terra con la venuta del “bambino Gesù”. San Bonifacio usò questa immagine per spiegare alle popolazioni pagane il senso del Natale.

Veronica Giacometti


domenica 24 dicembre 2017

A TUTTE E A TUTTI AUGURIAMO UN SANTO NATALE, ILLUMINATO DALLA LUCE DI CRISTO

"... E LA LUCE RISPLENDE TRA LE TENEBRE ..."

“Il mistero di Dio è luce. 
Questo è uno dei tratti del cristiano, che ha ricevuto la luce nel Battesimo e deve darla. 
Il cristiano è un testimone. 
La testimonianza è una delle peculiarità 
degli atteggiamenti cristiani. 
Un cristiano che porta questa luce, 
deve farla vedere perché lui è un testimone 
di Gesù Cristo, Luce di Dio. 
E deve mettere quella luce sul candelabro della sua vita”.
Papa Francesco


CONGRESSO NAZIONALE AIMC- IL PROGRAMMA

sabato 23 dicembre 2017

VIGILIA DI NATALE: ECCOMI!

Non dobbiamo aver paura dell’intervento potente di Dio nella nostra vita, come non dobbiamo temere le novità che il Signore dona alla vita della nostra famiglia. Egli desidera il nostro bene e manifesta la sua misericordia perché il nostro cuore viva nella gioia della sua amicizia.

IV Domenica di Avvento  -  24 dicembre 2017 


Dal Vangelo secondo Luca 1,26-38
Ecco concepirai un figlio e lo darai alla luce.
In quel tempo, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: «Rallègrati, piena di grazia: il Signore è con te». A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo. L’angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine». Allora Maria disse all’angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?». Le rispose l’angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio». Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola». E l’angelo si allontanò da lei.
 Nell’ultima tappa del nostro cammino di Avvento – che coincide quest’anno con la vigilia del Natale del Signore – la liturgia ci dona, come brano evangelico, il racconto dell’Annunciazione dell’angelo Gabriele a Maria (cf. Lc 1,26-38), una delle scene più belle che Luca ci trasmetta. Nella preparazione immediata alla nascita di Gesù, la Vergine occupa un posto particolarissimo, infatti, chi più e meglio di lei può introdurci nel mistero del Dio fatto uomo? Il suo Eccomi rappresenta la porta attraverso cui ogni discepolo deve passare, se vuole incontrare il bambino Gesù e sperimentare la potenza della sua grazia risanatrice. Guardando al presepe, ci accorgiamo che tutti coloro che sono giunti alla greppia hanno detto il loro a Dio e si sono messi in cammino. È questo che dobbiamo fare anche noi per lasciarci avvolgere dalla Luce vera che viene nel mondo ed essere, come Giovanni il Precursore, testimoni del Fuoco e della potenza del Cristo, per sperimentare come Giuseppe di Nazaret, il silenzio obbediente di chi lascia al Signore la possibilità di guidare i propri passi nel compiere il bene, per seguire Maria nell’affidarsi completamente a Dio, avvolti dalla grazia del suo Spirito a cui nulla è impossibile.
                                                                           Fra Vincenzo Ippolito, in Editrice Punto Famiglia

venerdì 22 dicembre 2017

OMOLOGATI DALLA SCUOLA FORMATO OCSE

Si parla di autonomia scolastica, nei fatti però lo sforzo legislativo degli ultimi due decenni si è risolto in un processo di standardizzazione Ma questo è davvero insegnamento?

                                                                                                                                                          di ROBERTO CARNERO

Forse mai come in questi ultimi anni, nella storia repubblicana si è parlato e si parla di scuola. Il dibattito intorno alla legge sulla 'buona scuola' (la legge 107 del 2015) è stato assai acceso, determinando una polarizzazione delle posizioni, a favore o contro i contenuti della legge. Secondo molti osservatori, quel provvedimento (un monstrum costituito da un unico articolo con 212 commi, per evitare emendamenti) passato grazie alla fiducia (quindi in assenza di un’adeguata discussione parlamentare) è stato una delle ragioni della caduta del governo di Matteo Renzi ('punito' al referendum da tanti insegnanti che non avrebbero accettato un simile diktat su una materia così complessa e delicata).                  Tuttavia con quella legge l’Italia non faceva altro che adeguarsi alle politiche scolastiche raccomandate dall’Ocse ai suoi Paesi membri (e recepite in quanto tali dall’Unione Europea), vale a dire gli Stati più industrializzati del mondo: dagli USA al Canada, dal Regno Unito alla Germania, dalla Svezia alla Corea del Sud. Che cosa viene chiesto di mettere in atto? Procedure, norme, programmi volti a implementare sostanzialmente due voci: la standardizzazione dei percorsi didattici e la misurazione dei risultati raggiunti. Sono obiettivi che stanno diventando sempre più una sorta di nevrosi ossessiva per i governi, i ministri dell’Istruzione e, a cascata, i responsabili degli uffici scolastici regionali, i presidi, gli insegnanti.
Standardizzare significa che tutti devono fare la stessa cosa. Misurare vuol dire valutare in maniera oggettiva il raggiungimento di certi parametri. Peccato che queste siano cose spesso antitetiche a un autentico lavoro educativo. Ogni vero maestro ha una sua dose di originalità che rifugge all’omologazione. L’educatore semina, ma molte volte non fa in tempo a vedere i frutti, che matureranno dopo. Esempio della pretesa di misurazione del successo dell’azione formativa sono le famigerate prove Invalsi, che dal prossimo anno scolastico verranno somministrate anche agli studenti dell’ultimo anno di scuola superiore. Si pretende di misurare anche il valore delle iniziative di aggiornamento dei docenti, comprese quelle programmate dagli enti formatori accreditati dallo stesso ministero dell’Istruzione.
Qualche giorno fa ho avuto una garbata discussione con il dirigente di un prestigioso liceo milanese, presso il quale alcuni docenti mi hanno chiesto di intervenire a un incontro sulla narrativa italiana degli ultimi decenni. Mi chiama al telefono questo preside, peraltro amico di vecchia data, e mi dice: «Carissimo, il convegno che state organizzando da noi è davvero bello, non vedo l’ora di parteciparvi. Ma quale sarà la ricaduta sulla didattica? Come possiamo misurare questo aspetto?». Ecco, anche lui vittima di questa ideologia del metro e del centimetro. La risposta alla sua domanda è infatti evidente: è chiaro che se i docenti di Italiano approfondiscono la produzione letteraria più recente saranno spinti ad affrontare in classe quei testi e quegli autori, giungendo così a svolgere finalmente una parte di programma quasi sempre trascurata.
Nel suo recente volume “Le dieci leggi del potere. Requiem per il sogno americano” (Ponte alle Grazie, pagine 178, euro 14,00) il celebre linguista Noam Chomsky denuncia esattamente tale tendenza «a ridurre l’istruzione a competenze meccaniche e a sminuire la creatività e l’autonomia, sia negli studenti sia negli insegnanti». Quegli slogan del 'didatticamente corretto' che oggi va per la maggiore, .....

Leggi. OMOLOGATI

mercoledì 20 dicembre 2017

A proposito di .... NATALE, SANTA CLAUS, BABBO NATALE, REGALI E ALTRO


“I regali te li porta Babbo Natale o Gesù Bambino?”. L’imbecillità del nostro mondo molesta i nostri figli tutti gli anni in Avvento. Bene inteso, “Avvento” lo diciamo noi giacché l’imbecillità ignora il calendario liturgico, accorgendosi che è maturo il tempo solo quando i negozi sono aperti la domenica e le strade più intasate. Ma, sia come sia, la guerra civile del Natale torna puntuale ogni dicembre.
       Partiamo dal principio, i regali. In dicembre se ne scambiavano già gli antichi Romani che, tra il 17 e il 24, celebravano i Saturnalia, le feste del dio Saturno precedenti il giorno del Sol Invictus, il 25. Come racconta Marco Terenzio Varrone (116-27 a.C.), a istituire lo scambio dei doni fu il re dei Sabini Tito Tazio (morto attorno al 745 a.C.), quello che per cinque anni regnò sui Romani assieme al loro primo sovrano, Romolo, in seguito al famoso ratto delle donne che di fatto fuse i due popoli. Lo fece per augurare il bene con l’omaggio (religioso) di un ramoscello colto nel bosco sacro a Strenia (o Strenua), dea della prosperità e del buon auspico, da cui il sostantivo “strenna”. I cristiani hanno fatto però molto di più. Guidati dalla Stella, gli umili (i pastori) e i potenti (i magi) si sono inchinati al vero Dio fattosi uomo nella grotta di Betlemme donando i propri tesori: armenti i pastori, e oro, incenso, mirra i magi. Il gesto del vassallaggio al re dei re è, nel profondo, il dono di sé al Dio vero incarnato. Dando sé a Dio, l’uomo corrisponde a Dio il quale all’uomo dà il proprio Figlio sino alla morte in Croce. Gli uomini che si scambiano doni a Natale si ridonano a Dio riconoscendo Gesù nel prossimo. La guerra civile dei grandi magazzini non c’entra, ma vediamone lo stesso i combattenti.
            Anzitutto Babbo Natale, che va liberato dalla schiavitù del “buone feste”. È infatti un grande santo, un grande vescovo. La sua tradizionale livrea rossa è il manto dei successori degli Apostoli. Nacque nel 270 in Licia, che oggi è parte della Turchia, con il nome di Nicola. Fu vescovo di Myra (oggi Demre) dove morì nel 343, il 6 dicembre, data fissata dalla Chiesa per la sua memoria liturgica (allora, vigente il calendario giuliano, era il 19). Quando i suoi facoltosi genitori morirono di peste, Nicola distribuì le ricchezze ai poveri diventando l’“uomo dei doni a dicembre”. Si narra che abbia pure risuscitato tre bambini, uccisi da un oste per essere divorati. Per questo nel Medioevo è diventato l’uomo che in Avvento porta i regali ai più piccoli, proprio il 6 dicembre. .....


venerdì 15 dicembre 2017

VOCE DI COLUI CHE GRIDA NEL DESERTO : "RADDRIZZATE LE VIE DEL SIGNORE!"

        Chi sei? Cosa dici di te stesso?                
   Terza domenica di avvento Is 61,1-2.10-11/ Ts 5,16-24/ Gv 1, 6-8.19-28 


  "19 Questa è la testimonianza di Giovanni, quando i Giudei mandarono da Gerusalemme dei sacerdoti e dei Leviti per domandargli: «Tu chi sei?» 20 Egli confessò e non negò; confessò dicendo: «Io non sono il Cristo». 21 Essi gli domandarono: «Chi sei dunque? Sei Elia?» Egli rispose: «Non lo sono». «Sei tu il profeta?» Egli rispose: «No». 22 Essi dunque gli dissero: «Chi sei? affinché diamo una risposta a quelli che ci hanno mandati. Che dici di te stesso?» 23 Egli disse: «Io sono la voce di uno che grida nel deserto:"Raddrizzate la via del Signore", come ha detto il profeta Isaia». 24 Quelli che erano stati mandati da lui erano del gruppo dei farisei; 25 e gli domandarono: «Perché dunque battezzi, se tu non sei il Cristo, né Elia, né il profeta?» 26 Giovanni rispose loro, dicendo: «Io battezzo in acqua; tra di voi è presente uno che voi non conoscete, 27 colui che viene dopo di me, al quale io non sono degno di sciogliere il legaccio dei calzari!»"

C’è sempre qualcuno che ha bisogno di identificare, di incasellare, di definire. O, in questo caso, di indagare per rilasciare patentini di santità. 
È un sacerdote, ma non frequenta il tempio. 
È un profeta, ma non cerca le folle, anzi, fugge nel deserto.
È cercato e amato, ma sembra respingere, infastidito, quanti lo cercano con insistenza. 
Giovanni l’evangelista, probabilmente suo discepolo, dice di lui che è un testimone. Il testimone parla di qualcun altro, di qualcos'altro. Non di sé. 
A noi, abituati a cercare visibilità e riconoscimento, incontrare uno che si identifica in funzione di un altro, mette i brividi. 
Noi che passiamo la vita a cercare titoli e riconoscimenti (scrivente in primis), incontrare uno che ragione per sottrazione manda in crisi. 
Eppure Giovanni è così. Quando parla di sé, dice io non sono. Perché se non siamo capaci di denudarci davanti a Dio, se non siamo capaci di semplificare il nostro pensiero e il nostro desiderio, e non cercare altrove la nostra identità, di non vivere appesi al giudizio e al riconoscimento altrui, non riusciremo a far nascere i rinascere Cristo in noi. 
Chi sei? Cosa dici di te stesso? 
Rivolgessero a me questa domanda non avrei dubbi. Ed elencherei i miei titoli di studio, il mio lavoro, le mie pubblicazioni, le cifre da capogiro degli internauti che mi leggono. E con malcelato orgoglio sottolineerei con garbo i successi, minimizzando i fiaschi. Certamente mi definirei a partire da ciò che faccio, da ciò che so, da ciò che mi viene riconosciuto. 
Giovanni Battista no. Tutti pensano che egli sia il Messia. Glielo si legge sui volti. Migliaia di pellegrini che lasciano la comoda Gerusalemme per scendere nel deserto. Brava gente che nel tempio e nelle sue liturgie sfarzose si sente a disagio. E cerca testimoni. Il testimone. 
Se Giovanni dicesse ciò che tutti immaginano, verrebbe portato trionfalmente nella città santa. Ma non è così. Non sono il Cristo. Non si prende per Dio, ci mancherebbe. Lo idolatrano, come facciamo anche noi davanti a persone coinvolgenti, a uomini di Dio affascinanti e credibili. 
E Giovanni li allontana infastidito. 
Per accogliere il re dobbiamo smetterla di crederci re. 
Se vogliamo incontrare Dio, dobbiamo smetterla di essere dio di noi stessi. 
Piccoli narcisisti che si mettono sempre al centro. O che si lamentano di non essere al centro. O che fanno le vittime per attirare l’attenzione ed essere messi al centro. 
Giovanni no, la sua vita è in riferimento ad altro. Ad un Altro. 
Allora cosa sei? 
Cominciamo a sottrarre...... 


GENITORI, FIGLI, NUOVE TECNOLOGIE. La sfida di educare.

 Lassiste o permissive, luddiste o mediattive: tutti i modi in cui le famiglie si rapportano alla tecnologia in casa. 
Il digitale richiede un nuovo approccio.
Gli «errori» dei genitori con i figli iperconnessi.  Attenti ai falsi miti, i ragazzi comunicano e leggono di più. 
A mancare è il silenzio.
La comunicazione vera non è solo quella «faccia a faccia», la relazione digitale si affianca e si integra con quella in presenza, non la sostituisce mai.

                                                                                                                     di GIGIO RANCILIO

Lassista, restrittiva, permissiva, luddista, affettiva e mediattiva. Sono sei i modelli di famiglia (rispetto ai consumi mediali dei figli) evidenziati nel capitolo del Rapporto Cisf 2017 «Media digitali e social, educazione e famiglia», curato da Pier Cesare Rivoltella – direttore del Centro di Ricerca sull’Educazione ai Media, all’Informazione e alla Tecnologia dell’Università Cattolica.
Ben quattro tipi di famiglia, pur con comportamenti opposti sono considerati a basso impatto educativo. «Le Famiglie lassiste e quelle permissive rinunciano a mediare il rapporto dei figli con le tecnologie digitali, mentre la famiglia luddista risolve la mediazione nella scelta estrema di espellere i media dall’universo familiare (in questo modo pensando di non dover più esercitare alcuna mediazione). La famiglia restrittiva ha un livello alto di controllo (i genitori leggono le email ricevute dal figlio, lo costringono a navigare in casa, verificano i siti che ha visitato) ma un basso livello di educazione. La Famiglia affettiva invece incoraggia i figli ad usare i media digitali e condivide con gli stessi il consumo, ma non fornisce loro strumenti per diventare fruitori critici».

L’unica che sembra centrare gli obiettivi educativi in maniera efficace è la «famiglia mediattiva». Come? «È fortemente presente nel lavoro di mediazione delle pratiche mediali dei figli. I genitori discutono con i figli, indicano cosa è bene e cosa è male, ne spiegano le ragioni, aiutano i figli a smontare i contenuti e a leggere sullo sfondo di essi. E così facendo li aiutano a elaborare un pensiero critico». Stando a una ricerca dell’Universidad de Navarra, condotta su un campione di circa 25.000 adolescenti e citata nel capitolo, il 36% dei genitori non applica alcun controllo sull’uso dei media digitali da parte dei figli, mentre il 27% si limita «a dare un’occhiata a ciò che fanno i minori su Internet». Se siete genitori e la rivoluzione digitale sta mettendo a dura prova le vostre vite (già impegnate e impegnative), sappiate che la colpa non è solo vostra........

                                   


GENITORI E NUOVE TECNOLOGIE - Che genitore sei?

CHE GENITORE SEI?

1 - FAMIGLIA RESTRITTIVA
Alto livello di controllo dei genitori (che leggono mail e messaggi dei figli, controllano la navigazione sul web) ma basso livello di educazione
2 - FAMIGLIA PERMISSIVA
È caratterizzata da un basso livello di educazione e da un basso livello di controllo (i genitori lasciano fare, non si pongono il problema.
3 - FAMIGLIA AFFETTIVA
I genitori controllano poco quello che fanno i figli nel digitale ma hanno un alto livello di presenza educativa, che si manifesta attraverso l’aiuto costante nei confronti del figlio, la condivisione del consumo, la forte convivialità.
4 - FAMIGLIA LUDDISTA
Poco frequente, è la famiglia che elimina i media dall’universo familiare, procrastinando sine die il momento dell’acquisto del primo smartphone ai figli. L’atteggiamento di controllo in questo caso è spinto alle estreme conseguenze, fino a configurare forme di vera e propria iconoclastia.
5 - FAMIGLIA LASSISTA
Anch’essa non molto rappresentata, non vede come i media digitali e sociali rappresentino un problema educativo, lascia fare, confida che comunque i propri figli siano sufficientemente attrezzati per cavarsela.
6 - FAMIGLIA MEDIATTIVA
Rispetto alla famiglia affettiva, questo modello di famiglia è molto più attento alle pratiche dei figli, soprattutto alla loro elaborazione nella direzione dello sviluppo del pensiero critico.