La storia di Miklós Radnoti
e di Fanni Gyarmati, ungheresi:
lui, ebreo, venne spedito
in un campo
di concentramento.
Da cui emersero le sue poesie.
- di Alessandro D’Avenia
Gli
innamorati si danno sempre soprannomi, perché vedono ciò che il mondo non vede.
Loro scelsero i fanciulleschi Mik e Fifi, perché amare è custodire il bambino
che c'è nell'altro o curare il bambino che l'altro non è potuto essere.
Lui
è Miklós Radnoti, ebreo, promessa della poesia ungherese, occhi malinconici per
nostalgia della madre morta dandolo alla luce; lei Fanni Gyarmati, insegnante,
occhi azzurri quanto il suo amore per la letteratura. Quando la gente li vede
passeggiare nella capitale ungherese desidera entrare nel loro cono di luce,
che le loro foto insieme mostrano.
Si
erano riconosciuti a una lezione di matematica, lui 17, lei 14, nel 1926, e
sposati nove anni dopo. Altri nove ne sono passati, con le luci e le ombre di
ogni capolavoro, quando nel 1944 i nazisti occupano l'Ungheria e mandano Mik in
un campo di lavoro da dove riesce a scrivere a Fifi parole essenziali, come i
suoi versi: «Sei tu a dare un senso alla mia vita. Resterò in vita per
te».
Eppure
la guerra finisce e trascorrono i mesi, 18, senza notizie. E lei che legge e
rilegge quella promessa capisce: ha scritto «resterò in vita», e non «tornerò».
E così lo va a cercare nel campo in cui era stato deportato. Vuoto. Chi ama non
si dà per vinto, ma per vivo. E continua a cercare. Dove?
Scopre
che i prigionieri erano stati portati dai tedeschi in un'altra località vicina,
Bor, in Serbia, in una notte di novembre, di ghiaccio e di sangue. Anche lì
dopo un anno e mezzo domina un apparente silenzio, nel quale lei, mentre
passeggia tra le baracche vuote, ricorda (che cosa è la memoria se non vita che
non può più morire?) un verso di Mik: «ero fiore, sono diventato radice», che
solo ora può capire, fissando un cespuglio di fiori bianchi sopra il terreno
smosso. «Ubi amor ibi oculus», dicevano i mistici medievali: chi ama, vede,
perché l'amore non acceca ma ci vede benissimo...
E
così chiede ai soldati di presidio di scavare, lì sotto. Loro non resistono al
dolore che ha reso quella donna folle e, per pietà, l'assecondano, in realtà è
lei l'unica lucida, l'unica ad amare e quindi a vederci bene. Infatti le radici
di quei fiori sono i corpi di una fossa comune dove, un anno e mezzo prima,
erano stati gettati i prigionieri. Ora restano solo vestiti laceri su ossa
irriconoscibili, ma Fanni scorge un cappotto familiare su cui è incollato il
numero 12, fruga nelle tasche e trova un taccuino dalla grafia inconfondibile,
che parla proprio a lei in forma di poesia:
«Vedi,
cara, il campo dorme, i sogni frusciano./ ...Io solo/ sono sveglio, assaporo un
mozzicone invece di un tuo bacio/ e il sonno tarda a darmi conforto, perché/
ormai non posso più morire né vivere senza di te».
Lo
psichiatra ebreo Viktor Frankl, sopravvissuto ai campi di sterminio, avrebbe
avuto ulteriore conferma di ciò che sosteneva: hanno resistito soprattutto
quelli che, oltre il filo spinato, avevano qualcosa da portare a compimento, un
pezzo di mondo per cui erano insostituibili, per Mik era Fifi. Con lei, durante
i giorni di prigionia, aveva infatti intrattenuto un dialogo in versi
nell'unico tempo verbale che conosce la poesia: l'eterno presente.
E
in versi intitolati Lettera alla sposa le scrive: «Non so più quando potrò
vederti di nuovo,/ bella come la luce, bella come l’ombra,/ colei che
ritroverei anche da cieco e muto./ Sposa e amica./ So che ti ritroverò,/ ho
percorso per te la lunghezza interminabile dell’anima,/ e strade di paesi; se
serve con una magia attraverserò/ braci di porpora, fiamme che precipitano, ma
tornerò».
«Percorrere
la lunghezza interminabile dell'anima per tornare» è una delle più accurate
definizioni d'amore che io conosca.
Mik
si era trascinato per trenta chilometri nella notte gelata, mentre lo
picchiavano ripetendogli «ecco lo scribacchino!». e poi un giorno gli avevano
sparato. Ma proprio la sua scrittura aveva tracciato la via del ritorno,
infatti il taccuino che Fanni aveva in mano, il Taccuino di Bor, è l'unica
raccolta di poesie sopravvissuta a un campo di concentramento.
Mik,
morto a 35 anni, aveva mantenuto la promessa, «resterò in vita per te», ma il
«per» significava anche «grazie a»; e Dio aveva ascoltato la preghiera che
Fanni ripeteva da quando avevano catturato Mik: «prendi me al suo posto». Dio
esaudisce a modo suo, perché le preghiere non servono a cambiare la realtà ma a
cambiare chi le fa, e così Fanni visse fino al 2014, 102 anni, facendo memoria
di Mik: gli anni sottratti a lui furono dati a lei che non smise di ripetere il
suo nome al mondo e l'orrore del nazismo.
Ho
inserito questa storia tra quelle dedicate alle donne di Ogni storia è una
storia d'amore, e raccontarla una volta ancora è il mio modo di vivere
l'odierna Giornata della Memoria, di cui Fanni e Miklós sono
l'incarnazione.
Lei
frugò anche nell'altra tasca del cappotto di lui, a sinistra, e vi trovò due
fotografie. Una era di lei bambina, l'altra di lei donna. Mik le teneva vicine
al cuore per ricordarsi che amare è custodire il destino dell'altro, il bambino
nell'altro. Era davvero rimasto vivo per lei, e lei rimase viva per lui, perché
fare memoria non è suscitare sensi di colpa ma dare vita.
Fanni
si sarà chiesta tante volte, dove fosse finito il Dio in cui credeva durante
quegli anni. Ma non si servì mai di quella domanda per giustificarne
l'inesistenza, perché conosceva la risposta:
«Ero dove era l'amore, ero dove
era il dolore.
Ero dove era tuo marito, ero dove eri tu.
Sono dove siete voi. E
lì sarò sempre».
Corriere della Sera
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