lunedì 30 aprile 2018

AGLI ALGORITMI SERVE LA TESTA

Cosa resta dell’uomo 
in un mondo fondato 
sui big data?
Diversi ricercatori criticano l’attuale ossessione per il pensiero computazionale e sostengono invece lo studio della filosofia e della poesia. 
Solo la capacità di dare senso alle nostre azioni ci salverà dall’omologazione. 
Ecco perché le discipline umanistiche “governeranno” il digitale.


di SIMONE PALIAGA

«In quale situazione di grande svantaggio potremmo finire, noi e il mondo, se costringessimo le nostre menti ad affrontare tutti i problemi allo stesso modo», si chiede Josh M. Olejarz sulla “Harvard Business Review” dello scorso agosto in un articolo titolato esplicitamente “ Liberal Arts in Data Age”.
E sì! Un mondo ad altezza di algoritmi, pensiero computazionale e big data non potrebbe essere che un mondo a senso unico. Se ne avvede anche la prestigiosa rivista di management di una delle università faro del liberismo. A sottrarci a questa deriva sarebbero, secondo Oleajarz, filosofia, letteratura e poesia. Oggi in effetti non c’è azione o comportamento che non sia guidato da un algoritmo o tradotto in una serie di istruzioni meccanicisticamente risolvibili. In una realtà dove tutto è codificato, declinato in protocolli e interpretabile da algoritmi cosa resterebbe dell’uomo?
Nel 1956 Günther Anders definì l’essere umano al tempo delle tecno- logie diffuse come antiquato. Con questa espressione intendeva dire obsoleto, incapace di rimanere al passo con la “performatività” pretesa dal funzionamento delle tecnologie. Con azioni e comportamenti umani istantaneamente processati, anticipati o condizionati da algoritmi, vale a dire da una sequela di istruzioni preconfezionate, che spazio rimane all’imprevisto e dunque alla libertà degli uomini? Olejarz non esita a mettere sotto accusa l’attuale ossessione per il coding, il pensiero computazionale, e per le cosiddette Stem (acronimo di Science, Technology, Engineering and Mathematics). Se trionfassero tutto il mondo adotterebbe le stesse strategie di pensiero e ragionerebbe alla stessa maniera. E non sarebbe certo uno spettacolo edificante vedere miliardi di uomini trovare le stesse soluzioni a problemi uguali.
Gli dà ragione Scott Hartley con il suo The Fuzzy and the Techie (Houghton Mifflin Harcourt, pagine 304, euro 16,99) il cui sottotitolo è sufficientemente esplicito: perché le discipline umanistiche governeranno il mondo digitale. Dall’esigenza di superare la dicotomia tra i nerd delle tecnologie e i secchioni umanisti (questione trita e ritrita dai tempi di Snow) il venture capitalist ricava però un problema delicato. Il mondo di oggi è così complesso, interdipendente e volto a repentini cambiamenti che agli studenti non deve essere offerto un percorso formativo incentrato solo su discipline scientifiche. Al centro del curricolo di studi dovrebbero trovare posto filosofia e poesia, arte e letteratura. Alle discipline umanistiche spetterebbe il compito di rendere elastiche e flessibili le menti dei giovani, capaci così di prospettare soluzioni innovative e scenari controfattuali. Non si potrebbe spiegare altrimenti il successo del filosofo Stewart Butterfield a capo di Slack e cofondatore di Flickr. O di Jack Ma, al timone di Alibaba con un cursus studiorum di anglistica, e Susan Wojcicki, Ceo di YouTube dopo studi di storia e letteratura. O ancora di Brian Chesky, esperto di belle arti, che capitana Airbnb. «Naturalmente – precisa Hartley – non che non si abbia bisogno di esperti tecnici ma occorrono anche persone che comprendano i perché e i come del comportamento umano».
Eppure Hartley, probabilmente per formazione, motiva la difesa della filosofia e della letteratura mostrandone il peso nel successo economico. Diversa invece è la posizione di Gary Saul Morson e Morton Schapiro nel loro Cents and Sensibility( Princeton University Press, pagine 320, euro 22,50). Il docente di letteratura russa e l’economista della Northwestern University riabilitano la letteratura. Essa non sarebbe una disciplina residuale ma uno strumento per rendere aderenti alla realtà predizioni e analisi degli economisti. Anche perché l’homo oeconomicus, richiamato dalle scienze economiche, nella realtà non esiste. Letteratura e economia, «due culture, un fine comune: costruire un mondo – scrivono – che non attinga esclusivamente all’economia, alla medicina, all’ingegneria e alla scienza per rendere le vite solo più lunghe e prospere. Ma in cui le discipline umanistiche e le arti possano rendere quelle vite migliori. Integrare il rigore quantitativo, l’attenzione all’organizzazione e la logica economica con l’empatia, la prudenza e la saggezza proprie delle discipline umanistiche », è la via per sottrarsi ai diktat degli algoritmi.   
Se invece dovessero prevalere rischierebbe di sfuggirci il senso del nostro operare. E proprio Sensemaking si intitola il libro di Christian Madsbjerg (Hachette Books, pagine 240, euro 17,56) che difende «l’indispensabilità delle discipline umanistiche nell’epoca degli algoritmi». Secondo Madsbjerg la fissazione per i dati spesso maschera incredibili carenze con rischi per l’umanità. La devozione cieca ai numeri mette in pericolo le imprese, il mondo della scuola, i governi e le vite dei singoli. Solo la capacità di dare senso alle nostre azioni, il sensemaking appunto, proveniente da filosofia e poesia «insegna – ammonisce l’autore – a individuare cosa meriti la nostra attenzione e a stabilire cosa realmente conti».

Da Avvenire

sabato 28 aprile 2018

LA VITE E I TRALCI - Vangelo della domenica

Gesù è la vite.
 E noi i tralci, 
nutriti dalla linfa dell'amore 
 
In In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l'agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me.
 Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli».
  
 Una vite e un vignaiolo: cosa c'è di più semplice e familiare? Una pianta con i tralci carichi di grappoli; un contadino che la cura con le mani che conoscono la terra e la corteccia: mi incanta questo ritratto che Gesù fa di sé, di noi e del Padre. Dice Dio con le semplici parole della vita e del lavoro, parole profumate di sole e di sudore.

Non posso avere paura di un Dio così, che mi lavora con tutto il suo impegno, perché io mi gonfi di frutti succosi, frutti di festa e di gioia. Un Dio che mi sta addosso, mi tocca, mi conduce, mi pota. Un Dio che mi vuole lussureggiante. Non puoi avere paura di un Dio così, ma solo sorrisi. Io sono la vite, quella vera. Cristo vite, io tralcio. Io e lui, la stessa cosa, stessa pianta, stessa vita, unica radice, una sola linfa.
 
Novità appassionata. Gesù afferma qualcosa di rivoluzionario: Io la vite, voi i tralci. Siamo prolungamento di quel ceppo, siamo composti della stessa materia, come scintille di un braciere, come gocce dell'oceano, come il respiro nell'aria. Gesù-vite spinge incessantemente la linfa verso l'ultimo mio tralcio, verso l'ultima gemma, che io dorma o vegli, e non dipende da me, dipende da lui. E io succhio da lui vita dolcissima e forte.

Dio che mi scorri dentro, che mi vuoi più vivo e più fecondo. Quale tralcio desidererebbe staccarsi dalla pianta? Perché mai vorrebbe desiderare la morte? E il mio padre è il vignaiolo: un Dio contadino, che si dà da fare attorno a me, non impugna lo scettro ma la zappa, non siede sul trono ma sul muretto della mia vigna. A contemplarmi. Con occhi belli di speranza.
 
Ogni tralcio che porta frutto lo pota perché porti più frutto. Potare la vite non significa amputare, bensì togliere il superfluo e dare forza; ha lo scopo di eliminare il vecchio e far nascere il nuovo. Qualsiasi contadino lo sa: la potatura è un dono per la pianta. Così il mio Dio contadino mi lavora, con un solo obiettivo: la fioritura di tutto ciò che di più bello e promettente pulsa in me.

Tra il ceppo e i tralci della vite, la comunione è data dalla linfa che sale e si diffonde fino all'ultima punta dell'ultima foglia. C'è un amore che sale nel mondo, che circola lungo i ceppi di tutte le vigne, nei filari di tutte le esistenze, un amore che si arrampica e irrora ogni fibra. E l'ho percepito tante volte nelle stagioni del mio inverno, nei giorni del mio scontento; l'ho visto aprire esistenze che sembravano finite, far ripartire famiglie che sembravano distrutte.
 
E perfino le mie spine ha fatto rifiorire. «Siamo immersi in un oceano d'amore e non ce ne rendiamo conto» (G. Vannucci). In una sorgente inesauribile, a cui puoi sempre attingere, e che non verrà mai meno.
 
(Letture: Atti 9,26-31; Salmo 21; 1 Giovanni 3,18-24; Giovanni 15,1-8).
  
Ermes Ronchi
 

(tratto da www.avvenire.it)

giovedì 26 aprile 2018

DSA. I DATI DEL 2016-17


I valori: 

Liguria, 4,9%;  Valle d’Aosta, 4,8%;  Piemonte e Lombardia, 4,5%; Sicilia, 1,1%; Campania,0,9%; 
Calabria, 0,7%
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Il Miur ha pubblicato i dati relativi agli Alunni con Disturbi Specifici dell’Apprendimento nell’a.s. 2016/2017 (DSA).
Sono complessivamente 254.614 le alunne e gli alunni delle scuole italiane di ogni ordine e grado con DSA, pari al 2,9% del totale della popolazione studentesca dell’anno scolastico 2016/2017.
La percentuale più alta si trova nella scuola secondaria di I grado: sono il 5,40% dei frequentanti, contro il 4,03% della secondaria di II grado e l’1,95% della primaria. Le scuole dell’infanzia hanno trasmesso dati riguardo a casi sospetti di DSA: 774 bambini nel 2016/2017, pari allo 0,05% del totale dei frequentanti.
Gli alunni con DSA sono maggiormente presenti nelle regioni del Nord-Ovest (4,5% sul totale della popolazione studentesca), seguite dalle regioni del Centro (3,5%), del Nord-Est (3,3%) e del Sud (1,4%).
I valori più elevati si rintracciano in Liguria (4,9%), Valle d’Aosta (4,8%), Piemonte e Lombardia (entrambe 4,5%); le percentuali più basse, invece, si rilevano in Sicilia (1,1%), Campania (0,9%) e Calabria (0,7%).
La dislessia è il disturbo più diffuso (42,5% delle certificazioni), anche se più disturbi possono coesistere in una stessa persona; seguono le certificazioni per disortografia (20,8%), discalculia (19,3%) e disgrafia (17,4%).
Dal 2010/2011 al 2016/2017 si è registrata una notevole crescita delle certificazioni di DSA dovuta all’introduzione della legge n. 170/2010 grazie alla quale la scuola ha assunto un ruolo di maggiore responsabilità nei confronti degli alunni con questi disturbi.



da CERIPNEWS - http://www.ceripnews.it/
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sabato 21 aprile 2018

RISCOPRIRE IL SACERDOZIO COMUNE PER RINNOVARE LA CHIESA

Il termine “sacerdote” ha assunto nei secoli una tale forza di identificazione col “prete” (o col presbitero) da diventarne semplicemente un “sinonimo”. Le domande come: «è in casa il sacerdote?» o le esclamazioni come «benvenuto al novello sacerdote» hanno costellato le nostre esperienze da secoli. In questa cultura comune, alimentata anche da una teologia compiacente, parlare di “sacerdozio comune” diventa molto difficile e profondamente equivoco.

Per capire bene questa locuzione, dobbiamo soffermarci su un altro fatto singolare. Nel NT il termine “sacerdote” è attribuito o a Cristo, o al “popolo di Dio”. Cristo è l’unico sacerdote e, mediante il battesimo, tutti i battezzati diventano, in Cristo, sacerdoti, profeti e re. Parliamo quindi di “sacerdozio comune” perché il sacerdozio di Cristo è comunicato, con il battesimo, a tutti gli uomini e le donne che diventano “figli di Dio”.

Perciò il “sacerdozio comune” non ha nulla a che fare con una “estensione” del potere gerarchico al popolo di Dio. Semmai significa il contrario: che la sede originaria del sacerdozio non è nella gerarchia, ma in Cristo e nella Chiesa. Quello che chiamiamo “sacerdote” - ossia il presbitero e il vescovo - sono “ministeri al servizio del sacerdozio di Cristo e della Chiesa”.  

Per meglio comprendere il senso ecclesiale e cristologico di questa espressione, andiamo a ritrovarla nei due testi che ne hanno autorevolmente determinato la nuova scoperta, ossia in Lumen Gentium 10 e 11. LG 10 dice così: «Cristo Signore, pontefice assunto di mezzo agli uomini (cfr. Eb 5,1-5), fece del nuovo popolo “un regno e sacerdoti per il Dio e il Padre suo” (Ap 1,6; cfr. 5,9-10).
 
Infatti per la rigenerazione e l’unzione dello Spirito Santo i battezzati vengono consacrati per formare un tempio spirituale e un sacerdozio santo, per offrire, mediante tutte le attività del cristiano, spirituali sacrifici, e far conoscere i prodigi di colui, che dalle tenebre li chiamò all’ammirabile sua luce (cfr. 1 Pt 2,4-10).
 
Tutti quindi i discepoli di Cristo, perseverando nella preghiera e lodando insieme Dio (cfr. At 2,42-47), offrano se stessi come vittima viva, santa, gradevole a Dio (cfr. Rm 12,1), rendano dovunque testimonianza di Cristo e, a chi la richieda, rendano ragione della speranza che è in essi di una vita eterna (cfr. 1 Pt 3,15). Il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale o gerarchico, quantunque differiscano essenzialmente e non solo di grado, sono tuttavia ordinati l’uno all’altro, poiché l’uno e l’altro, ognuno a suo proprio modo, partecipano dell’unico sacerdozio di Cristo.
 
Il sacerdote ministeriale, con la potestà sacra di cui è investito, forma e regge il popolo sacerdotale, compie il sacrificio eucaristico nel ruolo di Cristo e lo offre a Dio a nome di tutto il popolo; i fedeli, in virtù del loro regale sacerdozio, concorrono all’offerta dell’eucaristia, ed esercitano il loro sacerdozio col ricevere i sacramenti, con la preghiera e il ringraziamento, con la testimonianza di una vita santa, con l’abnegazione e la carità operosa».
 
LG 11 afferma: «Il carattere sacro e organico della comunità sacerdotale viene attuato per mezzo dei sacramenti e delle virtù. I fedeli, incorporati nella Chiesa col battesimo, sono destinati al culto della religione cristiana dal carattere sacramentale; rigenerati quali figli di Dio, sono tenuti a professare pubblicamente la fede ricevuta da Dio mediante la Chiesa. Col sacramento della confermazione vengono vincolati più perfettamente alla Chiesa, sono arricchiti di una speciale forza dallo Spirito Santo e in questo modo sono più strettamente obbligati a diffondere e a difendere la fede con la parola e con l'opera, come veri testimoni di Cristo.
 
Partecipando al sacrificio eucaristico, fonte e apice di tutta la vita cristiana, offrono a Dio la vittima divina e se stessi con essa; così tutti, sia con l'offerta che con la santa comunione, compiono la propria parte nell'azione liturgica, non però in maniera indifferenziata, bensì ciascuno a modo suo. Cibandosi poi del corpo di Cristo nella santa comunione, mostrano concretamente la unità del popolo di Dio, che da questo augustissimo sacramento è adeguatamente espressa e mirabilmente effettuata».
 
Questi due testi aprono uno sguardo nuovo sul “sacerdozio”, restituendo al termine i suoi due significati fondamentali: sacerdote è Cristo e sacerdotale è la comunità dei discepoli. Il ministero dei presbiteri e dei vescovi “serve” il sacerdozio di Cristo e quello della Chiesa. Nel percorso che abbiamo tracciato, abbiamo notato come il grande testo di LG chiede alla generazione dei cristiani di oggi una intelligenza ermeneutica delle sue intenzioni in cui la relazione tra continuità e discontinuità delle tradizioni trovi nuovo coraggio e audacia.

Qualificare la lettura che LG propone della Chiesa non è così facile come poteva apparire fino a qualche anno fa. Tale lettura certamente non è “classica” - se per classica si intende la visione medievale e tridentina della Chiesa. Tuttavia essa non è neppure assimilabile semplicisticamente ad una interpretazione “liberale”, costruita dal pensiero moderno e dal suo arrischiato metodo dell’immanenza, come vorrebbero sostenere tutti i nemici - dichiarati o clandestini - del concilio Vaticano II. 
 
LG 11 è un testo che rassicura la tradizione uscendo sia dalle secche del modello “classico” sia dai rischi del modello liberale. Potremmo dire, in modo forse anche azzardato, che LG 11 ci propone una lettura “post-liberale”: può annunciare la Chiesa come “communitas”  anche e forse soprattutto in un mondo “non più semplicemente moderno”.
 
Parafrasando un famoso titolo di J. Bossy, LG permette alla Chiesa di passare dall’individuo alla comunità, così reagendo alla tendenza dominante che viene non già dal modernismo, o dall’illuminismo, ma dalla sintesi tra visione tridentina e reazione antimoderna nella visione della Chiesa. Il nome di questa svolta è “sacerdozio comune”, o, meglio ancora, “comunità sacerdotale”.
 
Andrea Grillo
 

(articolo tratto da www.messaggerocappuccino.it)


giovedì 19 aprile 2018

LA PRIORITA' EDUCATIVA . Conferenza nazionale AIMC 2018

Conferenza nazionale 2018
La priorità educativa
Roma, 19-20 maggio 2018
Centro nazionale AIMC
Clivo di Monte del Gallo, 48

PROGRAMMA

Sabato 19 maggio

ore 10.00 
Accoglienza

ore 10.15
La priorità educativa - il nostro oggi per il domani
Desideri Giuseppe, presidente nazionale AIMC


Gaudete et exsultate: ricercare la santità oggi
p. Giuseppe Oddone, assistente nazionale AIMC


Fare Rete, essere Rete
Esther Flocco, segreteria nazionale AIMC


Dibattito
Modera Francesca De Giosa, vicepresidente nazionale AIMC

ore 13.30    
Pranzo
       
ore 15.30
Gruppi di discussione

ore 20.00
Cena


Domenica 20 maggio

ore 8.45
Celebrazione eucaristica
Presiede p. Giuseppe Oddone, assistente nazionale AIMC

ore 9.45
Workshop
- La nuova tutela della privacy
- Organizzare la formazione
- La gestione amministrativa in Aimc

ore 11.45
Confronto e discussione in plenaria


ore 13.00

Coordina Giacomo Zampella, vicepresidente nazionale AIMC

Conclusioni
Giuseppe Desideri, presidente nazionale AIMC

Informazioni e iscrizione: aimc@aimc.it




lunedì 16 aprile 2018

I "GRANDI INSEGNANTI" NON INSEGNANO. DANNO L'ESEMPIO.

         Silvia Carnini Pulino (che si firma “Spulino” nel suo blog), direttrice dell’Institute for Entrepreneurship  (sede di Roma), collegato a John Cabot University e Harvard Business School, è stata una testimone privilegiata del Global Teacher Prize del 2018, il premio annuale al “migliore insegnante del mondo” promosso dalla Varkey Foundation, la fondazione filantropica con sede a Dubai – capitale di uno dei sette emirati che compongono gli Emirati Arabi Uniti – creata da Sunny Varkey, un imprenditore di origine indiana che ha costruito un impero multinazionale nel campo dell’offerta di scuole private e di servizi educativi in decine di Paesi nel mondo.
 Silvia Carnini Pulino (che si firma “Spulino” nel suo blog), direttrice dell’
           Spulino condivide la filosofia dell’iniziativa, che ha la finalità di incentivare e premiare l’impegno individuale dei docenti che operano nelle situazioni più difficili e che affrontano con coraggio e fantasia compiti ritenuti impossibili, nella convinzione che i buoni esempi possano produrre effetti di imitazione e diffusione. Alle selezioni hanno partecipato con successo anche insegnanti italiani, Barbara Riccardi l’anno scorso e Annamaria Berenzi quest’anno.
            Dall’incontro con i “grandi insegnanti” incontrati a Dubai, del quale dà conto nel suo blog, Spulino ricava alcune indicazioni di carattere generale, che riassume in tre punti, che costituiscono nel loro insieme il filo rosso che congiunge storie personali ed esperienze diversissime come quelle dei 10 finalisti, scelti tra i migliori insegnanti di 65 diversi Paesi: il primo è che “i grandi insegnanti pensano innanzitutto ai loro studenti”, adattando la didattica alle loro specifiche esigenze e possibilità; il secondo è che “i grandi insegnanti non hanno paura delle imprese impossibili”, quelle che i governi e i ministeri rinunciano a priori ad affrontare; il terzo è che “i grandi insegnanti condividono le loro idee e mobilitano tutto il mondo della scuola”, e anche il mondo attorno alla scuola, facendo proprio il proverbio africano “ci vuole un villaggio per educare un bambino”: prima di tutto i bambini, ma anche le famiglie, gli altri docenti, gli operatori scolastici, e l’intera comunità.

           Da questa esperienza si ricava un’indicazione strategica, che condividiamo: se i grandi insegnanti sono prima di tutto e sempre quelli che costruiscono la loro didattica in funzione dei loro studenti, allora tutta la scuola dovrebbe essere pensata per gli studenti. Per gli studenti, e non per chi ci lavora, come ricordiamo spesso, ad esempio, quando trattiamo temi come quello della continuità didattica.

Da www.tuttoscuola.com

domenica 15 aprile 2018

COMPETENZE. UNA MAPPA PER ORIENTARSI

Competenza: un concetto ricorrente nel linguaggio comune così come nei dibattiti scientifici, politici, professionali ma finora privo di una codificazione semantica precisa. La Fondazione Agnelli ha impegnato un gruppo multidisciplinare di ricercatori su questo progetto ambizioso: far chiarezza su che cosa si intenda con competenza/competenze, esplorando gli usi e i significati del termine in diversi settori disciplinari, nei sistemi scolastici, in campo manageriale e di gestione delle risorse umane. 
Uno strumento utile per orientarsi nelle diverse classificazioni e pratiche, e per comprendere meglio tutte le profonde implicazioni di un concetto centrale tanto per il mondo del lavoro quanto per quello dell’istruzione-formazione.

AA.VV. Fondazione Agnelli è un istituto indipendente di ricerca nel campo delle scienze sociali, senza scopo di lucro, nato nel 1966 nel centenario della nascita del Senatore Giovanni Agnelli, fondatore della Fiat. Dal 2008 concentra le proprie attività e risorse sull’istruzione (scuola, università, apprendimento permanente), un fattore decisivo per la valorizzazione delle persone, lo sviluppo economico e la coesione sociale.

Luciano Benadusi – già professore ordinario di Sociologia presso La Sapienza - Università di Roma – è direttore della rivista "Scuola democratica".
Stefano Molina è dirigente di ricerca presso la Fondazione Agnelli di Torino.

PATTO SCUOLA-FAMIGLIA. CHE FINE HA FATTO?

di Giuseppe Savagnone

Perché i genitori picchiano, sempre più spesso, i docenti dei loro figli? La domanda, se posta anche solo pochi anni fa, avrebbe lasciato allibiti. Oggi sorge spontanea, leggendo le cronache dei giornali. Ormai non passa quasi settimana senza che un insegnante venga aggredito, da un padre, da un marito e una moglie insieme, o direttamente dagli alunni, evidentemente sicuri dell’appoggio delle famiglie. Soltanto in questi pochi mesi del 2018 si contano ben ventiquattro episodi di violenza su maestri e professori. Fare il docente è diventato un mestiere pericoloso che presto richiederà, se le cose continuano ad andare così, corsi di addestramento all'autodifesa.

Che cosa è successo? La risposta non può non tener conto del crescente isolamento della figura dell’insegnante, in una società che non gli ha mai riconosciuto dignità sul piano retributivo, ma che ora, a differenza che in passato, non gliene attribuisce più neppure su quello del prestigio sociale e culturale.
Fino a cinquant'anni fa il lavoro di educatore era pagato poco, ma era rispettato. Oggi non è più così. C’è stato il Sessantotto, con la contestazione dei “maestri”, che ha travolto, insieme ad indubbie forme di autoritarismo, anche la loro autorità. Probabilmente ha inciso anche la crisi del concetto di “missione”, percepito a un certo punto come un alibi retorico per giustificare i bassi stipendi dei professori, con la conseguente crisi di motivazione di tanti la cui passione educativa si fondava su una visione idealizzata della scuola.
Soprattutto, è cambiata la percezione comune del rapporto tra denaro e valore sociale: in passato il primo non era la misura del secondo; nell'Italia del nostro tempo lo è diventato. Chi guadagna poco è, in fondo, un fallito. È con questo atteggiamento di sottile disprezzo che molti si rapportano alla classe docente, e non c’è da meravigliarsi se, consciamente o inconsciamente, lo trasmettono ai loro figli.
Ma gli episodi di violenza non ci parlano solo del declino della scuola: essi sono lo specchio allarmante di una famiglia sempre più caratterizzata dall’incapacità, da parte di genitori insicuri e iperprotettivi, di far valere la loro funzione educativa, perché troppo timorosi dei conflitti che un esercizio reale della loro autorità genitoriale potrebbe determinare.
Alla base c’è una grande fragilità degli adulti. Ormai, ....

venerdì 13 aprile 2018

MENO NASCITE, MENO ALUNNI, MENO CATTEDRE - “Tra dieci anni un milione di alunni in meno”

DOBBIAMO TRASFORMARE UNA CRISI
 IN OPPORTUNITÀ

di Dario Braga

La popolazione scolastica diminuirà drasticamente nei prossimi anni. Il rapporto della Fondazione Agnelli dipinge un quadro di tendenza molto chiaro. La riduzione della natalità di questi anni si rifletterà nella dimensione delle coorti di studentesse e studenti che entreranno nella scuola. Sempre stando alle proiezioni della Fondazione Agnelli, questa diminuzione non sarà compensata che in minima parte dalla immigrazione.
Il nostro Paese avrà quindi meno giovani, meno studenti, meno diplomati e meno forze intellettuali fresche. Questo è già di per sé un problema. Altri Paesi monitorati nello stesso studio non mostrano tuttavia la stessa tendenza. 
In termini percentuali la popolazione di studenti è prevista in crescita significativa in Svezia, in Germania e nel regno Unito, ed è sostanzialmente stabile in Francia, mentre, come noi, Spagna e la Polonia vedranno una diminuzione, anche se decisamente meno drastica. 
Queste differenze riflettono certamente le diverse politiche di supporto alla maternità dei diversi Paesi durante il decennio della grande crisi. Supporto alla maternità che non si risolve solo negli incentivi finanziari, più o meno una tantum, ma che richiede una diversa struttura del lavoro femminile e una ben diversa organizzazione scolastica, a cominciare dagli asili per arrivare alle scuole medie. Si pensi solo al tempo pieno, praticato da noi in maniera disomogenea: il nostro sistema scolastico è ancora largamente fondato sul concetto che “al pomeriggio ci pensano la mamma o i nonni”.
La seconda conseguenza evidenziata dallo studio è la riduzione di fabbisogno di insegnanti nei diversi ordini scolastici. Si parla di oltre 50.000 (cinquantamila!) posti in meno da qui a 10 anni. Una riduzione di questo genere ha conseguenze sociali non indifferenti. In primo luogo, ovviamente, si prospetta una ulteriore riduzione dei posti di lavoro per laureati. L’impatto sulla occupabilità di quanti entrano nell’università in questo momento o nei prossimi anni avendo in mente l’insegnamento come prima scelta (o come “piano B” in caso di mancato raggiungimento di altri obiettivi) sarà notevole.
Che dire? In un mondo in cui la Politica si occupasse veramente del futuro del Paese e non del fabbisogno immediato di posizioni di potere (o del mantenimento di promesse elettorali insostenibili), ci si metterebbe intorno a un tavolo per definire strategie di sistema. 
Una strategia di sistema è certamente quella di trasformare questa situazione di potenziale crisi in opportunità, anche alla luce dell’altro dato inquietante, e sempre presente, del basso numero di laureati nel nostro Paese. Proviamo ad assumere che le forze politiche, in maniera bipartisan, concordino in primo luogo di non diminuire la spesa complessiva per il corpo docente. I quasi due miliardi di euro che sarebbero potenzialmente disponibili andrebbero utilizzati in parte per agire sul livello stipendiale dei docenti, per accrescere la capacità di attrazione dell’insegnamento in quelle aree (soprattutto scientifiche e tecnologiche) dove la capacità di attrazione del privato è molto più forte, e in parte per reclutare sì docenti, ma nell’ottica di ridurre il numero di studenti nelle classi, e di espandere tempo pieno e attività di supporto, tutoraggio e recupero dei ritardi di apprendimento. Si tratterebbe quindi di agire in controtendenza, e di utilizzare nuovi docenti per accrescere il periodo di presenza a scuola degli studenti, introducendo anche sperimentazioni di nuovi modelli di apprendimento.
Bisognerebbe accrescere contestualmente la selettività dei processi di formazione degli insegnanti – sulla base della vocazione e della provata capacità didattica – rivedendo anche alcune distorsioni introdotte negli anni passati sui titoli di studio che danno accesso all’insegnamento (penso ad alcune lauree telematiche e a equipollenze inaccettabili in un Paese avanzato). L’obiettivo ultimo sarebbe quello di aumentare il numero di studenti in grado di proseguire con gli studi universitari dopo il secondo anno di scuola superiore.
C’è poi il problema di quanti entrano oggi, o entreranno nei percorsi universitari. Molti di loro saranno i docenti del prossimo decennio. Credo che il quadro di decrescita indicato dalla Fondazione Agnelli chiami a una riflessione sul rapporto tra lauree e sbocchi professionali. È il tema – sempre controverso – della programmazione degli accessi. Servirebbe un piano dei fabbisogni di docenza dei prossimi anni costruito sulla base dei trend di trasformazione della popolazione studentesca da indicare alle Università – come viene fatto per altri corsi di studio – per programmare il numero di laureati da avviare alla docenza nei vari gradi scolastici.
Ovviamente non ci si può fermare qui, la diminuzione della popolazione di studenti consentirà anche di concentrare investimenti – anche in coordinamento con le sedi universitarie – per l’ammodernamento e il potenziamento dei laboratori scientifici puntando anche ad aumentare il numero di studenti che si dirigerà verso indirizzi di studio scientifici e tecnologici, dove è più marcato il differenziale rispetto ai Paesi europei in termini di numeri di laureati. Agendo sui tempi di presenza a scuola si potrà mantenere alto il fabbisogno di docenti, diminuire le situazioni di affollamento, aumentare il numero di studenti che prosegue con successo, ridurre l’impatto della tempistica media scolastica di oggi sulla organizzazione delle famiglie e quindi sul lavoro femminile. Non basta, ovviamente. Ma i dati della Fondazione Agnelli devono spingere a “produrre politica” – non slogan – né misure una tantum.
Direttore dell’Institute of Advanced Studies Alma Mater Studiorum University of Bologna

da Il Sole 24 Ore



UNA NUOVA PROSPETTIVA

Terza domenica di Pasqua 
Atti 3,13-15.17-19 /1Gv 2,1-5 / Lc 24,35-48

Dal Vangelo secondo Luca

35Ed essi narravano ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane. 36Mentre essi parlavano di queste cose, Gesù in persona stette in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!». 37Sconvolti e pieni di paura, credevano di vedere un fantasma. 38Ma egli disse loro: «Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? 39Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho». 40Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi. 41Ma poiché per la gioia non credevano ancora ed erano pieni di stupore, disse: «Avete qui qualche cosa da mangiare?». 42Gli offrirono una porzione di pesce arrostito; 43egli lo prese e lo mangiò davanti a loro. 44Poi disse: «Sono queste le parole che io vi dissi quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosé, nei Profeti e nei Salmi». 45Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture 46e disse loro: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, 47e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. 48Di questo voi siete testimoni.
Commento do Paolo Curtaz
Parlano in fretta, i due tardoni di Emmaus. 
Si sovrappongono, esagitati, scossi dall’incontro col pellegrino. 
Il loro incontro col risorto è stato segnato da quella frase sconcertante: noi speravamo. 
La speranza declinata al passato. Poi lo scossone di quel forestiero che, no, non sapeva cosa era accaduto a Gerusalemme, anche se parlavano della sua morte. E che li aveva amabilmente presi in giro e catechizzati. 
Poi, allo spezzare del pane, tutto era diventato evidente, appena prima che egli sparisse. Bevono le loro parole, i pavidi apostoli. Ascoltano e confermano le tante notizie. 
Ora sono due maschi a parlarne, non le donne che, si sa, sono sempre emotivamente instabili. E mentre parlano arriva. Lui, il risorto. 
Il presente. Il Signore. Quando raccontiamo agli altri la nostra esperienza di fede, quando l’incontro con Dio trasuda dalle nostre parole, Gesù si manifesta nel cuore di chi ci ascolta. 
È così, la fede, un comunicare da bocca a orecchio. Da cuore a cuore. 
Paura Ma hanno paura. Troppa per credere. Paura che sia un’illusione, una finta, un trucco, un inganno. E i dubbi, pronti, sono lì a battere cassa, a fare l’elenco dell’improbabilità di quanto successo. I nostri dubbi. Hanno paura di credere, di osare, i discepoli. Troppo bello per essere vero.
E' un fantasma! .......


Apri la nostra mente
Stupore, meraviglia, gioia…
sono solo emozioni, Signore…
ma, per quanto belle,
non sono ancora «fede».
Credere è di più:
è scelta consapevole e determinata;
è fiducia e abbandono;
è cammino vissuto al buio,
guidati da una sola luce
e da una sola Parola.
Parlaci, Signore risorto,
apri la nostra mente alla tua Parola;
sciogli ogni durezza,
ogni bisogno di sicurezza;
prendici per mano e accompagnaci
nel cuore del tuo amore,
svelaci i sentieri del dono,
insegnaci a credere nella tua,
non tangibile, presenza. Amen.




LEZIONE FRONTALE ...... QUANTO SERVE?


STUDENTI CATATONICI? 
 È LA LEZIONE FRONTALE

CATATONIA (dal gr. κατά "sotto" e τόνος "tono"). - Quadro psicopatico a base dissociativa, nel quale l'azione si svincola quasi interamente dalle motivazioni razionali e affettive e resta inceppata in contrasti automatici che l'irrigidiscono o la rendono saltuaria e stolida. 
catatonici stanno fermi e ritti in atteggiamenti statuarî,  
(Da Enciclopedia Treccani)..

di Daniele Novara

      La scuola italiana ha un problema che si perde nella notte dei tempi. Un equivoco, profondamente radicato e pervasivo, che ha un nome preciso: lezione frontale.
     La didattica della scuola italiana si basa ancora sulla convinzione che il metodo più efficace perché bambini e ragazzi apprendano consista nella spiegazione dell’insegnante. La lezione frontale richiede molta capacità di attenzione, che, come dimostrato da tante ricerche neuroscientifiche, non è sostenibile neanche dagli adulti, figurarsi da bambini e ragazzi. Non implica alcuna competenza pedagogica: si spiega, si richiede agli studenti lo studio individuale, attraverso la ripetizione dei contenuti spiegati, e, infine, si interroga e si valuta l’alunno.
      L’attenzione è 'selettiva', ossia sceglie di cogliere alcuni stimoli e ne ignora altri, da cui il cervello è bombardato simultaneamente. I bambini sviluppano presto l’attenzione 'selettiva' e, piano piano, crescendo diventano capaci di gestirla in modo 'volontario', sviluppando nell’adolescenza una sempre maggiore capacità di concentrazione. È un processo fisiologico, estremamente individuale, influenzato da numerosi fattori: le risorse individuali, la motivazione, le caratteristiche personali, la stanchezza. La massima capacità di attenzione si registra attorno ai 18/26 anni e non supera i 40/45 minuti di tempo. Inoltre, considerato che in classe alunni e studenti sono sottoposti a infiniti fattori di interazione e disturbo, è facile rendersi conto come la lezione frontale sia chiaramente fallimentare.           
          Quindi, dopo 50 minuti di spiegazione, è normale che i ragazzi abbiano adottato la tecnica dello sguardo catatonico: si concentrano sull’insegnante senza minimamente ascoltarlo. Il miglior processo di apprendimento non si attiva in solitudine. Il genio intellettuale, che studia isolato, come Vittorio Alfieri che si lega alla sedia o Giacomo Leopardi rinchiuso nella biblioteca paterna, non sono modelli ma personaggi speciali, l’eccezione che conferma la regola. Le scoperte legate al sistema dei neuroni specchio confermano l’importanza dell’interazione sociale per imparare: osservando gli altri, nel nostro cervello si attivano le stesse aree necessarie per acquisire quelle informazioni. 
         Inoltre, il gruppo attiva numerosi elementi emotivi e motivazionali e favorisce le capacità cognitive. 
          La scuola, per sua natura sociale, gestisce un processo di apprendimento di gruppo, in cui la logica dell’isolamento è fuori contesto. Purtroppo nella pratica tutto ciò viene scarsamente considerato, anzi, constatiamo quotidianamente che nella maggior parte delle classi di ogni ordine e grado ha ancora un ruolo egemone la trasmissione nozionistica e l’individuazione della risposta considerata 'esatta', che deve essere rielaborata in solitudine, nella convinzione diffusa che il confronto con gli altri sia solo una perdita di tempo, un elemento che disturba il tradizionale processo di conoscenza.
         Anche la maieutica, come la lezione frontale, risale alla notte dei tempi ma, al contrario di quella, risulta ancora oggi innovativa perché più aderente alle condizioni che permettono di imparare in modo efficace. 
        Da Socrate a sant’Agostino, fino a Maria Montessori, Danilo Dolci o Paulo Freire, l’approccio maieutico all’apprendimento parte dall’assunto che, all’opposto della lezione frontale, l’attore del processo di apprendimento è lo studente, non il docente. 
          La maieutica è orientata a sviluppare la capacità di acquisire apprendimenti che portano l’alunno a fare da solo e a essere in grado di costruire delle competenze permanenti, non estemporanee né basate su performance puramente ripetitive. Può essere sintetizzato in un’idea: «Fare esperienza insieme agli altri e affrontare in gruppo i problemi che rendono capace di imparare autonomamente». 
        Il presupposto fondamentale è che chi impara deve attivarsi, sviluppare le proprie risorse, non restare abbarbicato alla presunta sicurezza della pura e semplice ripetizione. La scuola che verrà non potrà che essere una vera comunità di apprendimento.

Sabato 14 aprile (Teatro Carcano a Milano, corso di Porta Romana 63, ore 9-17) si svolge il convegno «La lezione non serve - La scuola come comunità di apprendimento», organizzato dal Centro Psicopedagogico per l’educazione e la gestione dei conflitti (Cpp) fondato e diretto da Daniele Novara. Il convegno ha l’obiettivo di mettere in discussione la lezione frontale per proporre un nuovo modo di insegnamento basato sul coinvolgimento diretto e sociale degli alunni.

da AVVENIRE  - www.avvenire.it