lunedì 17 settembre 2018

PAPA FRANCESCO A PALERMO – NON SOLO MAFIA

di Giuseppe Savagnone*

Ai mezzi di comunicazione è arrivato quello che fin dalla vigilia interessava: la ferma condanna della mafia. Di questo, e quasi soltanto di questo, parlano i titoli dei giornali all’indomani della visita di papa Francesco in Sicilia.
E, in effetti, nei discorsi del pontefice in Sicilia il tema della criminalità mafiosa è stato davvero molto presente, come era del resto suggerito dal 25° anniversario dell’assassinio di don Pino Puglisi per mano di un killer di Cosa Nostra. Tanto più che la lotta contro la mafia, a distanza di venticinque anni, non è ancora affatto vinta. Peraltro, dopo i lunghi anni del silenzio, la Chiesa fa bene a ribadire ad ogni occasione ciò che per troppo tempo, in passato, non aveva detto, e cioè che non si può essere cristiani e mafiosi allo stesso tempo, come il papa ha espressamente ribadito durante la messa al Foro Italico di Palermo.
Il vero problema, però, al di là delle denunce, è l’incapacità della pastorale ordinaria della di tradurle in una educazione sistematica che cambi la mentalità della gente, a cominciare dalle nuove generazioni. Ma questo non riguarda solo il caso della mafia. Certo, è scandaloso che proprio in un terra come la Sicilia, dove la religiosità è più viva, rispetto a molte altre regioni d’Italia – chiese piene la domenica e nelle solenni funzioni dell’anno liturgico; percentuali ridicole di non avvalentesi dell’ora di religione; grande rispetto per il clero e i religiosi –, il fenomeno mafioso continui ad essere profondamente radicato e sopravviva a tutti i colpi. Ma è altrettanto scandaloso che quest’Isola sia cronicamente afflitta da un malgoverno che sostituisce clientelismo, lotte intestine di potere, sistematico perseguimento degli interessi privati, alla corretta gestione della cosa pubblica.
In questo disastro, la presenza dei cattolici – ufficialmente maggioritaria, come si diceva – non sembra portare alcuna differenza. Le parrocchie continuano imperturbabili a tenere i loro corsi di catechismo, a celebrare le loro messe, le loro prime comunioni, i loro matrimoni. Come sul Titanic dove, mentre la nave affondava, l’orchestrina della sala feste continuò a suonare imperterrita …
Anche quest’Isola sta affondando. Lo dice il crescente ritardo economico sul resto d’Italia. Lo dice il tasso di disoccupazione giovanile, al 52,9%. Lo dicono i dati Svimez, secondo cui il 27% dei ragazzi siciliani – più di uno su quattro – vanno a studiare fuori della Sicilia. E sono spesso i più qualificati e intraprendenti!
Papa Francesco, cominciando la sua visita, è partito con coraggio da questo quadro: «Non sono poche le piaghe che vi affliggono. Esse hanno un nome: sottosviluppo sociale e culturale; sfruttamento dei lavoratori e mancanza di dignitosa occupazione per i giovani; migrazione di interi nuclei familiari; usura; alcolismo e altre dipendenze; gioco d’azzardo; sfilacciamento dei legami familiari».
Perché, come ha detto rivolgendosi alla comunità cristiana di Piazza Armerina, «considerare le piaghe della società e della Chiesa non è un’azione denigratoria e pessimistica», ma «significa per noi cristiani assumere la storia e la carne di Cristo come luogo di salvezza e liberazione. Vi esorto, pertanto, a impegnarvi per la nuova evangelizzazione di questo territorio centro-siculo, a partire proprio dalle sue croci e sofferenze».
Queste croci, peraltro, non sono il frutto di un destino scritto nelle stelle. Sono le persone a determinare la loro storia. a farla essere una storia vincente di vita, o in una storia di sconfitta, che porta alla rovina individui e comunità. «Quel che porta alla sconfitta» – ha detto Francesco parlando a Palermo – «è amare il proprio. Chi vive per il proprio perde (…), mentre chi si dona trova il senso della vita e vince».
Qui il quadro, come è evidente, si è allargato. Non si tratta solo della mafia e dei mafiosi. Certo, loro sono l’emblema di una mentalità e di una prassi che porta a calpestare gli altri nell’illusione di “vincere”. Neppure il problema è solo quello del sottosviluppo. Sono in gioco le sue radici più profonde, da cercare nella deriva di una società che si è allontanata radicalmente dal Vangelo, anche se, come in Sicilia, continua a seguire i rituali. Le piaghe dell’Isola sono in realtà la manifestazione estrema di quelle dell’Italia, anche se in Sicilia si rivelano con particolare evidenza nella loro carica distruttiva.
«Non è facile», ha riconosciuto Francesco, «portare avanti la fede tra tante problematiche. Non è facile, io lo capisco». Ma proprio la fede può costituire la molla per uscire da questa situazione e cambiarla. Tocca ai cristiani uscire all’immobilismo. Bisogna, per questo, cambiare noi stessi. Non sono solo i mafiosi ad «amare il proprio». Sono in tanti, anche credenti, a cercare solo di fare i propri interessi, nelle relazioni umane, nel lavoro, nelle scelte politiche. Non uccidono nessuno, certo. Ma possono assistere senza nessun particolare scrupolo allo sfascio della società.
Da questa falsa innocenza il Pontefice ha messo in guardia non solo i mafiosi, ma tutti: «Dio ci liberi», ha detto, «dal pensare che tutto va bene se a me va bene, e l’altro si arrangi. Ci liberi dal crederci giusti se non facciamo nulla per contrastare l’ingiustizia. Chi non fa nulla per contrastare l’ingiustizia non è un uomo o una donna giusto. Ci liberi dal crederci buoni solo perché non facciamo nulla di male».
Ai giovani di Palermo il Papa lo ha raccomandato con particolare forza: «Gesù sempre chiama a prendere il largo: non accontentarti di guardare l’orizzonte dalla spiaggia!». E ha sottolineato: «Abbiamo bisogno di uomini e donne che vivono relazioni libere e liberanti, che amano i più deboli e si appassionano di legalità, specchio di onestà interiore».
Come possono vescovi, preti, operatori pastorali, contribuire a questo rinnovamento radicale? Il Papa è stato su questo punto molto diretto: «Alla nostra età, ne abbiamo visti tanti di progetti pastorali faraonici…  Cosa hanno fatto? Niente! I progetti pastorali, i piani pastorali sono necessari, ma come mezzo, un mezzo per aiutare la prossimità, la predicazione del Vangelo, ma di per sé stessi non servono. La via dell’incontro, dell’ascolto, della condivisione è la via della Chiesa».
Per educare anche solo umanamente i giovani, i preti, i laici più maturi, devono accompagnarli nella loro vita quotidiana (che fine ha fatto la vecchia direzione spirituale?), guardarsi negli occhi con loro. Le mega-manifestazioni possono servire, ma non possono sostituire questa prossimità concreta a livello personale. Don Pino, ha fatto notare il Papa, «più che parlare di giovani, parlava coi giovani. Stare con loro, seguirli, far scaturire insieme a loro le domande più vere e le risposte più belle. È una missione che nasce dalla pazienza, dall’ascolto accogliente, dall’avere un cuore di padre e mai di padrone. La pastorale va fatta così, con pazienza e dedizione, per Cristo a tempo pieno».
E attraverso questo, educare le persone, soprattutto i giovani, a momenti di calma riflessione sul Vangelo. Ci ha insistito molto, Francesco: «Leggere il Vangelo, tutti i giorni, un piccolo passo del Vangelo. Non prende più di cinque minuti. Forse un piccolo Vangelo in tasca, nella borsa… Prenderlo, guardare, e leggere. E così, tutti i giorni, come goccia a goccia, il Vangelo entrerà nel nostro cuore e ci farà più discepoli di Gesù e più forti per uscire, aiutare tutte le problematiche della nostra città, della nostra società, della nostra Chiesa. Fatelo, fatelo». Una presenza nuova dei cristiani, capace di rinnovare la società siciliana – e non solo quella – potrà nascer solo da qui: dal recupero di una vita interiore di cui, si sia credenti o no, abbiamo tutti un disperato bisogno.

*Direttore Ufficio Pastorale della Cultura dell'Arcidiocesi di Palermo.




sabato 15 settembre 2018

Papa Francesco: SCEGLIERE TRA AMORE ED EGOISMO. ESSERE ALBE DI SPERANZA

A PIAZZA ARMERINA:

" ..... È importante favorire nelle nelle comunità la carità evangelica, la solidarietà e la sollecitudine fraterna, rifuggendo la tentazione mondana del quieto vivere, del passarsela bene, senza preoccuparsi dei bisogni altrui .....  Con semplicità andate per i vicoli, i crocicchi, le piazze e i luoghi di vita feriale, e portate a tutti la buona notizia che è possibile una convivenza giusta fra noi, piacevole e amabile, e che la vita non è oscura maledizione da sopportare fatalisticamente, ma fiducia nella bontà di Dio e nella carità dei fratelli.... Guardare sempre avanti, senza dimenticare le radici. Sappiate che Gesù vi ama: Egli è un amico sincero e fedele, che non vi abbandonerà mai; di Lui potete fidarvi! Nei momenti del dubbio – tutti abbiamo avuto da giovani momenti brutti, di dubbio –, nei momenti di difficoltà, potete contare sull’aiuto di Gesù, soprattutto per alimentare i vostri grandi ideali. E nella misura in cui ognuno può, è bene anche che si fidi della Chiesa, chiamata a intercettare i vostri bisogni di autenticità e ad offrirvi un ambiente alternativo a quello che vi affatica ogni giorno, dove poter ritrovare il gusto della preghiera, dell’unione con Dio, del silenzio che porta il cuore verso le profondità del vostro essere e della santità ....

DALL'OMELIA:

"..... Dunque c’è da scegliere: amore o egoismo. L’egoista pensa a curare la propria vita e si attacca alle cose, ai soldi, al potere, al piacere. Allora il diavolo ha le porte aperte. Il diavolo “entra dalle tasche”, se tu sei attaccato ai soldi. Il diavolo fa credere che va tutto bene ma in realtà il cuore si anestetizza con l’egoismo. L’egoismo è un’anestesia molto potente. Questa via finisce sempre male: alla fine si resta soli, col vuoto dentro. La fine degli egoisti è triste: vuoti, soli, circondati solo da coloro che vogliono ereditare. È come il chicco di grano del Vangelo: se resta chiuso in sé rimane sotto terra solo. Se invece si apre e muore, porta frutto in superficie.
Ma voi potreste dirmi: donarsi, vivere per Dio e per gli altri è una grande fatica per nulla, il mondo non gira così: per andare avanti non servono chicchi di grano, servono soldi e potere. Ma è una grande illusione: il denaro e il potere non liberano l’uomo, lo rendono schiavo. Vedete: Dio non esercita il potere per risolvere i mali nostri e del mondo. La sua via è sempre quella dell’amore umile: solo l’amore libera dentro, dà pace e gioia. Per questo il vero potere, il potere secondo Dio, è il servizio. Lo dice Gesù. E la voce più forte non è quella di chi grida di più. La voce più forte è la preghiera. E il successo più grande non è la propria fama, come il pavone, no. La gloria più grande, il successo più grande è la propria testimonianza.
Cari fratelli e sorelle, oggi siamo chiamati a scegliere da che parte stare: vivere per sé – con la mano chiusa [fa il gesto] – o donare la vita – la mano aperta [fa il gesto]. Solo dando la vita si sconfigge il male. Un prezzo alto, ma solo così [si sconfigge il male]. Don Pino lo insegna: non viveva per farsi vedere, non viveva di appelli anti-mafia, e nemmeno si accontentava di non far nulla di male, ma seminava il bene, tanto bene. La sua sembrava una logica perdente, mentre pareva vincente la logica del portafoglio. Ma padre Pino aveva ragione: la logica del dio-denaro è sempre perdente. Guardiamoci dentro. Avere spinge sempre a volere: ho una cosa e subito ne voglio un’altra, e poi un’altra ancora e sempre di più, senza fine. Più hai, più vuoi: è una brutta dipendenza. È una brutta dipendenza. È come una droga. Chi si gonfia di cose scoppia. Chi ama, invece, ritrova se stesso e scopre quanto è bello aiutare, quanto è bello servire; trova la gioia dentro e il sorriso fuori, come è stato per don Pino. ......  Non si può credere in Dio ed essere mafiosi. Chi è mafioso non vive da cristiano, perché bestemmia con la vita il nome di Dio-amore. Oggi abbiamo bisogno di uomini e di donne di amore, non di uomini e donne di onore; di servizio, non di sopraffazione. Abbiamo bisogno di camminare insieme, non di rincorrere il potere. Se la litania mafiosa è: “Tu non sai chi sono io”, quella cristiana è: “Io ho bisogno di te”. Se la minaccia mafiosa è: “Tu me la pagherai”, la preghiera cristiana è: “Signore, aiutami ad amare”. ...... "

AI GIOVANI:

" .... Siate capaci di sognare in grande e di impegnarvi per realizzare i sogni ..... Camminare, sognare, dialogare, servire.....  Dio si scopre camminando, non stando seduti .... Occorre mettere il cuore in cammino .... Il Signore parla a chi è in ricerca .... Siate uomini e donne di incontro, non di scontri .... Essere aperti a tutti i popoli ... Un cristiano non solidale non è un cristiano! .... La vita si vive! .... Mettere le proprie capacità a disposizione degli altri ..... Sapervi compromettere per costruire il futuro, per conquistare la gioia. .... Abbiamo bisogno di donne e uomini veri .... che amano i più deboli, che si appassionano di legalità, che dicano no al gattopardismo dilagante .... Occorre sapersi giocare la propria vita per un ideale, essere accoglienti ...  Siete chiamati ad essere albe di speranza, non vittime del pessimismo, del fatalismo, della rassegnazione .... Saper generare una civiltà nuova, accogliente, di amore ... Valorizzare le radici, dialogare con gli anziani per riscoprire le radici e poterle mettere al servizio del futuro ... Senza radici non c'è appartenenza, non c'è identità. ....  Siate operosi nel cammino e nell'incontro, audaci nel servire e nell'operare ....."





CHI SONO IO PER TE?

Mc 8, 27-35
Dal Vangelo secondo Marco

In quel tempo, Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo, e per la strada interrogava i suoi discepoli dicendo: «La gente, chi dice che io sia?». Ed essi gli risposero: «Giovanni il Battista; altri dicono Elìa e altri uno dei profeti».
Ed egli domandava loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Pietro gli rispose: «Tu sei il Cristo». E ordinò loro severamente di non parlare di lui ad alcuno.
E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell'uomo doveva soffrire molto, ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere.
Faceva questo discorso apertamente. Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo. Ma egli, voltatosi e guardando i suoi discepoli, rimproverò Pietro e disse: «Va' dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini».
Convocata la folla insieme ai suoi discepoli, disse loro: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà».


Gesù si trovava in un luogo solitario a pregare. Silenzio, solitudine, preghiera: è un momento carico della più grande intimità per questo piccolo gruppo di uomini. E i discepoli erano con lui… Intimità tra loro e con Dio. È una di quelle ore speciali in cui l’amore si fa come tangibile, lo senti sopra, sotto, intorno a te, come un manto luminoso; momenti in cui ti senti «docile fibra dell’universo» (Ungaretti).

In quest’ora importante, Gesù pone una domanda decisiva, qualcosa da cui poi dipenderà tutto: fede, scelte, vita… ma voi, chi dite che io sia? Gesù usa il metodo delle domande per far crescere i suoi amici. Le sue domande sono scintille che accendono qualcosa, che mettono in moto cammini e crescite. Gesù vuole i suoi poeti e pensatori della vita. «La differenza profonda tra gli uomini non è tra credenti e non credenti, ma tra pensanti e non pensanti» (Carlo Maria Martini).

La domanda inizia con un “ma”, ma voi, una avversativa, quasi in opposizione a ciò che dice la gente. Non accontentatevi di una fede “per sentito dire”, per tradizione. Ma voi, voi con le barche abbandonate, voi che avete camminato con me per tre anni, voi miei amici, che ho scelto a uno a uno, chi sono io per voi? E lo chiede lì, dentro il grembo caldo dell’amicizia, sotto la cupola d’oro della preghiera.
Una domanda che è il cuore pulsante della fede: chi sono io per te?

Non cerca parole, Gesù, cerca persone; non definizioni di sé ma coinvolgimenti con sé: che cosa ti è successo quando mi hai incontrato? Assomiglia alle domande che si fanno gli innamorati: – quanto posto ho nella tua vita,  quanto conto per te?
E l’altro risponde: tu sei la mia vita. Sei la mia donna, il mio uomo, il mio amore.

Gesù non ha bisogno della opinione di Pietro per avere informazioni, per sapere se è più bravo dei profeti di prima, ma per sapere se Pietro è innamorato, se gli ha aperto il cuore. Cristo è vivo, solo se è vivo dentro di noi. Il nostro cuore può essere la culla o la tomba di Dio. Può fare grande o piccolo l’Immenso. Perché l’Infinito è grande o piccolo nella misura in cui tu gli fai spazio in te, gli dai tempo e cuore. Cristo non è ciò che dico di Lui ma ciò che vivo di Lui. Cristo non è le mie parole, ma ciò che di Lui arde in me. La verità è ciò che arde (Ch. Bobin). Mani e parole e cuore che ardono.

In ogni caso, la risposta a quella domanda di Gesù deve contenere, almeno implicitamente, l’aggettivo possessivo “mio”, come Tommaso a Pasqua: Mio Signore e mio Dio. Un “mio” che non indichi possesso, ma passione; non appropriazione ma appartenenza: mio Signore.
Mio, come lo è il respiro e, senza, non vivrei. Mio, come lo è il cuore e, senza, non sarei.

p. Ermes Ronchi

venerdì 14 settembre 2018

RECUPERARE I RAGAZZI PERDUTI

Dal 1995 tre milioni e mezzo di abbandoni: 2 italiani su 5 hanno solo la terza media. 
In una lettera ad Avvenire una proposta per vincere la dispersione scolastica.
  Caro direttore, «Non uno di meno, No child left behind, Zones d’éducation prioritaires»: ma perché solo in Italia non si è ancora capito che i ragazzi persi dalla scuola e quelli che non arrivano a un livello sufficiente di competenze rappresentano un problema urgente, grave, improcrastinabile? Eppure da anni se ne discute e si indicano possibili soluzioni, ma si continua a sottovalutare la fuga da scuola di un esercito di adolescenti, enfatizzando, invece, altri problemi. Un dossier di Tuttoscuolaappena pubblicato mette di nuovo davanti agli occhi una realtà drammatica, che i lettori di Avvenire conoscono già bene: dal 1995 a oggi 3 milioni e mezzo di studenti hanno abbandonato la scuola statale, il 30%. Almeno 130 mila adolescenti che iniziano le superiori non arriveranno al diploma e 2 italiani su 5 non hanno un titolo di studio sopra la licenza media, mentre un giovane su 4 non studia e non lavora, i cosiddetti Neet: Not (engaged) in education, employment or training; concetti che fotografano i 'no' che la società italiana ha detto loro.
   Complessivamente, su 100 iscritti alle superiori solo 18 si laureano; il 38% dei diplomati e laureati che restano non trovano un lavoro corrispondente al livello degli studi che hanno fatto. 55 miliardi di euro di formazione buttati via, anche se il problema principale non sono certo solo le risorse, ma lo spreco di vita, speranza e futuro. Dati dai quali emerge una scuola stanca, con enormi disuguaglianze territoriali, cui non si chiede una seria rendicontazione ( accountability), anzi si diluiscono tutti i tentativi di distinguere i livelli di impegno, insegnanti con un’età media troppo alta, presi di mira da famiglie aggressive che difendono i figli anziché responsabilizzarli. Gli Early School Leavers («ragazzi che lasciano la scuola ») in Italia diminuiscono, ma troppo lentamente: la media nazionale è il 13,8% e l’obiettivo è il 10% nel 2020. Di questo passo, non ci arriveremo. Il governo sembra distratto, incapace di affrontare con decisione questo fenomeno di disprezzo dello studio e della cultura, che coincide con il declino e l’affanno dell’economia, con un voto emotivo e poco informato, con la fatica a leggere un giornale o un libro e capire i problemi: insomma un’utile ignoranza. Intanto, il sapere ormai è nel web, mobile e potenzialmente infinito, senza che questa trasfor-mazione epocale dell’apprendimento abbia aperto una seria riflessione nelle nostre classi dirigenti.
  Abbiamo il record negativo in Europa di persone la cui posizione dipende dallostatustrasmesso dalla famiglia, come dimostra il 'Rapporto Fair Progress?' della Banca Mondiale. Di generazione in generazione, addirittura da secoli, si trasmettono le opportunità o gli svantaggi.
   Certo, questo dipende dal modo in cui si spende il patrimonio sociale della famiglia a favore dei figli. Ma la scuola potrebbe fare la differenza relativamente a queste disuguaglianze di partenza. Infatti, comunque studiare conviene, visto che un laureato ha tre volte più possibilità di trovare lavoro di chi ha la terza media. La scuola italiana non assolve il suo ruolo di 'grande egualizzatrice'. Chi nasce in un ambiente povero del Sud, anche senza ammetterlo consciamente, 'sente' di essere destinato/a all'insuccesso. La scuola può restituire loro soprattutto la fiducia di poter imparare in modo felice, e quindi essere diversi da quello che il destino della loro nascita ha preparato per loro. Un’esperienza felice a scuola non produce solo un titolo di studio, ma soprattutto fiducia e speranza – di cui l’Italia ha un enorme bisogno – di potercela fare.
   Nel 2014 l’'Indagine conoscitiva sulle strategie per contrastare la dispersione scolastica' della Commissione Cultura, Scienza e Istruzione della Camera affrontava il tema proponendo una politica per gli studenti (e non solo del personale) che avesse la riduzione della dispersione come obiettivo. Nel gennaio 2018 il documento Miur 'Una politica nazionale di contrasto del fallimento formativo e della povertà educativa' ne riproponeva gli obiettivi. È necessario raccogliere questa priorità, mentre anzi si cominciano a vedere passi indietro preoccupanti: si rimanda l’introduzione del test Invalsi, basato sulla comprensione e sulla logica, all'esame di maturità; si dichiara 'fallita' l’alternanza scuola-lavoro, proprio uno degli aspetti della 'Buona scuola' (certo, da migliorare) che più avvicina alla concretezza del lavoro.
   La proposta al governo è assumere un obiettivo politico chiaro: ridurre considerevolmente entro il 2020 la dispersione scolastica: creare subito una cabina di regia al Ministero, potenziare la formazione professionale, monitorare e favorire l’apertura della scuola al pomeriggio e in estate, formare gli insegnanti alla comprensione del rapporto tra svantaggio sociale e apprendimento, aiutarli a motivare alla conoscenza nell’era di internet, individuare precocemente i segnali di fragilità, dare attenzione alle reti territoriali di extrascuola – molte del mondo cattolico – che in questi decenni hanno sostenuto i bambini, adolescenti e giovani, specie migranti, e dato seconde opportunità a chi aveva lasciato la scuola.
*Ordinario di Pedagogia Università Cattolica di Milano





martedì 11 settembre 2018

GLI INSEGNANTI CATTOLICI DI SICILIA DANNO IL BENVENUTO A PAPA FRANCESCO

Al Santo Padre Francesco


Santità,

             gli insegnanti cattolici siciliani manifestano viva gratitudine per la Vostra visita alla città di Palermo e alla Sicilia.

            La nostra Associazione professionale, l’AIMC, che quest’anno celebra i suoi 73 anni di vita, si è costituita in quest’isola raccogliendosi attorno a Carlo Carretto e Maria Badaloni, che diffusero anche in Sicilia l’idea di una presenza organizzata di docenti e dirigenti scolastici, pronti a testimoniare, nell’esercizio della professione scolastica, una vita ispirata ai principi del Vangelo.
            Eredi e protagonisti di tale  esperienza di servizio alla scuola siciliana, consapevoli della rilevanza dei bisogni educativi nell’attuale contesto regionale, attendiamo con gioia e con fiducia la Vostra paterna parola orientatrice.

            Risuonano ancora in noi tutti le paterne parole che Vostra Santità ci ha rivolto nell’incontro che ha voluto concedere alla nostra Associazione  il 5 gennaio scorso, parole di  apprezzamento e incoraggiamento.  Ci ha esortato a “rinnovare la volontà di essere e fare associazione nella memoria dei principi ispiratori, nella lettura dei segni dei tempi e con lo sguardo aperto all’orizzonte sociale e culturale”. “L’essere associazione – ci ha ricordato - è un valore ed è una responsabilità, che in questo momento è affidata a voi” [1].

Ci risuona sovente il Vostro pressante invito a contrastare la cultura della violenza e del disimpegno per costruire sentieri di impegno e di pace, il Vostro invito ad “ampliare gli orizzonti” per rispondere adeguatamente alle molteplici sfide che l’oggi e il domani ci pongono  » .

Le siamo grati per la costante attenzione che Vostra Santità presta all’opera degli insegnanti e ai problemi dell’educazione, specialmente nelle “periferie esistenziali”, del dialogo tra tutte le genti e tutte le culture, dell’accoglienza e della misericordia.

            Più volte abbiamo sentito il Vostro richiamo ad essere presenza viva e feconda nelle realtà ove operiamo, in particolare nei luoghi ove è maggiore l’emergenza educativa, a saper rischiare, a testimoniare le opere di misericordia nel quotidiano, a prestare servizio là dove “l’umanità è ferita” , a costruire ponti e non muri, a farci carico dell’educazione integrale di ogni alunno e nel contempo a rinnovare l’impegno per una seria ed efficace alleanza educativa tra scuola, famiglia e istituzioni del territorio.

Ci siamo sentiti fortemente interpellati nel nostro essere persone e professionisti di scuola, cristiani, educatori e formatori di persone e di cittadini, mettendo sempre al centro l’alunno che ha il diritto a crescere pienamente in ambienti che favoriscano lo sviluppo delle sue potenzialità e dei talenti che Dio gli ha affidato, per una scuola che sappia essere “inclusiva anche umanamente” e che promuova la cultura dell’accoglienza, del dialogo, dell’incontro.
             
Riconosciamo i nostri limiti e le nostre manchevolezze e riconfermiamo a Vostra Santità la nostra piena disponibilità ad un servizio generoso ai ragazzi che la Provvidenza ci affida, alla nostra isola e alle comunità ove operiamo, nel segno della libertà e della democrazia, confortati e illuminati dal dono della Fede.
         
Nella nostra bella terra di Sicilia, ricca di memoria e di contrasti, c’è molto da fare nel campo dell’istruzione e della formazione per essere degni continuatori di una prestigiosa tradizione ma, soprattutto, per superare molti limiti e costruire una società migliore, una comunità che abbia veramente al centro la persona umana e la sua prospettiva di crescita umana, civile e religiosa.

Siamo coscienti che c’è molto da fare per estirpare varie forme di violenza ed assicurare un futuro migliore alle giovani generazioni, sovente disorientate da falsi valori ed umiliate dalla mancanza di un vero e adeguato lavoro; c’è molto da fare per valorizzare pienamente le numerose risorse umane, culturali, religiose, ambientali. E ciò costituisce una pressante sfida per ciascuno di noi.

            Siamo consapevoli che non sempre è facile vivere la vita associativa, comunità feconda di maturazione umana, culturale, spirituale e professionale, al generoso e qualificato servizio della persona e della società. Non sempre è facile garantire alle istituzioni ove operiamo, anche mediante la nostra testimonianza, piena qualità.

            Sappiamo che non ci mancano e non ci mancheranno la comprensione e l’incoraggiamento della Santità Vostra e possiamo assicurarLe che la Vostra visita lascerà tracce benefiche ed indelebili in tutti gli ambienti sociali della nostra Isola e, particolarmente, nella scuola.

            Durante la Vostra visita saremo dovunque sarà possibile salutarLa e acclamarLa, ovunque sarà possibile ascoltarLa.
          Santità, siamo grati al Signore per averLa chiamata a guidare la Chiesa e apprezziamo la Vostra sollecitudine, e il Vostro coraggio e il generoso ed instancabile impegno.

Santo Padre, conti su di noi. È un piccolo contributo, ma siamo dalla Vostra parte, con sempre filiale affetto.

            Voglia benedirci.


Marina Ciurcina
Presidente  dell’AIMC della Sicilia


[1] Udienza ai soci dell’AIMC, Roma, 5 gennaio 2017



[1] Udienza di Papa Francesco ai soci dell’AIMC, Roma, 5 gennaio 2017

lunedì 10 settembre 2018

PAPA FRANCESCO - LE SETTE COLONNE DELL'EDUCAZIONE

Per Francesco «educare è una delle arti più appassionanti dell’esistenza, e richiede incessantemente che si amplino gli orizzonti». 


Su “La Civiltà Cattolica” padre Spadaro esamina sette “colonne” del pensiero educativo del Papa maturato prima di diventare pontefice.




domenica 9 settembre 2018

FA UDIRE I SORDI

Dal Vangelo secondo Marco  
Mc 7, 31-37
31Di nuovo, uscito dalla regione di Tiro, passando per Sidone, venne verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli. 32Gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano. 33Lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; 34guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: «Effatà», cioè: «Apriti!». 35E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente. 36E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano 37e, pieni di stupore, dicevano: «Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!».
Al tempo di Gesù, si credeva che la santità fosse inversamente proporzionale alla distanza da Gerusalemme. La Giudea poteva ancora salvarsi, ma la Galilea e la Decapoli, oltre la Samaria, zone di confine, abitate da popolazioni miste, erano decisamente perdute.
La Decapoli: dieci città a maggioranza pagana che Roma aveva voluto autonome dall’amministrazione ebrea, nella cinica politica del dividi et impera. I pii israeliti, per scendere a Gerusalemme, passavano oltre il Giordano, sulla strada che attraversava i territori pagani, ma senza mai entrare nelle città considerate perse.
Gesù, invece, inizia la sua predicazione proprio da lì, dalle tribù di Zabulon e Neftali, le prime a cadere sotto gli Assiri, seicento anni prima. Perché egli è venuto per i malati, non per giusti.
Non fugge gli impuri e li condanna, come fanno i Perushim, i farisei. Li salva.
La guarigione del Vangelo di oggi, fa esclamare alla folla: ha fatto bene ogni cosa, ha fatto vedere i ciechi, ha fatto udire i sordi!
Solo chi non si aspetta la salvezza sa gioire così tanto quando si scopre salvato!
Solo chi vive del giudizio altrui e della condanna, sa cosa significa scoprirsi improvvisamente accolto e amato.
È condotto da amici, il sordo/balbuziente. Sono sempre altri a condurci a Cristo, a parlarci di lui, a indicarcelo.
La Chiesa, a volte incoerente e fragile, è la compagnia di coloro che conducono a Cristo.
È questa la funzione della Chiesa, a questo “serve” la Chiesa: a rendere testimonianza al Maestro.
Ma, lo sappiamo, ci vuole umiltà per farsi condurre.
Il nostro mondo ha fatto dell’arroganza uno stile di vita: trovo molte persone che sanno tutto, che pontificano, che giudicano, specialmente le cose concernenti la fede, ma che non sanno davvero mettersi in discussione.
Del vangelo sappiamo già tutto: ci siamo sorbiti quattro anni di catechesi, cosa c’è altro da imparare?
Nulla, perché la fede è anzitutto incontro. E dopo l’incontro, l’amore spinge alla conoscenza.
Ma per incontrare occorre muoversi, uscire dalle proprie presunte certezze acquisite.
Siamo sordi all’invito della Parola. Sordi a quanto il Signore vuole farci capire.
Gesù porta il sordo/balbuziente in un luogo riservato.
In mezzo al caos quotidiano e alla folla non riusciamo davvero ad ascoltare.
La ricerca di fede avviene personalmente, cuore a cuore, in un atteggiamento reale di accoglienza. Dio ci parla ma, per accoglierlo, occorre zittirci. Lo allontana dal villaggio, lo porta in disparte.
Nel vangelo di Marco, spesso, la folla ha un ruolo ambiguo e negativo. Influenza il pensiero, irrigidisce, costringe. Come accade oggi: siamo tutti affascinati da papa Francesco, ma solo nelle cose che ci confermano (o così pensiamo) nel nostro porci in maniera critica nei confronti della Chiesa. Pensiamo col pensiero degli altri.
Perciò, per incontrare veramente Dio, abbiamo necessità di isolarci, di rientrare in noi stessi.
Gesù compie dei gesti di guarigione: sospira, tocca la lingua del malato.
Allora si pensava che la saliva contenesse il fiato, Gesù intende trasmettere il proprio spirito all’uomo, e vi riesce.
La nostra vita di fede ha bisogno di segni, di concretezza, di sacramenti.
La fede scoperta è vissuta e celebrata, fatta di gesti in cui riconosciamo l’opera del Signore per noi, per l’umanità. Ma, e accade, se siamo guariti è per annunciare agli altri la nostra guarigione profonda.
In Marco, però, Gesù impone il silenzio. Perché?
Gli esegeti ci suggeriscono che, forse, Gesù non voleva essere scambiato per un guaritore qualunque. La guarigione è sempre segno ed esplicitazione di qualcosa di profondo.
Aggiungo io, birichino, che se dietro Marco c’è Pietro, allora forse ci vuole dire di non professare il messianismo di Gesù se prima non si è passati attraverso la croce.
Abbiamo bisogno di cristiani guariti, di annunciatori di speranza, di credenti riconciliati.
Credibili. Noi che abbiamo udito le meraviglie di Dio possiamo proclamare come la folla: ha fatto bene ogni cosa.
È per questo che Isaia, il grande e tenero Isaia, spalanca gli occhi davanti a un popolo rassegnato, sfiancato da settant’anni di prigionia a Babilonia, ormai convinto che Dio non ci sia più, e sogna. Sogna un ritorno, una terra in cui la sofferenza non esiste più e l’abbondanza delle acque che riempie i cuori.
Un sogno che è anche quello di Dio e che si avvererà per Israele con il ritorno a Gerusalemme e, per noi, con la venuta del Regno.
Questa salvezza, questa buona notizia, questo gioioso annuncio, ammonisce Giacomo, deve essere visibile sin d’ora nelle nostre comunità.
Se l’asfalto del conformismo ha appiattito l’attenzione al povero e allo straniero, Giacomo ci richiama con forza alle nostre responsabilità di salvati.
La Chiesa, che è il popolo di chi è stato sanato dalle proprie ferite con l’olio della consolazione di Gesù, imita lo stesso gesto verso l’umanità fatta a pezzi e ferita dall’odio e dal peccato.
Noi siamo il volto di Dio per il fratello perduto.

p. Paolo Curtaz