il tesoro per la vita nato tra i banchi
di scuola”
- di Marco Erba
La
lezione di un maestro elementare: coltivare i talenti di ciascuno, suscitando
tra gli allievi la fiducia nelle proprie capacità.
Decisivi
gli insegnanti che vivono il lavoro come una vera missione.
Un giorno, durante un viaggio, incontrai un insegnante straordinario. Uno di quelli che non fanno notizia, ma cambiano la storia.
Faceva il maestro nella scuola elementare di una grande città di mare, in un quartiere degradato e difficilissimo. Era pieno di energia esplosiva: rideva, scherzava, raccontava di tutto.
Svolgeva
il suo lavoro in uno dei contesti socialmente più difficili d’Italia, ma questo
sembrava centuplicare le sue forze e la sua voglia di vivere.
Parlava
con un’ironia contagiosa, anche se entrava in contatto quotidianamente con
situazioni drammatiche.
Mi
raccontò che una volta, un ragazzino si era presentato a scuola elegantissimo.
«Che
bello, festeggi qualcosa?», aveva chiesto il maestro.
«Sì! È morto mio cognato!», aveva risposto quello. «Cosa?».
Il maestro era certo di aver capito male. Si sbagliava.
«È
morto mio cognato!», aveva ripetuto allegro il ragazzino.
«E perché festeggi, allora?». «Perché mio papà lo sostituisce nel clan, fa un salto di carriera!», aveva spiegato il ragazzino, tutto fiero.
Una
morte che generava una progressione nella criminalità organizzata: questo era
dunque il motivo della festa.
In un’altra occasione, un bimbo dormiva serafico sul banco di scuola. Il maestro lo aveva svegliato con delicatezza. Da lì era nato un dialogo surreale.
«Che c’è, sei stanco?». «Si, maestro. Stanotte non ho dormito...».
«Perché? Hai guardato la televisione fino a tardi? ». «No».
«Hai giocato ai videogiochi?». «No».
«E allora che hai fatto?». «Sono uscito con papà. Ho fatto il palo per lui».
Un
bimbo utilizzato come palo per rubare: anche questo accade spesso in quei mondi
non troppo lontani da noi, ma che preferiamo non guardare, perché fanno troppa
paura.
Il
maestro, invece, in quel mondo dava tutto sé stesso.
Da
dove veniva tutta quella energia?
Lo
capii continuando la chiacchierata con lui: gli veniva dalla forza della vita,
dalla bellezza che a volta splende più forte di ogni bruttura, da quei germogli
testardi che, se li sai assecondare, bucano anche l’asfalto più grigio, più
soffocante.
Questo
era esattamente il compito che il maestro si dava ogni giorno e che, talvolta,
portava frutti insperati, meravigliosi.
Uno
di questi frutti era un ragazzino che credeva di avere dei problemi di memoria.
Il
maestro era all’inizio della sua carriera, era ancora supplente.
Era
entrato in una classe e quel ragazzino gli si era avvicinato facendo
un’affermazione perentoria: «Maestro, io non funziono».
«In che senso, scusa?». «Nel senso che la memoria non mi funziona».
«Perché dici così?». «Perché non riesco a imparare a memoria le poesie che la maestra ci dà da studiare. Non mi restano in testa.
Devo
avere qualcosa che non va: la mia memoria deve essere danneggiata, per questo
non funziona».
Il
maestro lo aveva guardato benevolo: «Secondo me dovresti fare un’altra prova».
«Quale?»
aveva chiesto il ragazzino, speranzoso.
«Tu oggi vai a casa, scegli una canzone che ti piace, la impari a memoria e domani me la reciti tutta. È un test, così vediamo com’è la tua memoria. Va bene?».
«Va
bene, maestro».
La mattina dopo il ragazzino era entrato in classe tutto felice. «Allora, hai fatto quello che ti ho chiesto?» gli aveva domandato il maestro.
«Sì!»
aveva risposto lui, entusiasta.
E
non solo gli aveva recitato il testo di una canzone a memoria, gliela aveva
addirittura cantata davanti a tutti; i compagni, alla fine, erano esplosi in un
lungo applauso.
Il
maestro lo aveva guardato soddisfatto: «Hai visto? Il problema non sei tu, è
che le poesie che devi studiare non ti piacciono abbastanza.
La
tua memoria è a posto. Tu funzioni».
Erano passati tanti anni. Un giorno il maestro passeggiava in un’altra città. In mezzo alla gente, uno sconosciuto lo aveva fermato: «Maestro!».
Lui
non lo aveva riconosciuto. «Maestro, lei è stato mio supplente quando ero alla
scuola elementare!
Ero
quello che credeva di avere qualcosa fuori posto nella memoria e lei mi ha
fatto cantare una canzone davanti a tutti i miei compagni, per dimostrarmi che
il mio cervello era a posto!».
Il
maestro a quel punto si era subito ricordato, aveva intravisto il bambino di
ieri sotto la scorza dell’adulto di oggi: «Ma certo! Come stai? Che ci fai
qui?».
«Ora vivo in questa città. Mi sono trasferito qui perché ho studiato medicina e sono primario all’ospedale». «Che meraviglia, complimenti!».
«Io
non l’ho mai dimenticata, maestro.
Tanti
anni fa, con quella canzone, lei mi ha fatto capire che potevo credere in me
stesso.
Il
cammino che mi ha portato qui è iniziato quel giorno, perché lei mi ha dato la
certezza che io funziono».
Ho
sempre amato Giovanni Pascoli: una passione che è stata accesa in me dal mio
insegnante di lettere della scuola media che un giorno entrò in classe con una
piccola dispensa su quel poeta per ciascuno di noi.
L’aveva
pazientemente assemblata lui stesso, visto che Pascoli era uno dei suoi poeti
preferiti.
Così,
non molto tempo dopo, mi feci regalare per Natale dai miei genitori un libro
che raccoglieva le migliori poesie di Pascoli.
Quella
stessa mattina, scartati i doni, aprii una pagina a caso: mi imbattei in un
componimento molto poco noto, che inizia così: Allora... in un tempo assai
lunge felice fui molto; non ora: ma quanta dolcezza mi giunge da tanta dolcezza
d’allora!
Pascoli,
segnato da una tragica giovinezza, non ha certo una visione ottimista della
vita; nelle sue poesie spesso esprime paure, angosce, pensieri di morte e
desiderio di protezione. In questo testo, tuttavia, parla di felicità.
Una
felicità collocata in un passato lontano, quasi magico, ma assolutamente reale.
Un’epoca
che ancora, in qualche modo, illumina il presente di una luce benefica.
Quell’epoca poi, nei versi del poeta, si restringe. Diventa prima un anno, poi un giorno, poi un punto.
Ma
un punto di una positività insopprimibile, per quanto fuggevole: Un punto!...
così passeggero, che in vero passò non raggiunto, ma bello così, che molto ero
felice, felice, quel punto!
Certi
ricordi di infanzia sono indelebili e restano per sempre in noi.
Possono
essere distruttivi oppure benefici.
Nel
finale de I fratelli Karamazov l’immenso Fëdor Dostoevskij lo afferma a chiare
lettere: i ricordi belli da bambini sono sacri e chi porta con sé molti di
questi ricordi sarà salvo per sempre.
Perché,
anche se diventerà un adulto cinico e spietato non riuscirà a ridere fino in
fondo della sua ingenuità di allora.
Nel
suscitare ricordi positivi, la scuola e gli insegnanti hanno un ruolo
fondamentale.
È
esattamente quello che ha fatto il maestro di cui più sopra ho parlato, dando
fiducia a un ragazzino cresciuto in un contesto problematico e poi diventato
primario.
Per
generare ricordi positivi, è fondamentale credere nelle persone che si
incontrano tra i banchi di scuola.
Credere
nelle loro capacità, nella loro intelligenza.
Anzi,
nelle loro intelligenze, perché non bisogna dimenticare mai che le intelligenze
sono multiple: ognuno ha talenti propri, diversi da quelli degli altri, e
l’abilità dell’insegnante è proprio quella di far fiorire il talento, unico e
irripetibile, di ciascuno.
In
questo modo la didattica non si limiterà a trasmettere nozioni aride ma porterà
a fare esperienze di un reale buono, un reale nel quale ciascuno studente ha la
sua parte e può dare il proprio contributo.
Perché
ciascuno studente, come quel ragazzino disorientato, funziona.
Tutti noi funzioniamo. I nostri figli, i nostri allievi, funzionano, ciascuno a modo suo.
Ripenso
a quel maestro.
Incontrarlo
per me è stato un dono. Come sono un dono tutti gli insegnanti di periferia,
che accettano sfide enormi in contesti difficili, trasformando ogni giorno il
loro lavoro in una missione decisiva.
Ricordo
una prof che mi disse: «Il mio successo è quando al termine del primo anno di
professionale tutti i miei studenti riescono a stare per un’ora intera seduti
al banco in silenzio, alzando la mano prima di intervenire».
Per
me, privilegiato docente di liceo, quelle parole furono una grande
provocazione: mi ricordarono che una didattica di successo parte sempre dalle
classi reali che si hanno davanti; che l’importante non è l’altezza della vetta
che si raggiunge ma il dislivello che si riesce a compiere insieme: l’ascesa,
non la meta in termini assoluti.
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