"La speranza
fa parte dell’umano:
così impariamo
a vincere il
tempo"
Non è un atteggiamento esclusivamente cristiano, ma è presente in tutte le civiltà.
Da sempre avvertiamo la magia dell’inizio di un anno, la poesia del ricominciare.
- di Vito
Mancuso
C'è
sempre un che di magico e di fatato all'inizio dell'anno, l'umanità l’ha
avvertito da sempre e per questo ha configurato quello straordinario rito di
passaggio che sono l'ultimo e il primo dell'anno, la notte più rumorosa e la
mattina più silenziosa di tutte, un’accoppiata di frastuono e di silenzio che
non ha eguali nel resto dell'anno e che coinvolge tutti gli esseri umani, di
qualunque strato sociale o livello culturale essi siano.
Che
senso ha tutto ciò? È la poesia del ricominciare, dell’avere a disposizione un
tempo del tutto nuovo in cui si può essere diversi, migliori, magari persino
più buoni. Non c'entrano nulla la fede e la religione, si tratta qualcosa che
viene prima, che è più profondo, più primordiale, e che ha a che fare con la
nostra relazione col tempo. Il tempo: quel mistero dell'essere che, come diceva
Giordano Bruno, “tutto toglie e tutto dà”.
“Tutto
toglie”: un anno è passato e non tornerà più, se n’è andato dove sono finiti
tutti gli altri, in quell’antro senza fondo che chiamiamo passato. “Tutto dà”:
un anno è intatto davanti a noi con la sua distesa dei giorni e le loro
promesse, in quel tunnel che forse ha una luce là in fondo forse no che
chiamiamo futuro. Ma come rapportarci a questa distesa dei giorni con le loro
promesse, che è poi il tempo della vita che ci rimane da vivere, e che non
sappiamo quanto lungo sarà? …
Io
penso che nelle più profonde questioni esistenziali la situazione sia analoga a
quella degli esperimenti nell'ambito della meccanica quantistica, a proposito
della quale è noto che l'osservatore condiziona in modo decisivo il risultato
dell'esperimento. Nella fisica classica non è così, in essa il ruolo
dell’osservatore è neutro e per questo può raggiungere una verità oggettiva.
Nella fisica quantistica invece la misurazione dell’osservatore condiziona in
modo decisivo il risultato dell’esperimento: misurando in un modo si ottiene un
risultato, misurando in altro modo se ne ottiene un altro. Ha affermato John
Archibald Wheeler, tra i più celebri fisici del ‘900: “L’insegnamento più
importante della fisica quantistica è che i fenomeni fisici vengono definiti
attraverso la domanda che ci poniamo su di essi”. Diverse domande, diverse
definizioni dei fenomeni, tutto quindi parte dalla domanda. Ebbene, io penso
che lo stesso valga per l’esperimento che concerne la nostra esistenza: tutto
dipende dalla domanda, in particolare dalla domanda che rivolgiamo a quel
tunnel che si chiama futuro.
Credo
che i più pongano domande unicamente in prospettiva materiale, per non dire
materialistica: sperano, cioè, nella fortuna (il biglietto vincente), nel
successo, in un evento che arrivi nella loro esistenza e la trasformi. Non è
sbagliato, è molto umano, ma si tratta di domande che esprimono una visione
limitata, funzionale alla dimensione orizzontale e individuale dell’esistenza
(un po’ come quel libro di qualche anno fa: Io speriamo che me la cavo).
Ben
diversamente l’esperimento si configura quando la domanda sulla vita assume un
più ampio respiro: non si attende semplicemente qualcosa che migliori la vita,
ma si spera nella vita nella sua totalità: che abbia un senso, una prospettiva,
un fine, oltre che una fine. In questa prospettiva si dispone l’esperimento
ponendo alla vita, come guardandola negli occhi, una domanda radicale: Vita,
cosa sei? Perché ci sei? Da dove vieni? Dove mi conduci? Che ne sarà di me, di
noi, del tutto?
La
risposta, ovviamente, non la sapremo mai, la vita non è una signora perbene che
risponde alle domande, neppure alle lettere. No, la vita è una Sibilla,
un’antica divinità che emette responsi ambigui e che richiedono l’investimento
dell’energia personale per poterli interpretare. La vita non è un fenomeno
ascrivile al campo rassicurante della fisica classica, appartiene piuttosto
alla più fondamentale e più bizzarra dimensione della fisica quantistica. E per
questo, per rivelare qualcosa del suo sapore, richiede che il soggetto si
pronunci, si esponga e per così dire creda in lei. Questo pronunciamento o
esposizione o fede del soggetto verso la vita la possiamo chiamare
speranza.
All’inizio
dell’anno, quando la distesa dei giorni dell’anno passato è scomparsa, bruciata
nell’ultima notte come il fantoccio che effigiava l’anno vecchio, e quando la
distesa dei giorni dell’anno nuovo si presenta intatta alla mente, è possibile
sperare o disperare. Non è questione di intelligenza o di logica, perché
l’intelligenza e la logica se applicate all’esistenza forniscono al contempo
ragioni per sperare e ragioni per disperare, e se ci affidiamo unicamente a
loro siamo per forza consegnati all’antinomia. Per questo Kant scrisse un
giorno che sono tre le domande attorno a cui ruota il pensiero: “Che cosa posso
sapere? Che cosa devo fare? Che cosa mi è lecito sperare?”. Per cogliere
qualcosa del senso del tempo e della nostra comparsa in esso in questo
esperimento quantistico ed esistenziale che è la vita, non basta la dimensione
cognitiva (domanda kantiana n. 1), né basta la dimensione etica (domanda n. 2):
occorre mettere in campo la dimensione implicata nella terza domanda. Essa
chiede cosa è lecito sperare e ovviamente si può rispondere in due modi: nulla,
oppure qualcosa. Se si risponde nulla, la speranza viene meno e si cade nel suo
contrario, la disperazione. Se si risponde qualcosa, la speranza si attiva e
consegna a chi la coltiva il suo dono particolare, quello che viene dal suo
stesso nome, che in latino è “spes” e che proviene da “pes”, piede, come
scriveva molti secoli fa Isidoro di Siviglia e come attesta oggi la filologia
che fa derivare il termine speranza dalla radice indoeuropea “-spa” che
significa “tendere a”, esattamente la medesima disposizione in gioco nel
camminare.
Di
solito si ritiene che la speranza sia un atteggiamento tipicamente, o
addirittura esclusivamente cristiano, ma non è per nulla così. È vero che per
il cristianesimo la speranza è molto importante essendo una delle tre
cosiddette “virtù teologali” (fede, speranza, amore), ma è altrettanto vero che
la speranza attiene alla vita umana in quanto tale. È attestato da tutte le
grandi civiltà. Per gli antichi romani la speranza era una divinità, la dea
Spes, festeggiata il 1° agosto. Eraclito scrisse che “se uno non spera, non
potrà trovare l’insperabile, perché esso è difficile da trovare e impervio”.
Aristotele definì la speranza “sogno di uomo sveglio”. Per Leopardi “la
speranza è una passione, un modo di essere, così inerente e inseparabile dal
sentimento della vita”, per cui, aggiungeva il poeta, “io vivo, dunque io
spero, è un sillogismo giustissimo”. Ernst Bloch, pensatore ateo di area
marxista, scrisse che “l'importante è imparare a sperare”, che “il lavoro della
speranza non è rinunciatario perché desidera aver successo invece che fallire”
e che “l'effetto dello sperare si espande, allarga gli uomini invece di
restringerli”.
Desidero concludere con le parole di un fisico, Erwin
Schrödinger, che aprono alla mente la speranza che una luce là in fondo al
tunnel effettivamente vi sia: “Pur riconoscendo debitamente il fatto che la
teoria fisica è in ogni tempo relativa, in quanto dipende da certe ipotesi
fondamentali, noi possiamo, credo, asserire che la teoria fisica nel suo stato
presente suggerisce energicamente l’idea dell’indistruttibilità dello Spirito
per opera del Tempo”.
Credo che non vi sia speranza più bella di questa: che vi
sia qualcosa di noi che il tempo non possa togliere.
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