mercoledì 30 settembre 2020

IL PAPA INVITA A RISCOPRIRE L'AMORE PER LA SACRA SCRITTURA

Papa Francesco oggi ha firmato la Lettera apostolica «Sacrae Scripturae affectus», nel 16° centenario della morte di San Girolamo. L’esempio di questo grande dottore e padre della Chiesa, che ha messo la Bibbia al centro della sua vita, susciti in tutti un rinnovato amore alla Sacra Scrittura e il desiderio di vivere in dialogo personale con la Parola di Dio.

“La sua figura rimane di grande attualità per noi cristiani del XXI secolo”, è per questo che a milleseicento anni dalla morte Papa Francesco ha voluto dedicare a San Girolamo, tra i più grandi Padri della Chiesa d’Occidente, la Lettera Apostolica Scripturae Sacrae Affectus. Proprio l’affetto, l’amore per la Sacra Scrittura è l’eredità che Girolamo “ha lasciato alla Chiesa attraverso la sua vita e le sue opere”. “Infaticabile studioso, traduttore, esegeta, profondo conoscitore e appassionato divulgatore della Sacra Scrittura”, “raffinato interprete dei testi biblici”, “ardente e talvolta impetuoso difensore della verità cristiana”, ascetico e intransigente eremita” oltre che esperta guida spirituale: questo è stato Girolamo.

 Sintetizzando la figura di Girolamo e il suo amore per gli studi, il Papa rimarca che “uno dei problemi odierni, non solo della religione, è l’analfabetismo: scarseggiano le competenze ermeneutiche che ci rendano interpreti e traduttori credibili della nostra stessa tradizione culturale”. 

Da qui un invito: “Specialmente ai giovani voglio lanciare una sfida - conclude Francesco - partite alla ricerca della vostra eredità. Il cristianesimo vi rende eredi di un insuperabile patrimonio culturale di cui dovete prendere possesso. Appassionatevi di questa storia, che è vostra. Osate fissare lo sguardo su quell’inquieto giovane Girolamo che, come il personaggio della parabola di Gesù, vendette tutto quanto possedeva per acquistare ‘la perla di grande valore’”. “Girolamo è la ‘Biblioteca di Cristo’ – nota il Papa - una biblioteca perenne che sedici secoli più tardi continua a insegnarci che cosa significhi l’amore di Cristo, amore che è indissociabile dall’incontro con la sua Parola. 

Per questo l’attuale centenario rappresenta una chiamata ad amare ciò che Girolamo amò, riscoprendo i suoi scritti e lasciandoci toccare dall’impatto di una spiritualità che può essere descritta, nel suo nucleo più vitale, come il desiderio inquieto e appassionato di una conoscenza più grande del Dio della Rivelazione”. E con le parole di Girolamo Francesco raccomanda: “Leggi spesso le Divine Scritture; anzi le tue mani non depongano mai il libro sacro”.

Leggi: SACRAE SCRIPTURA AFFECTUS



martedì 29 settembre 2020

ALLA RICERCA DEL BUON-VIVERE

Pubblicato il Rapporto sul ben-vivere.


Ricerca di senso 

oltre il benessere

Porre l’accento su generatività e ben-vivere, come cerca di fare questo rapporto, ci aiuta a fare un passo avanti nella comprensione di quegli elementi sociali e di contesto che possono facilitare quel processo di creazione di senso che è bisogno fondamentale e criterio d’azione.


VITTORIO PELLIGRA*


Cosa ci ha spinto, originariamente, a progettare e a realizzare il Rapporto sul Ben-vivere dei territori italiani? Innanzitutto, la necessità culturale di 'complicare l’economia', come avrebbe detto Albert Hirschman. La necessità di rendere più preciso nei dettagli e, al tempo stesso, più ampio il quadro di ciò che definisce le finalità, le aspirazioni, il senso di una comunità e dei suoi membri. Nel tentativo di superare l’angusta precisione delle misure esclusivamente monetarie, negli ultimi anni si è venuta a formare una ricca batteria di misure alternative, come il Bes – il Benessere equo e sostenibile – o come i vari indicatori di sviluppo umano, di progresso 'genuino', di felicità, di benessere soggettivo, di 'vita migliore', e molti altri. Il principale pregio di questi indicatori, e di tutto il dibattito che ne ha alimentato la creazione, è stato, probabilmente, quello di aver evidenziato la natura multidimensionale del ben-essere umano, fatto, certamente, di accesso alle risorse, ma anche di relazioni, di fiducia, di diritti e salute, di ambiente e perfino di bellezza. Con questo rapporto vengono esplicitati due ulteriori elementi che riteniamo essenziali nella comprensione di ciò che determina e accompagna un’autentica fioritura umana: la dimensione della generatività e quella del ben-vivere.

L’importanza di questi due aspetti è legata, nella mia lettura, al fatto che essi costituiscano elementi necessari e fondanti di quello che è il punto centrale nella vita di ciascuno di noi: la ricerca e la scoperta di un senso, della direzione e della finalità del nostro agire.

Il tema della generatività, così come elaborato inizialmente da Erik Erikson e sviluppato nell’ambito di una consolidata tradizione italiana, si fonda su quattro movimenti dell’esistenza: desiderare, far nascere, accompagnare, lasciar andare. In questo senso il 'generare', viene a rappresentare una forma matura e consapevole di libertà. Come scrivono Mauro Magatti e Chiara Giaccardi: «La generatività consente di delineare una direzione di senso non puramente autoreferenziale ma aperta allo scambio intersoggettivo». In ambito sociale, essere generativi, significa produrre valore e condividerlo, lasciando più di quanto si è preso.

Il secondo aspetto rilevante è quello del 'benvivere'. Ben-vivere e non solo ben-essere, perché è l’azione che, in definitiva, definisce l’esistenza. È ciò che facciamo, ciò che lasciamo negli altri, che dice realmente chi siamo. E allora non è possibile pensare al benessere senza comprendere le condizioni che facilitano o ostacolano la possibilità di vivere una vita buona. In questo senso l’allargamento degli spazi di libertà, delle opportunità che si offrono a ciascuno di vivere secondo valori e modelli che si ritengono più degni di essere vissuti è da considerarsi certamente un indicatore di progresso. Questo allargamento non è da intendersi come una spinta al puro e semplice relativismo, tutt’altro. Va di pari passo, infatti, con il riconoscimento della nostra comune umanità. 

Se esistono cucine e tradizioni gastronomiche differenti, alcune delle quali incontrano i gusti di alcuni ma non di altri, è pur vero che ogni essere umano ha bisogno di bere e di mangiare. È la nostra umanità condivisa, dunque, che ci fa incontrare su un terreno comune definito dalla necessità di dare un senso alle nostre vite. La ricerca scientifica, in questo ambito, ci dice che esistono dei tratti universali, degli elementi comuni che caratterizzano, pur nella loro pluralità, questo processo di attribuzione di senso. Tali elementi hanno a che fare con la possibilità di vivere una vita autonoma, ma al tempo stesso, con gli altri e per gli altri. Riconoscere di poter avere un impatto, di essere importante per qualcuno, che il nostro lavoro può fare la differenza, di poter contare su chi ci vuole bene, di poter dare riconoscimento ed essere riconosciuti, sono alcuni degli elementi di cui nessuno di noi può fare a meno senza vedere svilito il senso propria vita. In questo quadro appaiono più chiari serissimi fenomeni contemporanei come quello delle 'morti per disperazione', la diffusione dei lavori socialmente inutili ( bullshit jobs) e la fascinazione per i populismi dei muri e del risentimento.

www.avvenire.it

 

Leggi  RAPPORTO SUL BEN-VIVERE

 *Insegna Politica Economica, Economia dell’Informazione ed Economia Comportamentale. Università di Cagliari.

ITALIA. IN CALO LE DONAZIONI E L'IMPEGNO NEL VOLONTARIATO


 Rapporto IID. 

Calate le donazioni nel 2019. 

E quest'anno preoccupa


Francesco Riccardi 

 

Diminuisce di un punto percentuale il numero degli italiani che fanno offerte in denaro. In discesa anche l'impegno nel volontariato. Tengono solo le cessioni di sangue

 Doniamo meno. E ciò che forse è peggio, ci siamo impegnati meno anche nel volontariato. I dati relativi al 2019 del rapporto dell'Istituto Italiano della Donazione (IID) segnalano come per la prima volta rallenti la generosità degli italiani dopo anni sempre in crescita. Un dato che preoccupa e soprattutto per la proiezione sul 2020. Un anno davvero speciale a causa della pandemia, nel quale c'è stata sì una mobilitazione notevole di risorse private a favore, ad esempio, degli interventi della Protezione civile. Ma le donazioni si sono molto concentrate verso lo Stato e nel settore della sanità, lasciando scoperti gli altri segmenti dell'associazionismo, della cooperazione e del volontariato.

Il rapporto dell'Istituto italiano del dono, basato su più fonti statistiche a partire da quelle Istat, segnala infatti che lo scorso anno è calata dal 14,5 al 13,4% la quota di nostri concittadini che hanno effettuato donazioni. Stesso trend in un'indagine svolta dalla Bva Doxa che, nel suo campione, registra una diminuzione dal 49% del 2018 al 44%del 2019, seppure con un incremento della cifra media da 70 a 77 euro. Le cause per cui si dona sono soprattutto la ricerca medico-scientifica, poi il contrasto alla povertà e il sostegno a malati e disabili.

I numeri dell'Istat certificano un lieve calo anche dell'impegno nelle associazioni di volontariato: donare tempo e competenze è sempre un'attività che riguarda una quota minoritaria di popolazione, ma risulta in ulteriore calo dal 10,5% del 2018 al 9,8% del 2019. In cifra assoluta si passa da una stima di 5.538.000 a 5.174.000 persone. Se a queste aggiungiamo anche il numero di persone che prestano volontariato in associazioni non di volontariato il numero totale arriva a 6.854.000 persone con un calo sull'anno precedente, però, di 506.000. Le regioni con più volontari fra la popolazione sono ancora il Trentino Alto Adige (21,4%), la Valle D'Aosta (17,2%), e il Veneto 13,9%. Aumenta invece il numero di italiani che si impegnano specificatamente in associazioni ecologiche, per i diritti civili o la pace sulla scia del forte coinvolgimento dell'opinione pubblica su questi temi negli ultimi anni: sono stati 866.000 nel 2019, 60.000 in più rispetto al 2018. La maggior parte sono giovani donne tra i 14 e i 24 anni.

Tengono, e anzi sono in leggero incremento, le donazioni biologiche. Secondo i dati del Centro Nazionale Sangue, infatti, nel 2019 sono stati 1.683.470 gli italiani che hanno donato il sangue almeno una volta (+0,04% rispetto al 2018) e il 92% di loro sono iscritti ad associazioni.

"In occasione del Giorno del Dono - spiega il presidente dell'IID Stefano Tabò - forniamo un'analisi che permette di avere una panoramica dell'andamento delle pratiche di dono e di sostegno al non profit relativi all'anno precedente, uno "stato dell'arte" utile a tutti coloro che operano nel mondo del terzo settore e non solo. Il focus del Rapporto sono gli italiani: la loro disponibilità economica ad aiutare gli altri, il loro impegno diretto nel volontariato, la loro volontà di donare sangue, organi e tessuti per aiutare chi sta male. Mettendo insieme autorevoli dati riusciamo a dare una panoramica rappresentativa della situazione e a leggere meglio la società in cui opera il terzo settore".

Il rapporto completo sarà presentato e discusso il 2 ottobre alle 11 in un convegno in live streaming sulla pagina Facebook e il canale YouTube dell'IID. Il presidente Stefano Tabò per IID e la Portavoce Forum Nazionale Terzo Settore Claudia Fiaschi apriranno i lavori alle ore 11.

 

www.avvenire.it


Leggi: ISTITUTO ITALIANO DONO



 

 

 

lunedì 28 settembre 2020

PER UN SERVIZIO EFFICACE

 


DIDATTICA DIGITALE E COMUNICAZIONE INTERPERSONALE

Alla pari, 

ma non accanto 

Scuola e «didattica virtuale»

Ora che l’acronimo «Dad» ci risulta familiare, possiamo avere uno sguardo più pacato e coglierne i vantaggi Un aspetto negativo è rappresentato dal perdurante divario digitale, e la carenza antropologica di questa tecnologia

Nelle lezioni a distanza si stabilisce una parità tra insegnanti e studenti, ma viene meno l’affiancamento. Bene il legame fiduciario, ma c’è il rischio di non essere capiti,

 AMOS BERTOLACCI *

 L’emergenza Covid-19 dei mesi scorsi ha ristretto i nostri spazi, allungando tuttavia i tempi della nostra vita: durante il lockdown abbiamo sperimentato un ritmo temporale diverso, più lento e meno frenetico, sebbene talvolta drammaticamente vuota di relazioni, di lavoro e di affetti. In questa dilatazione del tempo abbiamo vissuto in anteprima una porzione di futuro, che ci è inaspettatamente corso incontro veloce. Questa sorta di irruzione del futuro nel presente può essere vista come un’esperienza “profetica”, quasi che il 2020, nonostante la tragedia dei suoi primi mesi, sia stato un anno “di grazia”, se questa espressione non stridesse con i sacrifici di vite umane e con i costi economici che il virus ha prodotto. In questo periodo, tra le altre cose, abbiamo toccato con mano come sarà la didattica del futuro, se non quella emergenziale dei prossimi mesi nel caso di una nuova ondata di contagi, certamente quella progressiva degli anni a venire, a pandemia finita. È un fatto la perdita di unicità o, per dirla con Walter Benjamin, di “aura”, della lezione universitaria che si tiene da remoto per via telematica, con le conseguenze positive e negative che ne derivano. In sintesi, se in questo modo la lezione aumenta la propria diffusione nello spazio e nel tempo, essa perde un ingrediente indispensabile della relazione educativa, cioè un pieno contatto interpersonale. Adesso vorrei soffermarmi sulle caratteristiche del luogo virtuale in cui questo tipo di didattica, universitaria e non, avviene e sul loro impatto educativo. La didattica da remoto, pur non situandosi in alcun luogo reale, accade tuttavia in un ambiente che ha le sue dimensioni e le sue specificità e che, tramite queste, influenza chi lo frequenta. Anche le presenti riflessioni nascono dall’esperienza di docente di chi scrive, pur potendosi applicare anche agli altri ambiti cui la comunicazione telematica si presta, e intendono soppesare vantaggi e svantaggi, mantenendo equanime il giudizio.

U n risvolto positivo è che nel luogo virtuale della lezione a distanza nessuno si trova più in alto di altri. Il docente si abbassa al livello dello studente, o que- st’ultimo sale al suo, e tutti stanno alla pari; chi tiene la lezione perde la sua posizione di superiorità, la sua

icona non appare più grande o più visibile di quella degli altri, ed egli o ella scende simbolicamente dalla cattedra. Ciò apre a docenti e studenti maggiori possibilità di confronto franco e diretto e di dinamiche di co-protagonismo all’interno di una didattica che si mantenga a viso aperto e resti egualitaria. D’altro canto, tramite lo schermo di un computer si può solo stare di fronte, mai accanto a qualcuno. La lezione a distanza non può sottrarsi a questo vincolo visuale ed è costretta a rimanere “frontale” in ogni suo momento: il docente e lo studente sono obbligati ad un vis-à-vis continuo, senza che nessuno dei due possa mutare posizione e collocarsi a fianco dell’altro. Ed invece lo studente ha spesso bisogno di qualcuno che gli si affianchi, che lo sostenga e che talvolta anche lo spinga: lo sanno bene gli insegnanti delle scuole elementari, ma lo sperimenta anche chiunque altro insegni, se non in aula, certamente durante il tutoraggio, la supervisione di elaborati e così via. In questa situazione i protagonisti della lezione rischiano di irrigidire il loro fronteggiarsi, trasformandosi gradualmente in interlocutori antagonisti, incapaci di orientarsi assieme verso un obiettivo comune. Assieme alla possibilità di stare accanto, si perde anche l’assiduità, cioè il rimanere seduti in prossimità di un altro, quasi che la didattica a distanza fosse simbolicamente segnata da intermittenza e incostanza. U n secondo punto rilevante è che il luogo della didattica a distanza ha dimensioni variabili e talvolta riduce drasticamente la propria ampiezza. Quando lo studente spegne il video del suo computer per meglio seguire la lezione o risparmiare connessione, il docente non sa più dove lo studente si trovi e perde con lui contatto visivo e possibilità di riscontro immediato. In questa situazione, egli può solo affidarsi alla persona che sta dietro al nome che legge sullo schermo, confidando nella sua attenzione e ricettività e, più in generale, nella sua buona volontà e senso di responsabilità. In altri termini, la didattica a distanza – soprattutto in questo momento di transizione tecnologica in cui una rete affidabile non è ancora diffusa in tutto il nostro paese e in cui la velocità di connessione è variabile da zona a zona – è spesso costretta ad essere fiduciaria da parte del docente e responsabile da parte dello studente, con un maggior coinvolgimento etico di entrambi. Ma quanto impatta negativamente sulla lezione l’assenza di contatto percettivo? In aula, chi insegna riesce sempre in qualche modo a verificare se ciò che propone è efficace e a cogliere il grado di attenzione dei presenti, capendo quando è il momento di ripetere un punto o di divagare per un attimo, in attesa di un cenno di assenso o di uno sguardo che ritorni vigile. Quando invece gli audio e i video degli studenti sono spenti, il docente da remoto corre per lunghi tratti il rischio concreto di non venire capito, se non addirittura di parlare nel vuoto. nfine, occorre notare che la ridotta lo-Icalizzazione della didattica a distanza

comporta il potenziamento del suo aspetto verbale. Una volta che l’aula viene smaterializzata ed i corpi del docente e degli studenti relegati ad immagine solo parzialmente visibile o del tutto assente, ciò che risalta è quello che il docente e gli studenti si dicono e su cui interagiscono a parole. Con la lezione trasferita in un nonluogo e, se registrata, in un non-tempo, e con il linguaggio del corpo decurtato, il discorso, pronunciato e scritto, assurge a elemento didattico centrale, in controtendenza rispetto ai socials in cui esso funge invece da mera didascalia dell’immagine. Forse la didattica del futuro, in un momento ancora da definire, saprà meglio ricordarci che, se fin dai tempi di Aristotele l’uomo è animale razionale ( zoon logistikon), lo è precisamente perché dotato di parola, e che, in tutte le cose veramente umane, al principio ed alla fine si situa sempre, in forma orale o scritta, il logos. Per il momento, tuttavia, la didattica a distanza si presta troppo apertamente ad essere solo educazione della mente, prescindendo dal corpo e dal resto della persona, con il rischio di veicolare un logos disincarnato ed educativamente “eretico”. A desso che la prima fase dell’emergenza Covid-19 è finita e la didattica a distanza ha cessato di essere una costrizione imposta dalle circostanze, adesso che l’acronimo DaD ci risulta familiare e la cosa che esso designa ci è nota per esperienza diretta, possiamo forse iniziare a rivolgerle uno sguardo più pacato e ad intravederne le potenzialità positive, in attesa del futuro riassetto dell’insegnamento che la tecnologia, bruscamente o gradatamente, di sicuro produrrà. Ma nel frattempo non dobbiamo dimenticare i suoi limiti oggettivi, difficilmente eludibili in questa fase di perdurante digital divide, e la sua insuperabile carenza antropologica.

*Scuola IMT Alti Studi Lucca

www.avvenire.it

sabato 26 settembre 2020

VI PASSERANNO AVANTI NEL REGNO DI DIO

 
-         XXVI domenica del tempo Ordinario, anno A

Mt 21,28-32

In quel tempo, Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: «Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. Si rivolse al primo e disse: “Figlio, oggi va’ a lavorare nella vigna”. Ed egli rispose: “Non ne ho voglia”. Ma poi si pentì e vi andò. Si rivolse al secondo e disse lo stesso. Ed egli rispose: “Sì, signore”. Ma non vi andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». Risposero: «Il primo». E Gesù disse loro: «In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli».

 Commento di Enzo Bianchi

 Nel tempio di Gerusalemme Gesù è attorniato dai sommi sacerdoti e dagli anziani del popolo, i quali detestano questo rabbi e profeta proveniente dalla Galilea, che narra un volto di Dio così estraneo alle loro categorie. Perciò lo mettono alla prova, chiedendogli con quale autorità egli insegni e operi guarigioni. Gesù, in risposta, domanda loro se il battesimo di Giovanni veniva dal cielo oppure dagli uomini; e di fronte al loro imbarazzato silenzio conclude: «Neppure io vi dico con quale autorità agisco» (Mt 21,27). 

A questo punto egli pronuncia la prima di tre parabole incentrate sul rifiuto opposto dai capi religiosi di Israele a coloro che Dio ha inviato ad annunciare la sua salvezza. Un uomo ha due figli: chiede al primo di andare a lavorare nella vigna ed egli, dopo aver acconsentito a parole, non fa ciò che ha detto; l’altro risponde negativamente ma poi, pentitosi, va al lavoro. È il secondo ad aver compiuto la volontà del padre, ammettono gli interlocutori di Gesù. Ed egli commenta: «I pubblicani e le prostitute vi precedono nel regno di Dio. È venuto a voi Giovanni nella via della giustizia e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, pur avendo visto queste cose, non vi siete nemmeno pentiti per credergli». Con queste parole Gesù pone la propria missione in stretta relazione con quella di Giovanni, suo maestro e precursore: rifiutare l’uno è rifiutare anche l’altro (cf. Mt 11,16-19). Egli rivela inoltre che la salvezza può essere accolta solo da chi è disponibile a fare ritorno a Dio, pentendosi del male fatto e abbandonando le proprie vie di peccato. In questo senso vale la pena analizzare più in profondità il senso del detto paradossale: «I pubblicani e le prostitute vi precedono nel Regno» rivolto da Gesù agli uomini religiosi del suo tempo e, con loro, a ciascuno di noi. 

Gesù sapeva bene che tutti gli uomini sono peccatori, se è vero che il giusto pecca sette volte al giorno (cf. Pr 24,16): ma qual è il motivo della sua preferenza per la compagnia dei peccatori pubblici, riconosciuti tali dagli uomini? Chi pecca di nascosto non è mai spronato alla conversione da un rimprovero che gli venga da altri, perché continua ad essere stimato per ciò che della sua persona appare all’esterno: questa è la malattia della maggior parte delle persone, tra le quali primeggiano quelle devote, che disprezzano gli altri considerandoli immersi nel peccato, mentre ringraziano Dio per la loro pretesa giustizia (cf. Lc 18,9-14). Chi invece è un peccatore pubblico si trova costantemente esposto al biasimo altrui, e in tal modo è indotto a un desiderio di cambiamento: nel pentimento che nasce da un «cuore spezzato» (Sal 34,19) egli può divenire sensibile alla presenza di Dio, quel Dio che non vuole la morte del peccatore, ma piuttosto che si converta e viva (cf. Ez 18,23). 

È proprio in forza di tale consapevolezza che Gesù amava sedere a tavola con i peccatori manifesti, condividere con loro questo gesto di estrema comunione. Il suo comportamento svela il cuore di Dio, mostra l’atteggiamento di Dio verso il peccatore, e per questo egli è contestato dagli uomini religiosi, che prima cercano di scandalizzare i suoi discepoli: «Perché il vostro maestro mangia e beve con i pubblicani e i peccatori?» (Mt 9,11), poi lo accusano in modo diretto: «Ecco un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori» (Mt 11,19). Ma l’amicizia di Gesù verso le persone meno stimate all’interno della società, la sua cordiale simpatia per prostitute e peccatori ignora il disprezzo di quanti si sentono migliori dei peccatori manifesti, semplicemente perché non vogliono o non sanno riconoscersi peccatori come loro… 

Sì, il vero miracolo – più grande che resuscitare i morti, diceva Isacco il Siro – consiste nel riconoscersi peccatori: siamo noi i pubblicani, siamo noi le prostitute! È davvero una fatica vana quella fatta per nascondere agli altri il proprio peccato: basterebbe riconoscerlo consapevolmente, per scoprire che Dio è già là e ci chiede solo di accettare che egli lo ricopra con la sua inesauribile misericordia.

 

https://alzogliocchiversoilcielo.blogspot.com/2020/09/enzo-bianchi-commento-vangelo-27.html



 

LIBERTÀ' E SERIETÀ' AL TEMPO DEL CORONA-VIRUS

 


Giuseppe Savagnone*

 

«Anche noi italiani amiamo la libertà ma abbiamo a cuore anche la serietà». Queste parole del presidente Sergio Mattarella – pronunciate a Sassari, conversando con alcuni partecipanti alle celebrazioni in onore di Cossiga – sono state ampiamente riportate e commentate, nei giorni scorsi, da tutti i quotidiani.

Dove era chiaro il riferimento ad un’affermazione del premier britannico Boris Johnson il quale, alla Camera dei Comuni – rispondendo ad un deputato dell’opposizione che chiedeva come mai la pandemia facesse meno vittime in Germania e in Italia che nel Regno Unito –, aveva risposto: «C’è un’importante differenza tra il nostro paese e gli altri del mondo, cioè che il nostro paese ama la libertà». Perciò, aveva concluso, «è davvero difficile chiedere alla popolazione britannica di obbedire uniformemente alle linee guida nel modo necessario».

Il contesto: la pandemia nel Regno Unito

Non bisogna perdere di vista il contesto in cui Johnson parlava: nel Regno Unito la pandemia ha determinato, su una popolazione di 67 milioni di abitanti, quasi 420.000 contagi e più di 42.000 morti, a fronte dei 304.000 contagi e 35.000 morti – su 60 milioni di abitanti – dell’Italia. Con un trend negativo che lascia prevedere un’ulteriore accentuazione del divario, dato che in Inghilterra i contagi giornalieri sono migliaia (il solo 24 settembre, 6.634, con 40 decessi), mentre in Italia non raggiungono ancora i 2.000 (nello stesso giorno 1.786, con 23 decessi).

Non a caso recentemente il prestigioso «Financial Times» ha elogiato l’ Italia per le modalità in cui ha gestito l’ emergenza Covid. Uno schiaffo per il governo inglese e per tutti quelli che avevano deriso le severe misure adottate nel nostro paese – il primo in Occidente ad essere aggredito dal coronavirus, e in modo brutale –, sostenendo che, per far fronte efficacemente alla pandemia,  esistevano altre strategie meno restrittive delle libertà individuali.

Al di là della polemica, quale idea di libertà?

Si comprende dunque il tono della risposta di Johnson a una domanda che esplicitamente stabiliva il confronto tra Regno Unito e Italia. Con la risposta, pacata ma ferma, di Mattarella. Ma, al di là dell’episodio polemico, in fondo abbastanza irrilevante, quello che sembra meritevole di approfondimento è il diverso modo di intendere la libertà che sembra emergere dalla posizione del premer inglese e di quella del nostro presidente della Repubblica, in cui si evocava il rapporto di questo concetto con la “serietà”.

Serietà e responsabilità

Per comprendere il senso che Mattarella dava a questo termine, può essere rileggere ciò che egli ha detto il 31 luglio scorso, in occasione della cerimonia del Ventaglio: «Talvolta» – aveva detto il capo dello Stato in quell’occasione – «viene evocato il tema della violazione delle regole di cautela sanitaria come espressione di libertà. Non vi sono valori che si collochino al centro della democrazia come la libertà. Naturalmente occorre tener conto anche del dovere di equilibrio con il valore della vita, evitando di confondere la libertà con il diritto far ammalare altri».

Dove è chiaro il nesso tra la “serietà” evocata nella risposta a Johnson e la responsabilità che ogni persona deve avere nei confronti degli altri.

La prevalenza del modello liberale in tutto l’Occidente

Un nesso che in realtà sfugge anche a molti nostri concittadini e spiega le accuse rivolte al governo italiano per avere limitato notevolmente i diritti nella fase del lockdown e per le restrizioni che continua a imporre adesso.

Il punto è che il modo di intendere la libertà attribuito da Mattarella al popolo italiano, da tempo è ormai surclassato, anche in Italia – come del resto in tutto il mondo occidentale –, da quello di matrice liberale che, in piena conformità con la tradizione del suo paese, è stato utilizzato dal premer inglese.

La libertà è alternativa ai vincoli sociali?

Sono stati i filosofi inglesi del Seicento, infatti, a codificare un concetto di libertà consistente non tanto e non più, come nel pensiero medievale, come libertà di scelta, bensì come «mancanza di impedimenti esterni». Dove, evidentemente, la libertà viene dislocata dalla sfera interiore della persona – quella in cui si fanno le scelte – a quella esteriore, diventando sinonimo di autonomia da vincoli esterni.

Ovviamente dei vincoli, nella vita sociale, ci sono e non vengono negati. Ma si è liberi, in questa prospettiva, nella misura in cui si è esonerati da essi e si può fare quello che si vuole senza doverne rispondere a nessuno. In questo modo libertà e legge, libertà e legami relazionali, coesistono, ma sono inversamente proporzionali. Si è tanto più liberi quanto meno ci si deve confrontare con i limiti posti dalle istituzioni e dagli altri. Lo spazio dell’individuo si amplia se si restringe quello della comunità, e viceversa.

I diritti senza doveri e la crisi delle comunità

È in nome di questo concetto di libertà, ampiamente diffuso ormai in tutte le società occidentali, che i diritti individuali sono stati enfatizzati fino a mettere in ombra i doveri e a relegare in secondo piano il ruolo delle relazioni comunitarie. La crisi profonda di queste ultime – dalla famiglia, alla società civile, a quella politica, alla stessa Chiesa – è sotto i nostri occhi. Si continua, naturalmente, ad aver bisogno dei rapporti umani, ma essi vengono sempre più spesso cercati sulla rete e nei social, dove si può essere “amici”, o comunque comunicare, senza impegnare la propria identità e senza creare veri legami.

La pandemia ha solo evidenziato un problema preesistente

È chiaro perché in quest’ordine di idee possa apparire una evidente violazione della libertà individuale ogni limitazione imposta in nome del bene comune. Non abbiamo avuto bisogno di attendere il corona-virus per sperimentare l’insofferenza verso ogni forma di solidarietà verso i più poveri e più deboli, in nome di una “prima noi” che rifletteva, più in profondità, un “prima io”. La pandemia è venuta a evidenziare un problema che in realtà è culturale, prima che politico, e che sta facendo avvertire il suo peso in tutto l’Occidente, a cominciare dagli Stati Uniti, dove, in nome della libertà e dei diritti, le proteste contro il lockdown – là dove si è tentato, sporadicamente, di introdurlo –. Sono state violentissime.

Poter fare quello che si vuole è vera libertà?

Ma veramente la libertà è «mancanza di impedimenti esterni»? Dicevo che, nella originaria tradizione occidentale, essa era stata piuttosto collegata al “libero arbitrio” e, come suo naturale sviluppo, alla capacità di usarlo rettamente aderendo al bene.

Basta guardarci intorno per renderci conto che una libertà ridotta ad autonomia nel fare quello che si vuole – nell’ambito in cui ciò è possibile – è solo parziale. Vediamo oggi la maggior parte delle persone, nella società consumistica, abbracciare volontariamente certi stili di vita solo perché le mode impongono loro precisi modelli, a cui essi aderiscono più o meno consciamente, senza mai chiedersi se, oltre a poter “fare” ciò che vogliono, sono anche in grado di “scegliere” che cosa volere. L’uniformità agghiacciante dei comportamenti di massa dimostra abbondantemente quanto poco la volontà dei singoli rifletta una scelta veramente personale.

La libertà di accettare dei vincoli

Solo quando l’autonomia è guidata da una scelta consapevole essa è libera. Ma, in questo caso, essa non è rivendicata come un tesoro geloso da difendere nei confronti dei vincoli esterni, perché questi possono al contrario essere voluti liberamente in funzione del fine individuale e/o collettivo che la persona si propone.

Si può, allora, considerare più libero chi è capace di accettare dei vincoli, per una scelta motivata, che non colui che assolutizza la propria autonomia per fare quello che vuole, senza però davvero averlo scelto. Un ragazzo o una ragazza che hanno preferito rinunciare ad andare in discoteca o alla movida, per senso di responsabilità verso nonni anziani che avrebbero potuto poi essere contagiati, sono stati in realtà più liberi dai tanti che, seguendo le mode, hanno ritenuto “sacro” il diritto di fare quello che tutti fanno.

La responsabilità non è il contrario della libertà

Questa è la “serietà” di cui ha parlato Mattarella. Che non è il contrario della libertà, ma la sua dimensione più specificamente umana (anche gli animali non umani possono essere “lasciati liberi” di “fare quello che vogliono”, se vengono sciolti dal guinzaglio; solo l’essere umano decide se, quando e come approfittare di questa possibilità).

Possiamo rallegraci che di fatto molti italiani abbiano accettato questa logica – quanto consapevolmente è difficile dirlo e varia nei singoli casi. Quel che è certo è che l’idea dominante di libertà, di matrice liberale, favorisce, purtroppo, chi, passata la paura iniziale, tende a snobbare le misure di sicurezza, in un momento in cui la seconda ondata del corona-virus, quella autunnale, comincia a farsi sentire anche in Italia. Senza rendersi conto che in questo modo rischia di «confondere la libertà con il diritto far ammalare altri».

 *Pastorale Cultura Diocesi Palermo

 www.tuttavia.eu

 


 

PANDEMIA: COSTRUIRE UN FUTURO MIGLIORE


Covid, il mondo “dopo” 

ha bisogno di vecchie radici

Papa Francesco ne è certo e lo ripete a tutti: dalla pandemia si esce migliori o peggiori. La crisi globale chiede un ripensamento dei parametri della convivenza umana in chiave solidale. Su questa idea si basa il Progetto “Covid 19 Costruire un futuro migliore”, creato in collaborazione dal Dicastero per la Comunicazione e dello Sviluppo Umano Integrale: offrire un percorso che dalla fine della pandemia porti all’inizio di una nuova fraternità

 VATICAN NEWS

 Guarda video: UN FUTURO MIGLIORE

La “ricetta” per intravedere il futuro liberato dalla pandemia, e reimpostato su nuovi modelli di convivenza, ha l’ingrediente principale in una comparazione. “Dimostrando alle persone in che misura investimenti ‘cattivi’ ci hanno portato sull’orlo del collasso, possiamo poi puntare nella direzione opposta, cioè verso investimenti che sappiano tutelare l’ambiente e un futuro sostenibile”. Ad affermarlo è Martin Palmer, che di investimenti in ottica di fede è un esperto. Palmer, britannico, amministratore delegato di “FaithInvest” – un gruppo che fa da ponte tra il mondo degli enti religiosi e quello della finanza – si muove a suo agio fra i temi della Laudato si’, giacché nel ‘95 ha fondato con il Principe Filippo l’ong “Alliance of Religions and Conservation” (ARC), che aiuta le fedi a sviluppare progetti ambientali.

Palmer è stato chiamato a far parte della Commissione vaticana istituita dal Papa allo scopo di immaginare il mondo del dopo-coronavirus ed è fermamente convinto che le religioni giochino un ruolo cruciale con la loro rete globale di assistenza e formazione. “Abbiamo la tendenza a muoverci come se gli Stati nazionali ci dovessero essere riconoscenti se ci rivolgiamo a loro con i nostri suggerimenti. Invece, siamo noi – sostiene – a dover dare l’esempio del buon uso delle risorse e sollecitare gli Stati nazionali a unirsi a noi”.

Lei fa parte della Commissione Vaticana Covid-19, il meccanismo di risposta creato da Papa Francesco per far fronte a un virus senza precedenti. Cosa pensa di imparare, personalmente, da questa esperienza? E in quali ambiti pensa che la società nel suo insieme possa essere ispirata dai lavori della Commissione?

R. - Mi affascina l’ampio spettro di competenze, conoscenze e interessi che ho rilevato nelle persone che lavorano nella Commissione: già questo ha prodotto nuove partnership per la mia organizzazione, nello spirito della Laudato si’. Il modo migliore in cui la società può essere ispirata dalla Commissione è che la Chiesa stessa inizi a mettere in pratica quei cambiamenti strutturali che sono necessari per essere in linea con la visione del Papa. Questo poi sarà di ispirazione per molti altri.

Papa Francesco ha chiesto alla Commissione Covid-19 di preparare il futuro, piuttosto che prepararci al futuro. In questo compito, quale dovrebbe essere il ruolo della Chiesa cattolica?

R. - Quello di andare avanti con l’esempio. Nelle sue due encicliche – la Evangelii gaudium e la Laudato si’ – il Papa non si è limitato a proporre bei pensieri per un futuro migliore; ci ha anche fornito gli strumenti per smontare il modello attuale, quello che ci ha portato a questa crisi, e costruirne uno nuovo. Alcuni si chiedono come fare per ripartire: lui risponde che ripartire significa tornare indietro. Il suo messaggio parla di sfida, cambiamento e nuovo inizio.

Quali insegnamenti, a livello personale, lei ha tratto dall’esperienza della pandemia? Quali cambiamenti concreti si augura di vedere dopo questa crisi, sia personalmente sia a livello globale?

R. - Ho apprezzato la semplicità che il lockdown ha restituito al mio affannoso mondo fatto di viaggi, incontri e così via. Ho (ri)trovato, nella mia zona, la cura e la compassione – in realtà, per quanto ho osservato, in tutto il mondo – e questo l’ho percepito come un appello importante alla necessità vitale di sostenere le comunità locali e farle rifiorire. Spero tanto che tutto questo continui anche “dopo”: credo che utilizzare e conoscere i prodotti locali piuttosto che acquistare altrove sia un elemento fondamentale per rendere la vita più sostenibile.

Spesso accade che gli investitori non siano consapevoli dell’impatto generato sul mondo dai loro investimenti, e penso alla deforestazione, all’inquinamento, allo sfruttamento sociale e così via. In un’epoca in cui l’attenzione è incentrata sui rischi per l’economia provocati dalla pandemia, come si possono evidenziare questi effetti collaterali?

R. - Io sono l’amministratore delegato di “FaithInvest”, una nuova organizzazione, in parte ispirata alla Laudato si’, che lavora con importanti fondi di investimento che provengono dai maggiori raggruppamenti religiosi nel mondo. Il modo migliore per sottolineare questo è chiedere a ciascun gruppo, come facciamo noi, di tornare alle proprie radici. Chiediamo: cosa pensano del mondo e del nostro posto nel mondo? Quali valori derivano poi da questa valutazione, e come questi valori determinano l’investimento che intendono fare? Questo procedimento si snoda sul modello indicato dal Vaticano II, quando agli Ordini religiosi si chiedeva di tornare alle proprie radici per capire come procedere nel futuro. La crisi del Covid ha rafforzato questa esigenza.

In tempi di recessione economica, le persone tendono a evitare i rischi. Con questo presupposto, in quale misura pensa che la gente possa essere ricettiva all’idea di una finanza “etica”?

R. - È vero, le persone sono restie ad affrontare rischi. Oggi però il rischio maggiore è che se torniamo a quello che consideravamo “normale” non faremo altro che aumentare la possibilità di collassare di nuovo. Quindi, il vero rischio oggi è quello di non cambiare, piuttosto che cambiare veramente, ed è sicuramente più facile aiutare le persone a comprendere questo. Dimostrando alle persone in che misura investimenti “cattivi” ci hanno portato sull’orlo del collasso, possiamo poi puntare nella direzione opposta, cioè verso investimenti che sappiano tutelare l’ambiente e un futuro sostenibile.

In che misura lei crede che la Commissione vaticana Covid-19 e la Chiesa nel suo insieme abbiano credibilità quando parlano di finanza e della necessità di riformulare i sistemi economici?

R. - Facendo seguire i fatti ai buoni propositi. In altre parole: finché la Chiesa non avrà rimesso ordine nelle proprie finanze e non abbia fissato un modello basato sulla fede, potrà soltanto chiedere agli altri di accompagnarla in questo cammino, nella piena consapevolezza che la strada sarà lunga, prima che la Chiesa possa essere coerente con i suoi stessi insegnamenti in questo campo.

Quale ruolo possono svolgere le religioni e la spiritualità nella transizione verso una finanza più sostenibile?

R. - Noi [le religioni] siamo centrali. Senza le scuole, gli ospedali, l’assistenza sociale, le reti di sostegno, la compassione, il lavoro per i giovani, la cura dei rifugiati e dei migranti, la protezione dei più vulnerabili, la società civile collasserebbe. Per questo, le religioni devono smettere di far finta di non essere attori di primo piano sulla terra. Abbiamo la tendenza a muoverci come se gli Stati nazionali ci dovessero essere riconoscenti se ci rivolgiamo a loro con i nostri suggerimenti. Invece, siamo noi a dover dare l’esempio del buon uso delle risorse e sollecitare gli Stati nazionali a unirsi a noi. Le religioni gestiscono più istituzioni educative e di assistenza sociale di qualsiasi Stato al mondo. Per questo, torniamo al tavolo [delle trattative, del dialogo] non come chi chiede, ma come chi agisce.

Secondo lei, le attuali istituzioni finanziarie ed economiche sono capaci di creare le condizioni necessarie a una finanza sostenibile, o pensa che prima debbano verificarsi determinate riforme nel settore?

R. - È necessario trovare o creare un nuovo modello, perché l’attuale è corrotto dall’avidità e dalla cupidigia delle multinazionali e dei sistemi bancari in generale. Le religioni tra di loro possono far nascere la domanda di un modello nuovo: noi ci stiamo lavorando nel concetto di Finanza del Terzo Settore.

 

venerdì 25 settembre 2020

QUANDO DI VIRTUALE C'ERA SOLO LA TV

 La serie con il fantasma del Louvre ha reso il piccolo schermo un medium di oscurità e inquietudini. 

Gli stessi sentimenti su cui molti leader mondiali di oggi fanno affidamento per creare nemici da additare, muri da alzare, alleati da tradire e popoli interi da temere. 

Come avvoltoi della nostra libertà

                                         Luigi Sanlorenzo

Le favole più belle sono quelle che più fanno paura. Fin dalla preistoria i cavernicoli si riunivano davanti ad un fuoco precario per raccontare di belve feroci a cui erano riusciti a sfuggire o che erano stati capaci di affrontare utilizzando in entrambi i casi quell’unica risorsa che li distingueva da essi e che più tardi qualcuno avrebbe chiamato logos cioè calcolo, pensiero, ragione. 

Quel rito ancestrale fu per millenni l’unica forma di educazione per i più piccoli e per i giovani che presto sarebbero stati ammessi alla comunità degli adulti, dopo complessi riti di passaggio. L’elemento emozionale che teneva il filo della narrazione era sempre la paura che cresceva, episodio dopo episodio, sino a raggiungere il parossismo da cui, quasi sempre, il lieto fine avrebbe liberato con un sospiro di sollievo, preludio di una notte serena. Poiché da sempre l’uomo ha bisogno di guardare il buio per amare la luce mobilitando il meglio di sé. Oggi qualcosa sembra essersi rotto e diventa urgente porvi rimedio.

Attraverso le favole, anche le più granguignolesche, le giovani generazioni apprendevano la differenza tra ciò che era bene e ciò che era male, tra ciò che condannava e ciò che salvava, formando così quel nucleo morale (dal latino mos-moris) che diventava appunto il costume e poi, stratificandosi nel tempo, la cultura di un determinato gruppo sociale. Sorrido quando spesso vedo utilizzare con disinvoltura i termini “etica” e “morale” scambiandoli a piacimento.

Mentre la morale è una pratica messa in atto attraverso manifestazioni sociali molteplici e visibili, l’etica (dal greco ethos) è la riflessione filosofica che cerca di darne una spiegazione razionale. Ma questo nei talk show non lo sanno e spesso la morale diventa moralismo, assoggettandosi al destino di tutti gli “ismi” e così l’etica va a farsi benedire altrove. Qualche volta accade anche in qualche liceo classico romano che nonostante sia intitolato a Socrate, che ammoniva contro i luoghi comuni e il conformismo spacciati per Sapere, ama farne strame.

Dalle favole di ogni tempo e cultura, sia che attingessero al mito che all’esperienza traslitterata nel racconto, si traeva infatti la morale e non l’etica, sfizio che millenni dopo solo Aristotele si sarebbe potuto togliere. Se lo poteva permettere. I grandi sommovimenti della storia, le grandi trasgressioni, le rivoluzioni culturali hanno influito sulla morale e mai sull’etica che, anche quando è violata, resta immutata perché connessa all’intrinseca natura dell’uomo, come abbiamo imparato da un curioso signore sulla cui puntualità si regolavano gli orologi della città di Köningsberg, oggi Kaliningrad. Si chiamava Immanuel Kant e non vendeva sogni ma solide proposizioni che amava chiamare “imperativi categorici”. Gli dobbiamo parecchio.

Nella cultura contadina la favola fu ancora, fino a poco più di cento anni fa, collettiva. Prendeva la forma del filò; il racconto era rigorosamente separato dal pasto serale e narrato nei fienili o nelle stalle dove nelle sere d’inverno si radunavano uomini e donne, bambini e vecchi a cui di solito toccava la parte del narratore dovuta perché più ricca ne era l’esperienza e quindi, ancora una volta, la morale. Di quei momenti ci rimangono i ritratti nelle sequenze di grandi film italiani quali Novecento di Bernardo Bertolucci del 1976 e L’albero degli zoccoli, di Ermanno Olmi del 1978. 

Nella società borghese la favola divenne più intimistica, il racconto deputato ai genitori, o per i più ricchi a balie e governanti, in camerette dedicate ai bambini e generalmente letta da testi antichi e contemporanei la cui lista degli autori farebbe venire le vertigini anche all’uomo di Alessandria che pure ne raccontò, ad un pubblico già più vasto, di colte ed indimenticabili. Favole si raccontavano ai più piccoli perfino nei rifugi antiaerei confidando che la paura e l’immancabile lieto fine di quelle, esorcizzassero il pericolo reale che incombeva su tutti. Pare che funzionasse.

Poi venne la televisione e il racconto tornò ad essere collettivo. All’inizio tra la folla del bar di quartiere, poi condominiale a casa dei primi utenti, infine domestico dove alcuni programmi dell’unico apparecchio presente in salotto a poco a poco spostarono per i più grandicelli anche il ferreo comandamento di andare a letto “dopo Carosello”.

Si derogava alla regola per consentire la visione degli sceneggiati televisivi ritenuti istruttivi e non pochi appresero de I Promessi Sposi, con la regia di Sandro Bolchi nel 1967 o dell’Odissea con Irene Papas, introdotta in ogni puntata dalla voce roca del poeta Giuseppe Ungaretti nel 1968. Avremmo dovuto attendere “La conversazione su Tiresia” interpretata da Andrea Camilleri, per rivivere, cinquant’anni dopo, le medesime emozioni e ancora oggi molti non sanno che dietro le quinte della migliore RAI a partire dagli anni ‘60 c’era già, ben mimetizzato tra i titoli di coda, il suo genio di sceneggiatore.

Visitai il museo del Louvre per la prima volta nel 1966. Avevo dieci anni e non era ancora il tempo di viaggi low cost o di tour virtuali. Il salario medio mensile non superava le centomila lire e un biglietto aereo da Roma a Parigi e ritorno poteva costare anche un milione, figuriamoci poi da Palermo. Il treno impiegava oltre tre giorni e soltanto in estate qualche padre avventuroso intraprendeva interminabili viaggi in automobile, una millecento FIAT costava 975.000 lire, che i giovani passeggeri non avrebbero mai dimenticato.

Eppure visitai il Louvre, lo ricordo come fosse ieri, steso pancia a terra sul marmo del pavimento, in quel caldo luglio, davanti ad un apparecchio Telefunken che resse fieramente sino all’avvento della tv a colori. La Pyramid di Ieoh Ming Pei sarebbe stata inaugurata da François Mitterrand ventidue anni dopo ma il mistero aleggiava da sempre nella Cour Napoléon sprigionandosi dalla sezione del museo egizio e delle altre che custodiscono i reperti mesopotamici.

Un ambientazione straordinaria per lo scrittore massone Arthur Bérnéde che nel 1925 scrisse il romanzo Belphégor di cui curò anche la sceneggiatura nel film diretto due anni dopo da Henri Desfontaines. La fama del testo sarebbe stata raggiunta soltanto nel 1965 con la miniserie televisiva Belphégor ou le fantom du Louvre prodotta dalla ORTF con la regia di Claude Barma. Il successo fu strepitoso. Fu seguito da dieci milioni di telespettatori su quarantotto milioni di francesi, di cui solo il 40% possedeva un apparecchio televisivo. La RAI poté mandarlo in onda l’anno successivo. Lo share fu immenso al punto di spostarne la messa in onda dal secondo canale, che non tutti ricevevano, alla prima rete nazionale. Juliette Grecò, la cui scomparsa avvenuta giovedì scorso ha ispirato questo articolo e di cui molti scriveranno più e meglio di me, ne fu l’indiscussa, seppur velata, protagonista. 

Con Belfagor, un nuovo genere televisivo aveva fatto irruzione nel palinsesto televisivo “canonico” sotto l‘egida del Presidente dell’Ente Pietro Quaroni, ex diplomatico tenuto in paesi lontani dal Ministero degli Esteri fascista, che non osò però privarsi delle sue competenze, grande esperto di politica internazionale, poliglotta e brillante conferenziere. Altri tempi, altri presidenti.

L’Italia era quella del secondo governo presieduto da Aldo Moro e già aperto a sinistra in cui, fino ad allora, gli sceneggiati televisivi avevano sostanzialmente ricalcato la grande letteratura già consacrata. Da Il Dottor Antonio a Piccole Donne a Cime Tempestose, Jane Aire, Orgoglio e pregiudizio, Capitan Fracassa, Canne al vento, L’isola del Tesoro, Il Piccolo Lord, la Pisana, Una tragedia americana, Il mulino del Po, Mastro Don Gesualdo, La cittadella, I miserabili, Il giornalino di Gian Burrasca, Le inchieste del commissario Maigret, La Donna di fiori, Scaramouche e quel I Grandi Camaleonti di cui ho scritto pochi giorni fa a motivo della grande attualità del tema. 

Realizzazioni televisive di grande pregio, sovente firmate da Anton Giulio Majano, Daniele D’Anza, Edmo Fenoglio, il già citato Sandro Bolchi e Lina Wertmuller, tra i registi più noti. I personaggi erano interpretati dai migliori attori italiani, per alcuni dei quali furono il promettente esordio. In un’intervista rilasciata alla trasmissione Storie della Letteratura per RAI Scuola Andrea Camilleri ebbe così a commentare il decennio di produzione di sceneggiati 1955-1965: «I primi sceneggiati sembrano essere una biblioteca di raffinata cultura. Molti di essi sono capolavori della letteratura mondiale che vengono adattati per la televisione e questo faceva sì che, quasi contemporaneamente, gli editori rieditassero quei libri e quindi c’era già una rispondenza nella lettura e nell’allargamento della visione culturale degli italiani»

Da quell’estate del 1966 un’inquietudine nuova cominciò a farsi strada nella televisione, come nel cinema italiano, forse figlia di quella ripresa dell’esistenzialismo del primo ‘900 che dopo anni di isolamento culturale cominciava a filtrare anche in Italia attraverso la diffusione ad un più ampio pubblico e nelle università degli scritti di Albert Camus, Simone de Beauvoir, Frankz Kafka, Emil Cioran, Nicola Abbagnano, dell’indimenticato maestro Emanuele Severino e soprattutto di Jean Paul Sarte, per il quale Juliette Grecò divenne presto una musa e Saint-Germain- des-Pres il nuovo Parnaso, che lo portò al climax con la pubblicazione nel 1945 di una propria famosa lezione dal titolo “L’esistenzialismo è un umanismo”.

Mi sottraggo alla tentazione di approfondire il tema che ci porterebbe lontano, per analizzare invece il rapporto tra la comparsa televisiva di Belfagor e il mutamento della società italiana relativamente al nuovo sentimento della paura con cui facciamo i conti giornalmente. 

Per oltre 20 anni la società italiana si era data da fare per la ricostruzione concentrando attenzione ed attività su temi di estrema concretezza e pragmatismo. C’era un Paese da rifondare, industrie da riaprire, case da costruire, milioni di persone da alfabetizzare. L’esserci riusciti con l’aiuto dei fondi del Piano Marshall e, soprattutto con l’impegno dei lavoratori e il risparmio delle famiglie aveva tenuto lontano altre suggestioni, evitato le troppe domande inquietanti che pure restavano ctonie e represse, in attesa di una nuova eruzione.

La diffidenza verso le ideologie di cui si erano sperimentate le peggiori atrocità, il ruolo consolatorio di una religiosità in prevalenza cattolica, resa più vicina ai credenti con le intuizioni profetiche del Concilio Vaticano II, avevano tenuto lontani i demoni del dubbio e quei temi che proprio l’esistenzialismo invitava ad analizzare: la condizione umana, la paura della morte, l’oblio dell’essere e soprattutto la dimensione irrazionale, oltre i confini della rassicurate pratica religiosa, proveniente da altri mondi, da altre religioni e da altre culture che già si erano presentate negli Stati Uniti con i fermenti della Beat Generation e di cui ho già scritto a proposito di Carlos Castaneda e del Giovane Holden di J.D. Salinger.

Il 5 settembre scorso su Bergamonews, Claudio Carminati ha scritto: «Belfagor non è propriamente un giallo ma più un misto tra poliziesco ed horror ma quando la RAI lo trasmise la paura entrò in milioni di case e, con un po’ di retorica, la televisione non fu più la stessa; da medium consolatorio e pedagogico divenne anche il possibile veicolo di oscurità e inquietudini. I Rosacroce e le sette segrete, l’esoterismo, l’alchimia, l’antico Egitto, una donna adulta che ha una relazione con uno studentello, le droghe che rendono gli individui automi, i maestri del terrore e misteriosi pietre radioattive, il tutto avvolto in una pericolosa nebbia sulfurea e diabolica. Chi, in qualunque anno sia stato nuovamente trasmesso e vedendolo da piccolo non è saltato nel letto dei genitori dopo una puntata? Chi pur adulto non è stato colto dal timore e dell’ansia nell’attraversare le stanze buie della propria casa dopo aver visto una passeggiata del fantasma nei corridoi semibui del Louvre sottolineata dalle note di violino composte da Antoine Duhamel? Belfagor rimarrà per sempre l’inimitabile e irripetibile emblema delle nostre più profonde inquietudini».

Quando ci si rese conto che quei nuovi sentimenti attraevano e ammaliavano i telespettatori in cerca di nuove emozioni, anche la televisione cercò di seguire l’onda con sceneggiati quali il Segno del Comando con Ugo Pagliai, Carla Gravina e la regia di Daniele D’Anza nel 1971, A come Andromeda con Luigi Vannucchi, Paola Pitagora e Massimo Girotti (sì, proprio il padre del Don Matteo televisivo) per la regia di Vittorio Cottafavi nel 1972 ed il misterioso Extra del 1976 del medesimo D’Anza dei cui misteriosi retroscena il regista non volle mai parlare. Morì prematuramente nel 1984. La serie non fu mai replicata. 

Ma il tempo degli sceneggiati italiani ormai era finito. Il pubblico vedeva ogni sera i reportage della Guerra del Vietnam e Oriana Fallaci, inviata di guerra con l’elmetto, ne raccontava le atrocità insieme alla rivoluzione teocratica in Iran ed alla strage dei curdi iracheni, avvelenati dalle armi chimiche di Saddam Hussein. L’orrore era diventato familiare in televisione, occorreva cercarlo altrove. 

E fu trovato nel cinema americano con l’Esorcista di William Friedrich del 1975 ed i suoi numerosi prequel sequel, nelle serie di X-Files, dirette discendenti di Ai confini della Realtà del 1959, nel cinema italiano di Dario Argento, Lucio Fulci, Mario Bava e perfino del mite Pupi Avati con la Casa dalle finestre che ridono del 1976, che inaugurarono un fortunato filone della paura ancora variamente rappresentato dai disaster moovies e, da ultimo, dai film su epidemie, pandemie ed altre sventure batteriologiche che oggi appaiono tristemente profetiche.

Di quest’ultima paura che sta cambiando il mondo lo psicoanalista Massimo Recalcati ha scritto su La Stampa del 7 maggio scorso: «È necessario abitare il tempo dell’incertezza e della paura per trovare un varco nell’incertezza e nella paura. In questo contesto di precarietà un punto mi pare certo: alla potenza inimmaginabile del trauma che ha devastato le nostre vite, bisogna rispondere con una potenza reattiva altrettanto inimmaginabile. La politica per prima. Non si pieghi alla scienza come in passato con la magistratura o con l’economia, ma sia capace d’invenzione, di pensieri grandi. Di parole all’altezza del dramma che stiamo vivendo. Impari dall’arte a trasformare le ferite in poesia, a rispondere al trauma con forme di esistenza nuove».

Già, la politica. Ma sarà in grado? «Ultimo venne il corvo» ripeterebbe oggi Italo Calvino, se solo fosse ancora tra noi. Sempre meno nascosti dalle penne nere oggi intravediamo i volti di molti leaders del Pianeta che hanno fatto della paura l’arma più abietta. Disseminano il panico creando nemici da additare, muri da alzare, armi da accumulare, alleati da tradire, popoli interi da temere. Usano la menzogna con antichi e nuovi strumenti di comunicazione e hanno un solo sogno: rinchiudere gli individui in un’intricata matassa di odio e di risentimento di cui solo essi pensano di possedere il bandolo. Promettono come Hasan-i Sabbah, il Vecchio della Montagna nella fortezza di Alamut, agli infelici e feroci Hashishiyyun che ne eseguivano gli ordini intontiti dalla droga, il paradiso in terra, una volta sterminati i nemici.

Gli avvoltoi della nostra libertà ci sono sempre stati, con volti e modalità multiformi, fin dal tempo di quelle caverne con il ricordo delle quali ho voluto iniziare questo viaggio nelle paure di ieri e di oggi. È possibile smascherali e sconfiggerli con un buon fuoco intorno a cui raccontare le storie che cambiano il mondo e dove, inevitabilmente, essi sono attesi da una brutta fine mentre noi da una notte senza più incubi. Ha funzionato, me l’hanno raccontato e non ho mai sognato Belfagor.

https://www.linkiesta.it/2020/09/belfagor-politica-louvre/