lunedì 30 gennaio 2023

IDENTITA' PERSONALE, FRAGILE E NECESSARIA

Il concetto, oggi centrale in varie accezioni politiche da destra a sinistra, di fatto riguarda la visione che gli altri hanno di noi, ma anche quella che ognuno ha di sé Sulla scia di Locke c’è chi lo riduce a esperienza e memoria. E chi, tra gli psicologi, punta su relazioni e autobiografia.

 - di ANDREA LAVAZZA

 La parola “identità” ha assunto in questi anni una centralità sociale e politica che non è possibile sottovalutare. Una semplificazione per inquadrare il complesso e mutevole scenario culturale ci fa dire che un’idea di identità come insieme coerente e coeso di elementi condivisi e normativi che unisce un gruppo è il polo d’attrazione di forze conservatrici, sovraniste e populiste di destra. Al contrario, una concezione plurale e frammentata di riferimenti soggettivi, che servono a differenziare individui o sottogruppi e devono essere valorizzati e rispettati in modo inclusivo, è tipica delle proposte progressiste o genericamente di una sinistra post-marxista (si veda la magistrale analisi condotta qualche anno fa da Francis Fukuyama nel suo Identità).

Nel primo caso l’identità è ritenuta qualcosa di oggettivo e radicato in una lunga tradizione, anche se più spesso di quanto si creda è costruita a tavolino (come ha documentato per esempio Eric Hobsbawm in Nazioni e nazionalismi).

Nel secondo caso, invece, le identità sono il riconoscimento della particolarità rivendicata di ciascuno o delle cangianti emersioni di caratteri che tracciano le coordinate in quel momento prevalenti, dalla professione al genere, dall’etnia alle preferenze valoriali.

Quella di cui abbiamo parlato finora rientra nella cosiddetta identità per gli altri, ciò che impedisce alle persone di scambiarci per qualcun altro. Non ne fa parte solo la componente più ideologica ma anche quelle caratteristiche stabili nel tempo sia somatiche sia psicologiche (la mia personalità) sia sociali (stato civile, condizione lavorativa, consumi culturali). L’identità per sé è invece l’insieme delle mie caratteristiche come io le percepisco e le descrivo a me stesso. William James, nei suoi imprescindibili Principi della psicologia (1890), scrive: «Chiunque di noi destandosi dice: ecco di nuovo il mio vecchio me stesso, al modo in cui dice: ecco il mio vecchio letto, la stessa vecchia stanza, lo stesso vecchio mondo».

 Ma le cose tra filosofia, psicologia e scienza sono molto più complicate di così. Se ancora sottoscriviamo che l’identità personale consiste in ciò che caratterizza l’individuo a livello soggettivo e sociale, includendo i tratti caratteriali, le credenze e i desideri, così come la sua autobiografia intesa come narrazione coerente dei fatti e degli eventi che lo hanno coinvolto, questa definizione tradisce l’adesione a un modello comune che non regge di fronte alla storia e alla critica scientifica. È il compito che si è assunto Eugenio Lecaldano, professore emerito alla Sapienza Università di Roma e figura eminente della filosofia italiana, in un libro che colma una rilevante lacuna nella storiografia del pensiero. Identità personale (Carocci) è infatti il tentativo (riuscito) di tracciare l’evoluzione del concetto da una lunga fase in cui l’identità era radicata in prospettive metafisiche e sostanzialistiche, come un nucleo stabile del proprio io ricondotto principalmente all’anima o alla razionalità, verso posizioni costruzioniste o deflazionistiche. 

La prima e decisiva svolta arrivò con John Locke, che descrisse l’identità come connessioni esperienziali consapevoli, ovvero come continuità della memoria di sé stessi, una concezione oggi molto comune e ripresa nelle teorie dell’identità narrativa. A questo proposito è utile sottolineare come diverse idee di identità non hanno soltanto un rilievo descrittivo ma anche una portata normativa. Pensiamo alle malattie neurodegenerative e al loro impatto distruttivo sulla memoria: se si adotta l’approccio lockeano, di molti pazienti si dovrebbe dire che hanno perso in parte e in tutto la propria identità di persone, con quello che ciò comporta. Lo scetticismo sulla robustezza del sé si è esteso seguendo David Hume e ha costituito una diffusa linea interpretativa fino a oggi con Derek Parfit, il pensatore più influente nell’affermare la necessità di prendere congedo dall’idea stessa di identità personale a favore di una visione non più centrata su un individualismo forte basato sulla specie umana. A questo eliminativismo hanno risposto altri filoni di riflessione, sia ancorati a retaggi classici sia connessi al naturalismo di stampo darwiniano, in cui è l’osservazione scientifica del contesto evolutivo e del funzionamento umano a suggerire spiegazioni del fenomeno identitario.

 Che con l’identità si debba tuttavia fare i conti è un dato di fatto che la psicologia contemporanea più avvertita ed empiricamente solida non ignora. Lo testimonia in modo eccellente un volume di Massimo Marraffa (Università di Roma Tre) e Cristina Meini (Università del Piemonte occidentale). In La costruzione dell’interiorità. Dall’identità fisica alla memoria autobiografica (Carocci), i due autori, impegnati da anni su questi temi, riannodano teorie della psicologia dello sviluppo e dell’attaccamento con prospettive in cui l’individuo è costruito in una forte relazione con l’ambiente socioculturale, con lo scopo di fornire un quadro unitario sempre ancorato ai dati della più recente ricerca sperimentale. La traiettoria neo-jamesiana delineata è quella che va dalla nascita nel bambino della coscienza di sé legata al corpo e alle emozioni, con il progressivo arricchimento del mondo interiore, fino alla costituzione di un io collocato nel tempo e che viene vissuto razionalmente come un’autobiografia dotata di significato. La principale caratteristica di questo modello proviene dal carattere difensivo dell’identità così realizzata. Poiché manca un’acquisizione duratura di un sé stabile, il quale non riesce a superare uno stato di minacciosa precarietà dovuta al suo stesso funzionamento, vi è una costante mobilitazione di risorse personali per mantenere un io unitario. E ciò avviene per il bisogno primario di esistere saldamente dotati di un “centro di gravità causale”, che risulta fondamento di benessere psicologico e salute mentale. 

Questa via naturalistica che prende sul serio l’idea di identità come qualcosa sia di reale sia di necessario potrebbe costituire un ponte da sfruttare anche per un’aggiornata visione personalista. Un esempio di quest’ultima è dato dall’agile e accessibile volume Antropologia filosofica. Persona, libertà, relazionalità (Edusc) scritto da Francesco Russo, professore nella facoltà di Filosofia della Pontificia Università della Santa Croce. In esso, mossi dall’antico motto “conosci te stesso”, si indaga sulla persona come «un vivente corporeo- spirituale e dinamico, liberamente orientato a svolgere il compito di essere se stesso», un io relazionale che è caratterizzato dalla cultura che egli stesso contribuisce a produrre e proteso alla ricerca di senso e alla realizzazione di valori. 

Un’identità che non è debole, ma neppure mira a imporsi, in quanto dovrebbe essere destinata all’amore e alla comunione. La ricerca sulla e della identità sembra destinata ad accompagnarci sempre. E per questo va salutata positivamente ogni riflessione approfondita che la metta al centro dell’indagine.

 www.avvenire.it

 

 

sabato 28 gennaio 2023

IL FAMILISMO AMORALE ALL'ITALIANA


 - di Luca Delvecchio

 

Non è la canonica definizione di Banfield, ma il ritratto divertito e tagliente, offerto da Peter Nichols a restituire con efficacia quello che in buona parte della letteratura antropologica e storica è ritenuto uno dei caratteri più prominenti e longevi della società̀ italiana: il familismo.

La famiglia scrive il giornalista britannico che fu per trent’anni corrispondente del Times nel nostro paese, è «il più̀ celebre capolavoro della società italiana attraverso i secoli, il baluardo, l’unità naturale, il dispensatore di tutto ciò che lo stato nega, il gruppo semisacro, il vendicatore e il rimuneratore». Nichols allude evidentemente alla straordinaria compattezza dei rapporti familiari e alla centralità̀ che, nel nostro Paese, essi sembrano vantare rispetto agli interessi della società civile e dello Stato.

Ma prima di addentrarci nel reportage antropologico, occorre chiarire bene due punti. Il primo: con «familismo» non si allude al puro e semplice amore della famiglia o alla forza e alla inscindibilità̀ dei suoi legami interni, ma a una esasperata forma di privatismo e al prevalere degli interessi familiari rispetto ai bisogni di gruppi più estesi, non costituiti da vincoli di sangue, ma che contribuiscono in modo essenziale al tessuto della socialità̀ umana. Familismo significa, in sostanza, «unità familiari fortemente coese, una società̀ civile relativamente debole e una sfiducia nello Stato centrale profondamente radicata» (Paul Ginsborg).

Il secondo: quello che proporrò̀ è un «idealtipo», cioè un’astrazione molto difficile da rintracciare empiricamente nella sua purezza – arduo incontrare per la via un familista genuino – ma utile come criterio di comparazione, per giudicare la distanza dall’ideale di singoli casi concreti. Il «familista» è in questo senso simile al «capitalista» o al «borghese». Quanto di fatto siano «familisti» gli italiani lo si potrà giudicare dalle risultanze empiriche che sostengono gli studi e le tesi di importanti scienziati sociali. Com’è immaginabile, l’argomento è ponderoso e controverso, perciò̀ tenterò̀ di portarne alla luce solo i tratti di fondo e alcune rilevanti conseguenze, affidandomi alla ‘oggettività̀’ delle misurazioni di sociologi ed economisti, dato che, come scrive Ginsborg, se la versione italiana del familismo non è certo costante in tutta la penisola, essa «non è neanche un miraggio».

Il termine «familismo» compare ufficialmente sul proscenio delle scienze sociali nella seconda metà degli anni ’50 a opera del politologo statunitense Edward C. Banfield, che lo qualificò come «amorale». Egli alludeva al comportamento di chi agisce massimizzando i vantaggi materiali e immediati della famiglia nucleare, nella convinzione che tutti gli altri facciano lo stesso. Il familista è «amorale», perché́ indifferente alla moralità̀ e ai suoi criteri, cioè̀ ai principi del bene e del male, in contesti lontani dalla famiglia; egli non scade necessariamente in comportamenti immorali o illegali; piuttosto, tende a privilegiare l’utile proprio e dei consanguinei più prossimi, senza occuparsi della bontà̀ morale delle proprie azioni.

Isolando i costitutivi dell’atteggiamento familistico, cioè̀ (1) l’attitudine a difendere esclusivamente gli interessi di breve termine della famiglia ristretta, e (2) la credenza che tutti si comportino allo stesso modo, non è difficile cogliere quelle che Banfield riteneva essere le conseguenze, per così dire, naturali del familismo. «In una società̀ di familisti amorali nessuno perseguirà̀ l’interesse del gruppo o della comunità̀, a meno che ciò̀ non torni a suo personale vantaggio», egli scrive. In effetti, laddove la famiglia è al vertice della gerarchia di valori, la città e la politica assumono significato solo in quanto utili all’interesse particolare della cerchia dei consanguinei. Nei Libri della Famiglia, un trattato in forma dialogica sulla «masserizia», l’arte di condurre la famiglia mercantile, Leon Battista Alberti ripete il medesimo concetto, anticipando Banfield di circa cinque secoli: «[…] per reggere la famiglia si cerca la roba; e per conservare la famiglia e la roba si vogliono amici, co’ quali ti consigli, i quali t’aiutino sostenere e fuggire avverse fortune; e per avere con gli amici frutto della roba, della famiglia e della amicizia, si conviene ottenere qualche onestanza e onorata autorità̀».

Ma, a dire di Banfield, c’è anche altro. L’utilitarismo familistico coincide con l’assenza di comportamenti altruistici e collaborativi e, in buona sostanza, con uno scarso incentivo a prestare le proprie energie in organizzazioni di ogni specie, dato che agire in forma organizzata significa nutrire sentimenti di lealtà̀ e fiducia reciproca, essere disposti a sostenere sacrifici per il bene del gruppo e possedere, in piccolo o in grande, uno spirito di vocazione e di missione. Ne risulta che in una società di familisti amorali «coloro che ricoprono cariche pubbliche, non identificandosi in alcun modo con gli scopi dell’organizzazione a cui appartengono, si daranno da fare quel tanto che basti per conservare il posto che occupano […] o per ottenere promozioni».

E che dire, poi, dell’attitudine a rispettare le regole? Dove il familismo domina, scrive Banfield, «si agirà̀ in violazione della legge ogni qual volta non vi sia ragione di temere una punizione»; il pubblico ufficiale, d’altra parte, «accetterà̀ buste e favori, se riesce a farlo senza avere noie, ma in ogni caso, che egli lo faccia o no, la società̀ di familisti amorali non ha dubbi sulla sua disonestà». Il familista idealtipico, inoltre, vede se stesso in chiunque gli capiti a tiro, ed è convinto, perciò̀, che chi riveste cariche pubbliche non abbia interesse a tenere condotte moralmente onorevoli: «in una società̀ di familisti amorali esiste la diffusa convinzione che, qualunque sia il gruppo al potere, esso è corrotto e agisce nel proprio interesse».

C’è, di nuovo, una corrispondenza che colpisce con il dialogo familiare dell’Alberti tra Giannozzo e Lionardo: «Lionardo. Chiamate voi forse, come questi nostri cittadini, onore trovarsi negli uffici e nello stato? Giannozzo. Niuna cosa manco, Lionardo mio, niuna cosa manco, figliuoli miei. Niuna cosa a me pare meno degna reputarsela ad onore che trovarsi in questi stati (impegnati nello stato)». La vita politica è ritenuta, come si vede, una melma di soverchierie, servilismi e immoralità̀. Sempre l’Alberti per bocca di Giannozzo: «Che vedi tu da questi i quali si travagliano agli stati (che si occupano della cosa pubblica) essere differenza a pubblici servi?»; e ancora: «Eccoti sedere in ufficio. Che n’hai tu d’utile se none uno solo: potere rubare e sforzare (usare violenza) con qualche licenza?».

Ma c’è una simmetria ancora più̀ esatta tra le generalizzazioni di Banfield e quanto l’Alberti metteva in bocca ai suoi personaggi. Da un alto, infatti, il politologo di Harvard, che ammonisce: «In una società̀ di familisti amorali soltanto i funzionari si occupano della cosa pubblica, perché́ essi soltanto vengono pagati per questo. Che un privato cittadino si interessi seriamente a un problema pubblico è considerato anormale e perfino sconveniente»; dall’altra l’umanista fiorentino, che fa dire sconsolatamente al suo Giannozzo,: «E chiamate onore […] servire e pascere agli uomini servili (gli uomini dello stato)! […] È si vuole (conviene) vivere a sé, non al comune (al servizio del bene pubblico), essere sollicito per gli amici, vero, ove tu non interlasci (trascuri) e’ fatti tuoi, e ove a te non risulti danno troppo grande».

Oltre a tutto ciò̀, una società̀ familistica sconterà̀ inevitabilmente la generale assenza di controllo sull’operato dei pubblici ufficiali, se non da parte dei loro superiori, ritenuta cosa estranea o persino contraria agli interessi personali del singolo cittadino; la mancanza di una corrispondenza tra principi politici astrattamente dichiarati (l’ideologia) e comportamento effettivo nei rapporti di vita quotidiani; la scarsa iniziativa personale e la conseguente penuria di buoni leader, mai sostenuti dalla solida fiducia dei loro gregari; la tendenza a servirsi del voto (attivo e passivo) al solo fine di ottenere il maggior vantaggio di breve termine; la volatilità̀ del consenso elettorale, legato a logiche strumentali e di clientela; infine, l’universale, inestirpabile disposizione a sostituire l’utile privato all’interesse pubblico.

Privatismo e scarsa coscienza civica delineano, dunque, alla perfezione l’ethos familistico. Ma ora la questione di cui occuparci è se quello del familista rappresenti davvero uno dei tipi sociali più̀ diffusi nel nostro Paese e che cosa, eventualmente, ciò comporti per l’efficienza del sistema economico.

Stato o Mercato? No: famiglia titolavano Andrea Ichino e il compianto Alberto Alesina in un pamphlet (L’Italia fatta in casa, Mondadori, 2010), che contiene un’analisi dell’impatto della cultura familistica su variabili socioeconomiche fondamentali, come la consistenza del Prodotto Interno Lordo, il grado di rigidità̀ del mercato del lavoro, la sua ricettività̀ rispetto alla partecipazione femminile e perfino la struttura territoriale dell’offerta educativa.

Una prima osservazione non ovvia è che il Prodotto Interno Lordo non misura correttamente il grado effettivo di benessere di cui gode un italiano, per via della quota rilevante di servizi familiari sul valore complessivo della ricchezza prodotta, che, non passando per il mercato, non viene contabilizzata. Dato il grado elevato di coesione della famiglia italiana, diventa infatti più̀ conveniente produrre entro le mura domestiche servizi di cura come la preparazione dei pasti, le faccende domestiche, l’assistenza agli anziani, ecc. Beni e servizi fatti in casa sono tuttavia, per così dire, grandi voragini contabili sui cui passano indifferenti le statistiche ufficiali: essi non entrano nel Prodotto Interno Lordo, sebbene arricchiscano di fatto chi li riceve e il loro ammontare complessivo risulti, secondo le stime, piuttosto cospicuo. In base ai dati dell’ultima indagine sull’uso del tempo da parte delle famiglie italiane, che data 2018, ISTAT stima il lavoro familiare intorno al 34% del PIL.

Ma chi lavora di più̀ in casa? Difficile stabilire con certezza quanto intensamente incidano gli elementi patriarchici insiti nella cultura sulla divisione del lavoro domestico, ma è un fatto, peraltro ben misurato, che in Italia siano le donne a sostenere la maggior quota di produzione familiare, in una contesa ideale per il primato europeo che le vede rivaleggiare solo con le ‘colleghe’ romene. Gli uomini italiani, di contro, sono quelli che in Europa dedicano, insieme ai greci, il minor tempo ai servizi domestici.

* Laureato in Discipline Economiche e Sociali all’Università Luigi Bocconi di Milano, ha frequentato il corso di Filosofia Teoretica presso l’Università degli Studi di Milano. Ha collaborato con l’Istituto Regionale di Ricerca della Lombardia (IRER)

Sole 24 Ore

 

 

venerdì 27 gennaio 2023

UNA GIORNATA DELLA MEMORIA ... PER IL SUD




- di Giuseppe Savagnone *

 -  Il rischio delle celebrazioni ufficiali

- Sui giornali è stata abbondantemente celebrata, con una fioritura di titoli ad effetto, la “Giornata della Memoria”, sottolineando, giustamente, la necessità di educare le nuove generazioni a non dimenticare gli orrori dell’Olocausto. Ha indubbiamente costituito un incentivo il monito dolente di Liliana Segre riguardo al pericolo che, col trascorrere del tempo, vada attenuandosi, fino a spegnersi del tutto, l’indignazione per quanto è accaduto.

Il grande rischio di queste corali rievocazioni, tuttavia, è che esse finiscano per trasformarsi in rituali che, concentrando l’attenzione sui drammi del passato, distolgono lo sguardo da quelli del presente. Perché la memoria di ciò che di terribile hanno fatto i nostri padri – a perseguitare gli ebrei non sono stati solo i tedeschi, ma anche gli italiani! –  ha un senso solo se ci spinge a chiederci se non siamo anche noi passivi spettatori, e per ciò stesso complici, di nefandezze magari meno atroci, ma comunque tali da offendere l’umana dignità di tante persone.

Sarebbe facile osservare che, mentre continuiamo a ripetere, con sincera commozione, il nostro “Mai più!” a proposito delle persecuzioni  razziali contro gli ebrei, il governo italiano – col vento in poppa nei sondaggi – favorisce l’accoglienza dei profughi ucraini, ma perseguita sistematicamente i migranti che vengono dall’Africa, cercando di ostacolare come può l’opera di soccorso delle navi delle Ong e costringendo i poveracci tratti in salvo a lunghissimi tragitti in mare, in condizioni estremamente disagiate, prima di potere sbarcare. E forse i nostri figli dovranno istituire una “Giornata della Memoria” in cui ricordare le migliaia di vittime annegate in questi anni nel Mediterraneo fra l’indifferenza generale.

Il naufragio del Meridione

Ma c’è un’altra mostruosità ancora più vicina a noi – e forse proprio per questo invisibile ai nostri occhi – con cui continuiamo tranquillamente a convivere, ed è il divario crescente tra Nord e Sud d’Italia. In un bell’articolo su «Avvenire» del 27 gennaio scorso Roberto Petrini riferisce i dati del più recente rapporto Istat su questo tema: «Il Sud si sta spopolando: nell’ultimo decennio la popolazione è calata di 642mila unità, contro una crescita di 335mila nel Centro-Nord». E ad andarsene, per mancanza di prospettive di lavoro, sono i giovani, soprattutto i più qualificati, che lasciano dietro di sé il deserto.

Per rendersi conto dell’abisso, basta guardare il Pil pro capite, che nelle regioni meridionali «è circa la metà, 55-58%, di quello del Centro Nord: 18mila euro contro 33mila euro». Oppure la scolarizzazione: «Nel 2020 il 32% dei meridionali in età adulta aveva concluso al più la terza media, al Centro-Nord la percentuale scende al 24,5%». E poi i servizi: «L’obsolescenza delle reti idriche segna tre quarti delle Province del Mezzogiorno (nel Centro-Nord solo un quarto)». Per non parlare della sanità…

Quasi una secessione

Non si può dire che il governo attuale non stia facendo nulla, di fronte a questa situazione: sta preparando, su impulso della Lega, un’autonomia regionale che consentirà alle regioni del Nord di utilizzare in proprio le loro risorse economiche, lasciando al loro destino quelle meridionali. Recentemente il ministro per gli affari Regionali, Roberto Calderoli, ha presentato alla conferenza Stato-Regioni una proposta per l’attuazione del “regionalismo differenziato”, del resto chiaramente previsto dal programma della coalizione che gli italiani hanno premiato col loro voto.

In base al progetto del ministro leghista – di cui recentemente Salvini ha detto che «sarà realtà nel 2023» – alcune regioni, che già scalpitano per essere sciolte dai vincoli di solidarietà nazionale che ne limitano i poteri: Lombardia, Veneto e Friuli-Venezia Giulia (ma in pole position ci sono pure Emilia-Romagna e Toscana), potrebbero organizzare e gestire autonomamente il sistema scolastico quello sanitario, quello energetico, quello dei trasporti (porti, aeroporti). Per citare solo alcune delle ventitré materie che sarebbero devolute dallo Stato ai governi regionali. Quasi una secessione.

È in questo contesto che Giuseppe Valditara, ministro (anche lui leghista) dell’Istruzione e del Merito, ha proposto, suscitando  varie e opposte reazioni, una differenziazione degli stipendi degli insegnanti in base al costo della vita nel luogo in cui vivono, dicendosi anche disposto ad aprire al finanziamento privato delle scuole pubbliche.

In sé, l’idea non è affatto assurda, perché è vero che un professore, che a Noto o a Reggio Calabria col suo stipendio può vivere decentemente, a Milano è un poveraccio. Ma un testo va letto alla luce del contesto. E le parole di Valditara non possono non far venire alla mente il progetto di Calderoli – suo compagno di partito – sui sistemi scolastici autonomi. Tanto più che il riferimento ai finanziamenti privati – subito rimangiato dal ministro, ma evidentemente presente nel suo pensiero – si presta perfettamente a una riorganizzazione della scuola in funzione di esigenze territoriali.

La linea del governo

Perché, invece, non alzare gli stipendi a tutti gli insegnanti italiani, portandoli ai livelli degli altri paesi europei? Di questo Valditara non ha parlato. Perché lo Stato non ha i soldi. Ma non li ha anche perché la Destra (con la complicità della “Sinistra”) si è sempre aspramente opposta ad ogni riforma fiscale che colpisca i ricchi – emblematica la bassissima tassa di successione, assurdamente inferiore, nel nostro paese, a quella di tutto il resto d’Europa! – e, ora che è al governo, ha anzi nel suo programma di favorirli con la flat tax, che abolisce la progressione delle imposte a vantaggio dei redditi più cospicui.

Quel che è certo è che per il Sud non si prospetta un futuro migliore, anzi… Si dirà che questa è la democrazia: evidentemente gli elettori italiani – e non certo solo da ora – non sembrano avere particolarmente a cuore la soluzione di questo problema e anzi, con le loro ultime scelte, hanno avallato una linea che esaspererà il divario tra regioni povere e regioni ricche.

Con i costi umani che saranno pagati dai più deboli economicamente e socialmente. In Italia, secondo le statistiche ufficiali, ci sono cinque milioni e mezzo di persone in condizione di povertà assoluta, la maggior parte nel Meridione, destinate a essere sempre più emarginate e costrette a vivere in condizioni di crescente indigenza.

Certo, non è un sacrificio umano neppure lontanamente paragonabile all’Olocausto. Ma è una ferita profonda a uomini e donne che vorrebbero anche loro vivere in pienezza. Perciò vorremmo tanto che, mentre ci indigniamo per quello che è accaduto nel passato e ci sforziamo di non perderne la memoria, provassimo a essere meno indifferenti verso quello che accade nel presente e sta per accadere nel futuro a questi uomini e a queste donne.  Per evitare che i nostri figli debbano istituire una “Giornata della Memoria” per quello che è stato fatto al Sud.

 * Responsabile del sito della Pastorale della Cultura dell'Arcidiocesi di Palermo,

Scrittore ed Editorialista.


 www.tuttavia.eu 


MONDI CHE NON COMUNICANO

SCUOLA/ Nessuno schema basta a cambiare ciò che entra dalla finestra della noia

 Anche a scuola un intero mondo muore e uno nuovo tarda a nascere. Studenti e docenti appartengono spesso a mondi che non comunicano. Cosa fare?

 

- di Vincenzo Rizzo


Che cosa succede quando un intero mondo muore e uno nuovo tarda a nascere? I fatti epocali che stiamo vivendo hanno sconvolto i sistemi sociali, perturbando una vita vissuta sul tapis roulant. Si può, tuttavia, continuare a fare finta di niente, trascurando le esigenze fondamentali del proprio cuore: accade a tanti.

Però, il succedersi di macroeventi o di microeventi riapre la questione, chiedendo le risposte di un soggetto responsabile. Capita così di leggere notizie su cose come quella accaduta a Rovigo. Una docente è stata colpita in classe con pallini esplosi da una pistola ad aria compressa. A quanto pare, non c’è stata una comune risposta al grave fatto da parte della comunità educativa con un giudizio condiviso. Ciò che ieri veniva dato per scontato, dunque, ora non lo è più.

Il nichilismo dei cavalieri del nulla, insomma, è entrato in aula attraverso la finestra della noia. Come colmare il vuoto interiore, per ridere insieme e pubblicare una foto diversa sui social? Naturalmente, l’io di chi compie un gesto del genere non esiste, perché in fase adolescenziale e per ciò stesso da proteggere. E poi due anni di pandemia hanno minato la socialità, generando frustrazione e aggressività repressa. Dunque Gorgia aveva ragione? Nessuno può essere messo in questione per i propri atti? L’irresponsabilità etica deve essere tutelata da una società in cui tutto è permesso, basta che non inquini o non crei troppo danno e fastidio mediatico? In fondo, si sa, come dicono i film americani “andrà tutto bene”. Le cose si risolveranno da sole nel tempo, guardando gli influencer e i social.

Di fronte al ripetersi di fatti di questo tipo, impensabili solo alcuni anni fa, il cuore però si ribella e nasce la domanda: “che fare?”. Tale interrogativo viene amplificato da quello che si vede nelle scuole: genitori adolescenti, ragazzi sempre più fragili, pressioni delle famiglie per un successo scolastico a costo zero, docenti sull’orlo di una crisi di nervi. Perciò, ancora una volta, non bastano istruzioni per l’uso o schemi ministeriali nuovi. Occorre guardare nelle nostre scuole con una domanda che ci faccia ricordare, cioè riportare al cuore. “Che cosa ha retto durante la pandemia? Perché?”. Chi nella sua fragilità è stato punto di riferimento per colleghi, alunni, comunità educativa? Qual è stato il suo segreto?

La vita vivente mette in luce, nel tempo, la verità del cuore di ognuno. Rivela le presenze che indicano nella loro caducità un ideale autentico. La strada per uscire dal nulla ed entrare nelle incognite di un mondo pieno di incertezze, dunque, va fatta, seguendo un io vivo e in azione: differente.

 

Il Sussidiario

 

giovedì 26 gennaio 2023

L'OLOCAUSTO, UNA FOLLE TRAGEDIA DA NON DIMENTICARE

Ogni anno, il 27 gennaio, l'UNESCO rende omaggio alla memoria delle vittime dell'Olocausto e riafferma il suo impegno costante nel contrastare l'antisemitismo, il razzismo e altre forme di intolleranza che possono portare alla violenza di gruppo. La data segna l'anniversario della liberazione del campo di concentramento e sterminio nazista di Auschwitz-Birkenau da parte delle truppe sovietiche il 27 gennaio 1945. Nel novembre 2005 è stata ufficialmente proclamata dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite Giornata internazionale di commemorazione in memoria delle vittime dell'Olocausto.

L'Olocausto ha colpito profondamente i Paesi in cui sono stati perpetrati i crimini nazisti, con implicazioni e conseguenze universali in molte altre parti del mondo. Gli Stati membri condividono la responsabilità collettiva di affrontare il trauma residuo, di mantenere politiche di memoria efficaci, di prendersi cura dei siti storici e di promuovere l'istruzione, la documentazione e la ricerca, oltre sette decenni dopo il genocidio. Questa responsabilità implica la formazione sulle cause, le conseguenze e le dinamiche di tali crimini, in modo da rafforzare la resistenza dei giovani contro le ideologie dell'odio. Poiché i genocidi e i crimini di atrocità continuano a verificarsi in diverse regioni e poiché stiamo assistendo a un aumento globale dell'antisemitismo e dei discorsi di odio, questo aspetto non è mai stato così importante.

Mantenere viva la memoria dell'Olocausto è l'adempimento di un dovere universale, un dovere verso l'umanità, che è la ragion d'essere dell'UNESCO: sradicare l'odio, costruire la pace e, quindi, proteggere l'umanità. In questa Giornata internazionale, impegniamoci a ricordare sempre. Lo dobbiamo alle vittime della Shoah, lo dobbiamo ai sopravvissuti, lo dobbiamo, infine, a tutte le generazioni future.

UNESCO




mercoledì 25 gennaio 2023

PARLARE CON IL CUORE


 Comunicare

 col cuore 


in un tempo

di contrapposizioni

 “L’appello a parlare con il cuore interpella radicalmente il nostro tempo, così propenso all’indifferenza e all’indignazione”, lo scrive Papa Francesco nel Messaggio per la 57ma Giornata mondiale delle Comunicazioni sociali che quest’anno ha per tema: “Parlare con il cuore. Secondo verità nella carità”. Forte l’invito ad andare controcorrente per sostenere le aspirazioni alla pace sull’esempio di san Francesco di Sales, patrono dei giornalisti.

 - di Adriana Masotti - Città del Vaticano

 “Nel drammatico contesto di conflitto globale che stiamo vivendo è urgente affermare una comunicazione non ostile. Abbiamo bisogno di comunicatori coinvolti nel favorire un disarmo integrale e impegnati a smontare la psicosi bellica che si annida nei nostri cuori”. È un passaggio di estrema attualità contenuto nel Messaggio di Papa Francesco per la Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali 2023 che quest’anno si celebrerà domenica 21 maggio. Il Papa si rivolge in modo particolare agli operatori della comunicazione ma osserva che l’impegno per una comunicazione “dal cuore e dalle braccia aperte” è responsabilità di ciascuno.

La dinamica del “comunicare cordialmente”

Il tema si collega idealmente a quello del 2022, che invitava all’ascolto e a quello precedente che esortava a “andare e vedere” quali condizioni per una buona comunicazione. Questa volta il Papa vuol soffermarsi sul “parlare con il cuore”. Il cuore è infatti ciò che muove all’accoglienza, al dialogo e alla condivisione, innescando una dinamica che Francesco definisce come quella del “comunicare cordialmente”. L’accoglienza dell’altro è ciò che permette, dopo l’ascolto, di “parlare seguendo la verità dell’amore”. Scrive:

Non dobbiamo temere di proclamare la verità, anche se a volte scomoda, ma di farlo senza carità, senza cuore. Perché “il programma del cristiano – come scrisse Benedetto XVI – è ‘un cuore che vede’”. Un cuore che con il suo palpito rivela la verità del nostro essere e che per questo va ascoltato. Questo porta chi ascolta a sintonizzarsi sulla stessa lunghezza d’onda, al punto da arrivare a sentire nel proprio cuore anche il palpito dell’altro. Allora può avvenire il miracolo dell’incontro.

Parlare con il cuore significa lasciar intravedere la partecipazione “alle gioie e alle paure, alle speranze e alle sofferenze delle donne e degli uomini del nostro tempo”, afferma il Papa. E’ un appello che interpella particolarmente chi comunica in un contesto oggi “così propenso all’indifferenza e all’indignazione, a volte anche sulla base della disinformazione, che falsifica e strumentalizza la verità”.

Il dialogo con il cuore di Gesù con i discepoli di Emmaus

Papa Francesco indica l’esempio di un comunicatore con il cuore nel “misterioso Viandante che dialoga con i discepoli diretti a Emmaus”: parlando con amore, Gesù accompagna “il cammino del loro dolore”, rispettando i loro tempi di comprensione. Il Papa scrive ancora: In un periodo storico segnato da polarizzazioni e contrapposizioni – da cui purtroppo anche la comunità ecclesiale non è immune – l’impegno per una comunicazione “dal cuore e dalle braccia aperte” non riguarda esclusivamente gli operatori dell’informazione, ma è responsabilità di ciascuno. Tutti siamo chiamati a cercare e a dire la verità e a farlo con carità.

Parole che fanno del bene

Questo richiamo interpella in modo particolare i cristiani, prosegue Francesco, dalla cui bocca “non dovrebbero mai uscire parole cattive”, ma solo parole capaci di fare del bene agli altri e di scalfire anche i “cuori più induriti”. E’ la “forza gentile dell’amore” che il Papa indica, invitando a ripensare alle sue conseguenze sociali:

Ne facciamo esperienza nella convivenza civica dove la gentilezza non è solo questione di “galateo”, ma un vero e proprio antidoto alla crudeltà, che purtroppo può avvelenare i cuori e intossicare le relazioni. Ne abbiamo bisogno nell’ambito dei media, perché la comunicazione non fomenti un livore che esaspera, genera rabbia e porta allo scontro, ma aiuti le persone a riflettere pacatamente, a decifrare, con spirito critico e sempre rispettoso, la realtà in cui vivono.

San Francesco di Sales, patrono dei giornalisti

Di san Francesco di Sales, dottore della Chiesa, vescovo di Ginevra in un tempo di accese dispute con i calvinisti e proclamato da Pio XI patrono dei giornalisti cattolici, Francesco dice che “il suo atteggiamento mite, la sua umanità, la disposizione a dialogare pazientemente con tutti e specialmente con chi lo contrastava lo resero un testimone straordinario dell’amore misericordioso di Dio”. Per il santo la comunicazione era un “riflesso dell’animo” e una manifestazione di amore. Noi “siamo ciò che comunichiamo” ci ricorda e il suo insegnamento, osserva il Papa, appare “controcorrente” in un tempo in cui spesso la comunicazione viene strumentalizzata. I suoi scritti suscitano una lettura “sommamente piacevole, istruttiva, stimolante” dice Papa Francesco citando le parole di san Paolo VI e poi commenta:

Se guardiamo oggi al panorama della comunicazione, non sono proprio queste le caratteristiche che un articolo, un reportage, un servizio radiotelevisivo o un post sui social dovrebbero soddisfare? Gli operatori della comunicazione possano sentirsi ispirati da questo santo della tenerezza, ricercando e raccontando la verità con coraggio e libertà, ma respingendo la tentazione di usare espressioni eclatanti e aggressive.

Il sogno del Papa

“Parlare con il cuore”, il tema di questa Giornata mondiale si inserisce nel processo sinodale che la Chiesa sta vivendo e Papa Francesco osserva che l’ascolto reciproco è il dono più prezioso che possiamo farci. C’è tanto bisogno, scrive, di un linguaggio “secondo lo stile di Dio, nutrito di vicinanza, compassione e tenerezza”. E descrive il suo sogno: Sogno una comunicazione ecclesiale che sappia lasciarsi guidare dallo Spirito Santo, gentile e al contempo profetica, che sappia trovare nuove forme e modalità per il meraviglioso annuncio che è chiamata a portare nel terzo millennio. Una comunicazione che metta al centro la relazione con Dio e con il prossimo, specialmente il più bisognoso, e che sappia accendere il fuoco della fede piuttosto che preservare le ceneri di un’identità autoreferenziale.

Un’escalation che va frenata cominciando dalle parole

Il Papa guarda ancora al contesto di conflitto globale che stiamo vivendo e ribadisce quanto sia necessaria, “una comunicazione non ostile” per promuovere una “cultura di pace” capace di “superare l’odio e l’inimicizia”. L’escalation bellica che oggi l’umanità teme, scrive Francesco, “va frenata quanto prima anche a livello comunicativo” perché le parole spesso si tramutano in azioni belliche di efferata violenza”. E, dunque, insiste:

Abbiamo bisogno di comunicatori disponibili a dialogare, coinvolti nel favorire un disarmo integrale e impegnati a smontare la psicosi bellica che si annida nei nostri cuori. (…) Va rifiutata ogni retorica bellicistica, così come ogni forma propagandistica che manipola la verità, deturpandola per finalità ideologiche. Va invece promossa, a tutti i livelli, una comunicazione che aiuti a creare le condizioni per risolvere le controversie tra i popoli.

La preghiera del Papa per i comunicatori

Il messaggio di Papa Francesco si conclude sottolineando che lo sforzo di “trovare le parole giuste” per costruire “una civiltà migliore” è richiesto a tutti, ma in particolare è una responsabilità affidata agli operatori della comunicazione e per loro invoca il Signore perché con la loro professione improntata alla “verità nella carità”, possano aiutare a riscoprirci fratelli e sorelle e a “sentirci custodi gli uni degli altri”.

 

Vatican News

 

MESSAGGIO DEL PAPA



 


martedì 24 gennaio 2023

GIORNATA MONDIALE DELL'EDUCAZIONE

Giornata dell’educazione 2023:

 investire nelle persone per farle uscire dalla povertà

 Si celebra ogni 24 gennaio la Giornata Internazionale dell’Educazione, quest'anno alla sua quinta edizione, voluta dall’Onu, nel 2019, per dare un futuro ai circa 262 milioni di bambini e giovani nel mondo che non hanno accesso all'istruzione primaria o secondaria. Don Kasereka, presidente congolese dell’Opam (Opera promozione alfabetizzazione): “Io ho studiato grazie all’Opera, ora continuo il lavoro di più di 4500 progetti per i bambini di tutti i continenti”

 -di Alessandro Di Bussolo

 Investire nelle persone, dare priorità all'istruzione”, è il tema della quinta Giornata Internazionale dell’Educazione, voluta dall’Onu nel 2019, che si celebra ogni 24 gennaio, per dare una speranza di futuro ai circa 262 milioni di bambini e giovani nel mondo che non hanno accesso all'istruzione primaria o secondaria. Sono dati dell’Unesco, che ricorda come “ripensare i sistemi educativi assicurando un’educazione di qualità inclusiva ed equa” sia anche uno degli obiettivi dell’Agenda Onu 2030. Lo scopo della Giornata del 24 gennaio è sensibilizzare i governi e i popoli riguardo al tema dell’accesso all’istruzione per i bambini, come strumento per uscire dalla povertà.

Nel mondo 781 milioni di adulti analfabeti

Sempre l’Unesco stima che al mondo il numero di analfabeti sia di 781 milioni di adulti, il 64 per cento dei quali sono donne. Più della metà della popolazione analfabeta si trova nell'Asia Occidentale e Meridionale, il 24 per cento nell'Africa subsahariana, il 12 in Asia Orientale, il 6,6 negli Stati Arabi e il 4,2 nell'America Latina. Inoltre, l'emergenza sanitaria causata dalla pandemia di Covid-19 ha ulteriormente peggiorato la situazione, mettendo a rischio l'istruzione di milioni di giovani in tutto il mondo.

Ancora ieri Papa Francesco, che sempre nel 2019 ha lanciato il Patto educativo globale, ha ricordato che l’istruzione è il vero motore dell’emancipazione e dell’autonomia dei Paesi del Sud del mondo. Lo ha fatto ricevendo i membri del consiglio direttivo e i volontari dell’Opera di Promozione dell’Alfabetizzazione nel Mondo (Opam) tra i quali tanti insegnanti, dirigenti scolastici e docenti universitari, in occasione dei 50 anni di fondazione. Francesco ha ricordato che in questi anni l’Opam ha realizzato “migliaia di progetti e adozioni a distanza in più di ottanta Paesi”, in primis l’Africa. Un impegno che ha avuto il merito in questi decenni di cambiare radicalmente il concetto di cooperazione allo sviluppo, mezzo secolo fa concepito solo come invio di aiuti materiali.

Nel suo saluto all’inizio dell’udienza, il presidente dell’Opera, don Robert Kasereka Ngongi, 57 anni a febbraio, congolese di Goma, nel nord martoriato della Repubblica Democratica del Congo, ha ricordato che l’Opam, nei Paesi del Sud avvia e sostiene “processi di alfabetizzazione primaria, sostegno all’istruzione per tutti e di formazione degli adulti, in particolar modo delle donne”. Operiamo, ha aggiunto “attraverso piccoli progetti in realtà emarginate, le cui necessità ci vengono di volta in volta segnalate grazie alla fitta rete di relazioni di amicizia e conoscenza che i sostenitori dell’Opam hanno intrecciato con persone che vivono in loco”. Nel Nord del mondo, invece, l’Opera agisce “sensibilizzando l’opinione pubblica al problema dell’analfabetismo, a come il potere conti sull’ignoranza per sostenersi e alla superficialità con cui diamo per scontati alcuni nostri privilegi, come acqua potabile, istruzione e sanità”. Per questo, “l’azione nelle scuole, come i gemellaggi tra classi dei diversi Paesi, sono strumento fondamentale”.

Il Papa e il valore di una testimonianza personale

La storia personale di don Robert è un esempio di come una buona istruzione possa cambiare la vita di un bambino che, come lui è nato la martoriata regione del Kivu, nel nord della RdC. E’ stato, come ha ricordato il Papa in udienza, uno dei tanti bambini di un piccolo villaggio della Repubblica Democratica del Congo, Lukanga, avviato agli studi grazie all’Opam. “È significativo il fatto che tu, don Robert – sono state le parole di Francesco  - sia prima di tutto un testimone, perché quando eri bambino hai potuto studiare grazie anche all’aiuto dell’Opam. Non potevi immaginare che un giorno saresti stato a Roma a dirigere questa opera…”

"I miei coetanei, insegnanti e medici, che fanno crescere il Congo"

Arrivato in Italia nel 2011, grazie ad un gemellaggio tra la sua diocesi di Butembu-Beni e quella siciliana di Noto, dopo 5 anni è tornato in Congo e nel 2018 l’Opam lo ha chiamato per questo servizio. Non potrà seguire il Papa nel suo viaggio tra una settimana nel suo Paese, ma guarda sempre con trepidazione al conflitto che anche ieri, ci ricorda “ha causato la morte di 24 civili innocenti in un villaggio, dato alle fiamme” dai ribelli al governo di Kinshasa. Ecco come ha raccontato a Vatican News la sua storia di bambino che ha studiato grazie all’Opam:

“Brevemente io sono un sacerdote, ho studiato da piccolo, dalla scuola materna fin poi tutta la formazione sacerdotale. E sono molto grato perché questa mia educazione è stata possibile grazie alla generosità, all'aiuto delle persone che non mi conoscevano. Nei primi passi sono stato aiutato dell’Opam, perché il mio parroco don Giovanni Piuma di Pinerolo, conosceva il fondatore dell'Opam e lui portava i bambini a scuola perché da noi, nel nostro villaggio, la scuola non era per tutti. Andavano a scuola solo quelli che avevano genitori che potevano pagare la retta della scuola, perché i maestri vengono pagati proprio con i soldi dei genitori. Molti purtroppo non si potevano permettere di mandare i bambini a scuola, perché non avevano lavoro o lavorano nei campi e quello che producevano non era sufficiente per tutti i bisogni della famiglia e per fare studiare i figli.  Quegli studi mi sono serviti molto, perché i nostri insegnanti dicevano sempre che uno che studia, che ha la possibilità di sviluppare la conoscenza, potrà poi organizzare e prendere in mano il nostro villaggio e permetterne lo sviluppo. Per questo io avevo l'ambizione di fare il medico, ma a sei anni ho incontrato un sacerdote belga che era molto buono, ci aiutava veramente e ci sentivamo davvero molto bene con lui. Lui mi ha dato questa idea ispirazione di fare come lui il prete. Mia madre si stupì che avessi cambiato idea, ma io le dissi: “Vorrei essere prete e devo studiare per esserlo”

Parliamo del villaggio di Lukanga, nella Repubblica Democratica del Congo, dove adesso la situazione è un pò migliorata, rispetto a quando lei era bambino, o ancora c'è povertà?

C'è ancora povertà, ma non come all'epoca, perché ormai ci sono tanti che erano bambini con me o dopo di me, che sono ormai insegnanti, infermieri, anche medici o sacerdoti e che sono riusciti un po’ a dare un nuovo sviluppo al villaggio, dove ormai c'è l’elettricità, l'acqua, ci sono ospedali, scuole. Quindi nel giro di 30 anni è cambiata e migliorata la situazione.

Quindi lei riesce adesso, da presidente dell'Opam, a restituire quello che ha ricevuto? Voi fate molti progetti, non solo in Africa, ma anche in Asia, America Latina, anche Oceania?

E sì, appunto. L'Opera che mi ha aiutato a studiare io l'ho scoperta dopo, e l’Opam non mi conosceva. Così, per grazia, mi sono ritrovato nell’Opera e mi hanno scelto come presidente e solo dopo ho scoperto che è l'Opam che mi ha aiutato. Oggi come presidente dell’Opam provo a portare avanti l'operato dell’Opera, che ha compiuto 50 anni e ha portato avanti più di 4500 progetti attraverso quattro continenti, anche in Oceania abbiamo fatto qualcosa, però soprattutto in Africa e poi anche in America Latina e in Asia.

Riguardo all’udienza di ieri col Papa, cosa l’ha più colpita delle sue parole e del suo anche ricordare l'enciclica Populorum Progressio e l'impegno che la Chiesa da lì ha rafforzato per dare educazione e istruzione come strumento per liberarsi dallo sfruttamento, dalla sopraffazione, e dalla dipendenza dagli aiuti esterni?

Ieri ho visto che Papa Francesco è stato molto colpito di quello che facciamo perché diceva che l'alfabetizzazione è una cosa che la gente non riesce a capire quanto sia basilare perché ancora adesso è una sfida. La nostra è un'associazione che si impegna ad andare alla radice per poter veramente avviare l'educazione. Quindi, noi siamo stati confortati in questo impegno, per continuare a sensibilizzare tutti sia nel Nord sia nel Sud del mondo, perché l’educazione sia messa alla base di tutto.  Con queste radici si può allora portare frutti.

Voi lavorate soprattutto grazie ai contatti che avete con i vescovi, missionari, preti ma anche laici cristiani e non cristiani. Dal vostro osservatorio, come auspica anche l'Unesco con questa Giornata internazionale per l'educazione, i Governi locali e i popoli si stanno sensibilizzando al tema dell'accesso all'istruzione per i più piccoli? Oppure ancora ci sarebbe da fare di più?

La sensibilità è cresciuta, però non abbastanza come si dovrebbe e noi siamo ancora molto impegnati a sensibilizzare. Siamo contenti di collaborare con i vescovi, i sacerdoti e i nostri progetti hanno sempre l’approvazione e la collaborazione dei vescovi. Perché noi non mandiamo nostri cooperanti per seguirli in loco, per risparmiare sulle spese, ma sono i vescovi locali che garantiscono la realizzazione fino alla fine del progetto e abbiamo veramente dei risultati meravigliosi. Quindi la sensibilizzazione continua e continuerà.

 DISCORSO DEL PAPA



Vatican News

 

lunedì 23 gennaio 2023

SHOAH - SE I PROFETI IRROMPESSERO ...

 
Orecchio degli uomini, 

sapresti ascoltare?



 

«Se i profeti irrompessero
per le porte della notte,
lo zodiaco dei demoni
come orrida ghirlanda
intorno al capo-
soppesando con le spalle i misteri
dei cieli cadenti e risorgenti
per quelli che da tempo lasciarono l’orrore

Se i profeti irrompessero
per le porte della notte,
accendendo di una luce d’oro
le vie stellari impresse nelle loro mani
per quelli che da tempo affondarono nel sonno

Se i profeti irrompessero
Per le porte della notte,
incidendo ferite di parole
nei campi della consuetudine,
riportando qualcosa di remoto
per il bracciante
che da tempo a sera ha smesso di aspettare

Se i profeti irrompessero
per le porte della notte
e cercassero un orecchio come patria

Orecchio degli uomini
ostruito d’ortica
sapresti ascoltare?

Se la voce dei profeti
soffiasse
nei flauti-ossa dei bambini uccisi,
espirasse
l’aria bruciata da grida di martirio
se costruisse un ponte
con gli spenti sospiri dei vecchi

Orecchio degli uomini
attento alle piccolezze,
sapreste ascoltare?

Se i profeti entrassero sulle ali turbinose dell’eternità
se ti lacerassero l’udito con le parole:
chi di voi vuol fare guerra a un mistero,
chi vuole inventare la morte stellare?

Se i profeti si levassero
nella notte degli uomini
come amanti in cerca del cuore dell’amato,
notte degli uomini
avresti un cuore da donare?»

Nelly Sachs, Le stelle si oscurano, 1944-46. Pubblicato in Italia da Einaudi nella raccolta Poesie, nella traduzione di Ida Porena

Nelly Sachs (1891-1970) è stata una poetessa e scrittrice tedesca di origine ebraica. È famosa soprattutto per il dramma Eli e per le poesie – ispirate all’immaginario e alle tematiche del Romanticismo tedesco – in cui racconta le sofferenze degli ebrei durante e dopo l’Olocausto. Nel 1966 ha vinto il Premio Nobel per la letteratura.

sabato 21 gennaio 2023

LE RELAZIONI AL CENTRO DI TUTTO


 La scuola del nozionismo e del disciplinarismo è morta. 

Il problema è creare quella nuova che servirebbe ai nostri giovani. Intanto perderemo tempo


- di Giuseppe Bertagna

 Il Sussidiario mi ha chiesto un commento all’articolo di Davide Rondoni dell’11 gennaio scorso. Aderisco volentieri all’invito. Parto dal primo punto messo in luce dall’autore. La celebrazione dei funerali, lui scrive (o meglio: auspica), del paradigma dell’enciclopedismo scolasticistico. Non è il primo ad invocarli. Temo, purtroppo, che non sarà l’ultimo. Nell’era di Chatbot GPT di OpenAI, del resto, non ha proprio più alcun senso. Nozionismo astratto, disciplinarismo da insetto fitofago che lavora su un solo vegetale come la mosca delle olive, enciclopedismo da Wikipedia dovrebbero essere stati superati da tempo, a livello cultural-scientifico e soprattutto pedagogico-didattico, visto che sono tre -ismi. Ovvero degenerazioni che, contro ogni elementare regola epistemologica, fanno l’imperdonabile errore di assolutizzare una parte: nel nostro caso, la nozione conoscitiva, la disciplina e l’enciclopedia.

Personalmente aggiungerei però anche qualcosa di più radicale. Si sa da tempo che la degenerazione degli -ismi, e non solo dei tre menzionati, che ci assediano tuttora da ogni parte con la loro inerzia ideologica, dovrebbe essere ormai, nel merito, già morta e tumulata. Magari perfino con esequie in pompa magna (dei morti, infatti, di solito, si parla sempre bene, e qualche ragione storica per farlo la si trova).

È da riconoscere, tuttavia, che anche i concetti particolari da cui provengono i tre -ismi prima richiamati e dei quali costituiscono un’assolutizzazione indebita non stanno proprio bene, non godono nemmeno loro di buona salute. Soprattutto oggi, dopo il digitale, le neuroscienze, l’AI e gli onnipresenti social network, non si sa più, prima di tutto, che siano, analiticamente, “nozione” (perfino “conoscenza”), “disciplina” ed “enciclopedia”, e poi, e non da meno, che senso pedagogico possano rivestire, se si interpreta l’aggettivo “pedagogico” come l’etimologico “prendere per mano uno studente per accompagnarlo verso una maggiore compiutezza formativa di sé, nel mondo e nella storia che ci sono e che sono quelli che sono”.

Infatti, il significato con cui questi termini sono stati intesi e presentati negli ultimi due secoli e mezzo non è più spendibile. Una verità non nuova se ad accorgersi della irredimibile pericolosità pedagogica non solo dei tre -ismi, ma perfino delle tre concettualizzazioni da cui provengono fu Rousseau. Proprio di fronte all’uso che fecero di questi arnesi i suoi contemporanei “illuministi-enciclopedisti”, intuì subito a quali derive antipedagogiche avrebbero portato. E anche per questo scrisse il suo ponderoso “romanzone”: Emilio o dell’educazione, da allora uno dei testi di pedagogia tra i più fraintesi, strumentalizzati, poco letti (semmai solo in bigini) e soprattutto mai attuati.

Il secondo punto messo a fuoco nell’intervento di Rondoni è antropologico. L’ambito senza la cui definizione non si può costruire nessuna pedagogia. Anche l’antropologia pedagogica a cui Rondoni si riferisce è antica. Non a caso assunta anche da Rousseau fin dalla prima riga del suo Emilio. E comunque ben più vecchia degli -ismi prima menzionati e delle stesse concettualizzazioni da cui essi provengono. Infatti, è l’antropologia cristiana, avviata dal Vangelo, e basata su tre principi.

Primo, gli uomini, tutti figli dello stesso Padre, sono “fratelli”: fortunati o sfortunati, ricchi o poveri, colti o ignoranti, normali o disabili, re o schiavi hanno tutti la stessa, intangibile dignità filiale.

Secondo: se gli uomini hanno tutti uguale dignità, ognuno è però diverso da tutti gli altri che sono nati, ci sono e ci saranno. Ciascuno è unicamente sé stesso, e a modo suo. L’uniformità seriale, nella vita personale e sociale, per questa antropologia, è l’inferno. Il paradiso non è tanto la diversità, ma riuscire a manutenere relazioni interpersonali e sociali che riconoscano, rispettino, sviluppino e valorizzino il positivo contenuto in ogni diversità. Escludere dalla relazione anche un solo uomo perché diverso da noi significa confessare il fallimento, la pochezza e l’incompetenza non di chi è escluso, ma di chi lo esclude.

Terzo: il secondo principio regge e non è contraddittorio perché, diversamente da altre antropologie, proprio nella loro irriducibile diversità, non esiste nessun uomo che non abbia almeno un talento (una capacità, una potenzialità, una possibilità) di essere migliore, se lo vuole. Come spiega Mt 25,14-30, infatti, nessuno ha tutti i talenti. Ma anche nessuno non ne ha almeno uno. Nessuno cioè vale zero. Merito di ciascuno è allora scoprire e trafficare i propri talenti, usarli bene, essere aiutato a non sotterrarli, consapevoli che, minori o maggiori che siano per ciascuno, non sono mai né minimi né massimi, né tra loro alternativi (esclusivi), ma sempre tra loro compositivi (inclusivi) e moltiplicativi. Per questo chiedono la reciproca ottimizzazione, non la pretesa dell’eventuale massimizzazione di qualcuno tra essi. Se si resta in quest’ottica, avremo sempre strategie win win, vantaggiose per tutti, nessuno escluso, mai lose-lose. Questo è il vero liberalismo.

Il terzo punto messo a fuoco da Rondoni è costituito dalle conseguenze dei primi due. Nell’apprendimento, se vuol essere pedagogico, è indispensabile la personalizzazione. Non solo nel senso che niente potrà mai essere nozione, disciplina ed enciclopedia se non feconda e non compie maggiormente la vita di ciascuno (la verità non è mai soltanto un concetto, ma è sempre la qualità di un vivere in un certo modo che si fa testimonianza), ma anche che docenti e scuola come istituzione fanno un altro mestiere se non si mettono al servizio della personalizzazione degli studenti, per renderli sempre più e meglio le differenti persone che sono. Soltanto a partire dai loro talenti, e dalla quantità e qualità delle relazioni che intrattengono con altri talenti, si possono poi riconoscere i meriti sia dello studente sia del docente sia dell’istituzione scuola nel valorizzarne la funzione formativa.

Rondoni non è un pedagogista della scuola. Ma siccome è convinto esistenzialmente dei tre punti prima messi a fuoco conclude il suo intervento con una proposta addirittura ordinamentale: abbassare (finalmente) da 13 a 12 anni la durata dell’istruzione pre-terziaria (come avviene in tutto il mondo, da sempre); distribuire nei 4 anni di secondaria l’approfondimento delle competenze di base e della valorizzazione dei talenti con il supporto di “mastri” e “maestri” che siano degni di questo nome e che perciò siano in grado di aiutare a connettere le esperienze nelle quali lo studente traffica al meglio i suoi propri talenti con la formalizzazione culturale che ne moltiplica il rendimento formativo.

Non voglio discutere queste proposte. Mi limito a dire che anch’io ne ho coltivato di analoghe nella mia carriera di insegnante di filosofia e storia, di preside, di dirigente superiore dei servizi ispettivi per filosofia e storia, poi di docente universitario, e dal 1985 di membro di tante commissioni ministeriali per la “riforma” delle scuole. Posso dire di avere in qualche modo elaborato i punti messi a tema anche da Rondoni in un libro di inizio carriera (Cultura e pedagogia per la scuola di tutti) e in uno, ultimo, di fine carriera (il recentissimo Per una scuola dell’inclusione. La pedagogia generale come pedagogia speciale, Studium, Roma).

Purtroppo, per quanto mi riguarda, forse perché non ho trafficato a sufficienza, e bene, i miei pochi talenti, la scuola resta il pachiderma sindacal-burocratico-corporativo autoreferenziale che ha spinto Rondoni al suo bell’intervento. Speriamo che la sensibilità della poesia riesca meglio della (mia) non talentuosa pedagogia a convincere colleghi, giornalisti, mass mediologi, influencer, partiti politici, amministrativi, sindacati dei docenti, famiglie e giudici che la scuola che abbiamo non è proprio quella che sarebbe bene ci fosse. E non nei dettagli, ma nella sostanza.

 Il Sussidiario