martedì 21 maggio 2024

LO STUDIO E' L'ARTE DELLA PACE

 


Sentiamo di vivere in un mondo sull'orlo del precipizio e sentiamo bene: siamo sull'orlo del precipizio. Non lo siamo però a causa di quanto pensiamo immediatamente, ma perché è fuggita dal mondo la sapienza.

 

-         di Vito Mancuso

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Con questo non intendo minimizzare i problemi di oggi nella loro concretezza quali il cambiamento climatico, l'oscuro futuro cui ci consegna la tecnologia, l'imperversare delle guerre, la lacerazione del tessuto sociale, le massicce migrazioni e le conseguenti reazioni identitarie. Sono consapevole del fatto che le testate atomiche negli arsenali di alcuni Stati sono in numero tale da distruggere più volte questo nostro piccolo pianeta blu, meraviglia assoluta nel nero dello spazio cosmico. So bene, inoltre, che l'umanità non ha mai vissuto tempi felici, mi ricordo bene l'incipit di Kant nel saggio sul male radicale: «Il mondo va di male in peggio: è questo un lamento antico quanto la Storia». Proseguiva: «Secondo questa prospettiva, noi oggi (un oggi che però è antico quanto la Storia) viviamo nel tempo estremo: l'ultimo giorno e la fine del mondo sono alle porte». Era il 1793, ma ancora oggi ognuno può cantare con Mina «Sono ancora qui» e con Vasco Rossi «Sono ancora qua».

Potere e giustizia

Il precipizio allora dov'è? Nel fatto che un tempo si aveva un punto fermo a cui appellarsi per iniziare a tacere e poi forse ragionare, e questo conferiva la speranza di poter sempre ricominciare. Non a caso Kant poteva scrivere negli stessi anni un saggio sulla pace (Per la pace perpetua del 1795) nel quale ipotizzava un mondo in cui il potere si sarebbe inchinato alla giustizia, alla politica al diritto, e su questa base, uscendo dalla logica della forza ed entrando in quella del diritto internazionale, costruire effettivamente la pace. Il punto fermo della mente lo si poteva chiamare Dio, Ragione, Socialismo, eccetera: rimaneva il fatto che l'umanità lo possedeva e quindi era capace, a un certo punto, di tacere, ascoltare, pensare e accordarsi. Vi era la possibilità di un esercizio pubblico della sapienza. Uno diceva «in nome di Dio», o «in nome della Costituzione» e tutti ascoltavano.

 La sapienza è fuggita dal mondo

Oggi il punto fermo è scomparso e per questo dico che la sapienza è fuggita dal mondo: tra noi non vi è più nulla di comune a cui tutti insieme appellarsi. Ne viene che ognuno è pronto a dire all'altro cosa deve fare, ma nessuno sa più ascoltare le ragioni dell'altro. Gli ecologisti dicono agli economisti e agli imprenditori quello che devono fare, ma non ascoltano le ragioni degli economisti e degli imprenditori; viceversa, gli economisti e gli imprenditori mirano al profitto e a come contrastare la concorrenza senza curarsi del pianeta e delle condizioni disastrose denunciate giustamente dagli ecologisti. I pacifisti dicono ai governanti e alle forze armate quello che devono e soprattutto non devono fare, ma non ascoltano le ragioni dei militari che chiedono ai governi ancora più armi per non far vincere la tirannide; viceversa, i militari non si curano granché delle vittime civili, della progressiva distruzione di interi territori e del pericolo crescente di una guerra mondiale, oggetto della giusta denuncia dei pacifisti e probabile ultimo atto della storia dell'umanità.

Volere e sapere dialogare

 A cosa possa portare il non-ascolto dell'altro lo manifesta nel modo più tragico il conflitto israelopalestinese. Esso si è ormai così incancrenito che essere oggi per lo Stato palestinese significa volere la distruzione dello Stato di Israele e ritrovarsi con chi insulta la Brigata ebraica della Resistenza e con chi reprime la libertà delle donne e degli omosessuali; e viceversa stare dalla parte di Israele significa negare la terra ai palestinesi alimentando il progressivo furto di territorio da parte di quei signori di solito chiamati coloni ma il cui vero nome è ladri (quando non assassini: ricordarsi sempre dell'assassinio di Ytzhaq Rabin il 4 novembre 1995, io piansi), oppure ritrovarsi accanto all'attuale governo israeliano che si accanisce a tal punto contro i civili di Gaza che se non è genocidio poco ci manca.

 A questo conduce l'incapacità di ascolto delle ragioni dell'altro per la mancanza di un punto fermo comune e della sapienza, e gli esempi si potrebbero moltiplicare. Persino il Papa da un lato predica al mondo la pace, dall'altro non è capace di praticarla veramente a casa sua e continua ad attaccare i cardinali, la Curia e padre Georg.

Sapienza ed equanimità

 Ebbene, all'interno di questo quadro abbastanza deprimente ogni tanto ci chiediamo cosa possiamo fare noi. La mia risposta è: cercare di capire esercitando la sapienza e l'equanimità. L'esercizio della sapienza consiste anzitutto nel desiderarla, per farla tornare almeno nel nostro cuore. E quando la sapienza ritorna, il primo dono che porta è l'equanimità, cioè il saper ascoltare le ragioni dell'altro.

 Aristotele insegnava la "via di mezzo" quale criterio per condurre la mente perché è trovando il centro tra due polarità che si ottengono le virtù, tra cui spicca la sapienza. Lo stesso insegnavano il Buddha e Confucio. È la soluzione per tutti i problemi? Ovvio che no, ma non si deve mai dimenticare il precetto posto da Ippocrate a fondamento della medicina: "Primum non nocere", "Primo non nuocere". A volte, volendo guarire, si peggiora la situazione, mentre bisognerebbe prendere atto che non si può guarire ma solo curare. Fuor di metafora: a cosa serve essere pacifisti invocando la pace, se lo si fa con parole violente ricolme di odio che alimentano le radici della guerra? A cosa serve richiedere la creazione di uno Stato per un popolo, se lo si fa aspirando alla distruzione di uno Stato per un altro popolo? Se non si capisce come servire effettivamente la pace, molto meglio astenersi dal prendere posizione. La bandiera della pace ha i colori dell'arcobaleno a significare di voler contenere tutti, se diventa di una parte sola fallisce.

 Per altri conflitti è più facile capire perché risulta chiaro chi aggredisce e chi è aggredito, chi combatte per invadere e chi per scacciare l'invasore, e allora si prende posizione appoggiando chi si difende dalla tirannide. Ovvio che mi riferisco alla guerra di difesa dell'Ucraina, a proposito della quale fin dall'inizio non ho avuto dubbi sull'opportunità di inviare aiuti, anche militari. Ma perché allora quando sento il presidente francese parlare di inviare i soldati, avverto un chiaro no nella mia mente? Paura? Sì, penso sia paura, e la paura è qualcosa di molto serio, è la prima delle sei emozioni universali, su di essa occorre sempre saggiamente riflettere. Hans Jonas giunse a scrivere di "euristica della paura": intendeva dire che la paura, se viene riconosciuta e non negata (perché a nessuno piace ammettere di averla), può aiutare a trovare. Euristica significa questo: metodo della scoperta («Eureka!», gridò Archimede dopo la famosa scoperta).

Essere pace

 Insomma, quando si ha il privilegio di non essere nella mischia si tratta di vincere la tentazione di immischiarsi e di farsi guidare da queste parole di Spinoza: «Mi sono impegnato a fondo non a deridere, né a compiangere, né tanto meno a detestare le azioni degli uomini, ma a comprenderle». La pace inizia nella mente che studia. Non ci può essere pace senza studio. E dallo studio della situazione apparirà una volta l'opportunità di agire, un'altra quella di non agire; una volta sarà giusto cedere, un'altra resistere. La saggezza, esercizio pratico di sapienza, è l'arte del discernimento.

 Il mio naturalmente non è un programma politico, perché non si rivolge ai molti né tantomeno ai popoli, ma al singolo nella sua solitudine. Ha scritto Etty Hillesum ad Amsterdam sotto occupazione nazista: «In fondo, il nostro unico dovere morale è quello di dissodare in noi stessi vaste aree di tranquillità, di sempre maggior tranquillità». Queste parole di una giovane donne ebrea scritte prima di essere deportata ad Auschwitz ci insegnano ancora oggi che il primo atto a favore della pace si compie nella mente: per liberarla dall'odio e studiare con equanimità raccogliendo la sapienza che ne deriva.

Chi lo fa, capisce che, se è bene manifestare per la pace, si tratta prima ancora di "essere pace".  

 

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NASCERE E RINASCERE


L'uomo è chiamato

 a nascere, 

venire alla luce, 

venire al mondo, 

per tutta la vita


-di Alessandro D'Avenia

 

«Sono una mamma e nella vita faccio il lavoro più bello: l'infermiera. Ho bisogno di aiuto per una ragazza che qualche giorno fa ha deciso di gettarsi da un cavalcavia. Da quel volo è uscita viva ma con il corpo distrutto, avrà una vita in carrozzina. Mi ha confidato che lei è uno dei suoi autori preferiti, allora mi sono chiesta cosa posso fare per riportarla alla vita? Sì, perché vuole ancora morire. Forse chiedo troppo, ma se c'è una possibilità di riportare il cuore di questa ragazza alla bellezza della vita, perché non provarci? Due righe potrebbero cambiare la vita a lei e ai suoi genitori che sono distrutti». Lettere come questa mi riportano al perché fare lo scrittore e l'insegnante. Infatti «portare alla bellezza della vita», come chiede questa donna, è di sicuro lo scopo di queste due professioni, e di chissà quante altre... Uno scopo descritto perfettamente dal Nobel per la letteratura Elias Canetti nella sua conferenza-testamento, intitolata «La missione dello scrittore»: «Nessuno sia respinto nel nulla, neanche chi ci starebbe volentieri. Si indaghi sul nulla con l'unico intento di trovare la strada per uscirne, e questa strada la si mostri a ognuno». Che cosa dire allora? Che parola? L'occasione ne richiede una nuova, o da riscoprire. La dedico a questa ragazza.

 Come ripeto spesso vivere è sperare di nascere del tutto, quindi se qualcuno decide di smettere di vivere è perché non spera più che la propria vita abbia e possa raggiungere un compimento. Questa energia, che caratterizza ogni vivente, nell'umano è specifica, infatti non la chiamo nascita, ma «nascenza», recuperando una parola desueta in italiano, ma comune in altre lingue neolatine: in francese nascita si dice naissance, in spagnolo naciencia. Uso quindi nascenza anziché nascita per marcare la differenza tra il processo e l'esito del nascere. Tutti gli esseri viventi, alla nascita - consentite la ripetizione - nascono del tutto, l'istinto li dota infatti sin da subito del programma per raggiungere la propria felicità; l'uomo invece è chiamato a nascere, venire alla luce, venire al mondo, per tutta la vita. È in nascenza perché è libero, non è determinato direttamente dall'istinto, ma sceglie. In noi l'energia vitale non si esplica spontaneamente ma è attivata e indirizzata attraverso ciò che traduce l'istinto in riti, luoghi e narrazioni, cioè la cultura, l'insieme di forme con cui sopra-viviamo. Per esempio, a differenza di un'ape che ha da subito un ruolo e sa fare un alveare, noi per vivere riceviamo istruzioni attraverso forme educative come la scuola, o impariamo a regolare i rapporti sociali attraverso forme politiche come la democrazia. E mentre l'alveare è e sarà sempre la forma di sopravvivenza delle api, le forme di nascenza umana con il tempo possono logorarsi, perché non rispondono più alle sfide vitali, anzi magari finiscono con ingabbiare e mortificare la vita (come oggi spesso accade con la politica e con la scuola). In questi casi le civiltà decadenti o si aggrappano ossessivamente al passato e affondano insieme al relitto o si lasciano andare per disperazione senza neanche provare a nuotare verso terra, le civiltà vive invece trovano e inventano forme nuove di salvataggio. Atene inventò la democrazia e Roma le reti stradali, forme che ancora durano perché restano tra le migliori per farci «nascere». 

La «nascenza» è quindi il dialogo continuo e fecondo con la realtà, un incontro che diventa «co-nascenza», cioè un nascere del mondo con noi e di noi col mondo. Reinterpretando l'Ulisse dantesco fatti non fummo per vivere come animali ma secondo «virtute», la vita buona, e «co-nascenza», cioè la vita in cui si nasce insieme a ciò che ci sta attorno, vita collegata, energie che si alimentano e moltiplicano a vicenda, come in un'orchestra. A proposito di musica, in una recente canzone intitolata «Tutti hanno paura», il rapper Ernia sintetizza in che stato è oggi la «nascenza»: «A breve sarò anch'io fuori dai venti/ I grandi mi tengon sotto, i piccoli crescon svelti/ Dovrei donare ai primi la fine che fa Saturno/ Ed ingoiare i secondi per rimandare il mio turno». Si riferisce al mito del dio che divora i figli appena nati perché sa che uno di loro lo eliminerà, cosa che infatti accadrà perché la moglie gli darà in pasto un masso anziché il neonato. Il rapper canta la paura della in-co-nascenza: l'adulto è da eliminare, il nuovo da divorare, pur di occupare la scena e rimandare l'appuntamento con la morte. La ragazza della lettera ha perso ogni speranza di co-nascere, e quindi ogni ri-co-nascenza: la gratitudine per essere venuta al mondo e la speranza di poter venire ancora al mondo. Eppure, un'infermiera decide di prendersi cura non solo del suo corpo e ascolta che cosa la lega (appartenenza) alla vita. Questa ragazza, senza energie per ri-nascere, può trovarle in chi ha deciso gratuitamente di «ri-co-nascerla». Può salvarsi grazie alla co-nascenza, cioè la scoperta che, benché le sembri di essersi ridotta al nulla, qualcuno la vuole viva. E un nulla, amato, diventa tutto. Quindi, la parola che riporta alla bellezza di vivere non è un fiato, ma carne: è l'infermiera. 

La «nascenza» viene sempre da una appartenenza d'amore. Qualche giorno fa ho tenuto un racconto teatrale al quale avrebbe partecipato una ragazza che mi ha scritto parole più autorevoli delle mie, perché nate proprio da una «carrozzina»: «Sento una profonda gratitudine. Anni fa, uscita da un ospedale vicino a dove parlerai, in preda alla disperazione per la malattia che mi bloccava braccia e gambe, ho sentito nella morte l'unica soluzione possibile per me, la bellezza di quelle strade non mi parlava più. Poi però negli anni in sedia a rotelle, attraverso i libri il mondo è entrato nella mia stanza e leggendo ho sentito che valeva ancora la pena vivere». La via della co-nascenza sono stati dei libri. Adesso questa ragazza si occupa professionalmente di aiutare altri a uscire da situazioni critiche, la sua esperienza l'ha resa capace di «co-nascenza». Allo stesso modo gesti, parole, luoghi ci fanno nascere se sono «co-nascenza», cioè forme della creatività umana che creano appartenenza (carezze, lettere, libri, ospedali, scuole, spazi architettonici...) e attivano le energie vitali già presenti in ognuno, ma spente dalla disperazione. Un docente co-nasce con gli studenti, uno scrittore con i lettori, un giardiniere con le piante, un capo con i dipendenti, un politico coi cittadini. In ogni ambito, ciascuno nel suo, vivere è creare condizioni di co-nascenza. Solo così smettiamo di oscillare tra voler occupare tutta la scena e voler toglierci di scena, per paura di non esistere abbastanza, e ci apriamo all'unica forma felice di vita, quella che ci permette di nascere fino alla morte: la ri-co-nascenza.

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CAPIRE IL GENDER


 Quali sono le opportunità 

e quali i rischi 


-         di Luciano Moia

 

La questione gender è tornata al centro del dibattito per la mancata firma del governo italiano alla Dichiarazione europea sui diritti lgbt. La scelta di non aderire al documento, è stato spiegato, nasce anche perché il testo aprirebbe a “pericolose derive sul gender”, ma anche perché ricalcherebbe alcuni passaggi del ddl Zan a proposito dell’identità di genere.

 Senza entrare nel merito di queste giustificazioni, la cui approssimazione sarà senz’altro da attribuire alle semplificazioni di noi giornalisti che le abbiamo riportate, occorre tornare sulla questione per capire cosa c’è in questo multiforme arcipelago del genere e delle sue infinite connessioni, spesso evocato, molto spesso frainteso, quasi sempre strumentalizzato per obiettivi politici se non ideologici. Perché fa tanta paura? Perché viene indicato come la madre di tutta l’emergenza educativa?

 Ne abbiano parlato tantissimo su questo sito (vedi la sezione dedicata proprio al tema) e sulle pagine di Avvenire e di Noi, ma un nuovo testo appena arrivato in libreria ci offre lo spunto per tentare un nuovo e non scontato approfondimento. Il saggio è stato scritto dal filosofo Giuseppe Savagnone, da tanti anni nostro collaboratore, osservatore attento dell’evoluzione culturale di questi decenni, con un occhio puntato sulla questione antropologica. Si intitola La sfida del gender tra opportunità e rischi (Cittadella Assisi, pagg. 133, euro 13,9) e offre un’analisi serena, equilibrata, senza demonizzazioni ma anche senza scelte di campo all’insegna del politically correct.

 Forse per questo non piacerà né agli oltranzisti dell’allarme gender permanente, né a coloro che vorrebbero abbattere tutte le barriere e ridisegnare completamente la mappa del maschile e del femminile.

Savagnone, da studioso qualificato, guarda all’evoluzione storica della sessualità e al rapporto - delicatissimo e decisivo - tra complementarità e reciprocità smascherato dalle teorie di genere (la cosiddetta lobby gender non c’entra nulla). “Il paradigma della complementarità dei sessi, che implicava il primato della diversità e una corrispondente divisione dei compiti a tutto svantaggio delle donne, è stato sostituito da quello della reciprocità dei generi, per cui tutto quello che è consentito ad uno, non può non esserlo all’altro. Qui ormai è in primo piano l’eguaglianza, mentre la differenza (alla luce della pesante eredità del passato) viene guardata con sospetto”.

 Tutto risolto quindi? È bastato far chiarezza su alcuni stereotipi ormai inaccettabili – l’uomo che non deve chiedere mai e la donna fragile, dolce e sottomessa – per cancellare alcuni millenni di discriminazione di genere? Purtroppo, no, e la maggior parte delle questioni rimangono aperte. Il passaggio dalle gender theories (gli studi più seri) alle “teorie del gender” (più estreme e ideologiche), argomenta Savagnone, va affrontato con attenzione e spirito critico. In questa galassia esistono posizioni problematiche legate al concetto di decostruzione del corpo (Judith Butler), alla lettura della maternità come fonte dell’oppressione femminile (Donna Haraway), fino alle dichiarazioni sul “diritto del piacere” senza “anormalità” e “senza patologie” di Michel Foucault che finiscono per cancellare la persona e per mettere a fuoco solo il piacere che si verifica nell’incontro. Il filosofo prende in esame però anche le posizioni più moderate, quelle che si limitano a insistere sull’irrilevanza “del sesso biologico per la determinazione sia dell’identità di gemere sia dell’orientamento sessuale”.

 Una posizione che, argomenta Savagnone, ha senso solo se si ammette che le persone “alla ricerca della loro identità sessuale, non abbiano già dalla loro struttura fisica , e in ultima istanza da ciò che sono, una indicazione normativa, che nella stragrande maggioranza è decisiva”. Le eccezioni alla norma iscritta nell’identità biologica esistono – come esistono appunto le persone omosessuali e le persone transgender – e non vanno demonizzate, ma vanno considerare appunto eccezioni e non la prova che non “esista una qualsiasi regola iscritta nella biologia”.

 Con la stessa serenità, insieme a tante altre questioni connesse – il dibattito sulla natura umana, il significato della corporeità, le categorie universali e il gender fluid – l’autore affronta il tema della “famiglia” e delle “famiglie”. Accerta il superamento della figura del padre-padrone, che nella cultura della complementarietà aveva il suo radicamento, ammette che esiste una parte di verità nella denuncia di alcune autrici femministe a proposito della possibilità di cogliere in un certo paradigma del rapporto eterosessuale l’origine di violenze e sopraffazioni, ma argomenta che “senza la peculiarità dell’identità femminile e di quella maschile – inseparabili dal rispettivo sesso biologico – la ricchezza dell’umano, così come oggi la conosciamo e la viviamo, non esisterebbe”.

 E non esisterebbe neppure la famiglia in cui va sottolineata “la priorità innegabile del modello eterosessuale”. Non significa che “non si possano dare forme analoghe di relazione in cui la complementarità si possa realizzare in modo meno pieno”, ma la logica a cui far riferimento è sempre quella dell’analogia. È questo il punto decisivo per superare da un lato forme univoche di famiglia, come nel passato, ma dall’altro per azzerare qualsiasi equivocità (per esempio pedofilia o zoofilia).

 Savagnone ammette quindi che l’idea della famiglia arcobaleno è praticabile nel senso di “dare spazio alle unioni tra persone che non rientrano nel paradigma eterosessuale e che hanno l’umana esigenza di vivere una vita familiare”, ma senza negare la peculiarità della famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna, “anzi, proprio il riferimento a tale modello garantirebbe alle possibili varianti di queste unioni un riferimento comune che evidenzi il loro significato di famiglie”.

 Insomma, in questa lunga stagione di dibattito sul gender se non vanno negati alcuni aspetti positivi, come un nuovo clima culturale di rispetto, il riconoscimento dei diritti delle persone lgbtq+, la lotta contro il bullismo, rimangono altre questioni gravemente problematiche come il problema della generazione con la pretesa del diritto ai figli e più in generale l’affermazione di teorie che pretendono di imporre una rivoluzione antropologica ed etica.

 Qual il rischio? Quello di ogni rivoluzione culturale, argomenta Savagnone, è cioè “che le mode se ne impadroniscano e finiscano per gestirla” dando luogo a nuove forme di totalitarismo culturale. “Allora, un movimento di idee nato originariamente con l’intento di aprire nuovi orizzonti e di sconfiggere l’intolleranza, può finire per diventare a sua volta una fonte di luoghi comuni e di slogan acriticamente accettati e ritenuti indiscutibili”.

 

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UNA DIDATTICA EFFICACE


 L’educazione comunque la guardiamo, da qualsiasi punto di vista, che sia scolastico, extrascolastico o familiare, è sempre cambiamento.



INTERVISTA a Roberto Farnè

 Cosa vuol dire essere insegnanti oggi? Ne abbiamo parlato con il Professor Roberto Farnè, Già professore ordinario in Didattica generale, è ora docente a contratto per l’insegnamento di “Pedagogia del gioco e dello sport” nel corso di laurea in Scienze motorie, presso il dipartimento di Scienze per la Qualità della Vita dell’Università di Bologna.

 

-        di Fabio Gervasio

 Professor Farnè, cosa vuol dire essere insegnanti oggi e come è cambiata questa professione nel tempo?

 La professione nel tempo è cambiata perché sono cambiati i tempi, ovvero è cambiata la scuola e sono cambiati i bambini. Da questo punto di vista quando sento dire che la scuola è in crisi, che l’educazione è in crisi, rispondo sempre che la scuola è fisiologicamente in crisi, perché è chiamata a gestire dei processi di cambiamento. La parola crisi va vista nel suo significato autentico, vuol dire passaggio, cambiamento, e quindi come tale non mi aspetto mai che la scuola sia una realtà tranquilla dove tutto funziona, dove tutto va bene. Poi ovviamente la scuola deve funzionare, per cui ci sono criticità che vanno affrontate e risolte perché rendono la scuola disfunzionale, ma che non sono la dimensione di crisi che significa lavorare per attivare dei processi di cambiamento.

 L’educazione comunque la guardiamo, da qualsiasi punto di vista, che sia scolastico, extrascolastico o familiare, è sempre cambiamento. Un bambino entra a scuola a sei anni che non sa leggere e scrivere e qualcuno glielo insegna ed acquisisce queste competenze, questo è un processo di cambiamento che come tale esige anche sforzo, fatica e impegno. I cambiamenti non sono mai piacevoli, l’importante è come vengono fatti vivere, la competenza pedagogica è proprio quella di gestire i cambiamenti nei processi educativi, rispettando però i diritti dell’infanzia, in modo che questi cambiamenti diventino formativi, cioè, aiutino la persona fin dall’infanzia a definire la propria formazione, il proprio essere.

 Oggi ci troviamo di fronte ad una situazione che presenta delle criticità, delle difficoltà, che non erano quelle di 50 anni fa. Se solo pensiamo ai cambiamenti che sono avvenuti nell’arco di un paio di generazioni, possiamo vedere che queste criticità toccano in maniera significativa la figura dell’insegnante che oggi è una figura che presenta delle difficoltà probabilmente perché fa fatica a gestire dei processi educativi di cambiamento che hanno delle caratteristiche molto particolari, ad esempio chi poteva immaginare 50 anni fa che i social network, le tecnologie ed internet sarebbero stati fenomeni così invasivi nella vita quotidiana, quali sfide pongono queste tecnologie all’educazione e quindi la scuola come deve porsi, l’insegnante come deve porsi, con un atteggiamento di accettazione o di rifiuto, di negazione?

 Tutti questi aspetti oggi mettono l’insegnante di fronte a delle scelte che, come ho detto, fanno parte di quella che è la fisiologica crisi della scuola nel gestire i cambiamenti dei processi educativi, ma le risposte di oggi non le possiamo trovare nel passato, queste risposte l’insegnante le deve trovare oggi, nel tempo in cui vive, e da questo punto di vista all’insegnante è chiesta non solo la competenza del tipo didattico-psico-pedagogica necessaria a fare l’insegnante, questo vale dalla scuola dell’infanzia fino alla secondaria di secondo grado, ma è richiesta anche una competenza dal punto di vista del proprio essere insegnante, che non è il fare l’insegnante, ovvero fare l’insegnante ma anche l’essere insegnante. Questo lo dico con maggiore enfasi oggi anche perché quest’anno è il centenario della nascita di Alberto Manzi che è stato un insegnante che ha guardato molto alla dimensione proprio dell’essere, della sua identità professionale che andava al di là della sua capacità didattica, che pure c’era ed era molto significativa.

 Prendendo spunto dalle sue parole le chiedo come può un insegnante capire se la sua didattica è efficace?

 I modi sono diversi, uno può dire che una didattica è efficace semplicemente perché vede i bambini che imparano, ma i bambini imparano anche perché gli impongo di imparare, i bambini sono obbedienti, docili e studiano, per cui questo è sì un indicatore ma lo è in modo parziale. Possiamo dire che la didattica ha la sua efficacia nella relazione, ad esempio si può verificare la situazione di una classe dove quando c’è un certo insegnante i bambini sono attenti, partecipi, interessati e così via, mentre quando c’è un altro insegnante i bambini sono disinteressati, ribelli, indisciplinati e via dicendo, eppure la classe è sempre quella, i bambini sono gli stessi, ma questo esempio ci serve per dire che è evidente che c’è uno stile dell’insegnante che dà forma alla didattica e questo i bambini, così come i ragazzi, lo percepiscono perfettamente.

 Prima che all’oggetto dell’insegnamento, i bambini ed i ragazzi sono interessati al soggetto che insegna, cioè la figura dell’insegnante, per come si pone, è più interessante di quello che insegna, della materia che insegna. Quindi l’efficacia dell’attività d’insegnamento è molto legata ovviamente alla competenza didattica che riguarda l’insegnamento della materia, ma è legata anche allo stile, al modo di porsi, alla capacità di costruire relazioni, all’essere autorevole come insegnante, che non vuol dire essere autoritario. L’autoritarismo è patologico in educazione perché nega il dialogo, nega la relazione, impone l’autorità, l’autorevolezza, invece, è una relazione pedagogicamente positiva perché nell’asimmetria del rapporto educativo instaura comunque una dimensione dialogica e quindi è credibile per i bambini e per i ragazzi, loro si fidano dell’insegnante quando l’insegnante sa porsi con una relazione significativa ancorché autorevole.

 Lei ci ha spiegato l’aspetto legato all’efficacia della didattica, ma quanto è importante anche l’approccio attivo nella didattica?

 L’approccio attivo oggi è uno dei grandi punti deboli del nostro sistema scolastico. La nostra non è una scuola attiva, lo è molto meno di quanto lo sia in altri paesi europei dove la dimensione attiva, laboratoriale eccetera è molto più presente. Anzi, devo dire che negli ultimi 30/40 anni la nostra scuola si è sempre più passivizzata. Questo è uno dei problemi che ha la scuola oggi, questa passivizzazione che porta i bambini a stare seduti in classe per tantissime ore e a non usare il corpo, a non usare le mani, e questo fa male. Ritengo che dobbiamo riflette in maniera molto spregiudicata sul fatto che oggi la scuola crea malessere, perché ovviamente agisce sui bambini e sui ragazzi con una didattica basata molto su una pressione, come i tempi stretti, gli apprendimenti veloci, verifiche e prove di vario tipo eccetera, mentre il corpo e il movimento sono relegati a frazioni di tempo insignificanti.

 L’Italia in Europa è il paese dove a scuola si fa meno attività motoria e questo nuoce, fa male, abbiamo ricerche che dimostrano che i bambini a scuola incamerano malessere e non è la pandemia, qui non c’entra niente, è sconfortante rendersi conto che ci voleva la pandemia per capire che i bambini guadagnano in salute più stanno all’aperto e meno stanno al chiuso. È una cosa che in realtà si è sempre saputa, eppure non è bastata nemmeno la pandemia, oggi i bambini stanno chiusi e seduti, sia a scuola che a casa oppure in macchina. Cinquant’anni fa il problema non esisteva perché i bambini si muovevano, finito la scuola facevano i compiti, velocemente, e poi andavano fuori a giocare, questa era la vita normale di un bambino, che fosse in città o in campagna così era, si trovava con i suoi amici e giocavano, sviluppavano quelle competenze psicomotorie che facevano parte della normale attività di un bambino fuori della scuola. Oggi questa dimensione non c’è più, è cambiata la città, sono cambiati gli spazi, sono aumentate le ansie e le preoccupazioni su rischi e pericoli, però ci accorgiamo del danno che tutto questo provoca sui bambini.

 Abbiamo bisogno di preoccuparci di questa dimensione, perché se non la curiamo questa fa male e lo si vede nel tempo. Ognuno dovrebbe fare la sua parte, anche la scuola, in realtà oggi la scuola tiene i bambini in posizione passiva, non attiva, per moltissimo tempo, per gran parte del tempo. Faccio sempre l’esempio della scuola finlandese, che è indicata come uno dei migliori sistemi scolastici nel sistema OCSE, ebbene nelle scuole finlandesi ad ogni ora di lezione c’è un quarto d’ora d’intervallo dove i bambini possono alzarsi, girare, uscire, giocare, parlare e muoversi negli spazi della scuola, sia dentro che fuori.

 Questo non perché c’è il problema del rilassarsi o del dare sfogo ai bambini, ma perché gli insegnanti sanno, e le ricerche lo dimostrano, che quei 15 minuti liberi, di movimento, si riversano positivamente sui tempi didattici e di apprendimento successivi. Noi oggi abbiamo situazioni allucinanti dal punto di vista della condizione dell’infanzia e del diritto dei bambini, abbiamo scuole dove i bambini hanno, se va bene, 15 minuti d’intervallo nella mattinata, non possono uscire nel cortile, devono mangiare seduti nel banco eccetera. Questo non solo fa male dal punto di vista psicologico e fisico, ma va contro i diritti del bambino. Una scuola che non è attenta al benessere, nel senso dello star bene, che non si preoccupa del fatto che i bambini prima di tutto devono stare bene a scuola, è una scuola che contraddice i suoi principi e non funzionerà bene nemmeno come scuola.

 Lei recentemente ha partecipato al convegno del CPP a Piacenza e parlando della competizione ha fatto un paragone con lo sport parlando della cultura del podio, questo per dire che si parla sempre della competizione con un’accezione negativa, ma può essere utile a scuola?

 Certo che può essere utile, la competizione non è una brutta parola, bisogna anche qui sfatare dei pregiudizi e degli atteggiamenti ideologici, perché un conto è ritenere che la competizione sia un aspetto dove conta solo se sei vincitore, se arrivi primo, altrimenti sei un perdente, ma questa è una ideologia della competizione. La competizione nel suo senso autentico ha un significato molto chiaro, viene dal latino cum petere, cioè chiedere insieme.

 La competizione è un patto reciproco, è una condivisione, quando i bambini giocano competono perché innanzitutto condividono il gioco, le sue regole, gli altri compagni con cui giocare, poi ovviamente si confrontano. Ma questo non avverrebbe se non ci fosse la condivisione, ad esempio due squadre di calcio o di basket entrano in campo e certamente competono una con l’altra, ma prima di questo condividono, condividono il campo, i tempi, lo spazio, insomma condividono tutto del gioco, ovviamente nel confronto ci sarà qualcuno che vince.

 Ma attenzione, perché quel qualcuno che vince, vince grazie a chi ha giocato con lui perché, se io non gioco con te, tu non hai nemmeno la possibilità di vincere, se tu vinci è perché io ho accettato di giocare con te. La competizione è una grande scuola di vita quando è leale, ovviamente, quando è partecipativa e quando chi non vince non vuol dire che è un perdente, vuol dire che ha misurato le sue capacità con altri ed ha capito dove si colloca. Uno può essere più o meno bravo in un gioco o in un altro, così come ci sono bambini che sono più bravi in storia e meno bravi in matematica, mentre altri che sono più bravi in scienze e meno bravi in italiano e questo non crea dei problemi. Un conto è vivere la competizione come l’ideologia dell’essere vincenti, e questo è terrificante, un altro conto è vivere la competizione come il confronto nel quale tu conosci le tue capacità, a partire da una condivisione.

 Credo che questa sia la scuola della competizione, inoltre dobbiamo smetterla col pensare che lo sport sia competitivo e quindi diseducativo perché educa all’essere vincitore. La nostra cultura e la nostra civiltà nascono nell’antica Grecia che ha inventato il concetto di agonismo, la parola agonismo significa lotta, mettercela tutta, impegnarsi al massimo delle proprie capacità, e guarda caso l’antica Grecia ha inventato la competizione dappertutto. Gli antichi greci competevano non solo nell’atletismo, nelle gare atletiche, ma competevano nel teatro, nella musica, nella poesia. Se leggiamo la letteratura della civiltà greca noteremo che la competizione animava tutta quella cultura, ma oggi noi non facciamo altrettanto? In questi giorni è iniziato il festival del cinema di Cannes che è una competizione, alla fine ci sarà un film che vincerà la palma d’oro, un regista che sarà giudicato la migliore regia, un attore che sarà il migliore attore, ma non è competizione questa? Così come il festival di Sanremo è una competizione canora, c’è qualcuno che vince e c’è una graduatoria, perché non ci scandalizziamo di fronte a questo? Anche i premi letterari sono competizioni dove degli scrittori si mettono in gioco con delle opere ed una giuria decide qual è il romanzo migliore dell’anno.

 Questo per dire che dobbiamo abituarci ad una visione sana della competizione dove il confronto consente di conoscersi e di conoscere sé stessi, nella lealtà e nella correttezza. Là dove poi la competizione, invece, viene inquinata, allora questo è un altro discorso e abbiamo il dovere di smascherarla e condannarla proprio perché noi diamo alla competizione un valore alto.

 Un’ultima domanda. Siccome lei ha citato gli antichi greci, ricordo che proprio al convegno del CPP lei ha portato l’esempio del Pentatlon per dire che non bisogna per forza eccellere ma bisogna essere mediamente bravi in tutto per vincere. Ci spiega questo aspetto?

 Ho portato l’esempio del Pentatlon che era una delle gare atletiche che caratterizzava i giochi atletici dell’antica Grecia, ce n’erano molti e non solo quelli di Olimpia, le olimpiadi erano quelle più famose. Nell’ antica Grecia non c’erano i giochi di squadra, che sono nati nell’età moderna nell’Inghilterra del XIX secolo; quindi, i greci avevano delle varie competizioni come il salto in lungo, il lancio del giavellotto, del disco, la lotta eccetera, ed ognuno poteva essere un atleta eccellente in una di queste discipline, poteva essere il più bravo a correre, a lanciare e così via.

 Però poi avevano inventato anche il Pentatlon e questa la trovo un’idea geniale, vista anche dentro quella che era la filosofia dell’aretè greca, cioè l’essere il migliore e cosa volesse dire, per cui tu sei il migliore non se sei bravissimo in una cosa, ma se sei mediamente bravo in tante cose diverse. Competere nel Pentatlon voleva dire che tu competevi in cinque diverse discipline e dovevi ottenere il miglior risultato possibile in tutte e cinque; dunque, essere vincitore nel Pentatlon non voleva dire essere il più bravo nella lotta o il più bravo nella corsa, perché probabilmente il più bravo nella corsa era più bravo di te, voleva dire essere il più mediamente bravo in cinque discipline diverse.

 Questo mi porta ad una considerazione che ritengo molto bella, intanto nell’ambito sportivo il valore che ha il multisport, per cui un bambino non dovrebbe fare, almeno fino ai 10-11 anni, un solo sport, ma dovrebbe farne diversi, perché ogni disciplina sportiva, come uno sport di squadra, un individuale, uno di lotta, una disciplina atletica, sviluppa intelligenze diverse, invece purtroppo da noi un bambino inizia uno sport, come può essere il calcio o il nuoto, e fa solo quello ed è sbagliato perché dovrebbe praticare diversi sport; ma soprattutto questo è anche un indicatore pedagogico della scuola per cui un bambino è bravo non se prende nove in matematica e fra il cinque e il sei in tutte le altre discipline, ma è bravo se prende sette dappertutto, allora sì che è veramente bravo, poi certo non è il più bravo in scienze o in italiano, ma è mediamente bravo dappertutto e lui potrà fare qualunque scelta.

 Orizzonte Scuola

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lunedì 20 maggio 2024

BENESSERE e TECNOSTRESS

 

Tecnostress e benessere digitale nell’educazione, il 28 maggio il workshop online di EDEH

di Redazione

L’European Digital Education Hub (EDEH) promuove martedì 28 maggio dalle 15.30 alle 17 un workshop online sulla tematiche legate al tecnostress e al benessere digitale nell’apprendimento

Iscrizioni entro il 26 maggio

La presenza costante di schermi e dispositivi, spesso permanentemente connessi, può portare gli studenti e gli educatori a soffrire di sovraccarico di informazioni e a “stanchezza digitale”.

Oltre alle minacce che pone, l’educazione digitale offre però potenti strumenti per lo sviluppo professionale e personale sia di coloro che apprendono, sia di chi guida l’apprendimento.

La sfida più grande è pertanto quella di utilizzare l’educazione digitale in modo sano ed equilibrato, sfruttandone il valore aggiunto per l’insegnamento e per l’apprendimento.

Ma come gestire efficacemente il tempo trascorso sullo schermo, evitando il tecnostress? Come bilanciare la protezione dei dati personali con una partecipazione mirata alle attività proposte? Come garantire il benessere individuale senza interferire con quello degli altri e quali strategie utilizzare per garantire il supporto agli studenti, senza che questo significhi una violazione del tempo e dello spazio dell’insegnante?

Questi gli interrogativial centro dell’incontro, che vedrà la partecipazione di Virginia van der Ster Policy Advisor dell’Agenzia nazionale Erasmus+ olandese, Ann Marcus-Quinn, Direttrice del Master in Comunicazione tecnica ed elearning dell’Università di Limerick in Irlanda, e Jessica Niewint Gori, tecnologa INDIRE.

Per partecipare all’incontro online è necessario effettuare la registrazione entro il 26 maggio.

 Iscrizioni aperte!  >>


 

 

FANATISMO e CORAGGIO


 Lo Spirito Santo ti dà il coraggio che tu e i tuoi non pensavate di avere, ma non crea fanatici dello scontro con chi è diverso. Lo Spirito Santo crea l’armonia della Chiesa, ma ci salva dal pericolo di diventare replicanti.

 

-        di  Pierangelo Sequeri

 

Proviamo a tirare una riga dritta, che vada a collegare un po’ ruvidamente gli spunti che sono venuti dal papa a Verona, per questa Pentecoste. La guerra non è figlia del coraggio: è figlia del fanatismo. In tutte le sue forme, micro-sociali o macro-geografiche, la scelta dell’aggressione violenta cerca di coprire la vergogna di non avere pretese confessabili e argomentabili.

Il fanatico è un codardo in preda all’esaltazione: cerca di chiuderti la bocca, prima che tu possa chiamare in causa la sua coscienza. Non possiamo certo dire che, in questo momento, non ci sia bisogno di una scossa di disincanto a questo riguardo.

 Tra fanatismo e coraggio lo spessore si è fatto sottile: praticamente inesistente. Per fortuna che la modernità doveva essere l’età della ragione. In realtà, dimentichi dello Spirito, abbiamo finito per scoprire anche un fanatismo della ragione, che non ha niente da invidiare a quello della religione che già conoscevamo. Uno dei rischi più incombenti della cosiddetta IA (“intelligenza artificiale”) è proprio il fatto che essa rappresenta, virtualmente, il modello perfetto di una ragione fanatica (ossia, quella che non vuole sentire altre ragioni se non le sue).

 Il politicamente corretto, l’ossessione woke, la cancel culture, la manipolazione gender, hanno cura di presentarsi come frutti avanzati del “coraggio illuministico” di una psiche che non tollera il “ragionevole contraddittorio”: e perciò giustifica a priori il suo silenziamento, il suo annientamento, la sua eliminazione. Coraggio del pensiero progressivo o codardia della coda di paglia? Ecco un motivo urgente per aprire con forza un varco generoso alla ricomposizione di una civiltà dello Spirito. Dove sapienza del cuore e affezione dell’altro non si separano mai dalle ragioni del vero. E fino a che si tengono insieme, viene scongiurato il pericolo che qualcuna delle tre debba venire sacrificata.

 Lo Spirito infatti è di tempra forte e di manualità fine nella gestione dei contrari: capace di attraversarli senza scandalizzarsi, individuando di volta in volta la postura necessaria alla loro giusta collocazione. Si tratta, a volte, di ammorbidire ciò che è rigido, altre volte di rinforzare ciò che appare cedevole. A volte si tratta di scaldare ciò che è freddo, e altre volte di raffreddare ciò che va in ebollizione.

 La comunità cristiana, in questo momento esatto, deve apprendere di nuovo questa capacità dialettica dello Spirito, riportandola vigorosamente al proprio interno: «Lo Spirito Santo – dice il Papa – è il protagonista della nostra vita». Negli ultimi anni questa evidenza è più che sbiadita. Bisogna decisamente vergognarsi – riconoscere ed espiare – per il grado di fanatismo che è cresciuto dentro la grande comunità ecclesiale. E per dirla proprio tutta, in un mondo dove l’algoritmo socializza l’odio in una misura finora sconosciuta, prorompendo poi nella vita reale in forme ingovernabili, il nuovo inizio dell’evangelizzazione sarà proprio l’azione di uomini e donne coraggiosi che fanno vedere i luoghi in cui lo Spirito è già arrivato (e nessuno gli ha dato retta).

 La Pentecoste spalanca porte e finestre. Gli Apostoli incominciano a parlare, resi coraggiosi e profondi – e al tempo stesso lievi e lieti – dallo Spirito. Prima sorpresa. Ma i loro interlocutori sono stati già dotati dallo Spirito di auricolari speciali, che rendono comprensibile il vangelo nella propria lingua. Seconda sorpresa. La porosità delle culture è infinitamente maggiore – grazie allo Spirito – di quanto i professoroni delle differenze (che i teologi rischiano di imitare) non ci abbiano inculcato finora. Naturalmente, la cosa marcia se dici qualcosa: se fai discorsi che generano storia e cultura, se abiti lo spazio dei tuoi interlocutori e accetti di argomentare di verità: e non soltanto di reclutare aderenti e militanti.

 Dobbiamo forse istituire un premio speciale per ogni comunità cristiana che proclama apertamente di prendere distanza dal fanatismo delle appartenenze e delle tradizioni, per ritrovare il coraggio lieto e roccioso della “conversazione nello Spirito”? La sinodalità punta in questa direzione, a volerla sviluppare: un coraggio della fede che si dedica appassionatamente alla ricerca di tutti i Cornelio (Atti 10) che hanno ricevuto lo Spirito, senza che ancora nessuno glielo abbia confermato, e vanno a ingrossare l’immensa moltitudine di coloro che considerano il giudizio di Dio una questione d’onore. Perché credono nel loro cuore – grazie allo Spirito – che Dio ama senza fare «eccezione di persona». Lo Spirito questo fa, nella storia che rimane prima della venuta del Signore.

 

www.avvenire.it




 

sabato 18 maggio 2024

LO SPIRITO DI VERITA'


Pentecoste


 19 maggio 2024

Lectio Divina di Gv 

15, 26-27; 16, 12-15 


 [26] «Quando verrà il Paraclito che io manderò dal Padre, lo Spirito di verità che procede dal Padre, egli mi renderà testimonianza [27] e anche voi renderete testimonianza, perché siete con me sin dal principio.  [16, 12] Molte cose ancora ho da dirvi, ma non potete farvene carico adesso. [13] Quando, però, verrà lui, lo Spirito di verità, egli vi guiderà nella verità tutta intera; non parlerà, infatti, da sé stesso, ma comunicherà quanto ascolterà e vi annuncerà le cose a venire. [14] Egli mi glorificherà perché prenderà dal mio e lo annuncerà a voi. [15] Tutto ciò che il Padre possiede è mio. Per questo vi ho detto che prenderà dal mio e ve lo annuncerà». Guidami nella tua verità e istruiscimi, perché sei tu il Dio della mia salvezza, in te ho sempre sperato (Salmo 25, 5)

Contestualizzazione  

-         di Maria de Fatima Medeiros Barbosa Comunità Kairòs

Questo testo fa parte del dialogo tra Gesù e i discepoli prima della sua passione1. Tutto si svolge in un ambiente privato dove Gesù cena e parla con i suoi la sera prima del suo arresto. Più Gesù parla, più loro capiscono che il tempo in cui lui non ci sarà più è vicino! Il dono escatologico dello Spirito rinnovatore, quello associato già nelle Scritture al compimento pieno dell’alleanza di Dio con il suo popolo, è necessariamente connesso alla morte di Gesù intesa come ritorno al Padre dopo il compimento della sua missione2. Il vangelo inizia situando il lettore in un tempo - «quando verrà il Paraclito» -, un tempo di grazia, un futuro di consolazione. Giovanni ci proietta così in un momento di (re)incontro, di accoglienza della presenza divina nel mondo e di ricezione del mistero con intelligenza e volontà. In questo «tempo che verrà» c’è nascosto un interrogativo: quando si adempiranno le promesse messianiche attese dal popolo eletto e annunciate da Gesù di Nazareth? Come sarà la relazione con Gesù dopo il capovolgimento pasquale? Quando vedremo l’irruzione di Dio nella nostra vita e nel mondo? L’evangelista rinnova così l’attesa di quel giorno in cui «voi conoscerete che io sono nel Padre mio e voi in me e io in voi»3. Come diceva Benedetto XVI, «la Pentecoste è questo: Gesù, e mediante Lui Dio stesso, viene a noi e ci attira dentro di sé»4. Lo Spirito d’unità opera quest’attrazione: «Dio ci seduce con il suo Amore e così ci coinvolge, per muovere la storia e avviare processi attraverso i quali filtra la vita nuova»5. Già dal primo versetto si sente la sinfonia che unisce e compone armonicamente le diversità delle tre persone divine; si può anche evocare quel futuro di speranza in cui saremmo consolati, tempo di comunione e di riconciliazione; si è altresì spinti ad aprirsi alla forza (dynamis) dello Spirito che infiamma la parola umana e la rende Vangelo6.

 Sentieri d’interpretazione

Lo Spirito di Dio verrà perché Gesù lo manda, e Gesù lo manda dal Padre (v. 26)7. Lo Spirito è venuto allora dopo Gesù come suo successore8; è inviato da lui così come lo sono i suoi discepoli9. Gesù non si dimentica dei suoi amici10, gli invia un Paraclito per confortare i loro cuori stravolti11. Lo Spirito Santo oltre ad essere un consolatore - un avvocato difensore -, è anche Spirito rivelatore della verità. Insegnandoci a discernere la presenza divina in noi e nel mondo, lo Spirito di verità illumina i gesti e le parole di Gesù, aiutandoci a trovare lì la verità di Dio per l’uomo. Basilio di Cesarea afferma che lo Spirito della conoscenza è presente nella preghiera a donare in sé stesso la forza di intuire il mistero12. Infatti, senza lo Spirito non si può né credere in Cristo, né confessarlo, né essere veri adoratori13, né invocare il Padre14. Già si intravede qui la dinamica della vita trinitaria di Dio.  L’evangelista conduce i discepoli nel fluire della vita divina: «anche voi renderete testimonianza, perché siete con me sin dal principio» (v. 27)15. Rimanendo uniti nello Spirito della sua verità - proprio quello che lo identifica come Figlio rispetto al Padre – i discepoli potranno testimoniare la rivelazione dell’amore di Dio nella carne di Gesù, il «Figlio dell’uomo»16; potranno testimoniare per di più la presenza attiva dell’amore divino nella propria carne, in ogni carne, cioè, in ogni realtà che attende consolazione, perdono e riscatto. In altre parole, la missione di «portare il lieto annunzio ai miseri»17, che spetterà ai discepoli, trova garanzia nel dono dello Spirito, fonte della testimonianza. Lui illumina la forma del rivelarsi di Dio in Gesù, ovvero la forma del Servo di Jhwh giusto e giustificante le moltitudini. San Basilio suggerisce infatti che «come nel Figlio si vede il Padre, così il Figlio si vede nello Spirito»18. Come un raggio di luce che mostrerà in sé stesso. 2 l’immagine dell’Invisibile19, lo Spirito è una guida interiore che muove l’intelligenza alla comprensione del mistero di Dio e la volontà ad aderire a lui nella sapienza della vita.

In questa pagina evangelica la funzione testimoniale dello Spirito e dei discepoli vengono messe in parallelo: «l’uno e gli altri, insieme, continueranno nel mondo la testimonianza cristologica, pubblica e visibile in parole e opere»20. Giovanni incoraggia la sua comunità a coltivare il legame con Gesù, a rimanere legati a lui - come «il tralcio non può portare frutto da sé stesso se non rimane nella vite»21. Seguire le sue orme è la condizione di possibilità, non solo perché i discepoli possano testimoniare l’«io sono» divino di Gesù22, ma altresì – grazia alla permanenza dello Spirito di Cristo in loro - emergersi nella stessa intima essenziale relazione che unisce le tre persone divine23. Attraverso questa via24 - che è la sequela di Gesù - i discepoli possono conoscere l’essere di Dio Consolatore; possono partecipare della via del Servo del Signore; possono fare «esperienza»25 dell’essere Uno e Trino divino. Esiste un tempo opportuno per far fruttificare la parola di Dio nel cuore dell’uomo. Esiste un processo graduale di assunzione del «peso» della parola, cioè un percorso di maturazione perché la Parola possa farsi carne in noi. Giovanni capisce che la parola detta da Gesù ha una misura, un tempo e una densità che limita la capacità di ascolto dei discepoli (c. 16, v. 12); come se volesse sottolineare che il mistero di Dio è più grandi di noi! Effettivamente non si può avere la pretesa di comprendere, accettare e portare l’intero carico della parola viva di Dio. Proprio per non far perdere l’efficacia di questa parola, cioè affinché la parola dei discepoli possa veramente rendere testimonianza dell’essere amore di Dio, è come se Gesù preferisse rivelarla a poco a poco, considerando se e quando i suoi saranno in grado di accoglierla con responsabilità.

La benevolenza di Dio in Gesù tiene così in considerazione le capacità dei discepoli e non gli offre più di quanto possano assimilare. Gesù conosce bene la potenza e le esigenze della parola del Padre e capisce che da soli si può arrivare fino a un certo punto. È lo Spirito di verità che dona alla parola di Gesù la potenza necessaria per togliere il velo ai nostri occhi26.. 3 intelligibile»27 li conduce nella via della «saggezza di Dio»28, integralmente assunta e compiuta con la Pasqua (v. 13). Le testimonianze a servizio dell’evangelizzazione non sono tanto merito degli amici di Gesù, ma sarà sempre l’amore del Padre e la potenza (dynamis) dello Spirito, che li abilita ad intuire la pienezza della verità - «la verità tutta intera» - e ad accoglierla come una realtà compiuta29. Lo Spirito che conduce alla verità completa non parla da sé ma comunica - come i discepoli di Gesù lo faranno – quello che ascolta (v. 13). Annunciando la riserva di futuro («le cose a venire») che Gesù ha preferito non dire ai suoi (v. 12), lo Spirito di verità attualizza - nel qui e ora della storia - un «nuovo ordine delle cose», originato dalla morte e resurrezione di Cristo. Questo «nuovo ordine delle cose» racchiude la speranza formulata nelle profezie messianiche (la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, la consolazione degli afflitti, il diritto alle nazioni, la vista ai ciechi, l’anno di misericordia del Signore)30, ma anche il compimento del destino di beatitudine e della nuova giustizia, capace di abbattere le barriere tra puro e impuro tra Dio e l’uomo31. 

Lo Spirito di verità manifesta ai discepoli quanto di Gesù stesso – e, in lui, del Padre – ancora non era stato comprensibile durante la sua vita terrena32. Perciò «egli mi glorificherà» (v. 14) – dice Gesù -, «non come la creazione, ma come Spirito di verità, che fa risplendere chiaramente in sé la verità, e come Spirito di sapienza, che rivela nella sua grandezza, il Cristo, Potenza di Dio e Sapienza di Dio (1 Cor 1, 24)»33. Lo Spirito è lo spazio della glorificazione di Gesù perché manifesta la luce del mistero di Dio in lui. Facendoci sprofondare in quella vera umanità concessa ai figli degli uomini, lo Spirito Santo - vento e fuoco purificatore - ci spinge verso gli abissi del mistero. È lo Spirito di Cristo glorificato che dimora in noi34, provocando la continua sostituzione delle brame del nostro ego per il principio del dono di noi stessi in favore del prossimo. Ricevere lo Spirito di verità è dunque la condizione di possibilità perché la comunità dei discepoli possa – attraverso l’annuncio e lo stile di vita – assumersi la responsabilità di tutta la rivelazione di Dio in Gesù. Fu infatti la Pentecoste che fece cristiani i suoi discepoli35 e lì trasformo in chiesa36. In verità, soltanto attraverso l’attività creatrice dello Spirito, la comunità dei discepoli).  Questa pagina giovannea ha una chiara impronta teologica, nella misura in cui cerca un linguaggio adatto ad esprimere il mistero di Dio. E la verità di Dio è che Gesù di Nazareth è il Figlio amato38, la parola divina fatta carne in un volto umano39. In poche parole, il Paraclito manifesterà il diritto di Gesù di essere chiamato «Figlio di Dio»40. 

 Nel linguaggio biblico Figlio è un termine con un significato preciso: «figlio» è colui che compie le stesse opere del Padre, che fa ciò che il padre fa, che gli assomiglia in tutto41. Lo Spirito glorifica il Figlio – afferma l’evangelista - perché prende quello che è del Figlio e ci consegna (v. 14). E nel consegnare il tesoro del Figlio, ci consegna anche il tesoro del Padre, perché quello che possiede il Padre è del Figlio (v. 15)42. Sarà dunque con l’aiuto dello Spirito di verità - fonte di lode filiale - che i discepoli prenderanno coscienza della relazione unica tra Gesù e Dio, ossia matureranno la fede cristologica, chiamando Dio per Padre43 e riconoscendo in Gesù il suo Figlio unigenito44. Essendo lo Spirito la pienezza dell’amore, dell’energia, della vita di Dio, quando viene apre i nostri occhi per contemplare lo splendore della gloria di Dio, introducendoci in questa realtà divina. La Pentecoste celebra perciò la missione dello Spirito Santo, che oltre a favorire l’intima unione tra Dio e l’uomo, unifica i tempi dell’ascolto, dell’accoglienza e della testimonianza della parola di Dio nella storia.

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