un amaro spartiacque
Il procuratore di Cagliari: chiudere i porti a dei disperati
che fuggono da guerre, carestie e malnutrizioni
non ha nulla a che fare con una seria lotta
ai trafficanti di esseri umani
- di Luigi Patronaggio *
Lungi dal commentare una sentenza le cui motivazioni non sono state ancora depositate e nella quasi certezza che le motivazioni della stessa saranno sorrette, sia in punto di fatto che in diritto, da una loro intrinseca ed inappuntabile coerenza, ciò che mi spinge a scrivere queste righe – non senza esitazioni e nella piena consapevolezza di espormi a critiche e censure – è l’amara constatazione che il contrasto all’immigrazione clandestina a partire dal 20 dicembre scorso non sarà più lo stesso.
Non
sarà più quello che, pur nella severità dei controlli dovuti per la sicurezza
nazionale, ha contraddistinto l’Italia come un Paese di accoglienza rispettoso
del diritto delle genti e del mare, dei trattati internazionali e della
Costituzione repubblicana. Va ricordato, infatti, che la Costituzione, memore
di essere stata l’Italia una terra di migranti e di perseguitati politici,
afferma in modo netto il diritto di asilo e riconosce, come ripetutamente
affermato dal Giudice delle Leggi, in determinate situazioni, la protezione
umanitaria internazionale.
Questa
amara considerazione non ha nulla a che vedere con le ragioni giuridiche che
hanno spinto i giudici di Palermo, al termine di un processo che nonostante il
clamore mediatico è stato celebrato secondo le regole del giusto processo e nel
pieno rispetto dei diritti e delle prerogative dell’imputato, ad assolvere l’ex
Ministro dell’Interno Matteo Salvini, ma si fonda sull’uso distorto e
propagandistico che di tale sentenza da più parti si sta operando.
La
Corte costituzionale e la Corte di cassazione, in conformità alle pronunzie
della Corte europea dei diritti dell’uomo, hanno più volte affermato che il
contrasto all’immigrazione clandestina non possa prescindere dal rispetto degli
human rights, dei fondamentali diritti alla vita e alla salute, dal
riconoscimento del diritto alla presentazione ed un serio esame di una istanza
di asilo o di protezione umanitaria internazionale. Gli stessi giudici hanno
affermato che il rispetto dei trattati internazionali, sottoscritti dall’Italia
sul dovere di salvataggio in mare, prevale sulle indicazioni amministrative di
contenimento dell’immigrazione clandestina. E ancora, più volte, è stato
autorevolmente sentenziato che “porto sicuro” per i migranti che provengono dal
mare non è un semplice posto dove essere messi in salvo, ma il luogo più vicino
al punto di salvataggio dove gli stessi possono avere riconosciuti i loro
diritti fondamentali, articolando con una valida assistenza legale le loro
istanze di protezione internazionale e di asilo.
L’amarezza
nasce invece dalla vulgata secondo cui, d’ora in poi, per difendere i confini
nazionali sarebbe legittimo imporre fantasiosi quanto impraticabili blocchi
navali, ordinare alle navi delle Ong di percorrere, dopo pericolosi e
sfiancanti salvataggi in mare, migliaia di miglia nautiche per raggiungere un
porto sicuro scelto dall’autorità nazionale secondo estroversi disegni
elettoralistici del momento, negare ai migranti il diritto alla corrispondenza
telefonica con i loro cari, imporre loro pesanti cauzioni in denaro, ritenere
aprioristicamente senza una valida istruttoria, assistita e in contraddittorio
fra le parti, che si provenga da un Paese ritenuto, con una sorta di
presunzione iuris et de iure, “sicuro”, chiudendo loro le porte del Paese che
pure riconosce un ampio diritto di asilo a chi fugge da persecuzioni,
discriminazioni politiche, sociali, religiose, razziali o sessuali.
Queste
mie amarezze non sono frutto della fantasia di un giurista di parte, che per
sgombrare il campo non appartiene ad alcuna corrente o congrega, ma si fondano
su diverse e ripetute sentenze della Corte costituzionale e della Corte di
cassazione e sulle stesse prudenti parole del Presidente della Repubblica.
Potrei in questa sede citare sentenze e numeri di repertorio ma a nulla
varrebbe a fronte della forza mediatica del dispositivo di assoluzione della
sentenza di Palermo.
Nel
piatto di questa mia amarezza si potrebbe aggiungere che il fenomeno migratorio
in Italia è in decrescita, non ha la virulenza di altri Paesi dell’Unione
Europea e che, dati alla mano, non costituisce l’unico problema d’ordine
pubblico del nostro Paese. Un Paese, l’Italia, che a parte le complesse
problematiche delle periferie delle grandi città metropolitane, riesce ad
assorbire i flussi migratori, a impiegare preziosa mano d’opera in settori
produttivi poco appetibili ai sempre numericamente inferiori cittadini italiani
e che ha bisogno dei contributi previdenziali dei lavoratori stranieri per
garantire le pensioni alla popolazione nazionale che invecchia sempre più
velocemente.
Una
concreta politica sociale e di integrazione, peraltro, sarebbe in grado di
contenere i riflessi negativi di una immigrazione irregolare molto più
efficacemente dei denari spesi per le c.d. esternalizzazioni (leggasi
trasferimento coatto dei migranti verso Paesi terzi) che non solo i giudici
italiani ed europei hanno ritenuto illegittime ma che perfino la Supreme Court
inglese ha ritenuto illegittima richiamandosi al principio di non-refoulement
sancito dalla Convenzione di Ginevra e dalla Corte europea dei diritti umani.
Mi
rendo conto, peraltro, quanto impopolari siano queste mie osservazioni, che
hanno la forza del diritto e, mi sia permesso, anche la forza dell’etica
politica, in un mondo che sempre più spesso usa un linguaggio violento che
riprende temi che ritenevamo la storia avesse cancellato per sempre.
In
un Occidente democratico, che ha posto le sue aspettative di pace post-belliche
sulla Convenzione dei Diritti dell’Uomo e sulle altre Carte sovranazionali,
sentire il più importante degli uomini politici statunitensi parlare
impunemente di volere porre in essere «la più grande deportazione di massa»
mette i brividi e ci riporta alla mente le composte file di ebrei, di
oppositori politici, di zingari, di omossessuali, o soltanto di soggetti
ritenuti diversi, avviati verso i campi di concentramento nazisti o verso i
gulag sovietici.
Così come il giurista, già esperto di criminalità transnazionale, non può non
sobbalzare quando, come in un volgare gioco di carte napoletane, si mischiano i
temi del contenimento dell’immigrazione clandestina con quelli della lotta ai
trafficanti di esseri umani.
Sia
ben chiaro, infatti, che chiudere i porti a dei disperati che fuggono da
guerre, carestie e malnutrizioni non ha nulla a che fare con una seria lotta ai
trafficanti di esseri umani. I grandi criminali internazionali di essere umani
non sono gli scafisti occasionali che ci vantiamo di arrestare nei “mattinali”
delle Questure costiere, ma sono potenti delinquenti, spesso protetti da
governi e milizie di oltremare, che operano con metodi violenti e
spregiudicati. Sono criminali che muovono grandi rimesse di denaro, che
corrompono autorità nazionali, che hanno reti di protezione internazionali e
che non hanno nessuna remora a ricorrere a torture, stupri sistematici ed
omicidi di massa ove ce ne fosse bisogno.
Eppure,
su questo fronte non ho contezza di indagini internazionali, di rogatorie
internazionali, di iniziative di Procure e Tribunali Internazionali e meno che
mai mi sembra che siano state emanate leggi o direttive volte a rescindere
accordi e intese con autorità estere impresentabili o, di contro, a promuovere
accordi credibili ed autorevoli in tema di investigazioni comuni.
Di tutto questo avevo necessità di scrivere perché odio gli indifferenti e i
mistificatori e perché, cosa più importante, continuo a credere nella forza del
diritto sul diritto alla forza.
* Procuratore
generale presso la Corte d’Appellodi Cagliari,già procuratore della Repubblica di
Agrigento
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