venerdì 31 marzo 2023

AUTONOMIA DIFFERENZIATA

RADIOGRAFIA

 DI UNA RIFORMA 

- di Giuseppe Savagnone*

 Il varo, il 2 febbraio scorso, del disegno di legge sull’autonomia differenziata costituisce forse il primo passo veramente significativo che il governo di Giorgia Meloni ha fatto per realizzare gli ambiziosi propositi di cambiamento più volte enunciati alla vigilia delle elezioni. Insieme all’altra grande riforma prevista nel programma della destra – il presidenzialismo – , quella dell’autonomia riguarda, infatti, la struttura stessa dello Stato e, se passasse, comporterebbe una svolta epocale nella storia della nostra nazione.

Con la differenza, rispetto al presidenzialismo, che in questo caso non si tratterebbe di cambiare la nostra Costituzione, ma semplicemente – come viene spesso sottolineato dai fautori della riforma – di applicarla.

La modifica in questo senso del Titolo V della Carta costituzionale fu infatti realizzata già nel 2001, con l’approvazione della legge costituzionale n. 3, per volontà della maggioranza, che allora era di centrosinistra, sotto la presidenza di Giuliano Amato.

L’intento era quello di vanificare le spinte tendenzialmente secessioniste portate avanti dalla Lega, che oggi si appella a questa riforma costituzionale – finora rimasta inapplicata – chiedendone l’attuazione, mentre, paradossalmente, a cercare di bloccarla sono le opposizioni di sinistra.

In ogni caso, al di là delle contrapposizioni tra i partiti, ci sembra che,  dato il rilievo dell’iniziativa del governo, essa meriti un esame approfondito.

Di che cosa si tratta

L’articolo 116, terzo comma della Costituzione, nel testo riformulato del 2001, prevede la possibilità di attribuire forme e condizioni particolari di autonomia alle Regioni a statuto ordinario (c.d. “regionalismo differenziato” o “regionalismo asimmetrico”, in quanto consente ad alcune Regioni di dotarsi di poteri diversi dalle altre).

Nel nuovo testo costituzionale, le materie su cui potranno essere raggiunte le intese tra lo Stato e le Regioni a questo scopo sono elencate all’art. 117 e sono:

«Rapporti internazionali e con l’Unione europea delle Regioni; commercio con l’estero; tutela e sicurezza del lavoro; istruzione (salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione della istruzione e della formazione professionale); professioni; ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione per i settori produttivi; tutela della salute; alimentazione; ordinamento sportivo; protezione civile; governo del territorio; porti e aeroporti civili; grandi reti di trasporto e di navigazione; ordinamento della comunicazione;

produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia; previdenza complementare e integrativa; coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali; casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale; enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale».

Inoltre, nello stesso articolo si afferma che «spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato».

In coda si precisa che «nelle materie di sua competenza la Regione può concludere accordi con Stati e intese con enti territoriali interni ad altro Stato, nei casi e con le forme disciplinati da leggi dello Stato».

Come si vede l’autonomia prevista dalla Costituzione è potenzialmente amplissima. Naturalmente non è detto che le Regioni la chiedano per tutto l’arco di queste materie, ma possono farlo.

Ovviamente, quelle che vorranno avvalersene avranno bisogno di adeguate risorse, che consentano loro di svolgere le nuove funzioni attribuite alla loro competenza e che, secondo il disegno di legge, potranno essere assegnate loro dallo Stato attraverso compartecipazioni al gettito fiscale maturato nel territorio regionale.

Gli aspetti positivi

Dei vantaggi sarebbero indubbi. Il più evidente è che verrebbe definitivamente superata la logica – che ha segnato il nostro Stato fin dalla sua nascita –  di una burocrazia piramidale e pachidermica, valorizzando il rapporto diretto dell’amministrazione regionale col territorio, mettendola in grado di recepire più immediatamente le specifiche esigenze degli abitanti e, al tempo stesso, rendendola maggiormente responsabile nei loro confronti dell’uso delle risorse a disposizione.

 In questo senso il presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, al termine della Conferenza delle Regioni che ha approvato, a maggioranza (tranne quattro Regioni del centrosinistra), il progetto di legge del ministro Calderoli, ha parlato della riforma come di una «possibilità di valorizzare le tante diversità che esistono nel nostro Paese» e di «rendere risposte più efficienti ai bisogni dei territori e dei cittadini». Motivazioni forti, che hanno spinto Fontana a definire «risibili» quelle delle Regioni che hanno preferito votare contro. «Il centralismo», ha commentato a sua volta il governatore del Veneto, Luca Zaia, «è l’equa divisione del malessere, l’autonomia è l’equa divisione del benessere». E questo, secondo lui, vale per tutti, comprese le Regioni del Sud: «Questa Italia a due velocità deve finire e le Regioni devono essere tutte messe nelle condizioni di dare servizi e risposte ai loro cittadini; senza lasciare indietro nessuno».

I problemi sul piano tecnico-finanziario

Dei problemi, tuttavia, sono innegabili. Già sul piano meramente finanziario. Un giornale che non è certo sospetto di essere “di sinistra”, come il «Sole24ore», pur apprezzando gli aspetti positivi del disegno di legge, ammette che esso comporterebbe «una crescita del bilancio regionale ed un ridimensionamento di quello statale, per via della diversa allocazione del gettito fiscale».

Da qui l’interrogativo: «Riusciranno i conti a quadrare o lo Stato dovrà giocoforza rinunciare a gran parte delle sue politiche economiche e sociali?» (Francesco Bruno sul «Sole 24ore.com», 15 novembre 2023).

Proprio in rapporto a questa domanda il disegno di legge prevede che l’attuazione della riforma sia subordinata alla determinazione dei Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEP) concernenti i diritti civili e sociali di cui tutti i cittadini italiani, in quanto tali, devono poter godere.

Solo che – leggiamo sempre sul «Sole24ore», «lo Stato, per definire e per garantire i LEP in tutta la nazione, dovrà spendere molto. Per farlo, dovrà ridurre la spesa pubblica e/o aumentare le tasse e/o incrementare il debito. Politicamente ciò non è semplice».

I problemi sul piano politico

Al di là del problema strettamente finanziario, ce n’è uno politico che riguarda il bene comune dell’Italia. La tesi del ministro Calderoli e dei governatori favorevoli è che l’autonomia gioverebbe anche alle Regioni del Sud. È vero?

Secondo l’Istat, in un focus denominato “I divari italiani nel Pnrr”, nel 2021 il prodotto interno lordo (Pil) pro-capite italiano è stato pari a 33 mila euro circa. Una cifra che scende a 18 mila nel Sud. La Regione italiana con il Pil pro-capite più basso è la Calabria, a quota 17.500 euro, seguita dalla Sicilia a 18.200 euro. Il “gap” tra le due regioni più meridionali d’Italia e la prima in classifica, il Trentino-Alto Adige, che sfiora quota 44 mila euro, è di circa 26 mila euro.

Basterebbero questi dati a far dubitare fortemente che il venir meno della redistribuzione di risorse – fino ad oggi possibile – tra Nord e Sud finisca per avvantaggiare anche le Regioni meridionali.

E questo è tanto più evidente in quanto, secondo il disegno di legge Calderoli approvato dal governo, la ripartizione dei fondi fra le Regioni – che, fino ad oggi, viene effettuata in base ai fondi spesi negli anni precedenti (“spesa storica”) – dipenderà invece dall’ammontare delle tasse pagate dai cittadini residenti nel loro territorio. Con la conseguenza che il livello dei servizi nella Regione non dipenderebbe dai “bisogni”, che tutto sommato sono simili sia al Nord che al Sud, ma dal “reddito” regionale, cioè dal parametro che, come abbiamo appena visto, più macroscopicamente registra l’abissale divario tra le due aree del paese.

E, se sono realistiche le perplessità sopra esposte nell’articolo del «Sole24ore», neppure l’appello ai LED può costituire una soluzione, perché anche questi non avrebbero nella realtà una possibile copertura da parte dello Stato.

Resta da spiegare come i governatori di Regioni come la Sicilia e la Calabria abbiano approvato anche loro, nella Conferenza delle regioni tenutasi all’inizio di marzo, il progetto di legge Calderoli. Ma forse dovrebbero essere loro a spiegarlo meglio.

Il problema dell’unità nazionale

Ma, al di là della sperequazione tra le Regioni, qualche domanda non può non porsi anche riguardo all’impatto dell’autonomia sull’unità nazionale. 

 Sarà ancora un unico paese l’Italia il giorno in cui i sistemi scolastici regionali saranno diversificati strutturalmente e, col tempo, inevitabilmente, anche dal punto di vista dei contenuti (sfruttando sempre più la libertà che già ora l’autonomia consente)? Quando il commercio con l’estero di una regione la porterà a legarsi a Stati stranieri che invece non hanno legami con le altre regioni? Quando la ricerca scientifica, la previdenza sociale, il sistema tributario sarà diverso da regione a regione?

Per non dire che è molto probabile che si instaurino fra Nord e Sud gli stessi meccanismi discriminatori che oggi portano a “difendere le frontiere” nei confronti dei migranti provenienti dall’Africa e dall’Asia. Già in passato in qualche bando di concorso al nord si escludevano i laureati di università meridionali.

Non ci sarebbe da stupirsi se gradualmente criteri di selezione o almeno di priorità – “prima i nostri figli!” – cominciassero a scattare anche per l’accesso a posti pubblici, a ospedali, a scuole…

Neppure alle Regioni del nord, però, tutto questo, in ultima istanza, gioverà. Il mondo attuale va verso forme di aggregazione, sempre più necessarie per difendere efficacemente, a livello internazionale, i propri interessi. La Lombardia o il Veneto scopriranno prima o poi, a loro spese, che far parte di un grande Stato unitario aveva i suoi vantaggi.

Il dibattito, ovviamente, rimane aperto a tutte le letture. A patto, naturalmente, che ci si ricordi di tener conto della realtà.

 * Responsabile del sito della Pastorale della Cultura dell'Arcidiocesi di Palermo. Scrittore ed Editorialista.

 www.tuttavia.eu

 

INTELLIGENZE ARTIFICIALI, AGENTIVE E STRABILIANTI


MACCHINE CHE PRENDONO POTERE 

e

IL GIUSTO VALORE DELL’UOMO

 

-  di PAOLO BENANTI

 

Il mondo delle intelligenze artificiali (AI) è in subbuglio. La settimana scorsa OpenAi, leader in questo settore, ha rivelato all’umanità intera l’ultima sua creazione: Gpt-4. Un prodotto dalla sigla incomprensibile ma che in pochissimo tempo ha riempito le colonne dei giornali e le pagine dei blog. I risultati che hanno ottenuto a OpenAi sono senz'altro strabilianti. Se leggiamo il documento tecnico che è stato pubblicato al momento del rilascio vediamo capacità inimmaginabili. Gpt-4 può partire da una domanda testuale associata a un’immagine, mostra di saper riconoscere cosa ci sia nell'immagine e di unire i diversi elementi in un quadro di senso: risolvere un problema matematico o rispondere su cosa ci sia di strano in una foto. Gpt-4 accetta richieste che consistono sia in immagini che in testo, il che – parallelamente all'impostazione di solo testo – consente all'utente di specificare qualsiasi compito di visione o di linguaggio. In particolare, il modello genera output di testo, dati input costituiti da testo e immagini interlacciati in modo arbitrario. Su una serie di domini – tra cui documenti con testo e fotografie, diagrammi o schermate – Gpt-4 mostra capacità simili a quelle degli input di solo testo. Abbiamo un modello che, figurativamente, unisce “udito”, nel senso che sente la nostra richiesta scritta, e “vista”, mostrando una “percezione artificiale” di un’immagine.

 La cosa più strabiliante è che Gpt-4 sa fare cose che i ricercatori non si aspettavano che sapesse fare. Sempre nel documento citato leggiamo: « Nei modelli più potenti emergono spesso nuove capacità. Alcune di esse sono particolarmente interessanti: la capacità di creare e agire su piani a lungo termine, di accumulare potere e risorse (“ricerca di potere”) e di mostrare un comportamento sempre più “agentivo”. In questo contesto, per “agentivo” non si intende l’umanizzazione dei modelli linguistici o il riferimento alla senzienza, ma piuttosto sistemi caratterizzati dalla capacità di raggiungere obiettivi che potrebbero non essere stati specificati concretamente e che non sono apparsi nell'addestramento, di concentrarsi sul raggiungimento di obiettivi specifici e quantificabili e di fare piani a lungo termine».

 Se guardiamo la fonte citata nelle note al testo, si legge, senza mezzi termini: «Usiamo il termine agentività per sottolineare il fatto sempre più evidente che i sistemi di ML [machine learning] non sono completamente sotto il controllo umano».

 Quindi i ricercatori si accorgono che il modo stesso con cui hanno addestrato il sistema – non solo l'utilizzo di dati ma il premiare alcune risposte e punirne altre mediante interazione con uomini e l'uso di modelli di ricompensa basati su regole – trasmette al modello due elementi: la capacità di adottare strategie a lungo termine e la ricerca di potere e risorse nella sua interazione con l’input. Gli ingegneri che hanno sviluppato Gpt-4 ci dicono che il sistema potrebbe avere un suo «piano interno e potrebbe agire per acquisire le risorse e i modi per ottenerlo ». Tutto questo non perché sia una sorta di genio del male ma probabilmente perché, nell’apprendimento per rinforzo gli addestratori nel “premiare” o “punire” Gpt-4 emettono giudizi, e questi non sono mai solo costruiti su una cosa in sé ma su una cosa in merito a un fine. Intuitivamente, potremmo pensare che il sistema incorpori questi “microframmenti” di finalità delle valutazioni nel processo di rinforzo facendo emergere una finalità globale in una maniera analoga a quella con cui fa emergere informazioni dai dati.

 Se questo è quello che sappiamo di Gpt-4, Google con il suo PaLM – un sistema dello stesso tipo – sembra aver raggiunto risultati ancora più potenti e strabilianti, tali da ritardarne il rilascio pubblico per la paura degli effetti.

 Ma quanto vale tutto questo? Da un punto di vista commerciale tantissimo. Microsoft, acquisite le licenze del sistema, sta lanciando una serie di prodotti in cui Gpt-4 aiuterà l’utente a fare i suoi compiti. Chiama questi sistemi Copilot.

 Dobbiamo abituarci all’idea di una trasformazione di ogni campo del lavoro in cui avremo un copilota che ci guida e ci assiste in ogni ambito della vita? Al di là dei problemi sociali, la domanda che sorge, allora, è quanto vale l’uomo in questa nuova stagione caratterizzata dalle AI.

 A questa domanda ha risposto nei giorni scorsi papa Francesco, che parlando ai partecipanti ai Minerva Dialogues – un tavolo di confronto in cui sono presenti molti attori di primo piano in questo mondo – ha detto: « Il concetto di dignità umana – questo è il centro – ci impone di riconoscere e rispettare il fatto che il valore fondamentale di una persona non può essere misurato da un complesso di dati. [...] Non possiamo permettere che gli algoritmi limitino o condizionino il rispetto della dignità umana, né che escludano la compassione, la misericordia, il perdono e, soprattutto, l’apertura alla speranza di un cambiamento della persona».

 Se la macchina vale in senso economico, l’uomo ha un valore che non è misurabile né in valori numerici dei dati né in quelli economici in un bilancio. La dignità umana, al centro dell’algoretica, ci chiede quali relazioni e quale società vogliamo.

www.avvenire.it


giovedì 30 marzo 2023

DOCENTE TUTOR. LUCI E OMBRE

Pregi e limiti 
di una figura 
 in cerca d’autore

 Nella scuola secondaria di secondo grado arrivano due nuove figure: il docente tutor e l’orientatore. Ma non mancano le criticità. Molti i punti da definire

- di  Silvia Ballabio

 

 La bozza di decreto che istituisce le figure del docente tutor e del docente formatore per il triennio della scuola è stata presentata in data 21 marzo 2023 ai sindacati, ed è ora in attesa di parere da parte del Cspi. Il decreto prevede anche lo stanziamento di risorse derivanti dal Pnrr e dal Pon per remunerare attività didattiche di potenziamento sulle discipline (soprattutto per le discipline Stem e con metodologie innovative) e relative all’orientamento come misura di contrasto alla dispersione scolastica.

Sono candidabili a diventare docenti tutor e orientamento, a partire dall’anno scolastico 2023/24, da parte delle istituzioni scolastiche i docenti in ruolo da cinque anni e che abbiano preferibilmente svolto già il compito di funzione strumentale in campo di tutoraggio o orientamento. Solo per il docente tutor è previsto un corso di formazione di 20 ore, erogato online da Indire da aprile (praticamente da dopodomani). Entrambe le figure saranno retribuite; più consistente la retribuzione per il docente tutor (da 2.850 a 4.750 euro lordo) di quella del docente orientamento (da 1.000 a 2.000 euro lordo). Il docente tutor o orientamento dovrà mantenere la funzione per almeno tre anni.

Al docente tutor sarà affidata la “personalizzazione degli insegnamenti”; coordinerà e svilupperà attività didattiche con un duplice scopo, il recupero per le studentesse e gli studenti che manifestano maggiori difficoltà, e il potenziamento delle abilità particolari per quelle studentesse e studenti che, nelle parole del ministro Valditara, in classe “si annoiano”. Dalle varie sottolineature fatte la finalità primaria sembrerebbe essere limitare la dispersione scolastica, con buona pace di chi in classe si annoia. Il tutto sarà limitato al solo triennio della scuola superiore e con un tutor ogni raggruppamento di studenti (da 30 ai 50 studenti per raggruppamento). Quanto al docente orientamento, le sue funzioni dovrebbero essere quelle di elaborare dati e informazioni relative al contesto e porsi come figura di raccordo con i docenti tutor, gli studenti e le famiglie.

Il ministro dell’Istruzione e del merito Giuseppe Valditara ha descritto le nuove figure come il primo passo di un cambiamento radicale della scuola, e anche il presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha lodato la misura. Più critiche le varie sigle sindacali, che hanno evidenziato i limiti, anche evidenti, del provvedimento che verrà.

Entrambe le figure sono innovative, o perlomeno “nuove” in senso formale; come altre necessità reali del mondo della scuola, sostenere gli studenti in difficoltà, valorizzare le eccellenze e guidare a una scelta consapevole relativa al proprio percorso presente e futuro sono attività intrinsecamente strutturali alla funzione docente. Svolgerle in modo compiuto, responsabile, e pedagogicamente adeguato è un altro paio di maniche.

 Le difficoltà di apprendimento, oltre quelle certificate e per le quali viene redatto da tempo un Piano didattico personalizzato, il Pdp, hanno sempre più a che fare con situazioni di disagio personale delle studentesse e degli studenti. Le cause di questo disagio sono molteplici; comprendono fenomeni sociologicamente nuovi, come il dilagare dell’isolamento fisico e della dipendenza dal virtuale (con tutti i fenomeni collegati, quali il cyberbullismo) e meno nuovi, quali la dissoluzione dei nuclei familiari, o per separazione/divorzio dei genitori o per la difficoltà oggettiva di questi a occuparsi dei figli, garantendolo loro un tempo genitoriale, se non abbondante, perlomeno sereno e non convulso.

Qualsiasi azione intrapresa dal singolo docente o da un gruppo di docenti è come il tentativo di camminare su cocci di bottiglia aguzzi a piedi nudi. Diremmo: “Se non puoi curare, non fare danni”, col rischio tuttavia che l’inazione comporti tanti, o più, danni dell’azione. Ciò non significa che il docente si ritiri, ma solo che se ha coscienza del proprio “essere” (ruolo o mestiere sono termini inadeguati) sa che intervenire sulle difficoltà è complesso, e anche rischioso. Se non teme (ancora) il rischio (professionale e umano) per sé, certo lo teme per i possibili effetti della sua azione/inazione.

Inutile quasi sottolineare che per il tutor orientamento l’azione nel triennio potrà quasi esclusivamente orientarsi alla scelta post-scuola secondaria, visto che il cambio di percorso comporta prove integrative che non tutti gli studenti desiderano o possono affrontare.

La figura del tutor, su cui si sono concentrate le energie creative del ministero, risponderà alle reali necessità? Il primo limite è innanzitutto il fatto che sia previsto solo nel triennio. Si spera che questo sia dovuto a limiti di fondi e alla scelta di immagine di garantire “fino al termine degli studi” la presenza di questa figura, e non alla cecità di fronte alla evidente accelerazione delle problematiche sopra descritte (e altre) che si presentano ben prima del triennio finale, anche alla scuola media di primo grado.

Un secondo limite è legato alla vaghezza della funzione stessa del docente tutor, ideale coordinatore di attività didattiche volte a recuperare chi è in difficoltà; si parla di corsi di recupero? Di tutoraggi individualizzati? Di gruppi di lavoro fra studenti? Il tutto sarà forse svelato con l’inizio dei corsi di formazione (e quindi a brevissimo, sembrerebbe), anche se – terzo elemento di criticità – la brevità del corso e soprattutto il suo essere solo online non lascia ben sperare.

Il rischio è che poi il docente, pur “formato” e testato con una prova finale, peschi nel nuoto di quanto fatto nell’istituto dove presta servizio, sia in termini di ideazione che di risorse umane. Un altro limite è l’ampiezza del raggruppamento (non classi ma raggruppamenti, con quali criteri? anche questo sarà trattato nel corso di formazione, o lasciato alla iniziativa del docente tutor?) delle studentesse e degli studenti (da 30 a 50 studenti).

 Se questo provvedimento è il primo tassello di un disegno complessivo già definito, verrebbe da farsi una domanda semplice: quale è il disegno complessivo? Se esiste, perché non è stato “svelato”, se non proprio dettagliato in tutti i suoi passaggi? E a quali linee pedagogiche si ispira?

 Il Sussidiario

LA DOTTRINA DELLA SCOPERTA


 La “dottrina della scoperta” non fa parte dell'insegnamento della Chiesa cattolica.

 

- di Angela Ambrogetti

 "La “dottrina della scoperta” non fa parte dell'insegnamento della Chiesa cattolica. La ricerca storica dimostra chiaramente che i documenti papali in questione, scritti in un periodo storico specifico e legati a questioni politiche, non sono mai stati considerati espressioni della fede cattolica". É scritto in una “Nota” congiunta dei Dicasteri per la Cultura e lo Sviluppo Umano Integrale pubblicata oggi anche in risposta alle richieste dello scorso luglio in Canada degli indigeni durante il viaggio di Papa Francesco.

 Nel testo si legge che "la Chiesa riconosce che queste Bolle papali non riflettevano adeguatamente la pari dignità e i diritti dei popoli indigeni. La Chiesa è anche consapevole del fatto che il contenuto di questi documenti è stato manipolato a fini politici dalle potenze coloniali in competizione tra loro, per giustificare atti immorali contro le popolazioni indigene, compiuti talvolta senza l'opposizione delle autorità ecclesiastiche. È giusto riconoscere questi errori, riconoscere i terribili effetti delle politiche di assimilazione e il dolore provato dalle popolazioni indigene, e chiedere perdono. Inoltre, Papa Francesco ha esortato: “Mai più la comunità cristiana potrà lasciarsi contagiare dall'idea che una cultura sia superiore alle altre, o che sia legittimo ricorrere a modi di coercizione degli altri”.

 La così detta "dottrina della scoperta", secondo la quale che quando un re cristiano scopriva territori non cristiani li poteva reclamare come suoi, è un tema discusso soprattutto in alcune situazioni.

 Nella nota si ricorda anche però la Bolla Sublimis Deus del 1537 di  Papa Paolo III: “Definiamo e dichiariamo [... ] che [, ... ] i detti indiani e tutti gli altri popoli che in seguito saranno scoperti dai cristiani, non devono in alcun modo essere privati della loro libertà o del possesso dei loro beni, anche se non sono di fede cristiana; e che possono e devono, liberamente e legittimamente, godere della loro libertà e del possesso dei loro beni; né devono essere in alcun modo ridotti in schiavitù; se dovesse accadere il contrario, sarà nullo e non avrà alcun effetto”.

 Conclude la Nota: "Senza mezzi termini, il magistero della Chiesa sostiene il rispetto dovuto a ogni essere umano. La Chiesa cattolica ripudia quindi quei concetti che non riconoscono i diritti umani intrinseci dei popoli indigeni, compresa quella che è diventata nota legalmente e politicamente come “dottrina della scoperta”.

 Gratitudine l'hanno espressa la Conferenza canadese dei vescovi cattolici i quali confermano l'errata interpretazione di chi vuole che la "dottrina della scoperta" sia legata al Magistero

 E i vescovi statunitensi scrivono: " La dichiarazione congiunta è ancora un altro passo nell'esprimere preoccupazione e sollecitudine pastorale per i popoli nativi e indigeni che hanno subito enormi sofferenze a causa dell'eredità di una mentalità colonizzante. Il rinnovato ripudio e la condanna della dichiarazione delle violenze e delle ingiustizie commesse contro i popoli nativi e indigeni, nonché il continuo sostegno della Chiesa alla loro dignità e diritti umani. Nei secoli che seguirono le bolle papali in questione, molti papi proclamarono coraggiosamente i diritti dati da Dio a tutti i popoli, ma dobbiamo anche affrontare quei momenti in cui i cristiani mancavano di tale audacia o chiarezza".

 I Vescovi canadesi e statunitensi insieme al Pontificio Comitato per le scienze storiche stanno insieme esplorando la possibilità di organizzare un Simposio accademico con studiosi indigeni e non indigeni per approfondire ulteriormente la storia Comprensione della 'Dottrina della Scoperta.'

 Aci Stampa

mercoledì 29 marzo 2023

I RAGAZZI CHE DISTURBANO


Disturbo Oppositivo Provocatorio. 

Cosa vuol dire avere un alunno con tali caratteristiche in classe? 

“Sudare sette camicie”.

 

- di  Fabio Gervasio

INTERVISTA a Marina Papini

 

Spesso la gestione della classe è una delle difficoltà maggiori per un insegnante, soprattutto per la loro eterogeneità. Tra i problemi da affrontare c’è quello della gestione di alunni con disturbo del comportamento. Ne abbiamo parlato con la Dottoressa Marina Papini, psicologa, specializzanda in psicologia cognitivo-comportamentale e collaboratrice dell’IRCCS Fondazione Stella Maris in progetti di prevenzione a scuola.

Dottoressa Papini, lei è co-autrice del libro “DOP – Disturbo Oppositivo Provocatorio – Scuola Primaria” una guida rapida per insegnanti edito dalla Erickson. Con il Professor Muratori avevamo definito cos’è il DOP, ma cosa vuol dire avere un alunno con queste caratteristiche in classe?

Avere un alunno con queste caratteristiche in classe vuol dire dover sudare sette camicie con la classe stessa. Sono bambini che possono dimostrare grandissime potenzialità ed avere un carattere adorabile per poi improvvisamente mutare e arrivare fin dal primo momento del mattino già con la giornata storta e fare di tutto per cercare di interrompere la lezione oppure accentrare l’attenzione su di sé con comportamenti che spesso sono poco piacevoli per chi si trova a doverli gestire, sia per l’insegnante che per i compagni di classe.

Quindi avere questo tipo di bambini in classe vuol dire dover imparare a surfare bene tra le onde, perché a volte c’è più calma ma a volte ci sono onde molto alte. Con questa metafora voglio dire che è importante saper essere flessibili ed essere capaci di autodisciplinarsi, perché quando un bambino ti sfida apertamente o si oppone, soprattutto con bambini così piccoli come quelli della scuola primaria, è facile cader preda di pensieri che portano all’autosvalutazione o che portano ad ingaggiare questo tipo di sfide ma che rischiano di essere atteggiamenti controproducenti. Concludendo è importante sapersi disciplinare e cercare di comprendere un po’ anche il loro punto di vista, perché c’è un motivo se si comportano in questo modo, per quanto spiacevole possa essere.

Stiamo parlando di un disturbo, a questo punto le chiedo perché è differente gestire la permalosità e la rabbia in un bambino con disturbo oppositivo provocatorio?

La rabbia e la permalosità sono caratteristiche che ovviamente si trovano in tutti i bambini della scuola primaria, anche se queste non si configurano come un disturbo. Però in termini di frequenza con cui questi episodi di rabbia o frustrazione avvengono ed in termini di intensità con la quale vengono vissuti ed agiti sono gli aspetti che caratterizzano i bambini con DOP. Quindi possiamo affermare che le caratteristiche che distinguono i due tipi di atteggiamento sono la frequenza e l’intensità.

Non è un comportamento che succede qualche volta, ma è una cosa che capita quasi tutti i giorni a questi bambini, capita molto frequentemente di essere arrabbiati, di impermalosirsi per qualsivoglia gesto, ad esempio del compagno, perché hanno come un filtro nell’interpretare il gesto dell’altro, e lo interpretano tendenzialmente in negativo verso di sé, perché il nucleo di fondo a questi bambini, che tanto sembrano spavaldi, arrabbiati o muniti di una corazza impenetrabile, in realtà è un abbassamento dell’autostima, una profonda fragilità, una sofferenza per cui loro utilizzano questi meccanismi come difesa per non mostrarsi così vulnerabili.

Per cui il minimo gesto o parola del compagno, anche se in chiave ironica, vengono subito interpretati con il filtro del proprio schema che li identifica come sbagliati, insomma viene toccato il loro tallone d’Achille, e reagiscono subito impermalosendosi. Questo avviene spesso, con facilità, che cose banali, che possiamo considerare neutre, vengano interpretate con questo filtro, perché hanno fatto esperienza, nel corso della loro vita, di persone che li hanno svalutati o che non li hanno saputi capire e quindi immediatamente si attiva questa modalità, si attiva questo schema che loro hanno e di conseguenza avranno pensieri come “io sono sbagliato”, oppure “se ne sono accorti tutti che io sono così” e a questo reagiscono con la rabbia o la permalosità adottando atteggiamenti come ad esempio la lamentela continua che fanno in sottofondo, che non è particolarmente piacevole per chi gli sta intorno, però nasce da un nucleo di fragilità che non è così facile vedere ma che esiste e quindi è importante avere ben presente quando ci si rapporta con loro.

Abbiamo detto che questi atteggiamenti sono delle difese che questi bambini adottano verso l’esterno. Un aspetto particolare è la sfida all’insegnante, ci spiega cosa vuol dire?

Questi bambini si trovano spesso a sfidare apertamente l’insegnante già dal primo no del docente, oppure assumono un atteggiamento di diretta competizione non svolgendo il compito richiesto e adottando dei comportamenti negativi o che comunque non hanno a che fare con la richiesta pur di non fare ciò che l’insegnante ha richiesto in qualità di autorità.

Fanno questo perché hanno imparato che spesso l’autorità vuol dire punizione, oppure l’essere visti negativamente, come sbagliati. È come se giocassero questo ruolo dove il pensiero fisso è legato al fatto che non si sentono compresi, che l’autorità non è in grado di comprendere la loro sofferenza, e quindi la reazione e provare a far sentire gli altri come si sentono loro.

Questa aperta sfida spesso fa sentire gli altri esattamente così. Li fa sentire vulnerabili, tocca quelle corde, anche nell’insegnante, che sono le stesse identiche corde che sono quelle che attivano nel bambino quel nucleo di cui abbiamo parlato in precedenza. Allora come si affronta questa situazione, come si può provare a uscirne, per prima cosa bisogna cercare, per quanto più possibile, di non accettare questo guanto di sfida, altrimenti rinforziamo il loro concetto che l’autorità è punitiva, è cattiva, e quindi rafforziamo un atteggiamento di rivoluzione.

Poi si può provare ad entrare in empatia con il bambino cercando di normalizzare il fatto che tutti a volte sbagliamo, che abbiamo delle giornate negative, che tutti a volte siamo inadeguati, quindi normalizzare quell’inadeguatezza che loro sentono in maniera così forte, come se volessimo entrate in contatto con questo aspetto per far capire al bambino che va bene che ci sia, perché ce l’abbiamo tutti, facendo vedere che noi per primi abbiamo quel particolare aspetto. Questo ci permetterà poi di poter usare questa loro carica, che li porta alla sfida, in modo positivo e costruttivo.

Ad esempio potremmo assegnare a turno un ruolo di leader ad alcuni bambini, che abbiano la responsabilità di gestire alcuni aspetti della classe, come ad esempio l’uscita dalla stessa, oppure la responsabilità della gestione di una piantina, o la responsabilità di preparare del materiale, in modo che loro possano crescere nel loro senso di competenza dimostrando che c’è un’autorità diversa che crede in loro, anche se questo spesso è difficile da realizzare.

Chiudiamo con un’ultima domanda. Spesso sono bambini propensi a fare dispetti in classe, creando una difficoltà nella gestione della stessa. Come possiamo gestire questo aspetto?

Il dispetto lo fanno perché sono bravi nel farlo, è una delle cose che gli riesce meglio. Adottando questo atteggiamento loro ottengono attenzione, perché spesso a questi dispetti i loro compagni ridono, magari non chi lo subisce, e questo è gratificante, li fa sentire bene. A questo si aggiunge il fatto che di base sono un po’ impulsivi e non riescono a pensare bene alle conseguenze più in là nel tempo di questi comportamenti.

Nel loro immaginario il dispetto finisce nel momento in cui l’hanno fatto e gli altri hanno riso, invece poi ci sono delle conseguenze successive alle quali loro fanno fatica ad accedere. Spesso c’è anche una scarsa empatia, per cui non valutano le conseguenze reali che questi atteggiamenti possono avere, quindi mettono in atto questi comportamenti dispettosi creando un po’ di confusione in classe.

Come dicevo precedentemente rispetto al ruolo di leader, siccome questa cosa di fare dispetti gli riesce bene, sono un po’ burloni, si può pensare ad un piccolo momento durante la giornata scolastica da destinare alla realizzazione di sketch comici al fine di liberalizzare il dispetto, lo scherzo, di modo che ci sia un’attenzione positiva verso questi tipi di comportamenti e ci sia un clima di accettazione all’interno di un tempo strutturato nel quale è possibile farlo. Un altro strumento utile è quello di aiutare a creare un segnale di stop condiviso con la classe, ovvero insegnante e compagni di classe.

Sappiamo che il nostro compagno ama scherzare e a volte non lo fa apposta, non se ne rende conto quando esagera, questo permette di dare una spiegazione anche agli altri bambini di comprendere meglio e di evitare atteggiamenti di esclusione del bambino con DOP. Il segnale di stop permette agli altri soggetti coinvolti di poter far capire al bambino con disturbo del comportamento che sta esagerando e che deve fermarsi.

Semplicemente mostrando il segnale di stop precedentemente concordato permette al bambino di focalizzare meglio la sua attenzione. Come dicevo prima per quanto riguarda la scarsa empatia, un segnale di “stop” che fermerebbe un altro bambino lui non lo vede proprio e va avanti, quindi bisogna aiutarlo in questo. Concludendo possiamo affermare che non esiste una regola precisa su come interagire con questi bambini, ogni caso è unico, però spero che queste pillole possano essere di aiuto a chi si trova ad interagire quotidianamente con loro.

 

Orizzonte Scuola

 

 

UN ALTRO GIRO DI GIOSTRA

 "Un altro giro di giostra" è il libro con cui il grande giornalista, Tiziano Terzani,  che ha raccontato il mondo ha intrapreso un viaggio diverso, più intimo e personale. 

L'occasione è stata la grave malattia che l'ha colpito, ma il viaggio che l'ha portato, da New York all'India, lungo le strade internazionali della medicina, sia tradizionale che alternativa, si è a poco a poco trasformato in un viaggio interiore. 

I due percorsi si sono sovrapposti e si sono conclusi simbolicamente davanti alla maestà senza tempo dell'Himalaya. 

Lì Terzani ha trovato la risposta che cercava, incarnata nel volto e nelle parole di un Vecchio saggio, e poi l'ha consegnata a queste pagine perché potesse essere di aiuto a chi si sente fuori posto, a chi sta cercando, a chi soffre: Il vero guru è quello che sta dentro di te». «Si tratta di capire che la vita e la morte sono due aspetti della stessa cosa. 

Arrivare a questo è forse la sola vera meta del viaggio che tutti intraprendiamo nascendo.»

 Tiziano Terzani - Un altro giro di giostra. Viaggio nel male e nel bene del nostro tempo-

PEDOPORNOGRAFIA IN RETE


Gli orchi? Sempre più hi-tech.

 Pedofilia, fascia 8-12 a rischio





EDUCAZIONE, PREVENZIONE, VIGILANZA
RESPONSABILITA' DELLE FAMIGLIE,  DEGLI EDUCATORI 
E DELLE ISTITUZIONI
- Rapporto METER - L'associazione guidata da don Fortunato Di Noto rivela che lo scorso anno sono aumentati gli scambi di cartelle compresse online, anche a pagamento. La quantità di foto e video resta incalcolabile e per l'identificazione dei pedofili si chiede maggiore collaborazione tra le aziende che gestiscono i server. Il sacerdote: non dimentichiamo che dietro ogni rappresentazione c'è un bambino abusato

 - di Michele Raviart - Città del Vaticano

 I dati dello scambio di materiale pedopornografico sono inquantificabili. Si tratta di un fenomeno mondiale che vede in America e in Europa la maggior parte delle segnalazioni alle polizie mondiali. Aumentano gli scambi attraverso le cartelle compresse condivise, che contengono foto e video all’interno di piattaforme di file hosting (servizio che permette di caricare su internet file che possono poi essere scaricati e condivisi da altri utenti) che sono più che raddoppiate (1.734 segnalazioni nel 2022 rispetto alle 637 nel 2021). È quanto emerge dal rapporto 2022 sulla pedofilia di Meter Onlus, pubblicato oggi.

Alcuni dati del rapporto Meter 2022

Diminuiscono le foto – da quasi tre milioni e mezzo a circa due milioni – e i video – da poco più di un milione a 900 mila – anche se questa diminuzione non corrisponde ad una minore circolazione del materiale in rete. Le segnalazioni alle polizie di tutto il mondo riguardano server che in 12.771 casi su 15.660 si trovano in America, mentre sono 1.299 i link in Europa, secondo il database di Meter. Quasi 50 mila i link nel cosiddetto “dark web”. Quello che è necessario, spiega il presidente di Meter onlus, don Fortunato Di Noto, è una maggiore collaborazione internazionale, soprattutto per riuscire a superare le resistenze delle aziende che ospitano i server nel fornire i dati di chi usufruisce, scambia e lucra su questo materiale.


Don Di Noto, che cosa emerge dal rapporto Meter di quest'anno?

Il fenomeno della pedofilia e della pedopornografia, ahimè, resta sempre un fenomeno sottaciuto e ci sono numeri inquantificabili perché oltre ad aumentare i link segnalati alle varie polizie, non soltanto quelle italiane ma anche quelle estere, non dobbiamo dimenticare che il fenomeno si è spostato nelle cosidette “cartelle compresse”, dove i pedopornografi non solo trafficano il materiale, ma soprattutto lucrano su questo materiale. Questa è la prima cosa che emerge dal monitoraggio della rete. I numeri sono veramente inquantificabili, tra milioni e milioni di foto e di video. C'è l'aumento della presenza delle donne che abusano dei bambini e c'è la presenza anche dell'utilizzo, è brutto dirlo, degli animali. Oltre a questo, i social network ancora oggi sono terra fertile per quanto riguarda la realtà dell'adescamento dei bambini. L'età si abbassa sempre di più, ma oltre a questo c'è la questione impellente della necessità di una particolare regolamentazione globale per quanto riguarda l'accesso ai dati da parte delle forze di polizia, perché i server provider si arrogano l'idea che prevalga più la privacy che la tutela stessa dei bambini. È un impegno che deve continuare costantemente da parte di tutti, non soltanto da realtà associative come Meter.

Che cosa sono le cartelle compresse e come si diffondono?

Le cartelle comprese sono i cosiddetti file “rar”, cioè sono delle cartelle in cui sono contenute le immagini e i video e che vengono allocate in server provider e quindi anche in piattaforme per lo scambio, per la vendita, e per la eventuale possibile detenzione nella rete. Sono fenomeni che cambiano e mutano anno dopo anno e credo che questo sia fondamentale stabilirlo. La pedopornografia criminale ha questa capacità di adattarsi e di utilizzare le tecnologie a proprio vantaggio.

Abbiamo parlato di server. C’è una possibilità di rintracciarli? Dove sono dislocati?

Noi abbiamo monitorato lo scorso anno 34 Paesi. Quando c'è la collaborazione dei server provider automaticamente c'è la possibilità di poter accedere, quando forniscono i dati, all’identificazione dei soggetti che non solo caricano, divulgano, possiedono materiale, ma che in una percentuale altissima hanno anche abusato dei bambini. Di conseguenza, la possibilità di poter avere i dati da parte delle polizie di mezzo mondo dipende anche dalla legislazione che le nazioni hanno nei loro ordinamenti. Questo è fondamentale per far comprendere che l'azione di contrasto nasce dalla collaborazione internazionale. Senza collaborazione internazionale è una lotta impari. Non si può pensare altrimenti di togliere il materiale e rimuoverlo dai server provider perché, ripeto, i pornografi continueranno sempre di più a diffondere ad abusare e anche a lucrare sulla pelle dei bambini.

Nel rapporto si legge che diminuiscono le foto e i video in circolazione, ma questa diminuzione non corrisponde a una minore circolazione del materiale in rete. È una buona notizia che diminuiscono le foto e i video o è un'impressione fallace?

È un dato fallace perché quello che noi abbiamo potuto mettere nel report è quello che noi attraverso il nostro database abbiamo cercato di conteggiare, ma abbiamo già detto che ci sono i “.rar”, le cartelle, che sono numeri inquantificabili. Il fenomeno della diffusione del materiale pedopornografico nel mondo è veramente qualcosa di molto, molto, grave e molto pesante. E non dimentichiamo mai che dietro una foto c’è sempre un bambino. Non dimentichiamo che dietro un video ci sono bambini già abusati che hanno vissuto il dramma dell'abuso. Come direbbe Papa Francesco, sono stati uccisi psicologicamente, perché l'abuso, la pedofilia, è un omicidio psicologico.

 Vatican News

ORCHI IN RETE 


 

 

venerdì 24 marzo 2023

VIENI FUORI !

 - Quinta domenica di Quaresima - 
Commento al Vangelo - 

- Letture:  Ez 37,12-14/Rm 8,8-11/Gv 11,1-45

 - di Paolo Curtaz

 - Caro Amico, non conosco la tua storia (preziosa agli occhi di Dio) ma sono certo che ha a che fare con il vangelo di oggi. Perché abbiamo urgente bisogno di uscire dai sepolcri. E di toglierci le bende.

Perché siamo tutti Lazzaro. Pensiamo di essere vivi, ma siamo morti e sepolti sotto cumuli di pietre.

Chissà se questo tempo difficile che ha messo a nudo le nostre piccinerie, le nostre paure, i nostri egoismi, la nostra poca fede, non sia la svolta per farci rinascere.

Chissà se avremo il coraggio di ascoltare quel grido che scuote: Vieni fuori!

Gesù si è rifugiato ad Efraim. Tira una bruttissima aria, per lui, a Gerusalemme. Giovanni struttura il suo vangelo come un gigantesco, infinito processo all’opera di Gesù e Gesù, lo sa, è già stato condannato a morte in contumacia.

Lazzaro, il suo amico Lazzaro, sta male, tanto. Gesù sa che andare a Betania, a quel punto, equivale ad un vero suicidio. Sa la morte di un amico, del suo migliore amico, sarà l’occasione di mostrare l’amore che ha per Lazzaro. E per le sue sorelle. E per noi.

Sa che questo amore lo spingerà a fare ciò che nessuno aveva anche solo immaginato si potesse fare: donare la vita per qualcun altro.

La vita di Lazzaro segna la morte di Gesù.

Aspetta qualche giorno e parte. Tutto a Betania, la casa del povero, odora di morte.

La fine prematura di una persona giovane e stimata, ancora oggi, ci getta nel panico totale. Nonostante la fede, nonostante tutto. È Marta ad uscire per prima. È lei che agisce in casa, lo sappiamo bene. Le sue parole sono un rimprovero sgomento. “Se tu fossi stato qui”. No Marta, non è vero. Se anche Gesù fosse stato presente non avrebbe impedito a Lazzaro di morire.

Anche se Gesù è presente nella nostra vita, anche se siamo suoi amici, se egli ci è amico, non possiamo evitare la morte e il dolore e le prove che egli per primo non ha rifiutato. È normale, istintivo pensare che Gesù ci protegga, ci salvi. E lo fa, ma mai come pensavamo.

Mai come vorremmo.

La vita è mistero, assurdo costringerla nei nostri limitati ragionamenti, nelle nostre legittime ma puerili illusioni. Al discepolo la sofferenza non viene evitata. E la sofferenza e la morte sono passi di un percorso necessario, come il chicco di frumento che deve morire e marcire per portare frutto.

 Gesù invita Marta, e noi, a credere. A credere in una resurrezione e in una vita che avvolgono e riempiono questa nostra vita biologica, terrena, che le danno misura e senso, orizzonte e gioia. Si fida, Marta, e proclama, cuore femminile della comunità, la fede, così come aveva fatto Pietro a Cesarea: io credo che tu sei il Cristo. Anche se stenta a capire, anche se non vede come tutto ciò possa accadere.

Sa, come sappiamo noi, che egli è l’acqua di sorgente, la luce. Ma c’è ancora un passo da affrontare.

Ti chiama

Il maestro è qui e ti chiama. Così dice Marta a Maria. Così dice Marta a me, oggi. Maria si alza e, con lei, tutti i famigliari e gli amici. Si ripete la scena, il dolce rimprovero. Gesù sta per ribattere, come con la sorella. Ma vede le lacrime. Tante. Troppe.

E accade.

Accade l’impensabile. Gesù scoppia a piangere. Il Maestro cede. Come se, per la prima volta, Dio si rendesse conto di quanto dolore possa vivere l’uomo. Di quanto possiamo smarrirci e perderci, deboli e sciocchi che siamo. Come se Dio, per la prima volta, vedesse quanto dolore ci procura il dolore, quanto smarrimento, quanto disorientamento.

Ci scuote, quel pianto.

Ma non poteva evitare che morisse, invece di piangere? Obiettano alcuni. Ed è l’eterna scelta fra il volto di un Dio garante del quieto vivere o di un Dio appassionato che condivide la nostra vita. Non ci sono parole per spiegare o per consolare. Solo partecipazione, ora. Gesù chiede dov’è Lazzaro. Vieni a vedere, gli dicono.

Tre anni prima, ai due discepoli del Battista che si erano messi sui suoi passi, aveva usato le stesse parole: venite e vedrete. Gesù conduce i discepoli a vedere la vita.

I discepoli, ora, gli insegnano a vedere la morte. Dio impara a morire. E quel dolore, lascia intuire l’evangelista, lo smuove. Darà la sua vita per Lazzaro. Lazzaro vivrà. Lui, il Signore, ne porterà le conseguenze e ne morirà.

Lazzaro, vieni fuori!

Sa bene che quel gesto segnerà la sua fine. Sa bene che alcuni si prenderanno la briga per andare a denunciarlo (per cosa, violazione del regolamento cimiteriale?). Sa bene che le parole non sono più sufficienti. Ora che ha visto quanto dolore provoca la morte gli resta un ultimo passaggio per poter essere uomo in tutto. Morire.

È piena di gioia e di stupore questa resurrezione. È pieno di mestizia il cuore del Maestro. Sì, ora è pronto. Andrà fino in fondo. Fino all’inimmaginabile.

Lazzaro, noi, io siamo vivi perché Gesù ha donato la sua vita.

E ci invita, ancora e ancora, a vivere da vivi. Meritiamo la morte di Dio. Tanto valiamo. Tanto vali. Tanto sei amato, come Lazzaro.

 Paolo Curtaz