"Perdonare le offese:
uno sguardo
psicologico"
Cosa
può dire uno psichiatra di una esperienza non solo umana, ma religiosa, così
nobile e così fragile, così luminosa e così arcana, così difficile e così
complessa, come è quella del perdono? Non può
innanzitutto non riconoscere in essa, con stupore nel cuore, una delle più alte
e indicibili testimonianze di umanità che consente a ciascuno di noi di
realizzare fino in fondo gli ideali di una vita che dona qualcosa di sé agli
altri, e che ci consente di andare al di là delle barriere interiori create
dalla solitudine, dall’egocentrismo, dagli impulsi a ritorcere contro gli altri
le sofferenze, che loro ci hanno procurato. Ma uno psichiatra non può nemmeno
non considerare la fatica, le impervie montagne del risentimento, e della
vendetta, che è necessario superare, se vogliamo iniziare il nostro doloroso
personale cammino verso la conversione del cuore, e arrivare a conoscere e
sperimentare le vie, ricolme di enormi ostacoli pulsionali, che ci portano alla
luce del perdono e della redenzione dalle ingiustizie sanguinanti, che la vita
ci ha fatto incontrare, e che continuano a serpeggiare in ciascuno di noi: se
non sono trascese nel perdono.
Questo
mio discorso intende non occuparsi delle dimensioni etiche e filosofiche del
perdono e del perdonare, e in ordine alle quali vorrei rinviare alle pagine
straordinarie che sono state scritte da Romano Guardini in un suo splendido
libro (Etica), edito dalla Morcelliana di Brescia, ma occuparsi invece dei
meccanismi psicologici, degli svolgimenti tematici, delle motivazioni
interiori, che entrano in gioco nel momento in cui siamo chiamati a perdonare,
e magari vorremmo farlo, ma non ne siamo capaci. Se non scendiamo sulla scia
della introspezione nelle regioni della nostra interiorità, e sulla scia della
immedesimazione in quelle delle altrui interiorità, non saremo mai in grado di
capire come si possa giungere a perdonare, e cioè a compiere un gesto di questa
indicibile dimensione umana e cristiana, che è segno di una straordinaria
capacità di trasporre le pulsioni egocentriche, anche legittime, che sono in
noi, in orizzonti di una alta idealità etica.
Insomma,
la mia riflessione non vuole se non cercare di intravedere cosa si possa
agitare nell’anima, nella interiorità, di chi è chiamato al perdono, e come sia
possibile fare riemergere in noi e negli altri le fragili antenne di una
speranza che apra il nostro cuore al perdono.
La
fenomenologia del perdono
Se
ci si vuole avvicinare a cogliere la ragione d’essere complessa di una
esperienza umana e cristiana, come è questa del perdono, è necessario che la
sua fenomenologia sia scomposta e ricomposta nei suoi modi di essere: nelle sue
dimensioni costitutive. Così, perdonare una persona, che ci ha fatto del male,
è cosa più facile quando ci sia stata una qualche nostra corresponsabilità, e
ancora offrire spontaneamente il nostro perdono è cosa diversa da quella di
essere invitati, o sollecitati, a farlo: distinzioni apparentemente inutili, e
insignificanti, che, se considerate e giudicate dal punto di vista della
libertà, hanno una ben diversa significazione etica. Non c’è realtà psicologica
e umana più ancorata alla vita interiore di quella del perdonare, dell’offrire
il nostro perdono a chi ci ha fatto del male, lasciando in noi ferite
sanguinanti, e talora inemendabili. Sì, la dimensione interiore della vita non
può non essere tenuta sempre presente nell’analisi di un fenomeno, che ci
impegna in ogni nostra fibra, come è quello del perdono, nel quale siano in
gioco valori etici di immensa significazione umana e cristiana, nella nostra
vita frequentemente ignorati, o dimenticati: nonostante la loro grande
importanza.
Come
non pensare che non sia difficile, dopo qualche tempo, perdonare offese lievi
che non feriscano la nostra dignità? Ma non è sempre così: le offese, anche
quelle trainate dalle parole, e quelle che non dovrebbero destare serie
risonanze emozionali, possono invece incistarsi, e continuare a persistere nel
tempo: al di là di ogni possibile oblio. Sono offese che dovremmo sapere
rimuovere dalla memoria, rendendola aperta alle esperienze di un passato che si
liberi dalle ossessioni del male ricevuto, e si trascenda negli orizzonti
sconfinati di un futuro che è speranza. Sono offese invece che ci logorano, che
ostinate e crudeli oscurano, e avvelenano, le relazioni interpersonali, le
corrodono, e le arrugginiscono, imprigionandoci in una disperata solitudine:
divorata dal solo pensiero della ritorsione. Sì, sono offese che non consentono
più di avere le abituali quotidiane relazioni, e nemmeno di corrispondere ai
compiti della vita. Ma, perché le cose abbiano a cambiare, e perché la vita
abbia a riprendere i modelli normali di vita, è necessario sapersi liberare dai
condizionamenti ghiacciati e implacabili dei risentimenti e delle ritorsioni
che accrescono senza fine il dolore che si è provato: venendo oltraggiati.
Come
convertire i cuori di chi mantiene l’odio e il risentimento nel suo cuore
dinanzi ad avvenimenti così banali e insignificanti, così inutili e
inconsistenti? Come dare anima alla quinta opera di misericordia spirituale che
è appunto questa: perdonare le offese? La vita è ancora oggi, non di rado,
contrassegnata dal deserto dell’amore e della generosità, e non è facile così
arginare le influenze che le ingiustizie subite, al di là della loro
consistenza, svolgono sui nostri stati d’animo e sulle nostre inclinazioni
emozionali. Ci si rinchiude in un vorticoso groviglio di pensieri e di
sentimenti contorti che sono sorgenti di ansie e di ossessioni, e che
alimentano malessere e sofferenza. Come cambierebbe il mondo, il mondo in cui
siamo immersi ogni giorno, se sapessimo perdonare queste offese che sono, fra
l’altro, le più frequenti, e che dovremmo sentire l’impegno umano e cristiano
di perdonare. Ma la pratica clinica ci insegna che sono proprio le offese
banali e occasionali, che più si radicano nell’animo, e che sembrano placarsi
solo quando (ma non è sempre così) le pulsioni alla rivendicazione, al
risentimento e alla vendetta (quale atroce parola è questa) siano state
arginate da sentenze giudiziarie, o da ritorsioni che nulla hanno più di umano.
Le
cose cambiano quando le offese non sono solo episodiche, o leggere nei loro
contenuti, ma gravi nelle loro conseguenze: sofferenze dell’anima e sofferenze
del corpo che non hanno fine. Queste ferite, queste violenze, non è facile
dimenticarle, e non è facile perdonarle; e in ogni caso un conto è parlarne
quando non abbiamo subito oltraggi e offese gravi, e non le hanno subite
persone a noi care, e un conto è parlarne quando noi ne abbiamo dolorosamente
sofferto. Un volto sfigurato, e lacerato, un corpo martoriato che non ha più
autonomia, una vita innocente stroncata da inumana violenza, l’immagine
straziante del padre che tiene in braccio il figlioletto che muore: sono
immagini che accadono quotidianamente ma, quando fossimo noi a essere così
martoriati, saremmo capaci di perdonare, o anche solo di chiedere a chi ne sia
stato sfigurato il perdono; senza lasciarci incrinare non dall’odio, che è una
esperienza inumana, e vorrei che non la si provasse mai, ma dalla incapacità di
perdonare, o di trovare in sé parole che ci aiutino a ricreare una speranza
irraggiungibile di conversione del cuore che ci porti a vivere la grazia di un
perdono umanamente impossibile?
Le
parole, le mie parole, non possono non sentirsi fragili, fragilissime, nel
momento in cui hanno a che fare con queste esperienze di inimmaginabile dolore
conseguenti a violenze altrui. Il solo parlare di perdono e di perdonare in
questi casi di estrema violenza non può essere fatto se non con grande timore,
e con immensa delicatezza. Ma ci sono stati uomini, e ci sono state donne, che
hanno saputo testimoniare indicibili capacità di perdono, e vorrei ricordare
Massimiliano Kolbe, che ha scelto di morire per salvare la vita di un padre di
famiglia, e (non potrei, certo, dimenticarla) Etty Hillesum, che nel suo diario
dal campo di concentramento di Westerbork, dove attendeva di essere avviata con
i suoi genitori e con un suo fratello ad Auschwitz, non ha mai una sola parola
di odio e di risentimento nei confronti dei tedeschi. Ma non potrei nemmeno
dimenticare santa Teresa di Calcutta che ha dedicato la sua vita a una
ininterrotta testimonianza di amore e di perdono. In un contesto radicalmente
diverso, ma, con una analoga indicibile generosità d’animo, e con una
straordinaria concezione etica della politica, il Mahatma Gandhi e Nelson
Mandela hanno fatto confluire le inenarrabili sofferenze subite nel fiume
luminoso del perdono: oggi inimmaginabile in un campo come quello della vita
politica.
Il
perdono come cura?
L’esperienza
umanissima del perdono è allora in conflitto senza fine con esperienze
emozionali a essa antitetiche, come sono quelle del risentimento, della
ritorsione, della vendetta, del rancore, e al perdono, come ho cercato di dire,
non si giunge se non attraverso un lungo straziato cammino di riflessione
interiore, e di liberazione dal giogo dell’odio e dei risentimenti. Certo, il
perdono, lo dimostrano studi psicologici molto seri, consente di mantenere
meglio il nostro equilibrio psichico, e la nostra salute psichica, mentre il
mancato perdono non ci consente in alcun modo di uscire dalla cascata fatale
dei risentimenti, e ci impedisce di sottrarci alla pesantezza pietrificata del
passato, e di vivere il tempo come apertura alla speranza. Ma le parole della
psicologia e della psichiatria non bastano a convertire al perdono persone che
siano state ferite nell’anima da feroci ingiustizie, da grandi sofferenze,
dalla perdita di persone amate, o dalla devastazione del proprio volto. Guarire
perdonando: ma chi lo direbbe a persone lacerate dall’angoscia e dal dolore?
Sono invece necessarie le parole che nascono dalla grazia della fede e della
speranza, e che ci immergono nel mistero insondabile dell’amore che è l’anima
del perdono.
Sulla
scia di queste ultime parole mi è possibile giungere ad altri orizzonti
spirituali.
Consolare,
essere dotati della virtù della misericordia, è (anche) perdonare: un gesto
interiore di indicibile coraggio e di immensa generosità che cambia il mondo di
chi è perdonato, e anche di chi perdona. Il perdono, vorrei ripeterlo, non può
nascere se non dal cuore che è capace di provare pietà e compassione, e di
sacrificare il proprio io, la propria individualità, il proprio egoismo, e in
particolare le proprie pulsioni. Nel perdono insomma ci allontaniamo dal male,
dal male delle ritorsioni, delle vendette, e dal passato, e a chi è perdonato,
ma anche a chi perdona, si aprono un altro futuro e un’altra speranza. Solo nel
perdono rinascono possibilità di redenzione che sigillano la vittoria del bene:
di un bene che sorpassa ogni dimensione naturalistica della vita, e diviene
trascendenza. Ci sono state, e ci sono, mirabili testimonianze umane che hanno
saputo sciogliersi dalle catene del risentimento e della vendetta dinanzi a
oltraggi crudeli; e nondimeno noi tutti siamo chiamati a perdonare, al di là
delle nostre fragilità e delle nostre debolezze, delle nostre paure, se la
preghiera, e il mistero dell’agonia del Signore, vivono nel nostro cuore.
Il
perdono è dovere morale
Vorrei
ora avviarmi alla conclusione del mio cammino alla ricerca di parole che aprano
il cuore al perdono, ricordando alcune considerazioni sul perdono di Romano
Guardini, grande filosofo e grande teologo tedesco, anche se nato a Verona.
Egli dice che perdonare può essere difficile, e anche molto difficile, ma è un
dovere morale che non si comprende se non alla luce della fede in Dio; e
dicendo ancora che la persona oltraggiata dalla ingiustizia deve fare in modo
che essa non esista più: cosa, certo, difficilissima da fare propria se non
alla luce della fede e della speranza. Il perdono non può se non tendere alla
conversione del cuore, alla creazione di una nuova ideale relazione, che unisca
il tu e l’io in un noi; dando inizio a una vita nuova che riscatta le
ingiustizie subite, e ne lascia il giudizio ultimo a Dio.
Ma,
se non di giungere a queste vertiginose altezze spirituali, a ciascuno di noi
(direi) è dato di fare lievitare dalla nostra interiorità gli slanci del cuore
che ci consentano, questo è un impegno etico al quale non si dovrebbe venire
mai meno, di perdonare le offese: se queste sono lievi, il perdono non può non
essere possibile a ciascuno di noi, ma se sono gravi, certo, non resta se non
pregare, e confidare nell’aiuto del Signore.
Fonte: VP Plus quindicinale online
*Eugenio Borgna (1930-2024) è stato
primario emerito di Psichiatria dell’Ospedale Maggiore di Novara e libero
docente in Clinica delle malattie nervose e mentali presso l’Università degli
Studi di Milano.
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