-di Luca Farruggio
Hannah
Arendt, nel suo celebre saggio La banalità del male, racconta come
il male più atroce, quello del nazismo, potesse manifestarsi attraverso gesti
ordinari, compiuti da uomini apparentemente normali. Non demoni assetati di
sangue, ma burocrati che, senza riflettere, eseguivano ordini e regolamenti. Il
male si faceva così banale, quotidiano, impersonale.
Ma oggi viviamo in un tempo in cui anche il bene rischia di essere banalizzato.
Non perché sia diventato ordinario e fondamentale, ma perché viene esibito e
svuotato completamente della sua essenza silenziosa. È quella che si può
chiamare “banalità del bene”: una versione superficiale, sbiadita, in cui il
gesto buono serve più a costruire un’immagine, una rappresentazione, che a
rispondere a un bisogno reale e necessario.
Infatti, viviamo nell’era della comunicazione disumana, della visibilità a
tutti i costi, del racconto continuo di sé. Il bene è così recitato, messo in
scena. Donazioni riprese con il cellulare e atti di gentilezza urlati sui social.
Non si tratta di giudicare le intenzioni, ma di notare come il Bene (quello con
la maiuscola), quello che trasforma le persone e costruisce comunità, viene
spesso compiuto nel silenzio, lontano dai riflettori, senza spettatori.
Il Vangelo, in questo senso, nel suo essere sempre paradossale, è
sorprendentemente moderno: “Guardatevi dal praticare la vostra giustizia
davanti agli uomini per essere da loro ammirati, altrimenti non avrete
ricompensa presso il Padre vostro che è nei cieli.”
(Matteo 6,1).
E ancora: “Quando fai l’elemosina, non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipocriti nelle sinagoghe e nelle strade per essere lodati dalla gente […] Ma quando tu fai l’elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra.” (Matteo 6,2-3).
Infatti, Gesù non condanna l’elemosina in sé, ma l’intenzione dietro il gesto
quando diventa spettacolo. Resta emblematico il gesto compiuto da una umile
donna: “Sedutosi di fronte al tesoro, osservava come la folla gettava monete
nel tesoro. E tanti ricchi ne gettavano molte. Ma venuta una povera vedova
vi gettò due spiccioli, cioè un quattrino. Allora, chiamati a sé i
discepoli, disse loro: «In verità vi dico: questa vedova ha gettato nel tesoro
più di tutti gli altri. Poiché tutti hanno dato del loro superfluo, essa
invece, nella sua povertà, vi ha messo tutto quello che aveva, tutto quanto
aveva per vivere»”. (Marco 12,41-44).
Lo stesso vale per la preghiera: “E quando pregate, non siate come gli ipocriti che amano pregare stando ritti nelle sinagoghe e agli angoli delle piazze per essere visti dagli uomini. […] Tu invece, quando preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo nel segreto.” (Matteo 6,5-6).
Quindi il Vangelo ci invita a un bene nascosto, essenziale, vitale, non mediato dallo sguardo altrui. Un bene che non cerca like, condivisioni o applausi, ma che nasce dalla compassione autentica e veritiera, dalla scelta di servire e condividere anziché apparire.
Ecco perché la banalità del bene è un rischio tanto quanto quella del male:
entrambi svuotano di senso l’azione umana. Uno la rende meccanica, priva di
capacità critica, l’altro la rende spettacolare, visibile, troppo visibile. In
entrambi i casi, il cuore - che nel Vangelo e per i padri della Chiesa è il
centro dell’essere umano - è assente.
Forse oggi il vero atto rivoluzionario è proprio questo: fare il bene senza dirlo, senza mostrarlo. Offrire tempo, ascolto e aiuto senza documentarlo. Pregare nel silenzio, donare senza cercare riconoscimento.
Non per moralismo, ma perché il bene, quando è vero, non ha bisogno di essere mostrato, comunicato, perché vive nella carne, nel sangue, nelle ossa e non nell’immagine. E allora, contro la banalità del bene esibito, c’è bisogno di un bene silenzioso, umile e radicale. Insomma, di un Bene che non fa rumore, ma trasforma e trasfigura il mondo in vista del Regno.
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