venerdì 13 settembre 2024

SCUOLA IN CAMMINO


LE STRADE MAESTRE 

La classe nomade d'Italia: gli studenti partiranno a metà Settembre da Orvieto, attraversando la penisola a piedi

Partiranno da Orvieto e attraverseranno l'Italia percorrendo oltre mille chilometri a piedi, accompagnati da insegnanti e guide ambientali escursionistiche.
Un nuovo modo di fare scuola!

Cosa direbbero i vostri figli se quest’anno, anziché iniziare la scuola, potessero partire per un lungo viaggio?
La fantasia si fa realtà in quel di Orvieto, dove il 16 settembre un gruppo di 15 studenti delle superiori partirà per esplorare in lungo e in largo il Bel Paese, accompagnati da un tablet e dall’attrezzattura da trekking necessaria per affrontare sentieri più o meno impervi.

Ebbene sì, il loro ritorno a scuola non inizierà in aula ma tra boschi e campagne.

Da Orvieto raggiungeranno il Lazio per poi dirigersi verso la Sicilia.

Dopo una pausa per le vacanze di Natale, il cammino riprenderà alla volta della Calabria, Basilicata, Puglia e Campania.

I ragazzi riprenderanno quindi la strada verso Nord per raggiungere Trieste, percorrendo oltre mille chilometri in circa 240 giorni.

Il progetto, chiamato “Strade Maestre”, è una sperimentazione promossa dalla cooperativa sociale 'CamminaMenti' in collaborazione con Aigae e Cai, rivolta a studenti della scuola secondaria di secondo grado.

L’obiettivo?
Fare scuola in modo nuovo, strutturando la proposta educativa e formativa attorno alla pratica del camminare e della vita comunitaria.

L’esperienza del viaggio a piedi, gli incontri con le persone, la visita a tesori naturali e culturali saranno parte integrante dell’apprendimento, specifica il sito di “Strade Maestre”.

Non sarà una gita all’insegna del puro svago, i ragazzi dovranno comunque studiare le materie dell’anno scolastico, ma lo faranno in un contesto diverso, alternando giornate di cammino a periodi residenziali, accompagnati da Guide Ambientali Escursionistiche e insegnanti volontari.

Il “Grand Tour”, che avrà inizio il 16 settembre e terminerà il 19 maggio 2025 a Trieste, si concluderà con una prova di idoneità presso una scuola pubblica statale.

Buon viaggio ragazzi!

Laura De Rosa
GreenMe

(Fonte e foto: Strade Maestre)

✅ RIFERIMENTO INFO
https://www.strademaestre.org/i-promotori/

GIORNATA MONDIALE DEGLI INSEGNANTI

 


UNESCO - GIORNATA MONDIALE

DEGLI INSEGNANTI 2024

Il 4 ottobre prossimo si celebrerà la tradizionale Giornata Mondiale degli Insegnanti, promossa dall’UNESCO.

Il tema di quest’anno è: “VALORIZARE LA VOCE DEGLI INSEGNANTI. VERSO UN NUOVO CONTRATTO SOCIALE PER L’EDUCAZIONE”.

Gli insegnanti hanno un ruolo fondamentale nel rinnovamento dell’educazione: una trasformazione che rende l’educazione sempre attuale, viva e feconda; capace di rispondere alle numerose sfide educative dell’oggi e del domani. Però, non sempre la voce degli educatori è ascoltata dai decisori politici e dalla società in cui operano. Non sempre il lavoro di chi educa e istruisce è adeguatamente riconosciuto e valorizzato.

È necessario favorire il dialogo sociale degli insegnanti e di tutti gli educatori con i politici, le famiglie, le istituzioni e le altre realtà sociali.

Quali sono le maggiori sfide educative odierne? Dove va l’educazione? Come migliorare il dialogo e la partecipazione? Quali sono le buone pratiche? ….

Proponiamo di organizzare delle iniziative, a livello internazionale, nazionale e locale, per discutere su queste problematiche. Saremo lieti di ricevere i programmi delle iniziative, copia dei documenti elaborati e il racconto di buone pratiche.

L’UNESCO organizza una specifica iniziativa a Parigi. Si potrà partecipare in presenza o virtualmente. Per informazioni:

https://www.unesco.org/fr/articles/journee-mondiale-des-enseignants-2024-et-huitieme-edition-de-la-remise-du-prix-unesco-hamdan-pour-le

Des informations supplémentaires seront régulièrement ajoutées à la page officielle de la Journée mondiale des enseignants de l'UNESCO.

Page officielle de la Journée mondiale des enseignants de l'UNESCO


WORLD TEACHERS' DAY 2024


giovedì 12 settembre 2024

LEGGERI COME PELLEGRINI


IN CAMMINO VERSO LA PORTA SANTA

 Un pellegrinaggio verso la Porta Santa tra strade, catacombe e basiliche, per ripercorrere i passi dei primi cristiani che vissero a Roma duemila anni fa. È il nuovo libro di Alessandro Sortino Il Dio nuovo. Storia dei primi cristiani che portarono Gesù a Roma in uscita per Rizzoli (pagine 276, euro 18,50) e del quale proponiamo un estratto. la storia di come una piccola comunità di uomini e di donne ha conquistato senza armi il cuore dell’impero più potente dell’antichità, ma anche un cammino alla ricerca del cristianesimo delle origini.

-         di Alessandro Sortino - Stefania Casellato

  Avvicinarsi alla Porta Santa significa muoversi avanti nello spazio e indietro nel tempo. Ma prima di arrivare è necessario superare un labirinto: interiore ma non meno reale. Quando arrivò a Roma, Pietro era solo un pescatore alla guida di pochi Che significato ha la sua cattedra ora che la Chiesa è tornata minoritaria? Sei di fronte alla basilica di San Pietro. Davanti a te la Porta Santa. Oltre quella porta c’è la tomba del pescatore. Stai facendo la fila per attraversarla. Puoi compiere questo gesto da turista o da curioso. Oppure puoi farlo da pellegrino. Se è così, fermati, non entrare. Dante Alighieri ambientò la sua Divina Commedia, secondo l’interpretazione prevalente, nella Settimana Santa del 1300, l’anno del primo giubileo della storia. Si ritrovò in una selva oscura a metà della sua vita. Ma capì subito che per uscirne non poteva salire sul colle, perché tre fiere gli sbarravano la strada. Prima di salire doveva inabissarsi e farsi pellegrino all’inferno. Io ti propongo lo stesso. Prima di entrare nella Porta Santa voltati, dai le spalle alla basilica. Di fronte a te c’è un labirinto, fatto di strade che partono nel presente, si perdono nel passato e sbucano nel futuro. Quel labirinto è la città di Roma. Per attraversare la Porta Santa da pellegrino, per venir fuori dalla selva oscura e accettare il perdono, devi prima perderti lì dentro. Quando a Betlemme nasce Gesù, a Roma governa Ottaviano Augusto, il primo imperatore della storia. Gesù definirà gli ultimi del mondo “beati”, promettendo loro che saranno “i primi”. Ottaviano definiva sé stesso “primo tra i pari”, il primo tra i primi che comandano. Sessantaquattro anni dopo, Nerone – l’ultimo imperatore della dinastia di Ottaviano – farà ammazzare nel suo circo privato ai piedi del colle Vaticano Simone detto Pietro, il primo degli apostoli di Gesù.

 La civiltà in cui viviamo nasce da questo testacoda della storia fra ultimi e primi, attraverso una trama che si dipana tra due grandi capitali del mondo antico: Gerusalemme e Roma. Si tratta di una vicenda ricca di tradimenti, enigmi, assassinii, colpi di scena, perfetti ingredienti per una serie tv di successo. Io però ti offro di entrare in questa storia non come spettatore, ma in un’altra maniera: con un ruolo da testimone. Come? Accedendo a una narrazione in cui il protagonista del racconto e il narratore coincidono. Questa narrazione si chiama “pellegrinaggio”. Il pellegrino si mette in viaggio verso un luogo che un evento ha reso santo. Cammina in avanti nello spazio e indietro nel tempo. Il suo premio sta nell’ottenere un incontro che induca in lui un cambiamento: vuole rivivere nella propria esistenza quell’evento che ha cambiato la storia. Non a caso papa Francesco, indicendo il giubileo del 2025, ha scelto questo motto: “Pellegrini di speranza”. Anche questo libro che stai per leggere dunque è un pellegrinaggio, cioè un racconto fatto camminando. Viaggeremo in direzione del sepolcro degli apostoli, sovrapponendo i nostri passi a quelli dei pellegrini che a milioni hanno compiuto nei secoli lo stesso percorso. Passeremo anche noi attraverso la Porta Santa delle basiliche dedicate a san Pietro e san Paolo, per scoprire se insieme a quelle ossa, nelle loro tombe, la speranza è piantata o è seppellita. Pietro e Paolo. Per cominciare tolgo loro l’aureola. Se al tempo dell’impero romano ci fossero stati i giornali, questi due non sarebbero mai finiti in prima pagina: erano provinciali emigrati, spiantati e marginali, privi di mezzi propri, di religione ebraica ma considerati periferici pure dagli stessi ebrei. Uno, Pietro, in origine faceva il pescatore; l’altro, Paolo, il fabbricante di tende. Accanto a loro, le persone comuni che ne hanno ascoltato i racconti e si sono fatte battezzare nel nome di Cristo tramandando fino a noi le loro testimonianze e i loro gesti: maschi e femmine, patrizi e plebei, romani e stranieri, schiavi e uomini liberi, commercianti e imprenditori, politici e magistrati. Persone che si frequentavano, si riunivano e si sentivano parte della stessa comunità, a prescindere dal ceto sociale o dall’etnia di provenienza. Il cristianesimo dei primissimi tempi era così.

 La Chiesa dei primi cristiani è passata attraverso una serie incredibile di sconfitte e fallimenti, e la sua missione è stata portata avanti da persone che non sapevano affatto ciò che stavano facendo e l’hanno scoperto via via, sorprese a loro volta dagli eventi di cui erano protagoniste. Eppure, pensaci: tutte le autorità civili e religiose che governavano al tempo degli imperatori – cioè dal primo al quarto secolo dopo Cristo – sono state spazzate via. Da allora l’unica autorità ad aver resistito, l’unica figura superstite del tempo dei romani, è quella del vescovo di Roma. Di colui, cioè, che viene eletto “successore di Pietro”, erede del primo tra coloro che dalla Giudea il messia inviò nel mondo perché lo convertisse in suo nome. La domanda è questa: il suo trono, la cattedra del pescatore Pietro, è un relitto della storia, qualcosa che emerge dalla polvere del tempo come un antico reperto e che alla polvere tornerà come tutto il resto? Oppure è il segno spirituale e materiale di una realtà che abita sì il tempo, ma nutrita da radici che pescano la vita al di fuori di esso? E noi? Davvero crediamo che lo sia? La stessa Chiesa ci crede? Crede davvero di non essere in pericolo? Di non essere sul punto di estinguersi? Una comunità di persone chiamate ad abrogare il sacrificio su cui si regge il mondo, ma che questa cosa non la capiscono mai fino in fondo e a ogni generazione devono riscoprirla daccapo. Questa era la Chiesa di allora. Questa sta tornando a essere la Chiesa di oggi, via via che il mondo la spoglia di quel potere e di quella ricchezza che proprio l’impero romano le aveva attribuito, dopo averla perseguitata. Oggi, come nel primo secolo, si trova a essere minoritaria, diffamata, insultata e tradita dai suoi stessi membri, eppure in pellegrinaggio verso la tomba dei suoi fondatori, per ritrovare la speranza che loro hanno testimoniato. Per questo è interessante capire come tutto è cominciato. In quel passato c’è il nostro futuro. Anche se tornassimo in dodici, non sarebbe la fine.

www.avvenire.it 


mercoledì 11 settembre 2024

LEZIONE FRONTALE. CUI PRODEST ?

DIPENDENTI
 o RICERCATORI ?


 Il pedagogista Daniele Novara, nel suo articolo “La lezione non serve”, pubblicato su rivista Conflitti n°2-2018, si sofferma sul tema della lezione frontale.

 

“La scuola italiana ha un problema che si perde nella notte dei tempi. Questo problema non riguarda l’architettura tradizionale del sistema scolastico, i cosiddetti cicli d’istruzione, né la distribuzione delle materie nel curriculo. Non è l’abbandono scolastico, o i voti numerici e neppure la formazione degli insegnanti e il sistema di valutazione. Il problema della scuola italiana nasce da un equivoco, profondamente radicato e pervasivo, che ha un nome preciso: lezione frontale” scrive.

 “Oggi siamo passati dal manoscritto al tablet, ma il sistema resta sostanzialmente lo stesso: l’assunto che muove comunque ancora gran parte della didattica della scuola italiana è che per far imparare qualcosa a qualcuno, e quindi per insegnare, il metodo più scontato, lineare e apparentemente efficace sia quello di utilizzare il sistema della lettura di un testo associata a una spiegazione” prosegue.

 “E la didattica della lezione frontale, ancora così diffusa e persistente, se non nell’ideale decisamente nella pratica, è il retaggio di questo imprinting. È un metodo che implica una concezione dell’apprendimento come processo trasmissivo, fondato sostanzialmente sul canale verbale, e richiede tempi attentivi che tutti gli studi più recenti han­no verificato non essere sostenibili da un adulto, figurarsi da un bambino o da un ragazzo” aggiunge.

Novara continua: “Il perpetrarsi di generazione in generazione di questo meccanismo didattico nasce anche dal suo essere un dispositivo pedagogico essenziale nella sua semplicità e facilità applicativa, fondato sul codice della dipendenza. È un sistema in solo tre passaggi, accessibili e sostenibili da chiunque conosca una materia scolastica. La competenza pedagogica non serve, basta spiegare attraverso la lettura parziale o totale di testi, richiedere e incentivare lo studio individuale e infine interrogare concedendo all’alunno la possibilità di essere valuta­to in ordine alla comprensione della spiegazione dell’insegnante, che si aspetta sostanzialmente una ripetizione, più o meno pedissequa“.

 “Anche Paulo Freire, il pedagogista brasiliano tra i più importanti teorici del­ l’educazione del secolo scorso, si è espresso duramente contro la concezione da lui definita “depositaria” dell’istruzione della scuola e dell’educazione: l’educazione “depositaria” si perpetua nell’atto di trasferire, depositare come se fossero un pacchetto, conoscenze e valori in un contenitore vuoto, l’alunno, in un’azione che scaturisce da un rapporto verticale fondato su un’asimmetria di sapere e possibilità” conclude.


CAMBIAMENTO o SPERANZA?

U
na speranza fondata, con cui vivere con più ottimismo e serenità il tempo che ci è dato
.

- di Vito Mancuso

 È possibile in questo mondo di cui avvertiamo il continuo e destabilizzante cambiamento coltivare la speranza? In particolare la speranza che qualcosa non cambi, ma rimanga stabile e divenga il punto di appoggio dell’esistenza? A questa domanda rispondo di sì, e lo faccio sulla base di due argomentazioni, la prima basata sulla logica, la seconda sull’etica.

Dal punto di vista logico l’affermazione “tutto cambia” o è falsa o è vera. Se è falsa, allora in realtà qualcosa non cambia; se è vera, allora la frase “tutto cambia” sarà sempre tale da dire la verità e quindi non cambierà. In entrambi i casi dire “tutto cambia” dimostra il non-cambiamento di qualcosa. Il che attesta la possibilità della nostra mente di raggiungere una dimensione non soggetta al cambiamento, di partecipare cioè a una dimensione più alta, priva di mutamento, tale da schiudere eterne verità. È quanto sperimentato anche da musicisti (Bach, Mozart, Beethoven) e da scienziati (Bohr, Heisenberg, Schrödinger). Da violinista dilettante qual era Einstein sintetizzò in sé le due dimensioni, e di lui si racconta che una sera del 1929 a Berlino, al termine di un concerto del grande virtuoso Yehudi Menhuin, si recò nel camerino e gli disse: “Ora io so che c’è un Dio in cielo”. Non per questo Einstein si convertì al Dio biblico, visto che rimase sempre dell’idea di Spinoza che identifica Dio e Natura (Deus sive Natura), ma è chiaro che grazie alla musica ebbe un’esperienza di trascendenza, ovvero di una dimensione dell’essere non soggetto al cambiamento …

 La seconda argomentazione a favore della speranza si basa sull’etica. Quando infatti in questo mondo, dove tutto si muove secondo necessità e tutti agiscono secondo istinto o secondo calcolo, l’essere umano si mostra ciononostante capace del bene più puro, si ha, allora, un fenomeno inatteso, inconcepibile, eppure reale, che mostra alla ragione l’esistenza di un’altra dimensione, non basata sul calcolo e sulla volontà di potenza, ma su un desiderio di armonia e di bene che apre a sua volta alla trascendenza. Fu seguendo questa via che Kant trovò il fondamento per la rifondazione della speranza: “La legge morale mi rivela una vita indipendente dalla animalità e anche da tutto il mondo sensibile”. Parlare di una vita che è indipendente dalla animalità e dal mondo sensibile significa parlare di un’altra vita, di una vita altra, del tutto diversa rispetto alla vita che conosciamo che è vita animale e sensibile: significa cioè parlare della trascendenza. Per questo Kant dichiarò nella Critica della ragion pura: “Io avrò fede nell’esistenza di Dio e in una vita futura, e ho la certezza che nulla potrà mai indebolire questa fede, perché in tal caso verrebbero scalzati quei principi morali cui non posso rinunciare senza apparire spregevole ai miei stessi occhi”. Il che significa: o il fenomeno morale è falso, oppure, se è vero, apre un’altra via. E forse, un’altra vita. E che sia falso oppure vero, dipende solo “da te”.

 I due concetti in gioco di cambiamento e di speranza sono visti solitamente in contrapposizione. Siccome tutto cambia, si dice, allora non c’è speranza che qualcosa possa permanere, e quindi quella dimensione dell’essere non soggetta al tempo che è l’eterno non esiste. Io penso però che, dal punto di vista sia logico sia etico, vi sia la possibilità di affermare che proprio perché in questo mondo tutto cambia, noi, quando diventiamo capaci di ragionamenti e di atti non soggetti al cambiamento, dimostriamo di appartenere con una parte di noi (con la mente e il cuore, ovvero l’anima) a un’altra dimensione dell’essere. Non si tratterà mai di un’attestazione incontrovertibile come il sapere assoluto cui aspirava Hegel. Ma si tratterà comunque di una speranza fondata, con cui vivere con più ottimismo e serenità il tempo che ci è dato.

 Il che peraltro non riguarda solo i credenti. Ernst Bloch, filosofo marxista dissidente e scettico quanto a fede religiosa, intitolò il suo capolavoro Il principio speranza e vi scrisse: “Chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo? Che cosa ci aspettiamo? E che cosa ci aspetta? Molti si sentono soltanto confusi. Il terreno vacilla, e non sanno perché e per che cosa. Una condizione d'angoscia, la loro, che diviene paura se assume più precisi contorni”. Continuava: “L'importante è imparare a sperare. Il lavoro della speranza non è rinunciatario perché di per sé desidera aver successo invece che fallire. Lo sperare, superiore all'aver paura, non è né passivo come questo sentimento né, anzi meno che mai, bloccato nel nulla. L'effetto dello sperare si espande, allarga gli uomini invece di restringerli”. Theodor Adorno, uno dei fondatori della scuola di Francoforte, musicologo oltre che filosofo, ribadisce così nei Minima moralia: “Alla fine la speranza, come si sottrae, negandola, alla realtà, è la sola figura in cui si manifesta la verità. Senza speranza l’idea della verità sarebbe difficilmente concepibile”. Tutto cambia, quindi c’è speranza.

 Vito Mancuso, Corriere della Sera edizione Toscana 5 settembre 2024

 

 

martedì 10 settembre 2024

COSTRUIRE PONTI TRA LE CULTURE


 Il Papa: alfabetizzare per costruire ponti tra culture diverse

 

Nel messaggio a firma del cardinale segretario di Stato Parolin per la Giornata internazionale dell’alfabetizzazione dell’Unesco - che quest’anno si tiene a Yaoundé, in Camerun, il 9 e 10 settembre - Francesco sottolinea come la lingua sia uno strumento fondamentale di comunicazione tra individui e popoli, capace di favorire il dialogo

 

-Roberta Barbi - Città del Vaticano 

 Fare il punto sui risultati raggiunti nella lotta all’analfabetismo e incoraggiare tutte le persone e le istituzioni impegnate nel prezioso servizio dell’educazione permanente: questo è uno degli obiettivi che Papa Francesco mette in evidenza nel suo messaggio a firma del cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin, per la Giornata internazionale dell’alfabetizzazione promossa dall’Unesco, che si celebra ogni anno dal 1967. Nel 2024, per la Giornata in programma il 9 e 10 settembre, è stata scelta come sede Yaoundé, la capitale del Camerun, e il tema eletto dall’organizzazione, che ha lavorato in stretta collaborazione con il governo camerunense, è “Promuovere l’educazione multilingue: l’alfabetizzazione per la comprensione reciproca e la pace”.

 Il multilinguismo per favorire dialogo, ascolto mediazione

Il Papa invita a riflettere sul contributo che l’alfabetizzazione porta in termini di avvicinamento dei popoli e di promozione della comprensione reciproca: “Un’occasione per la Santa Sede di rinnovare il suo apprezzamento per il ruolo svolto dall’Unesco nella promozione della diversità linguistica e culturale, senza dimenticare quella del multilinguismo”. Il multilinguismo, in particolare, si legge nel testo, è riconosciuto come "un fattore che favorisce lo sviluppo delle persone, in particolare nell’ambito della flessibilità mentale, apertura dell’apertura e adattamento dell’adattamento ad altre realtà culturali, ma anche per la sua capacità di favorire il dialogo, l’ascolto e la mediazione".

 Aiutare i leader a essere poliglotti  

Secondo Francesco, i poliglotti, cioè coloro che sanno comprendere e parlare più lingue, sono spesso ricercati anche perché “dimostrano spesso migliori competenze analitiche, una maggiore facilità di comunicazione e di socializzazione, oltre a migliori attitudini cognitive" e sono dunque "più disposti ad apprezzare le ricchezze delle altre culture, anche di quelle che sono molto lontane dalle loro”.  A questo proposito, il Papa cita le parole di Nelson Mandela: “Se parli a un uomo in una lingua che capisce, parli alla sua testa. Se gli parli nella sua lingua, parli al suo cuore”.

 La lingua come strumento fondamentale di comunicazione

Nell’incoraggiare i responsabili politici e tutti a valorizzare l’importanza dell’alfabetizzazione per costruire "una società più alfabetizzata, fraterna, solidale e pacifica”, il Papa ricorda come la lingua sia uno strumento fondamentale nella comunicazione tra individui e popoli: “Aiutare le persone e i futuri leader a familiarizzare con più lingue significa dare alla nostra umanità dei costruttori di ponti, capaci di superare pregiudizi, differenze, antagonismi e polarizzazioni per dare la priorità al dialogo e all’incontro; è dare al nostro mondo uomini che sappiano parlare alla mente ma anche al cuore dei loro interlocutori, siano essi partner o avversari”.

 Vatican News

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 MESSAGGIO DEL PAPA



ELOGIO DEL MINUTO

 


-         di Alessandro D’Avenia

-          

Il presente ci raggiunge solo se gli prestiamo attenzione, ma spesso siamo troppo distratti. Abbiamo persino inventato la curiosa espressione “tempo reale” per indicare ciò che ci raggiunge il più rapidamente possibile.

 Eppure, reale non è sinonimo di veloce, come crede il nostro mondo di corsa, ma ciò di cui scopriamo la pienezza, andandogli incontro anche lentamente, non a caso contento e contenuto hanno la stessa radice: non si può esser contenti senza contenuto. Solo l'attenzione permette al tempo di essere reale, un secondo diventa un secolo (anche secondo e secolo hanno la stessa radice, secare, tagliare: il tempo, a fette). Se in un bosco taglio una mattonella di terreno 30x30, spessore due centimetri, trovo in media 1400 esseri viventi. Uno spazio minimo è così pieno di contenuto (vita) da poterci rendere contenti (vivi). Lo stesso vale per un tempo minimo, ma solo se si è attenti. A questo serve la scuola che comincia: a non vivere altrove, ad allenare l'attenzione, a scavare per bene nell'istante (ciò che sta dentro) e nel circostante (ciò che sta attorno) per trovare realtà a 18 carati, e quindi esperienza autentica. “Non pensate al domani perché a ogni giorno basta il suo peso”, è una frase luminosa di Cristo: ogni giornata, se non fuggi, è sufficiente a renderti vivo e magari ricco. Istante e circostante sì incontrano nell'unità di misura della gioia: il minuto. Come?

 Minuto è sia l'unità di tempo di 60 secondi, sia un aggettivo per indicare le dimensioni, quindi lo spazio occupato da qualcosa: corpo, pioggia, caratteri, faccende possono essere “minuti”. Lo si dice di una persona attenta ai dettagli: minuta o minuziosa. La minuta era, per i nonni, la versione base di un testo. Scaviamo con l'attenzione, la vanga dell'anima, “nel minuto”: che cosa trovo qui (circostante) e ora (istante)? Comincio io, con studio, che significava in latino desiderio, perché non si può conoscere se non ciò che si ama. C'è una piccola conchiglia dalle striature bianche e marroni. Viene dalla spiaggia che frequentavo da bambino, ricca di conchiglie a me ormai così familiari che avrei dovuto farci l'abitudine, e invece no. L'ho raccolta quest’estate: mi stupiscono sempre le regolari coste a sbalzo e i disegni a fascia in tutte le sfumature dal marrone al bianco. Mostrano, sin dalla base della catena dei viventi, una regola geometrica della vita che già basta a stupirmi: la simmetria bilaterale. Quella conchiglia è la metà di un’altra uguale. La stessa simmetria del corpo umano, del volto, del cuore. Voglio scavare oltre. Scopro che si chiama acanthocardia tubercolata, nome dato nel 1758 alla bivalve che può avere varie dimensioni ma sempre 18-20 coste radiali. Il nome latino contiene la parola cuore, si chiamano infatti anche cuori di mare, molto comuni nelle spiagge del Mediterraneo e dell'Atlantico nord-occidentale, e con una funzione fondamentale per il fitoplancton delle coste. Appartengono alla famiglia infinita di molluschi bivalvi detti cardiidae: cuori. Sulla mia scrivania c'è quindi un mezzo cuore, metà di una casa costruita con maestria e gusto da un essere i cui fossili datano a 30 milioni di anni di fa, nel periodo geologico chiamato Oligocene, quando si formarono le Alpi e l'Himalaya e si ghiacciò la calotta antartica, tanto che il mare raggiunse il livello più basso nella storia terrestre, facendo emergere passaggi che permisero la migrazione di piante e animali che si ritrovano infatti in continenti diversi. Al confronto della storia di questa conchiglia, la mia, quella dei sapiens, è iniziata un minuto fa. La solita conchiglia da passeggiata racconta una storia millenaria di cui ho solo scalfito la superficie, ma che basta a risvegliare vocazioni, dal geologo al malacologo, ispirazioni, dall'artista allo stilista, meraviglia, all'ignorante attento, cioè lo studente.

 Poco sopra c'è lo schermo del computer aperto sulle notizie: domina quella di un diciassettenne che ha ucciso padre, madre e fratello con 68 coltellate. La descrizione mi lascia sgomento ma mi commuovono le parole dei nonni che dichiarano che non lo abbandoneranno mai. In questo frammento ci sono tutte le ombre e le luci del cuore umano, sangue e cura, male e bene. Non aggiungo l'ennesima analisi del dramma, mi ricordo solo che fare l'insegnante è ascoltare i vuoti e i silenzi dei ragazzi, non solo le loro interrogazioni. Poi in questo “minuto”, a destra, c'è la colonna pericolante dei libri in attesa, dove poc'anzi ne ho poggiato uno giunto in regalo, un “presente” inatteso. Autore, Giulio Busi, titolo, “Giovanni: il discepolo che Gesù amava”. Una storia dell'evangelista che preferisco, rileggo e approfondisco. Il libro vuole smentire la tesi che quello di Giovanni sia il meno affidabile dei vangeli dal punto di vista storico. Infatti, il testo mostra che Giovanni conosce benissimo la vita del tempo e in particolare di Gerusalemme nel primo secolo: strade, usanze, sogni, intrighi...

Unico apostolo non ucciso dai persecutori del cristianesimo, si trasferirà a Efeso dove racconterà a tanti dell'uomo che gli ha cambiato la vita. Dai suoi ricordi nasce il testo più studiato e commentato al mondo. Io uno che dice di aver toccato Dio sulla Terra lo sento amico, perché ne ho bisogno. Sollevo lo sguardo dalla copertina e in questo “minuto” c'è anche un acquarello che mi ha regalato anni fa un ragazzo in una scuola. Su uno sfondo scuro una sagoma bianca, in bicicletta, solca una strada, il colore dell'asfalto è quello di un cielo notturno, il cielo sembra in terra, la terra in cielo. Sul petto della figura bianca è accesa una macchia rossa all'altezza del cuore. Geniale nella composizione e bello per dinamismo e colori, tengo l'acquarello sulla scrivania.

 Quel ragazzo, talento che ho saputo poi esser fiorito, aveva colto l'essenza del mio viaggio artistico ed esistenziale: un esploratore lento, cuore acceso (studio è desiderio), a caccia del cielo in terra. Tutte le volte che lo guardo mi ricordo che ci sto a fare qui. Il “minuto” finisce solo perché questo “pezzo” finisce, ci sarebbero infiniti finiti da scavare ma mi resta solo il tempo di leggere la massima scritta sul foglietto di un calendario da tavolo, quella di domenica 8 settembre dice: “Concentra l'attenzione su una cosa alla volta”. È vero: quanta grazia ricevuta solo per aver scavato in uno dei 1440 minuti di oggi. Che gioia poterlo fare ancora, e ancora, fino alla fine dei miei minuti. In fondo abbiamo sempre e solo il minuto per vivere, perché il passato è un “minuto” degno d'esser ricordato e il futuro un “minuto” degno d'esser desiderato. Studiare il minuto è il segreto della scuola imminente e permanente della vita senza la quale tutto si disperde nel vuoto, cioè nel non-contenuto, e quindi nello s-contento.

 Buona scuola a tutti.

Alzogliocchiversoilcielo

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