sabato 5 luglio 2025

ANDATE E PREDICATE


 6 luglio 2025

XIV domenica nell’anno

Luca 10,1-12.17-20 (Is 66,10-14c)



di Luciano Manicardi

In quel tempo 1il Signore designò altri settantadue e li inviò a due a due davanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi. 2Diceva loro: «La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe! 3Andate: ecco, vi mando come agnelli in mezzo a lupi; 4non portate borsa, né sacca, né sandali e non fermatevi a salutare nessuno lungo la strada. 5In qualunque casa entriate, prima dite: «Pace a questa casa!». 6Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi. 7Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché chi lavora ha diritto alla sua ricompensa. Non passate da una casa all'altra. 8Quando entrerete in una città e vi accoglieranno, mangiate quello che vi sarà offerto, 9guarite i malati che vi si trovano, e dite loro: «È vicino a voi il regno di Dio». 10Ma quando entrerete in una città e non vi accoglieranno, uscite sulle sue piazze e dite: 11«Anche la polvere della vostra città, che si è attaccata ai nostri piedi, noi la scuotiamo contro di voi; sappiate però che il regno di Dio è vicino». 12Io vi dico che, in quel giorno, Sòdoma sarà trattata meno duramente di quella città. 17I settantadue tornarono pieni di gioia, dicendo: «Signore, anche i demòni si sottomettono a noi nel tuo nome». 18Egli disse loro: «Vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore. 19Ecco, io vi ho dato il potere di camminare sopra serpenti e scorpioni e sopra tutta la potenza del nemico: nulla potrà danneggiarvi. 20Non rallegratevi però perché i demòni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli».


Nella prima lettura (Is 66,10-14c) l’annuncio che Dio, tramite il profeta, fa giungere al popolo ritornato dall’esilio babilonese è annuncio di pace (shalom: Is 66,12), di salvezza e di giustizia che trova la sua manifestazione in una Sion immaginata come madre: Gerusalemme diviene luogo di consolazione. Nel vangelo (Lc 10,1-12.17-20) l’annuncio che Gesù, tramite i settantadue (o settanta) discepoli, fa giungere alle città e villaggi nelle quali si sarebbe recato nel suo cammino verso Gerusalemme, è annuncio di pace, è proclamazione che il Regno di Dio si è fatto vicino. Pace e Regno di Dio sono manifesti in Gesù stesso.

La missione

Il testo evangelico odierno presenta le disposizioni che Gesù dà ai discepoli inviandoli in missione (Lc 10,1-12) e le parole che rivolge loro una volta ritornati dalla missione stessa (Lc 10,17-20). Nella narrazione lucana, il discorso di invio in missione fa seguito ai versetti in cui Gesù espone le esigenze radicali della sequela (Lc 9,57-62). Per l’evangelista, la missione non può che avvenire all’interno della medesima radicalità. La missione sta all’interno della sequela. Ovvero: l’obbedienza al mandato missionario che comporta scomodità e rischi (“vi mando come pecore in mezzo a lupi”: Lc 10,3); l’andare verso altri per evangelizzare annunciando che “il Regno di Dio è vicino” (Lc 10,11); il compiere il bene verso persone fino ad allora mai incontrate (“curate [therapeúete] i malati che incontrate” nelle città in cui vi recate: Lc 10,9), tutto questo non costituisce un titolo di merito, ma è una forma di sequela del Signore ed è interamente sottomessa alle sue esigenze. Per questo le direttive che Gesù impartisce sono così rigorose: “non portate borsa, né bisaccia, né sandali e non fermatevi a salutare nessuno lungo la strada” (Lc 10,4; in Lc 9,3, al momento dell’invio dei Dodici, troviamo indicazioni di tono analogo: “Non prendete nulla per il viaggio, né bastone, né sacca, né pane, né denaro, e non portatevi due tuniche”: Lc 9,3). Gli inviati devono narrare il vangelo con la coerenza della loro vita: come si potrebbe annunciare l’evangelo che ha i poveri come primi destinatari (Lc 4,18; 7,22) con mezzi potenti e sfoggio di ricchezza? Nelle parole di Gesù, in realtà, la ricchezza è semplicemente portare con sé l’essenziale, il necessario, l’indispensabile, ciò che buon senso e prudenza consiglierebbero non solo in vista di una missione più efficace, ma anche per proteggere e dare sicurezza all’inviato. Il non portare borsa (ballántion) proibisce di portare denaro con sé, ma anche di ricevere denaro. 

La sicurezza

L’uomo si attacca facilmente a ciò che dà sicurezza e che può scongiurare le incertezze del domani, e il denaro arriva facilmente a impossessarsi del cuore umano. Non a caso altrove Luca scrive: “Vendete ciò che avete, datelo in elemosina, fatevi borse (ballántia) che non invecchiano, un tesoro inesauribile nei cieli dove i ladri non arrivano e la ti­gnola non consuma; perché dove è il vostro tesoro là è anche il vostro cuore” (Lc 12,33). La bisaccia è una borsa più grande che contiene viveri, vet­tovagliamenti. Pane, formaggio, spighe tostate, fichi: questi erano generalmente i cibi messi nelle bisacce (cf. Gdt 10,5). Si tratta di viveri essenziali, non superflui. Proibendo di portare la bisaccia Gesù chiede un atto di affidamento radicale a lui, ma indica anche agli inviati di contare sull’ospitalità e sulla cura che sarà riservata loro da coloro che li accoglieranno nelle loro case. È con tutta la sua persona che l’inviato deve narrare la fiducia nel Signore: altrimenti il suo predicare e suscitare fede e abbandono nel Signore viene contraddetto dal suo stesso stile di vita. Insomma, l’espressione lapidaria di Lc 9,3 riassume adeguatamente il “come” della missione: “Non portate niente per il viaggio”. L’inviato dev’essere ricco di questo niente perché solo così le sue parole evangelizzatrici saranno incarnate in un corpo, visibilizzate in un’esistenza e l’intera sua persona sarà annuncio evangelico. Tuttavia la redazione lucana delle direttive gesuane sulla missione, estremamente radicali anche negli altri sinottici (Mc 6,7-13; Mt 10,5-16), manifesta un’altra preoccupazione: la credibilità degli inviati. Questa preoccupazione emerge dalla considerazione di alcuni tratti del discorso di Gesù presenti solamente nel terzo vangelo: “rimanete in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno” (Lc 10,7); “non passate da una casa all’altra” (Lc 10,7); “in qualunque città entriate e vi accolgano, mangiate quello che vi sarà posto dinanzi” (Lc 10,8). Stabilire una comunione di tavola con chi dà ospitalità è fondamentale. Dunque non si devono nutrire preoccupazioni di purità alimentare: “Se un non credente vi invita e volete andare, mangiate tutto quello che vi viene posto davanti, senza fare questioni per motivo di coscienza” (1Cor 10,27). Ma Luca ha certamente in mente casi di missionari che hanno sovrapposto pretese e capricci alla sobrietà e al rigore della loro missione arrivando a depotenziare la missione stessa con la loro ricerca di case più confortevoli e cibi migliori. Si tratta di comportamenti meschini che scivolano nell’abuso: la missione diventa il pretesto per la soddisfazione delle proprie voglie, per una ricerca di comodità, per vivere alle spalle di altri. Il problema era noto alla chiesa primitiva: ne troviamo tracce anche nella Didaché, un testo del I sec. d. C.: “Ogni inviato che giunge da voi, accoglietelo come il Signore. Egli non rimarrà che un giorno solo; se vi fosse bisogno anche di un altro. Se rimane per tre giorni è un falso profeta. Con­gedandosi l’inviato non prenderà nulla... Se chiede denaro è un falso profeta” (XI,4-6); “se qualcuno dicesse per ispirazione: dammi del denaro o qualche altra cosa, non gli darete ascolto” (XI,12). 

La Didaché

La Didaché mette in guardia da chi “fa commercio di Cristo” (XII,5) mentre si presenta come annunciatore del vangelo. E conclude: “Guardatevi da gente simile” (XII,5). Questa dimensione di incoerenza e di abuso, pur mutando nei tempi e nei luoghi, per portata e dimensione, è una tentazione perenne della chiesa. Per Ilario di Poitiers, la radicalità delle direttive di Gesù mira a che “non ci sia niente di veniale nel nostro servizio e ad evitare che il premio del nostro apostolato diventi il possesso dell’oro o dell’argento”. Qualche Padre (p. es., Giovanni Crisostomo) ritiene che le misure drastiche indicate da Gesù vogliano rendere gli inviati al di sopra di ogni sospetto, ed evitare che essi predichino per ottenere guadagni, sovrapponendo interessi personali al mandato apostolico. Potremmo dire che sono misure che tendono alla trasparenza degli inviati. Paolo stesso, tracciando un bilancio della sua vicenda apostolica davanti agli anziani di Mileto, afferma: “Non ho desiderato né argento, né oro, né la veste di nessuno” (At 20,33). Al tempo stesso, la radicalità delle indicazioni di Gesù fa affidamento sull’ospitalità che gli inviati potranno trovare in chi li accoglierà fornendo loro alloggio e vitto. Così, le dure esigenze poste agli inviati vanno di pari passo con la sollecitazione della responsabilità di ospitalità e di accoglienza dei credenti. Infatti, “chi lavora ha diritto alla sua ricompensa” (Lc 10,7; 1Tm 5,18).

Gesù avverte i discepoli che la loro missione può fallire e loro stessi possono conoscere il rifiuto. Tuttavia, essi non potranno venir meno al loro compito di annunciare i tempi escatologici e anche alle città che avranno negato l’accoglienza, gli inviati dovranno proclamare che “il Regno di Dio è vicino” (Lc 10,11). La missione ha una dimensione escatologica costitutiva: la missione è il Dio che viene. E l’inviato questo deve annunciare e a questo deve preparare. Inviando i settantadue “davanti a sé” (Lc 10,1), Gesù indica che i missionari devono preparare la strada al Veniente dando segni della vicinanza del Regno in Cristo Gesù. In effetti, quando i discepoli ritornano dalla missione, esultano di gioia narrando come anche le potenze demoniache si sono sottomesse a loro. Il Regno di Dio è annunciato con potenza quando fa arretrare il regno di Satana. Infatti, a tutti coloro che Gesù ha inviato egli ha concesso “forza e potere su tutti i demoni” (Lc 9,1). 

La sconfitta di Satana

E Gesù conferma la sconfitta di Satana grazie alla predicazione del Regno con l’immagine di Satana che precipita dal cielo. Tuttavia, la replica di Gesù all’entusiasmo dei discepoli è una correzione della loro gioia: “Non rallegratevi perché i demoni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto perché i vostri cuori sono scritti nei cieli” (Lc 10,20). Quando c’è la povertà radicale, lo spossesso di sé, l’abbandono pieno e fiducioso al Signore richiesto da Gesù nelle direttive del discorso missionario, allora, una volta adempiuta felicemente la missione, la gioia dev’essere posta non nelle azioni compiute, nell’opera svolta, fosse pure l’opera di evangelizzazione, di cura e guarigione, ma nella gratuità della salvezza di cui si è destinatari. Rifacendosi all’immagine del libro celeste su cui sono scritti i nomi di coloro che sono graditi a Dio, Gesù invita a gioire sì, ma dell’essere amati da Dio e partecipi della vita che viene da lui.

Monastero di Bose

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L'INGANNO DELLA POTENZA


 Ragione strumentale 

e spiritualità

 

di MAURO MAGATTI

 Di fronte alla diffusione della guerra come metodo per risolvere le controversie politiche, al riscaldamento globale che minaccia le condizioni stesse della vita sul pianeta, alle ingiustizie clamorose che scavano abissi tra privilegiati ed esclusi, all’odio verso lo straniero e il diverso che fa crescere razzismo e xenofobia, la tentazione della rassegnazione è forte.

Disorientati e stanchi, siamo spinti ad abbassare lo sguardo, pensando che tutto questo sia ormai inevitabile, quasi scritto in un destino ineluttabile della storia.

Si tratta di un inganno: perché accettare passivamente la violenza, l’ingiustizia e la distruzione significa rinunciare a ciò che ci rende umani, ossia la capacità di reagire, di immaginare alternative, di costruire un mondo diverso.

Eppure, la domanda resta: come è possibile che società così avanzate – dotate di conoscenze scientifiche straordinarie, di capacità tecnologiche mai viste prima, di risorse economiche enormi, di un patrimonio culturale immenso – rivelino tratti tanto arcaici?

Com’è possibile che, mentre inviamo sonde su Marte e decifriamo il genoma umano, la guerra di trincea torni a insanguinare l’Europa, le carestie continuino a devastare interi continenti, le persone muoiano di fame e sete alle porte di città opulente, e si erigano muri contro chi scappa da guerre e disastri?

Questa contraddizione - tra il livello raggiunto dalle nostre società e la brutalità di tante nostre azioni - è uno degli scandali più grandi del nostro tempo. E ci dice qualcosa di importante: che la civiltà non è solo una questione di tecniche e ricchezze. La civiltà è una questione di visione, valori, relazioni. Si può possedere la tecnica più sofisticata e usarla per distruggere; si può accumulare ricchezza senza alcun rispetto per chi resta indietro; si può avere accesso a infinite informazioni senza diventare più saggi. Non basta, dunque, la crescita economica a salvare il mondo, né basta la tecnologia. E se la storia recente ci ha insegnato qualcosa, è proprio questo: che le meraviglie della scienza e dell’economia possono convivere con l’abisso morale, possono addirittura alimentarlo, quando non sono guidate da un’idea più alta di umanità.

Di fronte a questa amara consapevolezza, non ne deriva necessariamente rassegnazione. Al contrario, è possibile leggere in mezzo ai tanti disastri un messaggio di speranza. Proprio questo tempo, segnato da ferite profonde, ci sollecita a un cambiamento più radicale: il superamento di visioni dualiste che separano la ragione strumentale dalla saggezza spirituale. Per troppo tempo abbiamo coltivato l’illusione che bastasse “sapere come fare” - come produrre, come dominare la natura, come vincere la concorrenza - dimenticando di chiederci “perché farlo” e “a che scopo”. La ragione strumentale, che è il cuore della modernità, ci ha permesso di conquistare il mondo esterno, ma ci rende ciechi al mondo interno, al senso delle cose, alla qualità delle relazioni, alla responsabilità verso il futuro. Proprio la separazione tra sapere tecnico e saggezza morale è alla radice delle nostre contraddizioni. È ciò che ci ha permesso di sviluppare tecnologie capaci di migliorare la vita di molti, ma anche di distruggere ecosistemi e società. Di alimentare un’economia che crea ricchezza per pochi abbandonando masse di persone nella miseria. Di trattare la terra come una macchina da sfruttare anziché come una casa comune da custodire.

Superare questa frattura significa riscoprire la nostra umanità più profonda, quella che non si accontenta di calcoli utilitaristici ma sa riconoscere a far vivere valori e significati. Significa rimettere insieme la ragione che efficientata e la saggezza che orienta, la capacità di innovare e la capacità di prendersi cura. Significa, in definitiva, ricomporre ciò che abbiamo spezzato: l’unità tra il pensare e il sentire, tra l’individuo e la comunità, tra l’essere umano e la terra.

Questa la via che siamo chiamati a percorrere, ancora di più al tempo dell’Intelligenza Artificiale. In un mondo in cui le vecchie ricette non funzionano più, in cui la sola crescita economica non porta giustizia e la sola innovazione tecnologica non porta pace, ciò che più va coltivato è una cultura della responsabilità, della cura, della solidarietà. 

Ci sono dunque buone ragioni per non rassegnarci. È infatti nell’alleanza tra la lucidità della ragione e la profondità della saggezza spirituale che è possibile spezzare le catene della violenza, ridare equilibrio al pianeta, sanare le ingiustizie e accogliere l’altro come parte di noi. Non è un sogno ingenuo: è la sfida più concreta e necessaria che il nostro tempo ci affida. Sta a noi raccoglierla.

 www.avvenire.it

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venerdì 4 luglio 2025

GAZA E LAMECH

 


La tregua di Gaza

 alla prova 

della legge di Lamech




L’accettazione della legge di Lamech ha annullato, 

in diciotto mesi, 

quel diritto internazionale che il mondo democratico 

aveva faticosamente messo al centro della politica mondiale. 

-         di  Giuseppe Savagnone 

Un cattivo precedente

Il presidente americano Trump ha annunciato che Israele ha accettato le condizioni per una tregua di 60 giorni a Gaza, dichiarando di sperare che Hamas accetti la nuova proposta per il cessate il fuoco.

Da parte sua Hamas, per bocca di un suo funzionario, ha dichiarato che il gruppo è «pronto e seriamente intenzionato a raggiungere un accordo (…) che porti chiaramente alla fine completa della guerra». Secondo un’agenzia di stampa saudita, l’organizzazione islamica sarebbe «soddisfatta» delle garanzie incluse nella proposta di tregua che ha ricevuto.

Si profila dunque la possibilità di un arresto delle ostilità che conduca, finalmente, ad una pace? Sia permesso, a chi segue questa guerra dall’inizio, avanzare qualche dubbio.

Intanto, quella che si profila è la seconda tregua di cui Trump si fa promotore. Ce n’è stata un’altra, iniziata il 19 gennaio, scorso e che il governo di Tel Aviv ha rotto unilateralmente, dopo due mesi,  rifiutandosi di passare alla seconda fase, che prevedeva il ritiro delle truppe israeliane dalla Striscia, in vista  di un definitivo accordo di pace.

Bruscamente, il graduale processo di reciproci scambi di ostaggi e di prigionieri fu sostituito da un ultimatum israeliano che chiedeva la liberazione immediata di tutti gli ostaggi senza condizioni.

Secondo gli osservatori probabilmente ha influito su questo voltafaccia lo scontento dei ministri ultraortodossi, esasperati anche per la spettacolarizzazione da parte di Hamas del rilascio degli ostaggi. Qualcuno ha anche fatto notare che, proprio in quei giorni, il premier Netanyahu avrebbe dovuto comparire in aula per il processo che lo vede imputato per corruzione, ma ne è stato esonerato dal tribunale «a causa della ripresa della guerra».

Quale che sia stato il motivo della rottura, Trump, contro ogni evidenza, ne ha addossato la colpa ad Hamas, dicendo che  aveva «scelto la guerra». E subito dopo, ricevendo Netanyahu a Washington, ha rilanciato il suo progetto di fare della Striscia un resort turistico gestito dall’America, lasciando ad Israele il compito di cacciare gli attuali abitanti: «Gaza ha un incredibile valore immobiliare», ha detto.

«Una forza di pace guidata dagli Stati Uniti sarebbe una buona soluzione». Netanyahu ha appoggiato l’idea, sottolineando la volontà di «dare una scelta ai palestinesi», lasciandoli liberi di andarsene “volontariamente”. Dopo di che, gli attacchi israeliani sono ripresi con violenza ancora maggiore, dando luogo alle stragi quotidiane di cui i telegiornali ci trasmettono le immagini. Non è un buon precedente.

«Distruggere Hamas»

Ma c’è anche un motivo più profondo di perplessità sulla riuscita di questa tregua. Fin dall’inizio il conflitto in corso è stato percepito da Israele come uno scontro all’ultimo sangue, che non poteva concludersi finché gli aggressori del 7 ottobre non fossero stati annientati.  In tutti questi mesi il premier israeliano ha continuato a ripetere che la guerra finirà solo con «la distruzione totale di Hamas». Lo aveva detto già all’indomani del 7 ottobre, additando questo come il primo dei due obiettivi a cui Israele non poteva rinunziare.

Il secondo era la liberazione degli ostaggi. Ma anche questo dipendeva dalla «vittoria totale di Israele» contro i terroristi: «Siamo quasi vicini alla vittoria. Se ci arrendiamo ad Hamas non solo non arriveremo al rilascio degli ostaggi, ma ad un secondo massacro (…). Solo la pressione militare agisce per la liberazione degli ostaggi».

Questa logica non è mai stata rimessa in discussione neppure quando Israele ha accettato la prima tregua. E, proprio subito dopo l’annunzio di Trump riguardante la seconda, Netanyahu ha ribadito il suo mantra: la guerra finità solo con l’annientamento di Hamas e la liberazione degli ostaggi da parte dell’Idf.

È evidente che quello che lo Stato ebraico sta accettando è dunque, ancora una volta, solo un cessate il fuoco tattico, finalizzato ad un ulteriore scambio di ostaggi con prigionieri delle carceri israeliane e soprattutto a compiacere le ambizioni di grande pacificatore dell’alleato Trump. Dopo di che, missili e bombe a volontà. Come la prima volta.

Una metamorfosi terrificante

Quello che forse però è il motivo più forte per dubitare che la tregua, ammesso che si avvii, possa portare veramente alla pace, è la drammatica metamorfosi dell’immagine dello Stato ebraico nel corso di questa guerra. Una metamorfosi per cui la vittima dell’atroce violenza del 7 ottobre – che a tutti ha ricordato quella ancora più spaventosa della Shoah – si è trasformata in un perfetto corrispettivo, opposto e simmetrico, dei suoi immediati aggressori e, più indietro nel tempo, dei suoi aguzzini nazisti.

La stessa lucida spietatezza. Lo stesso assoluto disprezzo per le persone. La stessa arrogante pretesa di avere il diritto di violare ogni regola etica e giuridica in nome dell’affermazione non solo della sicurezza, ma – come sempre più chiaramente i fatti stanno dimostrando – della espansione del proprio popolo.

Per sempre nel Giorno della Memoria, dedicata dal mondo intero al dramma della Shoah, fra noi e quella tragedia si frapporranno le immagini spaventose del nuovo Olocausto, di cui gli ebrei israeliani sono stati non le vittime, ma gli autori.

Qualche osservatore ha posto il quesito: che cosa avrebbe dovuto fare Israele dopo il 7 ottobre? Per prima cosa avrebbe dovuto prendere atto della sua parte di responsabilità – si pensi alla Nakba – in quello che era accaduto, invece di respingere con esasperata indignazione l’invito che veniva in questo senso dal Segretario generale dell’ONU. E, su questa base, avrebbe potuto chiedersi se fosse saggio perseverare sul rifiuto – sostenuto fermamente da Netanyahu – della prospettiva dei due Stati e, in questa logica, se non si poteva puntare sulla inimicizia tra l’Autorità Nazionale Palestinese e Hamas per rafforzare la prima, disposta ormai da tempo al riconoscimento di Israele, ed isolare il secondo.

Invece il governo di Tel Aviv ha voluto mostrare i muscoli e dimostrare che con la sua innegabile superiorità militare poteva schiacciare chi lo aveva aggredito. Così è scattata quella che più che una operazione volta a prevenire, in una logica difensiva, altri attacchi, ha assunto subito lo stile di una vendetta piena di odio. E non nella forma dell’“occhio per occhio, dente per dente”, ma in quella, più arcaica, più selvaggia, di cui parla la Bibbia, mettendo in bocca a Lamech, discendente di Caino (non a caso!), parole piene di orgogliosa tracotanza: «Ho ucciso un uomo per una mia scalfittura e un ragazzo per un mio livido. Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamech settantasette» (Genesi, 4, 23-24).

La legge del taglione, pur nella sua brutalità, si è affermata nelle antiche legislazioni proprio per limitare questa smisuratezza incontrollabile, consentendo all’offeso di replicare solo nei limiti del danno ricevuto.  La risposta di Israele, più che questa logica, ricorda quella di Lamech.

Tanto più sproporzionata, se si pensa che, secondo lo stesso governo israeliano, il responsabile da punire è Hamas e non la popolazione palestinese, la quale ne sarebbe – secondo le autorità ebraiche – solo ostaggio.

Il suicidio di Israele (e dell’Occidente)

È tragico che tutto ciò sia avvenuto – a differenza che nel caso  del nazismo e del terrorismo di Hamas – con il pieno appoggio dell’Occidente, che ha giustificato a lungo questo comportamento in nome dell’aggressione del 7 ottobre.  Come ribadì allora il nostro vice-premier e ministro degli Esteri Antonio Tajani: «Il gruppo terroristico è responsabile di tutto ciò che accade in Medio Oriente». Su questa linea anche la grande stampa che, in Italia (esemplari gli editoriali di Paolo Mieli sul «Corriere della sera» del 24 ottobre e di Ezio Mauro su «Repubblica» del 30 ottobre), accusò i manifestanti che avevano protestato per il massacro dei palestinesi di dimenticare l’episodio decisivo che aveva  determinato l’inizio della guerra. 

E anche adesso che cominciano ad arrivare i riconoscimenti  che la reazione di Israele  è sproporzionata e ha dato luogo a una situazione inaccettabile, le democrazie occidentali continuano non solo a evitare ogni sanzione nei confronti dello Stato ebraico (proprio l’Italia in questi giorni si è opposta a quella che era stata proposta da 17 Stati dell’UE), ma anche a fornirgli le armi con cui sta proseguendo il macello quotidiano di civili.

Anche se ormai è chiaro, da settimane, quello che ha scritto onestamente, già il 19 aprile, il quotidiano di Gerusalemme «Haaretz»:  «Non è più una guerra, ma un assalto sfrenato ai civili. In assenza di veri obiettivi militari, Israele sta conducendo un’offensiva sconsiderata contro coloro che non sono in alcun modo coinvolti nella lotta (…). Ciò che accade non è guerra, ma attacco sfrenato contro persone che non sono coinvolte in questa guerra».

L’operazione «Carri di Gedeone», voluta dagli ultraortodossi, serve solo a eliminare più palestinesi possibile, sfruttando cinicamente la loro disperata ricerca di cibo.

La verità è che lo Stato ebraico ha stupito il mondo con le sue fulminee vittorie  – contro Hezbollah, contro l’Iran, contro gli stessi vertici di Hamas – , ma si trova dopo diciotto mesi a non aver raggiunto nessuno dei due obiettivi che si proponeva, la liberazione degli ostaggi e, soprattutto, l’annientamento di Hamas. 

Per la prima volta nella sua storia, dopo aver stravinto le battaglie, sta perdendo la guerra. E accettare la pace ora significherebbe riconoscerlo. Ma proprio per questo non riesce a fermarsi sulla via di violenza insensata che una storica ebrea, in un suo libro recente, ha definito «il suicidio d’Israele».

E che è purtroppo anche il suicidio delle nostre democrazie, complici, con la loro inerzia, anzi col loro attivo appoggio militare e politico ad Israele, della violazione continua e deliberata della dignità umana di due milioni di persone.

L’accettazione della legge di Lamech ha annullato, in diciotto mesi, quel diritto internazionale che il mondo democratico aveva faticosamente messo al centro della politica mondiale. In nome di che cosa adesso l’Europa protesta per i soprusi russi nei confronti dell’Ucraina? E in nome di che cosa verrà garantita ogni possibile tregua a Gaza? Chi fermerà Lamech?

Rimane aperta la grande via della retorica e della menzogna. Trump testimonia che si può dire tutto il contrario della realtà senza essere smentiti. E così ben venga anche la soddisfazione del nostro governo per il proprio sostegno alla causa palestinese, dopo essersi rifiutato di appoggiare ben quattro mozioni presentate all’ONU in difesa del popolo di Gaza (non di Hamas!) ed essersi opposto alle sanzioni nei confronti di Israele. Seguendo questo stile, si potrà presto esultare per la pace in Palestina.

 www.tuttavia.eu

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giovedì 3 luglio 2025

SMARTPHONE A SCUOLA

 


Ambiente tossico o contenitore di relazioni? Perché lo smartphone a scuola non va proibito

Si può scegliere la via del divieto, che semplifica ma non educa. 

Oppure si può accettare la sfida, più complessa ma più necessaria: educare al digitale stando dentro il digitale. 

Non lasciando il campo ai social e agli algoritmi, 

ma riappropriandosi della tecnologia come spazio pedagogico

di Gianmarco Proietti

Negli ultimi mesi il dibattito sull’uso dello smartphone a scuola si è acceso, spesso polarizzandosi. Da una parte ci sono i sostenitori del divieto assoluto: lo smartphone distrae, crea dipendenza, rovina la concentrazione, meglio rimuoverlo del tutto dall’ambiente scolastico. Secondo questa visione, tutto ciò che serve per apprendere con strumenti digitali può già essere fatto con un tablet, che ha meno accessi esterni, meno notifiche, meno interruzioni. Il punto, dicono, non è come si usa lo smartphone: è che, per sua natura, lo smartphone non è uno strumento neutro, ma un ambiente che entra in competizione con tutto il resto — lezioni comprese

È una porta costantemente aperta sulla distrazione e sull’iperstimolazione. Dopo più di dieci anni di diffusione capillare, sostengono, non è mai stato possibile scrivere una guida credibile che ne disciplini l’uso consapevole in classe. E non è un caso, secondo loro, che Paesi altamente digitalizzati come Svezia, Norvegia e Finlandia stiano facendo un passo indietro, promuovendo scuole “smartphone free”: chi ha raccolto dati clinici e osservato da vicino il progressivo peggioramento degli indicatori di salute mentale nei giovani — ansia, depressione, disturbi del sonno, deficit dell’attenzione — ritiene che il problema non sia semplicemente educativo. È strutturale, sistemico, e la soluzione non può che essere netta: togliere lo smartphone dalla scuola per proteggere chi cresce.

Tuttavia, questa posizione – pur comprensibile e animata da motivazioni importanti – rischia di produrre una risposta semplificata a una questione molto più complessa. Innanzitutto, va detto che i modelli nordici citati come esempi virtuosi adottano il divieto dello smartphone all’interno di un ecosistema scolastico molto diverso dal nostro. In Svezia e Finlandia, infatti, tutti gli studenti e le studentesse sono dotati di tablet personali forniti dalla scuola, connessi a una rete wi-fi stabile e sotto la supervisione attiva dei docenti, anche attraverso strumenti di gestione tecnici (Mdm, mobile device management, per iOS o Android). Non si tratta, dunque, di una semplice rimozione del digitale personale, ma di un’infrastruttura pubblica che permette un uso educativo e controllato delle tecnologie. Un modello del genere potrebbe funzionare anche in Italia, ma solo se si garantisse a tutti l’accesso a dispositivi adeguati, connettività stabile e formazione specifica per i docenti. In mancanza di questi elementi, il rischio è che il divieto si traduca in una regressione o, peggio, in una nuova forma di disuguaglianza.

Inoltre, la tesi secondo cui basterebbe sostituire lo smartphone con un tablet per risolvere il problema riduce tutta la questione a un piano tecnico, ignorando la dimensione culturale, relazionale e sociale del digitale. E finisce per non vedere proprio la realtà quotidiana degli studenti.

Molti di coloro che chiedono il divieto totale dello smartphone si rifanno alle tesi del saggio di Jonathan Haidt, The Anxious Generation, in cui si sostiene che l’uso precoce e intensivo dello smartphone e dei social network sia responsabile dell’impennata di ansia e depressione tra gli adolescenti, in particolare nelle ragazze. Secondo questa impostazione, lo smartphone non è uno “strumento” ma è un ambiente e fondamentalmente un ambiente tossico: la sua esclusione dalla scuola diventa un’azione di tutela della salute mentale. Tuttavia, queste posizioni sono tutt’altro che unanimemente condivise nella comunità scientifica e pedagogica.

Voci autorevoli come quelle di Matteo Lancini e Pier Cesare Rivoltella, ad esempio, invitano a una lettura più complessa. Lancini sottolinea come l’adolescenza contemporanea sia profondamente cambiata e come lo smartphone sia un contenitore delle emozioni e delle relazioni. Non è il dispositivo in sé a generare disagio, ma il vuoto educativo e relazionale in cui viene immerso. Rivoltella invita a non confondere la necessità di educare con la tentazione di censurare: il problema non è il digitale, ma una scuola che resta analogica e trasmissiva, incapace di accogliere le sfide dell’era digitale. 

Comunque è vero che lo smartphone non sia semplicemente un dispositivo. È l’ambiente che gli adolescenti abitano ogni giorno, il filtro con cui leggono il mondo, il canale con cui si informano, comunicano, si orientano. Vera Gheno, nella puntata 111 del podcast Amare parole de Il Post, spiega con grande lucidità che lo smartphone per questa generazione è ciò che il Pc è stato per i cinquantenni di oggi: un punto di riferimento cognitivo, un luogo del pensiero e della relazione. Chiedere agli studenti e alle studentesse di sostituire lo smartphone con un tablet non è come chiedere loro di scrivere con una penna rossa invece che con la penna blu. E oltre a essere culturalmente discutibile, è anche socialmente iniquo. In Italia, gli adolescenti hanno uno smartphone ma non hanno un tablet personale. Secondo un’indagine RaiNews del 2023, il 90% degli studenti e delle studentesse sopra i 16 anni possiede un device personale, ma soltanto 1 studente su 4 ha con sé un tablet.  Immaginare che si possa semplicemente “switchare” tra device significa introdurre una disuguaglianza silenziosa, creando una scuola digitale per pochi, per chi può permettersi di più. Il divieto, in questo contesto, diventa una forma di esclusione, non di protezione.

Ma c’è di più. Se davvero lo smartphone fosse un dispositivo così pericoloso da dover essere escluso, come si giustifica il fatto che proprio studenti e studentesse con differenze certificate — come Discalculia, Disgrafia, Adhd — possano invece farne uso regolare grazie a un Piano Didattico Personalizzato? In molte scuole italiane, sono proprio loro — più sensibili agli stimoli ambientali — a utilizzare lo smartphone per scrivere con la dettatura vocale, ascoltare testi con sintesi audio, svolgere calcoli con app dedicate.

È un paradosso educativo. Se davvero lo smartphone fosse ingestibile, se bastasse la sola esposizione alle notifiche per compromettere l’attenzione, perché ammetterne l’uso proprio da parte di chi ha un rapporto più complesso con il controllo dell’attenzione? In realtà, questa prassi dimostra una cosa fondamentale: non è il dispositivo in sé a essere un problema, ma il contesto in cui viene usato. E se si sa usarlo bene per chi ha bisogni specifici, si può educare tutta la classe a farlo.

La verità è che si sta vivendo un’epoca di passaggio. Il pedagogista Roberto Franchini parla di cambio di paradigma, dal modello educativo cartaceo a quello digitale. Ma come tutti i passaggi, anche questo è disordinato, incompleto, frammentario. Gli studenti e le studentesse di oggi hanno imparato a leggere e scrivere con il libro e il quaderno, ma vivono fuori dalla scuola in un mondo connesso, asincrono, interattivo. I dati che oggi raccogliamo sui danni del digitale sono parziali, perché si riferiscono a studenti e a studentesse che stanno vivendo solo parzialmente il nuovo paradigma. 

Lo smarphone in classe può essere uno strumento didattico se si stabiliscono dei tempi in cui è presente nell’ambiente di apprendimento e tempi in cui non deve esserlo. Allora si possono proporre attività in cui lo smartphone viene usato come strumento di ricerca, dando compiti strutturati, con obiettivi chiari, dividendo i ragazzi in piccoli gruppi e predisponendo un momento assembleare di restituzione del lavoro svolto. Si può trasformare la classe con i cellulari in un laboratorio di fisica (Phyphox è un’app straordinaria), facendo sì che ragazzi e ragazze mantengano un buon livello di coinvolgimento, affrontando, eventualmente in modo metacognitivo l’uso improprio di questo strumento, trasformando così lo smartphone da rischio, che nessuno nega, in risorsa: è qui che il docente si gioca la propria credibilità. Le tecnologie moderne hanno aperto opportunità per attività educative multidimensionali e creato uno spazio nuovo. Una sfida importante consiste nel rendere la scuola il luogo più interessante di questo spazio, come indicato dalla Raccomandazione Europea sulla modernizzazione dei sistemi di istruzione (2018).

Si è di fronte a una grande responsabilità. Si può scegliere la via del divieto, che semplifica ma non educa. Oppure si può accettare la sfida, più complessa ma più necessaria: educare al digitale stando dentro il digitale. Non lasciando il campo ai social e agli algoritmi, ma riappropriandosi della tecnologia come spazio pedagogico.

Proibire è facile. Educare è molto più difficile. Ma è proprio ciò che la scuola è chiamata a fare.

  VITA

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NULLAFACENZA o STUPEFACENZA ?

 

 Il nuovo  è ciò che si e ci rinnova perché è denso di vita, in esso la vita prende la parola senza mentire e senza chiederci nulla, e ci dà ciò di cui abbiamo bisogno per essere vivi e non solo in vita. 


Vacanza viene da vacuus: vuoto. A che serve questo vuoto? A metterci qualcosa di nuovo. Ma che cosa è veramente nuovo? Ciò che non si esaurisce e ti rinnova.

Può riuscirci un luogo mai visto, ma non è detto, perché se dopo averlo visto non ci torneremmo allora non era «nuovo» ma solo «una novità», come una parete colorata o un cibo troppo dolce che stancano presto. Nuovo non è sinonimo di più recente o di più desiderato, perché il più recente è solo il meno vecchio e sarà presto superato, e il più desiderato è solo il più invidiato e sarà presto sostituito. Il nuovo invece non invecchia e non è sostituibile, è sempre «nuovo» anche nel «di nuovo». Anche per questo in vacanza si torna spesso negli stessi posti, perché restano nuovi, come i classici. Omero è più nuovo del giornale, Beethoven del tormentone, Van Gogh di un video virale. Il nuovo insomma è ciò che si e ci rinnova perché è denso di vita, in esso la vita prende la parola senza mentire e senza chiederci nulla, e ci dà ciò di cui abbiamo bisogno per essere vivi e non solo in vita. 

 La vacanza è l’occasione per questo «nuovo». Se non lo troviamo torniamo più stanchi, perché il corpo non riposa se non riposa lo spirito (vale anche il contrario ma è più scontato accorgersene), e lo spirito riposa solo dove sentiamo di appartenere alla vita gratuitamente, uno spazio sacro in cui si riesce a essere senza dover dimostrare nulla. 

 E allora vacanza è una condizione, non un posto. Uno stato d’anima. Quale? 

 Esistono due tipi di disperazione: non riuscire ad accettare se stessi e non riuscire a diventare se stessi, nell’uno e nell’altro caso si è esiliati in casa propria, che è il contrario di riposare, cioè poter porre (-posare) di nuovo (ri-) l’io dentro se stesso, gioire di essere e di diventare. Il vuoto della vacanza è la prova, non la prova costume. Vacanza è sostare, «so stare» in me. E come? Attraverso il senso che dà senso agli altri cinque, il senso della meraviglia (da mirabilia: le cose stupefacenti). 

 Non è una metafora. 

 Paul Piff, docente di psicologia all’Università della California, ha studiato il rapporto tra meraviglia e comportamento sociale. In uno dei suoi esperimenti ha coinvolto due gruppi di studenti: il primo è stato portato a vedere un bosco di alberi maestosi, il secondo un gigantesco edificio anonimo. Per un minuto. Alla domanda sul sentimento provato, quelli del bosco hanno parlato di «riverenza» (dal latino vereor, aver riguardo, da cui verità), quelli dell’edificio «indifferenza». I due gruppi sono stati poi sottoposti a un finto incidente: uno degli psicologi faceva cadere per errore un contenitore pieno di penne. Quelli del primo gruppo hanno raccolto tutte le penne, quelli del secondo hanno per lo più lasciato che lo facesse lui. È stato poi chiesto agli studenti quanto volevano essere pagati per il tempo dedicato all’esperimento. 

Quelli del primo gruppo sono stati meno pretenziosi del secondo, perché erano grati di aver fatto una cosa bella. L’esperimento mostra che un solo minuto di meraviglia rende meno egoisti e più connessi. 

Perché? Perché la meraviglia aumenta la vita spirituale, cioè dove la vita ha senso di per sé e non in base alla sua utilità, come una mela di Cézanne, che non puoi mangiare ma solo amare. Il senso della meraviglia ci dà energia perché ci fa sentire legati al cosmo e agli altri, non per usare ed essere usati ma per gioire della presenza stessa delle cose e delle persone. Chi non prova mai meraviglia finisce per pensare solo a se stesso, si sente isolato e tende a voler possedere ciò che in realtà lo possiede, dipendere è infatti il surrogato dell’appartenere, non sono legato a cose e persone ma vi sparisco dentro: sostanze senza sostanza, stupefacenti senza stupefacenza. 

 Eppure basta un minuto di meraviglia per essere più liberi, connessi, generosi, e ricevere quel nutrimento spirituale che rinnova la vita. I grandi creatori erano persone guidate dalla meraviglia: Darwin rimaneva ore seduto a osservare il suo giardino, Cézanne ripeteva sempre lo stesso soggetto nei suoi quadri. Non si annoiavano perché trovavano il nuovo nello stesso, il «per sempre» nelle cose «di sempre». 

 Noi abbiamo invece bisogno di sorprese (chi fa spoiler oggi compie un reato), ma la sorpresa è ben diversa dalla meraviglia: la prima si esaurisce subito, la seconda invita ad andare oltre, è estasi (ek-stasis: uscir fuori rimanendo dentro, ri-posare, ci si abbandona ma invece di perdersi ci si trova di più, come in amore). Dalla meraviglia comincia ogni ricerca filosofica e scientifica. Ogni estasi, che provenga da luoghi, persone, passioni è una vacanza che accade dove lo spirito incontra l’inesauribile profondità della vita che non può essere con-sumata ma solo con-divisa: la meraviglia si riconosce dal fatto che crea legami, festa, memoria. 

 Un’esperienza memorabile è una esperienza che, ricordata, produce la stessa serotonina di quando la si è vissuta, un deposito di felicità a comando. Chi scambia la meraviglia per la sorpresa cerca dopamina, neurotrasmettitore della ricompensa immediata, delle dipendenze. La serotonina è invece quello della felicità, perché resta nel tempo. 

 Non è un caso che l’ecstasy sia la droga che opera sulla serotonina: aumenta le percezioni, abbassa le difese, facilita la socialità (era usata a scopo militare per non sentire la fame e far dire la verità ai nemici), ma lo fa manipolando il cervello in assenza di un rapporto con il mondo, e finisce infatti con l’inibire proprio la produzione naturale di serotonina. 

 Vacanza non è nullafacenza, per «riposare» ci vuole stupefacenza: la gioia che viene dalla vita che riceviamo o che creiamo. 

 Lo racconta bene una pagina di Orbital della scrittrice inglese Samantha Harvey in cui un gruppo internazionale di astronauti su una stazione spaziale compie 16 giri attorno alla Terra ogni 24 ore. Vedere ogni giorno per 16 volte buio e luce, paesaggi e città, mari e terraferma, li porta a innamorarsi «di nuovo» del Pianeta e di se stessi: «Nulla si perde a ogni nuovo giorno e ogni singola alba li lascia a bocca aperta. Ogni volta che quella lama di luce si spacca e il Sole esplode, per poi spargere la sua luce come un secchio che si rovescia sulla Terra, ogni volta che la notte diventa giorno in un minuto, ogni volta che la Terra si immerge nello spazio come una creatura che si tuffa e trova un altro giorno, giorno dopo giorno dopo giorno dalla profondità dello spazio, un giorno ogni novanta minuti, ogni giorno nuovo di zecca e infinito, e loro a bocca aperta». 

 Ogni giorno a bocca aperta, segno fisico della meraviglia, bisogno di trattenere un respiro che non si vuole finisca. La meraviglia è la porta quotidiana sulla vita eterna, dove lo spirito riposa, non perché viene dopo la morte, altrimenti non sarebbe eterna, ma perché è immune dell’essere consumata dal tempo. 

 Ne ho trovato la sintesi in una pagina del Volume del tempo I. 

L’enigma della scrittrice danese Solvej Balle, in cui a una donna «si rompe» il tempo lineare tanto che deve vivere sempre nello stesso giorno. Per lei il nuovo non è più ciò che verrà domani, ma ciò che trova e crea nel medesimo oggi, in particolare con il marito: «Ricordo quei giorni come i più felici. Di sempre. Mi sentivo amata. Mi sentivo amata sul divano del soggiorno e sul pavimento. Mi sentivo amata nel letto e quando sedevamo a tavola la sera. Non era un fatto insolito. Non era diverso rispetto a prima del diciotto novembre, solo più forte, e non avevamo niente da fare. Quello era un tempo che non ci sfuggiva. Era come il periodo in cui ci eravamo appena conosciuti, solo più intenso... 

Era una condensazione, una rete di collegamenti. Mi sentivo compresa. Dicevo frasi che venivano ascoltate, e ascoltavo le parole che venivano dette». 

 Anche qui la misura della gioia è la densità delle 24 ore. Sempre lo stesso giorno, eppure nuovo. Da questo punto di vista il vuoto delle vacanze è inesorabile, perché tutto ciò che nelle relazioni abbiamo trascurato o nascosto con l’alibi del tran tran ordinario, verrà fuori in modo eclatante: è ora di affrontarlo per ritrovare la gioia. 

 Vacanza allora non è né assenza dell’ordinario né presenza dello straordinario, ma apertura alla vita eterna. Vi auguro questo riposo che scaccia la disperazione di non accettarsi o di non diventare se stessi, perché solo il senso della meraviglia fa riscoprire i legami con la vita e ci fa sentire «di nuovo» voluti al mondo e quindi pieni di speranza e coraggio. 

Per nuove avventure. 

 P.S. La scuola è terminata e questo «ultimo banco» ce lo portiamo via, come condizione interiore che permette di guardare, domandare, scoprire, farsi i fatti propri, meravigliarsi, dovunque siate. Ci rivediamo a settembre.

 

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EDUCARE IL CUORE

 


Non dobbiamo più

 considerare secondaria 

la dimensione emotiva

 e meta-razionale 

di ognuno di noi: 

è un risultato 

che si raggiunge

 massimamente 

con il metodo della gioia.


Vito Mancuso


 

 

 

 

 

 Invitato a trattare il tema “Giovani e futuro: una nuova speranza e una nuova prospettiva”, io ne intuisco facilmente il motivo: credo che esso risieda nell’ansia, non di rado nell’angoscia, che sempre più avvolgono questo mondo, soprattutto quello giovanile, e che pervade un po’ tutti noi facendoci sentire con una fitta al cuore che il nostro futuro è in realtà senza speranza e senza prospettiva, se non quella di una durissima lotta di sopravvivenza in cui l’unica cosa che conta davvero è la forza: o del denaro, o del potere, o dell’intelligenza e della bellezza pronte a vendersi, in ogni caso di un’espressione della forza. 

Prodotta dai muscoli del corpo, o da quelli del portafoglio, o da quelli della mente, la forza appare come l’unica regina incontrastata che oggi sempre più fa scempio del diritto, dell’uguaglianza di tutti davanti alla legge, degli ideali di bene e di giustizia, del senso di umanità e di solidarietà, della verità e dell’onestà: di quell’utopia di un mondo nuovo che quand’ero ragazzo sembrava poter davvero rinnovare la società. Oggi invece il mondo è ritornato vecchio. Tecnologicamente nuovo, moralmente vecchio: quel vecchio mondo della storia la cui logica già Tucidide aveva descritto alla perfezione: «I più potenti agiscono, i deboli si flettono».

I più deboli tra noi sono i giovani, che si flettono e si piegano davanti alla dura legge della forza. Sedotti e inebriati da essa, pretendono tutto, poi però si bloccano per un nonnulla se il tutto, com’è ovvio, non arriva, reagendo o con la violenza o con l’apatia. Un tempo vi erano sorgenti ideali condivise di un altro tipo di forza che contrastava e moderava la forza bruta della storia; ora non più. Ora non ci sono più sorgenti interiori condivise da cui attingere umanità e idealità, ora stiamo sperimentando cosa significa una società senza più ideali, senza più religione, senza più capacità di trasmettere significati. Stiamo sperimentando il nichilismo. 

La mia tesi è che la nuova prospettiva per riacquisire nuova speranza può consistere solo nell’educazione del cuore. Chiamatela psicologia o spiritualità o come altro volete, quello che è necessario per guarire il cuore è un’educazione che lo nutra e lo innalzi, orientandolo verso qualcosa di più importante e di più prezioso di sé. Non verso la forza piatta del capitale e dell’applauso che riduce l’essere umano a una sola dimensione ingrossando il suo ego, ma verso la forza verticale del bene e della giustizia che ne sviluppa tutte le grandi potenzialità alleggerendo il suo ego e rendendolo capace di empatia e di relazionalità. 

L’educazione del cuore consiste nell’educazione della dimensione emotiva e meta-razionale di ognuno di noi e si raggiunge massimamente tramite il metodo della gioia. Ha scritto sant’Agostino: «L’animo si nutre solo di ciò che gli dà gioia». Dicendo gioia, non intendo necessariamente ciò che rende allegri, ma ciò che rende appassionati (per cui si è felici anche se non si ride, come per esempio quando si pratica sport). Il punto, però, è che oggi nessuno più si occupa dell’educazione del cuore perché ci si occupa solo dell’istruzione della mente. Ovvero: molta istruzione, nessuna educazione. 

L’istruzione conferisce conoscenza oggettiva, la quale rafforza il senso dell’io, la sua autostima ma anche la sua egoità, per non dire egocentricità, quindi un potenziale individualismo che non di rado diventa solitudine. Sia chiaro che la dimensione cognitiva è essenziale per il senso compiuto dell’io, ma, se ci si limita a essa, l’io crescerà come una monade racchiusa in una torre che ritiene di dominare ogni cosa dall’alto del suo sapere. È solo l’empatia condivisa che lo mette in rete, connettendone la psiche con gli altri in quel modo immediato e reale che tocca ed educa il cuore al senso di umanità. 

Il cuore è l’organo dell’etica, ma il grande problema è che oggi non c’è nessuna educazione del cuore. Oggi si istruisce solo la mente cognitiva, il che, come ho detto, è certamente positivo ma non è sufficiente; anzi, la sola istruzione cognitiva può essere persino pericolosa, perché, come diceva Tagore, «un cervello tutta logica è un coltello tutto lama: fa sanguinare la mano che l’adopera». A chi è affidata oggi l’educazione del cuore? A nessuno. Ed è questa la vera emergenza sociale che fa sanguinare la nostra società. 

I nostri governanti hanno deciso di aumentare le spese per la difesa militare, e io non credo sia sbagliato visto lo stato del mondo sempre più instabile. Forse non si rendono conto però che, ben più che le minacce russe, vi sono ogni giorno centinaia di droni invisibili e letali che cadono sulla mente e sul cuore dei nostri giovani annientandone le difese. Forse non si rendono conto di quanti siano i giovani che muoiono psichicamente ogni giorno calpestando le mine anti-umanesimo disseminate a piene mani sul loro percorso. Senza sottovalutare le minacce esterne, è questa la vera insidiosissima invasione che ci sta corrodendo dall’interno e che sfascia le famiglie e in genere il tessuto sociale, perché, quando stanno male i ragazzi, stanno male tutti in famiglia. 

Dovremmo ritornare a Socrate e alla sua pedagogia, la maieutica, l’arte della levatrice, che è il vero senso del concetto di educazione (dal latino “e-ducere”, “condurre fuori”): e pensare che, come nella donna gravida vi è un bambino da portare alla luce, così in ogni giovane vi è una dimensione da risvegliare e che in questo risveglio consiste propriamente l’educazione. È quello che insegnava Plutarco: «La mente non ha bisogno, come un vaso, di essere riempita, ma piuttosto, come legna, necessita di una scintilla che l’accenda e vi infonda l’impulso alla ricerca e un amore ardente per la verità». Riempire la mente come un vaso significa istruirla; accendere in essa una scintilla significa educarla. E non c’è nulla di più prezioso. Quando la mente educata giunge a ospitare un amore ardente per la verità cambia nome e si chiama cuore, e io penso che sia solo l’educazione del cuore a poter salvare i nostri giovani dal nichilismo incombente. 

Penso quindi che su questa base dovrebbero essere rivisti tutti i programmi scolastici e la formazione degli insegnanti, perché è solo la scuola che si può assumere la grande missione dell’educazione del cuore e così salvare la nostra civiltà. Abbiamo dovuto più che raddoppiare le spese militari? Allo stesso modo, anzi di più, occorre triplicare gli investimenti nella scuola al fine di renderla davvero capace di educare il cuore. È l’unica speranza di tornare a dare prospettiva ai giovani salvandoli dal nichilismo e dalla violenza.

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mercoledì 2 luglio 2025

IL CREATO NON E' UN CAMPO DI BATTAGLIA

 Il Papa: urgente agire per la giustizia ambientale. 

“In un mondo dove i più fragili

 sono i primi a subire gli effetti

 devastanti del cambiamento

 climatico, la cura del creato

 diventa

 una questione di fede e di umanità”. 

È uno dei passaggi del messaggio 

per la Giornata Mondiale di Preghiera per la Cura del Creato

 che ricorre il 1° settembre 2025,

 nel quale il Pontefice ricorda la necessità 

di far seguire le parole ai fatti.

 

-         d Benedetta Capelli – Città del Vaticano

-          È una disamina cruda e profondamente realista quella che Papa Leone XIV presenta nel suo messaggio per la decima Giornata Mondiale di preghiera per la Cura del Creato che ricorre il prossimo primo settembre. Messaggio dedicato al tema “Semi di pace e di speranza”, scelto da Papa Francesco e in occasione dei dieci anni dalla pubblicazione dell’enciclica Laudato si’, che richiama il Giubileo della speranza che si sta vivendo.

 LEGGI QUI IL MESSAGGIO DEL PAPA PER LA GIORNATA MONDIALE DI PREGHIERA PER LA CURA DEL CREATO

 “La terra in rovina”

Nel testo, pubblicato oggi, 2 luglio, il Pontefice getta una luce sulla situazione di diverse parti del mondo dove imperversano “deforestazione, inquinamento, perdita di biodiversità” a causa dell’ingiustizia, della diseguaglianza, dell’avidità e della “violazione del diritto internazionale e dei diritti dei popoli”. “La nostra terra – scrive – sta cadendo in rovina”. Aumentano, infatti, in forza e frequenza, fenomeni naturali estremi causati dal cambiamento climatico indotto da attività antropiche.

 Giustizia climatica, i Paesi ricchi riconoscano il debito ecologico verso il Sud del mondo

 Le guerre per le risorse naturali

La preoccupazione del Papa si fa più grave quando ricorda che esistono “effetti a medio e lungo termine della devastazione umana ed ecologica portata dai conflitti armati”, che manca poi la consapevolezza che la distruzione della natura colpisce soprattutto “i più poveri, gli emarginati, gli esclusi”. “È emblematica in tale ambito – nota Leone XIV - la sofferenza delle comunità indigene. In queste dinamiche, il creato viene trasformato in un campo di battaglia per il controllo delle risorse vitali, come testimoniano le zone agricole e le foreste divenute pericolose a causa delle mine, la politica della ‘terra bruciata’, i conflitti che scoppiano attorno alle fonti d’acqua, la distribuzione iniqua delle materie prime, penalizzando le popolazioni più deboli e minando la stessa stabilità sociale”.

Custodire il giardino del mondo

“Queste diverse ferite sono dovute al peccato”, scrive ancora il Pontefice. Da qui l'invito a leggere i testi biblici che invitano a coltivare e custodire il giardino del mondo, cosa che implica “una relazione di reciprocità responsabile tra essere umano e natura”. Custodire vuol dire anche far crescere i semi che poi germogliano con una forza dirompente anche in luoghi inaspettati. Papa Leone sottolinea che “in Cristo siamo semi” di pace e di speranza, attraverso lo Spirito il deserto arido diventa giardino di serenità.

La cura del Creato, questione di fede e umanità

La giustizia ambientale non può più essere considerata un concetto astratto o un obiettivo lontano, ma “una necessità urgente, che va oltre la semplice tutela dell’ambiente”. Riguarda infatti la giustizia sociale, economica e antropologica: “Per i credenti, in più, è un’esigenza teologica, che per i cristiani ha il volto di Gesù Cristo, nel quale tutto è stato creato e redento. In un mondo dove i più fragili sono i primi a subire gli effetti devastanti del cambiamento climatico, della deforestazione, e dell’inquinamento, la cura del creato diventa una questione di fede e di umanità”. Leone XIV ricorda poi il progetto “Borgo Laudato si’” a Castel Gandolfo, quale esempio “di come si può vivere, lavorare e fare comunità applicando i principi dell’enciclica Laudato si’”.

In conclusione, l’augurio che proprio l’enciclica di Papa Francesco continui ad ispirare perché “l’ecologia integrale sia sempre più scelta e condivisa come rotta da seguire” per moltiplicare i semi di speranza da “custodire e coltivare”.


Vatican News