martedì 5 dicembre 2023

I GIOVANI SENZA ORIENTAMENTO


 All You Need is Orientation

Serve un Robin Hood 

dell'educazione

 

-         di Vito Mancuso

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«All You Need is Love», «Tutto ciò di cui hai bisogno è l'amore», cantavano i Beatles affermando il primato dell'amore nell'esistenza umana. Dicevano bene ma non del tutto a mio avviso, perché in realtà ciò di cui tutti noi abbiamo veramente bisogno è l'orientamento. «All You Need is Orientation»: la vita è un viaggio in regioni sconosciute e richiede costantemente una bussola.

L'amore naturalmente lo è, è una forma di orientamento tra le più forti ed efficaci perché concerne sia la mente sia il cuore, sia la ragione sia i sentimenti, ma lo è veramente quando è "vero".

Altrimenti può essere una trappola, persino una dannazione, come quotidianamente insegnano i numerosi femminicidi e suicidi e tragedie di ogni tipo a esso connesse. Per questo la più preziosa risorsa per un essere umano è l'orientamento, e una società è tanto più forte quanto più ha e conferisce orientamento. Proprio l'orientamento però è ciò che manca alla nostra società quale viene fotografata dal nuovo rapporto del Censis.

 L'assenza di orientamento si palesa nel modo più clamoroso laddove la società esprime la sua natura più sincera, cioè nei giovani. I giovani, infatti, sono la cartina di tornasole di quell'esperimento chimico che si svolge in continuazione nella storia e che chiamiamo società, in quanto manifestano nel modo più chiaro gli effettivi valori della società degli adulti. Quando ero ragazzo tutto era "politica", e tutto lo era perché tutto era "impegno", e tutto era impegno perché la generazione dei miei genitori era "impegnata" a ricostruire il Paese dopo la distruzione a cui il fascismo l'aveva condotto. Si andava a scuola coi giornali sottobraccio, si discuteva di politica e di economia, si voleva cambiare il mondo, ma si faceva così precisamente per quella corrente di impegno che si respirava in famiglia e nelle strade, ovviamente reinterpretata secondo la radicalità e l'esuberanza che da sempre contrassegna la gioventù. Guccini cantava: «Ma penso che questa mia generazione è preparata a un mondo nuovo e a una speranza appena nata», e tutti noi, ognuno a modo suo, eravamo abitati da quel sogno di un mondo diverso, nutriti da una neonata speranza. E quindi avevamo orientamento.

 Come l'abbiamo utilizzato? Male, perché l'abbiamo finalizzato solo al divertimento e alla "dolce vita", il cui vero profeta da noi non fu certo Federico Fellini che ne fece un film, quanto piuttosto Silvio Berlusconi che sul divertimento e sulla dolce vita ha costruito il suo lucroso impero. Ma è un grande inganno far credere che la vita sia dolce, perché essa non lo è. Essa è piuttosto ciò che scaturisce dal mischiare insieme in una tazza zucchero, sale, aceto, peperoncino, assenzio e chissà che altro: il sapore indistinto che ne scaturisce, dolce amaro salato acido e piccante al contempo, è la vita. L'educazione consiste nel saper assaporare e sopportare e riconoscere tutto questo.

L’educazione è orientamento.

Il Censis descrive i nostri giovani come «esuli in fuga», affermando che a loro appartiene «un dissenso senza più conflitti», che cioè essi dicono di no ma senza più lottare. Hanno perso la speranza di poter cambiare qualche cosa, non solo non credono più di poter avere il mondo nuovo che cantava Guccini, ma neppure di migliorare un po' il mondo vecchio che stiamo lasciando loro.

 Il Censis continua parlando di «sonnambulismo» della nostra società, lamentando il fatto che essa è «precipitata in un sonno profondo del calcolo raziocinante». A me pare, in realtà, che i calcoli siano l'unica cosa che nella nostra società veramente viene esercitata: tutti li fanno, dalle famiglie per arrivare alla fine del mese, alle aziende per raggiungere il budget. Numeri e ancora numeri, solo numeri: non mancano per nulla i calcoli in quest'epoca nella quale tutto mira a essere digitale, vocabolo che etimologicamente significa esattamente questo, "numerico" (dall'inglese "digit", "cifra", probabilmente perché per calcolare si contava sulle dita, che in questo caso l'inglese deriva dal plurale latino "digita"). Oggi non mancano i calcoli, mancano gli ideali. Ma sono solo gli ideali che motivano e orientano.

 Ciò di cui un essere umano ha bisogno, soprattutto quando è giovane, è la motivazione e l'orientamento. Ha scritto al proposito Dante: «Se tu segui tua stella, non puoi fallire a glorioso porto» (Inferno, XV, 55-56). Per non fallire occorre avere una stella e avvertire il desiderio di seguirla. Le società, infatti, fioriscono quando gli individui hanno una stella comune da seguire e seguendola diventano tra loro "soci" formando appunto una "società". Al contrario, le società falliscono quando gli individui non hanno più una stella in comune e camminano ognuno per sé indirizzati solo verso ciò che Guicciardini chiamava "particulare".

 Perché oggi non si fanno più figli? Perché entro il 2040 solo una coppia su quattro avrà figli? Viene spontaneo rispondere che è a causa delle difficoltà economiche, ma nel passato si era molto più poveri e ciononostante si facevano molti più figli, come avviene ancora oggi in non poche parti del mondo. Si può rispondere solo affrontando quest'altra domanda: cosa significa fare figli? Un tempo era chiaro, significava espletare il compito principale per il quale si era venuti al mondo, oltre che avere braccia a disposizione per il benessere economico (da qui il detto "auguri e figli maschi", perché i maschi andavano da subito a lavorare contribuendo al benessere della famiglia, mio padre iniziò ad andarci a sei anni nel pomeriggio dopo la scuola). La famiglia era percepita come più importante del singolo, il cui compito era di servirla, e servendo la famiglia si serviva la società, e da qui la nazione e lo Stato. Giusto? Sbagliato? Un po' giusto e un po' sbagliato, come quasi tutto nella vita. Di certo però, se quel modello è venuto meno, aveva dei limiti, il principale dei quali era la strumentalizzazione dei singoli alla struttura sociale. Ovvero i cosiddetti "sacrifici". Quanti sacrifici, quante vite sacrificate! Elton John diede voce alla ribellione cantando "No Sacrifice", giusto, chi gli dà torto? Oggi però siamo caduti nell'estremo opposto con la vittoria di una filosofia di vita egoista e calcolante espressa a suo tempo così da Max Stirner: «Non c'è nulla che mi importi più di me stesso». Questa è la più immediata rappresentazione di ciò che in filosofia si chiama "morte di Dio": il fatto che è rimasto solo l'Io. Prima si cantava il "Te Deum", ora risuona solo il "Me Deum". E il nuovo comandamento è: «Non avrai altro Dio all'infuori dell'Io». Come può una società di questo tipo educare e offrire orientamento?

 Si ha educazione, infatti, quando si pone la coscienza al cospetto delle tre domande che secondo Kant riassumono il compito dell'esistenza: «Che cosa posso sapere? Che cosa devo fare? Che cosa mi è lecito sperare?» (Critica della ragion pura, 833 B). Ovvero: dimensione intellettuale + dimensione etica + dimensione spirituale. Un essere umano ben educato è chi ha attivato in sé queste tre dimensioni, a prescindere poi da come singolarmente risponda.

 Io penso che ci possiamo salvare dalla triste decadenza verso cui stiamo precipitando solo tornando a educare. Lo devono fare le famiglie, le aziende, la scuola. Occorre che soprattutto la scuola torni a dare ai nostri giovani orientamento. Non solo, cioè, istruzione (prima domanda kantiana), ma anche motivazione e gioia di vivere (seconda e terza domanda kantiana). Togliamo un po' di denaro a tutti i plurimilionari del mondo del divertimento e diamolo agli insegnanti e a tutti gli educatori. C'è bisogno di un Robin Hood dell'educazione. È intollerabile la sperequazione tra chi fa divertire e chi lavora per educare, e uno Stato degno di questo nome non può assistere a questa morte della speranza nei propri giovani, descritti dal Censis come «esuli in fuga», senza fare nulla. In che modo attuare tutto questo non lo so, non sono un politico né un economista, ma so che è urgente investire a piene mani nell'impresa educativa, perché «All You Need is Orientation».

 La Stampa

UN VERO EDUCATORE

 


GIOVANNI, IL BATTISTA



- di don Giuseppe Grampa

 

Nella chiesa ambrosiana stiamo vivendo il tempo di Avvento e un personaggio ci accompagna: Giovanni il Battista. Guardo a Lui come ad un vero educatore. Perché? Più volte nelle pagine evangeliche affiora il contrasto tra Giovanni e Gesù.

 Sono i discepoli di Giovanni che alimentano il confronto preoccupati che la gente si rivolga sempre più a Gesù abbandonando il Battista. Ma Giovanni ribadisce: “Non sono io il Cristo… Sono l’amico dello Sposo… Lui deve crescere io invece diminuire” (Gv 3,22ss.).

Con questa definizione di sè, Giovanni ribadisce la sua totale relatività a Cristo: non è a me che dovete guardare ma a Gesù, lo Sposo.  Con felice intuizione i pittori raffigurano il Battista con il dito indice che, appunto, indica Gesù. Giovanni Battista è tutto in quel suo dito: é totalmente relativo a Gesù, mette sulla strada dell'incontro con Gesù. 

Per questo Giovanni è modello di vero educatore.

L'educatore non deve essere preoccupato di richiamare su di sè l'attenzione dell’educando, ma piuttosto indicare la strada, aiutare a crescere, rendere libero e autonomo chi è affidato alla sua cura. Deve quindi, in un certo senso, rendersi progressivamente inutile.

Quel grande ed esigente educatore che è stato don Lorenzo Milani ha scritto: "Stanotte ho pensato che fosse meraviglioso veder sgorgare dalla mia scuola un virgulto vigoroso e diverso con tutti i suoi segreti gelosi, con una infinità di ideali in comune con me e con un'infinità di segreti suoi che non spartisce con nessuno. Che era meraviglioso da vecchi prendere una legnata da un figliolo perché è segno che quel figliolo è già un uomo e non ha più bisogno di balia”.

Da Giovanni anche la Chiesa deve essere educata. La Chiesa non ha altra ragion d'essere se non quella di svelare sempre più nitidamente il volto di Gesù. Anche la Chiesa può incorrere nella sottile tentazione di mettersi al centro dell'attenzione, mentre deve essere  segno che potentemente ed efficacemente indica Gesù.

Come Giovanni anche la Chiesa non ha altra ragion d'essere che diminuire perché Lui solo cresca.

 R/S SERVIRE

Immagine:Leonardo da Vinci, San Giovanni Battista

IL BENE COMUNE, UN DONO CONDIVISO

 

Dov’è andata la nozione di bene comune? Che fine ha fatto? Bene comune è un concetto essenziale per la convivenza, per la qualità della vita nella polis. Questa espressione è composta da due parole: “bene” e “comune”.

 

-       -   di ENZO BIANCHI

-          

“Bene” significa ciò che noi vorremmo e ciò che noi auguriamo alle persone alle quali siamo legati. Il bonum, il bene è ciò che gli uomini e le donne desiderano per vivere bene e in pienezza. “Comune” deriva dal latino communis, che indica un compito fatto insieme e anche un dono condiviso. Bene comune, dunque, non è semplicemente un patrimonio comune, qualcosa di materiale o di immateriale posseduto insieme, ma è l’insieme delle condizioni di vita che favoriscono il benessere, l’umanizzazione di tutti: bene comune sono anche la democrazia, la cultura, ecc.

Bonum commune” è un concetto formulato nel momento dell’emergenza dell’occidente, nel XIII secolo. Sulla scia di Aristotele è stato Tommaso d’Aquino a osservare che, come la società, la rete delle relazioni, è antecedente all’individuo-persona, così l’unità del corpo è antecedente alle membra che lo compongono. Sicché il bene di ciascuno abbisogna del bene comune che lo preceda e nel quale possa definirsi. Nei secoli successivi, però, questo concetto di bene comune è stato tralasciato in favore della concezione individualista e utilitarista della società, e si è progressivamente imposta l’idea secondo la quale l’organizzazione politica della società si giustifica per il fatto che essa garantisce ai suoi membri i diritti individuali, di cui sarebbero dotati anteriormente alla loro esistenza sociale.

 In verità, proprio nell’attuale crisi a livello mondiale sta tornando la ricerca sul bene comune, anche perché le scienze umane sempre di più attestano che vivere è inter homines esse. L’essere umani insieme è l’elemento vitale, indispensabile alla nostra esistenza in quanto persone. Stare tra gli uomini, vivere le relazioni non è solo ciò che ci ha umanizzato, ma è anche la prima forma del bene che gli uomini conoscono, un bene comune. Senza ecosistema relazionale non c’è cammino di umanizzazione. Ecco allora il bene comune al di sopra degli interessi particolari e degli egoismi competitivi.

 Certamente ci sono beni comuni che appartengono alla collettività, utili all’intera società, beni tangibili come l’acqua, l’aria, la terra, i monumenti, il paesaggio: sono beni comuni essenziali per raggiungere “il bene comune” che ingloba libertà, democrazia, salute, cultura, ecc. Nella Costituzione italiana, è vero, non si parla di “bene comune”, ma espressione come “utilità sociale” (art. 41) e “utilità generale” (art. 43) indicano che c’è un trascendere l’interesse privato in nome della communitas, della società, della polis. La communitas, la polis ha diritti proprietari, i quali creano beni comuni, beni sottratti all’appannaggio dei singoli: questi beni instaurano un altro modo di possedere, che aiuta il bonum commune. Si tratta di essere convinti che non è possibile la polis, la communitas senza il concorso di beni comuni materiali e immateriali; che non è vero che la vita buona di una società si realizza grazie all’autoregolazione dei mercati; e che l’espressione “bene comune” deve tornare a essere un “oriente” per tutti i membri della società.

 Alzogliocchiversoilcielo

Immagine



 

lunedì 4 dicembre 2023

SE NON PUOI ESSERE


 Se non puoi essere un pino sul monte

sii una saggina nella valle

ma sii la migliore saggina

sulla sponda del ruscello.

Se non puoi essere un albero

sii un cespuglio.

Se non puoi essere una via maestra

sii un sentiero. 

Se non puoi essere il sole

sii una stella.

Sii sempre il meglio

di ciò che sei.

Cerca di scoprire il disegno

che sei chiamato ad essere

poi mettiti a realizzarlo

nella Vita.


Martin Luther King



L'IMPREVISTO DI PERIFERIA


L'ITALIA, 

LE PAURE, 

IL 2050

-         di Marina Corradi

 

Si direbbe che abbiamo paura. La parola torna insistentemente nel rapporto Censis sull’Italia del 2023. Abbiamo paura di un sacco di cose: dei cambiamenti climatici, di una guerra, dei flussi migratori, di un default dello Stato. Sembriamo una famiglia invecchiata che rimpiange una stabilità e un benessere perduti. La sola paura non apertamente espressa dagli intervistati è quella del declino demografico, di tutte, però, la più oggettiva. Anno 2050, saremo in 4,5 milioni di meno. Già oggi i 18-34enni, quelli che entrano nel lavoro e hanno figli, sono poco più di 10 milioni, mentre nel 2003 superavano i 13 milioni. In vent’anni abbiamo perso tre milioni di giovani.

 Tre milioni di figli non pensati e attesi, o cancellati, perché si temeva di non poterli mantenere. Perché non c’erano più i nonni vicino a casa, ma nemmeno ancora i nidi. Figli che non sono nati nel mito di una autorealizzazione individualistica, nel fallimento dei matrimoni, figli che spaventavano giovani coppie dal lavoro precario. Tre milioni di meno. Dunque, una riduzione netta della popolazione attiva, e l’aumento verticale, in parallelo, degli ultrasessantacinquenni. Il declino segnalato dai cattolici per primi, trent’anni fa, va concretizzandosi.

 «Ciechi davanti ai presagi, passivi come sonnambuli», ci descrive il Censis. C’è del vero: a livello popolare la coscienza delle crisi c’è, ma come accompagnata da un senso di impotenza, soprattutto nei giovani; di rassegnazione, nei più anziani. Non appena sui media si allontanano le vertigini del Covid, della guerra in Ucraina e ora in Israele e a Gaza, sui tg un’onda di cronaca nera. Per non pensare? Poi come sempre conti pubblici al limite, multe dalla Ue, scontri, liti, e fra poco Sanremo, di nuovo. Mai uno sguardo a lunga distanza, uno sguardo più in là. Sarà perché di certe previsioni cupe non giova dire, nei programmi elettorali. Difficilmente una prospettiva più ampia su ciò che attende il Paese porterebbe dei consensi, e siamo nella politica dei “mi piace” sui social, dell’incasso immediato. Che faranno dunque gli italiani del 2050? Chi lo sa, mancano 26 anni, nel frattempo noi speriamo che ce la caviamo. Ma quegli italiani sono i nostri figli, e saremo noi, magari ottuagenari. Bisognosi di cure, e a volte con nessuno accanto. Di tutte le paure degli italiani, quel 70 per cento che teme per Sanità e assistenza ne ha buone ragioni. E si comprende anche il gran favore per l’eutanasia, che altro non è che tangibile paura. Triste destino per i baby boomers, gli italiani più vaccinati, nutriti e istruiti di sempre. Il posto super garantito, la pensione a sessant’anni. Una generazione che non ha visto la guerra e ha perso la spinta dei suoi vecchi, che ricostruirono il Paese.

 Inevitabile declino dunque? Le scienze statistiche si basano quanto è accaduto, e quindi sul ragionevole andamento di ciò che è prossimo. Tuttavia, mancano di una categoria fondamentale: non contemplano l’imprevisto. Il Covid, cinque anni fa, sarebbe sembrato fantascienza. I tank russi in Europa anche.

 Non necessariamente nella storia l’imprevisto è un disastro. Imprevisto era anche che un polacco sul soglio di Pietro scuotesse il Muro di Berlino. Sono gli uomini che fanno la storia, ma bisogna farli nascere e educarli. Un orto oscuro e paziente, nessun risultato per trent’anni. Poi, magari, nascono figli nuovi.

 Ci occorrono dei padri e delle madri, dei maestri e dei professori. Non solo “bravi” ma buoni, capaci di dare loro le ragioni del vivere. Maestre come quelle di una volta ci servono, che alle famiglie povere dicevano: questo, fatelo studiare.

 Ora, tutto ciò richiederebbe una tensione al bene comune. L’abbiamo ancora? Gli immigrati detti “invasori” vengono da guerra o miseria, e portano con sé, almeno in molti, la gran voglia di vivere di chi ha visto la morte. Chissà chi c’è, nella moltitudine di ragazzini che imparano ora l’italiano. Quanta voglia di ricostruzione e di pace potrebbero insegnare a noi, se noi da cristiani sapessimo dimostrare loro che la vita è buona, e ha un senso.

 «Un imprevisto è la sola speranza», scriveva Eugenio Montale, all’ultimo verso di una poesia su un viaggio totalmente programmato e scontato. L’imprevisto abita forse in aule di periferia, fra i ragazzi dei nostri oratori, nelle Maternità italiane piene di neonati cinesi o africani. Il 2050 sta già cominciando. Accogliere, volere bene, insegnare l’italiano, fare studiare i migliori. Un popolo si fabbrica così, è accaduto sempre: in quell’imprevisto tenace che è la vita, troppo grande per le statistiche.

 www.avvenire.it

 

SONNAMBULI E ANSIOSI

 

CENSIS. Italia Paese di sonnambuli, alla ricerca della felicità nelle piccole cose

Il 57esimo rapporto mostra come il lavoro non sia più al primo posto, ma si punti sul benessere quotidiano. Spaventa il calo demografico - senza figli e con giovani in fuga - e le guerre alle porte

 

 -       di Alessia Guerrieri

  

L’immagine scelta quest’anno è quella dei sonnambuli, «persone apparentemente vigili incapaci di vedere i cambiamenti sociali, insipiente di fronte ai cupi presagi» e senza quel necessario «calcolo raziocinante» necessario per affrontare le complessità del periodo che stiamo vivendo. Gli italiani, insomma, sono ciechi di fronte ai presagi, che vanno dal calo demografico al rallentamento dell’economia nonostante la crescita del numero degli occupati. In più intrappolati all’interno dell’«ipertrofia emotiva» dominata dalla paura che li paralizza. La 57esima edizione del Rapporto Censis sulla condizione economica e sociale dell’Italia racconta di un Paese dove sono presenti «molte scie ma nessuno sciame», con l’80% degli italiani che considera il Belpaese in declino, con il 69% per cui la globalizzazione ha creato più danni che benefici e adesso il 60% ha paura che scoppierà una guerra mondiale e secondo il 50% non saremo in grado di difenderci militarmente.

 Così, dinanzi a questo scenario, ci si ripiega sui «desideri minori» senza rincorrere l’agiatezza e i grandi traguardi del periodo dello sviluppo, ma alla ricerca di uno spicchio di benessere quotidiano. Per l’87,3% degli occupati, infatti, mettere il lavoro al centro della vita è un errore. «Non è il rifiuto del lavoro in sé, ma un suo declassamento nella gerarchia dei valori esistenziali», precisa il direttore generale del Censis Massimiliano Valerii, aggiungendo che «non sorprende quindi che il 62,1% degli italiani avverta il desiderio quotidiano di momenti da dedicare a sé stessi o che un plebiscitario 94,7% rivaluti la felicità derivante dalle piccole cose di ogni giorno: il tempo libero, gli hobby, le passioni personali. Rispetto al passato, l’81,0% degli italiani dedica molta più attenzione alla gestione dello stress e alla cura delle relazioni, perni del benessere psicofisico individuale». Ecco perché, la sua conclusione, probabilmente secondo Valeri l’Italia ha bisogno di recuperare «un immaginario propulsivo fertile».

 Parallelamente, comunque monta l’onda delle rivendicazioni dei diritti civili individuali e delle «nuove famiglie», con il 74% dei cittadini che è favorevole all’eutanasia il 70,3% che approva l’adozione di figli da parte dei single, il 65,6% che si schiera a favore del matrimonio egualitario tra persone dello stesso sesso, il 54,3% che è d’accordo con l’adozione di figli da parte di persone dello stesso sesso. Rimane invece minoritaria la quota di italiani (il 34,4%) che ammettono la gestazione per altri (Gpa). Infine, il 72,5% è favorevole all’introduzione dello ius soli, cioè la concessione della cittadinanza ai minori nati in Italia da genitori stranieri regolarmente presenti, e il 76,8% è favorevole allo ius culturae, ovvero la cittadinanza per gli stranieri nati in Italia o arrivati in Italia prima dei 12 anni che abbiano frequentato un percorso formativo nel nostro Paese.

 E nella «siderale incomunicabilità generazionale» va in scena il dissenso senza conflitto dei giovani, esuli in fuga, visto che sono più di 36mila gli emigranti di 18-34 anni solo nell’ultimo anno. «Siamo soffrendo alle radici, la parte meno visibile del Paese che fatica a reagire – sottolinea Giorgio De Rita, segretario generale del Censis -l’Italia è un Paese compromesso nelle sue radici, dove il modello di sviluppo è usurato e c’è la consapevolezza che senza crescita non c’è futuro. Dobbiamo imparare a convivere un modello di sviluppo diverso, dove dovranno aumentare stipendi e investimenti perché non possiamo accontentarci della resilienza degli italiani». Prova a vedere il bicchiere mezzo peno, il presidente del Cnel Renato Brunetta, per cui certo l’Italia è «un Paese meraviglioso ma arretrato, che ha comunque in sé molte potenzialità di crescita anche aiutate dal grande catalizzatore del Pnrr, per trasformare queste scie di cui il Censis ci ha parlato in sciami virtuosi».

 www.avvenire.it  

sabato 2 dicembre 2023

OCCHI APERTI VERSO IL FUTURO

Il Papa: il clima è impazzito, con i soldi delle armi creare un Fondo contro fame e povertà

 

Il cardinale Parolin pronuncia il discorso di Francesco alla Cop28 di Dubai, in cui il Pontefice chiede ai leader del mondo di superare “divisioni” e “tifoserie” per procedere a un’azione comune contro la devastazione del Creato, “offesa a Dio”, e per frenare "deliri di onnipotenza" e "avidità senza limiti": “L’ora è urgente. La storia vi sarà riconoscente”. Sfata poi il tabù delle nascite e dei poveri come responsabili della crisi in atto e auspica: “Il 2024 sia anno di svolta”

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-         -di Salvatore Cernuzio - Città del Vaticano

 Occhi aperti verso il futuro della terra e della sua popolazione che vedono minacciata la loro stessa esistenza; orecchie tese per ascoltare il “grido” dei poveri, vittime e non responsabili della crisi climatica in atto; mani e braccia impegnate per contrastare quella “avidità senza limiti, che ha fatto dell’ambiente l’oggetto di uno sfruttamento sfrenato”; la mente libera da “tifoserie” tra catastrofisti e negazionisti e concentrata a elaborare progetti e iniziative che promuovano la “cultura della vita”. Come quella di un Fondo mondiale per eliminare la fame, costituito con il denaro impiegato per armi e spese militari. Papa Francesco non è presente fisicamente alla Cop28, ma il suo messaggio - di denuncia e di speranza - risuona efficacemente alla Expo City, dove gli oltre 190 capi di Stato e di governo sono riuniti nel terzo giorno di lavori.

Cop28, il Papa: reagiamo ora o il cambiamento climatico danneggerà milioni di persone

È il cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin, alla guida della delegazione della Santa Sede alla Conferenza Onu, a leggere le parole che Francesco - impossibilitato a viaggiare a causa della bronchite acuta che l’ha colpito la scorsa settimana - avrebbe voluto pronunciare nel consesso internazionale. Consesso che auspica possa essere “un punto di svolta”. Perché “l’ora è urgente”, afferma il Pontefice.

Il clima impazzito suona come un avvertimento a fermare tale delirio di onnipotenza

 Devastazione del Creato, offesa a Dio

Francesco si pone in prima linea insieme ai leader delle nazioni in questa sfida: “Sono con voi perché, ora come mai, il futuro di tutti dipende dal presente che scegliamo. Sono con voi perché la devastazione del creato è un’offesa a Dio, un peccato non solo personale ma strutturale che si riversa sull’essere umano, soprattutto sui più deboli, un grave pericolo che incombe su ciascuno e che rischia di scatenare un conflitto tra le generazioni”.

 Multilateralismo

La via d’uscita è solo una: “La via dell’insieme, il multilateralismo”. Multilateralismo che va raffreddandosi mentre il pianeta si surriscalda. “È essenziale ricostruire la fiducia, fondamento del multilateralismo”, auspica il Papa, citando Giovanni Paolo II nel suo discorso all’Onu del 1995.  Ciò vale per la cura del creato così come per la pace.

 “Quante energie sta disperdendo l’umanità nelle tante guerre in corso, come in Israele e in Palestina, in Ucraina e in molte regioni del mondo: conflitti che non risolveranno i problemi, ma li aumenteranno!”, è l’amara constatazione del Papa.

Quante risorse sprecate negli armamenti, che distruggono vite e rovinano la casa comune!

 Un fondo per sradicare la fame

Il Papa allora richiama un altro Papa suo predecessore, Paolo VI, per rilanciare la proposta della Populorum Progressio: “Con il denaro che si impiega nelle armi e in altre spese militari costituiamo un Fondo mondiale per eliminare finalmente la fame”. 

Per andare avanti serve “un cambiamento politico”, aggiunge Francesco. “Usciamo dalle strettoie dei particolarismi e dei nazionalismi, sono schemi del passato”, è il suo invito, “abbracciamo una visione alternativa, comune”, perché “non ci sono cambiamenti duraturi senza cambiamenti culturali”.

 Lavorare per la vita, non per la morte

Al momento l'unico cambiamento a cui si assiste è quello climatico, rimarca il Papa. Esso è “un problema sociale globale che è intimamente legato alla dignità della vita umana”. “Lavoriamo per una cultura della vita o della morte?”, domanda il Vescovo di Roma.

 Scegliamo la vita, scegliamo il futuro! Ascoltiamo il gemere della terra, prestiamo ascolto al grido dei poveri, tendiamo l’orecchio alle speranze dei giovani e ai sogni dei bambini! Abbiamo una grande responsabilità: garantire che il loro futuro non sia negato.

 Sfruttamento, avidità, deliri di onnipotenza

Il Papa entra nei gangli della emergenza climatica in atto, parla quindi del “surriscaldamento del pianeta”, causato dei gas serra nell’atmosfera, provocato a sua volta dall’attività umana divenuta negli ultimi decenni “insostenibile per l’ecosistema”. Stigmatizza, il Pontefice, “l’ambizione di produrre e possedere” che si è trasformata in “ossessione”, in “avidità senza limiti”, “sfruttamento sfrenato”, “delirio di onnipotenza”. Il Papa esorta a superare le divisioni, primo ostacolo a questo percorso.

 Un mondo tutto connesso, come quello odierno, non può essere scollegato in chi lo governa, con i negoziati internazionali che non possono avanzare in maniera significativa a causa delle posizioni dei Paesi che privilegiano i propri interessi nazionali rispetto al bene comune globale.

 “Assistiamo - sottolinea il Pontefice - a posizioni rigide se non inflessibili, che tendono a tutelare i ricavi propri e delle proprie aziende, talvolta giustificandosi in base a quanto fatto da altri in passato, con periodici rimpalli di responsabilità”.

 La difesa della Casa comune, da Paolo VI a Francesco

In tal senso, Jorge Mario Bergoglio si dice colpito dai tentativi di “scaricare le responsabilità sui tanti poveri e sul numero delle nascite”. “Sono tabù da sfatare con fermezza”, afferma chiaramente.

 Non è colpa dei poveri, perché la quasi metà del mondo, più indigente, è responsabile di appena il 10% delle emissioni inquinanti, mentre il divario tra i pochi agiati e i molti disagiati non è mai stato così abissale.

 Le “popolazioni indigene” sono quindi delle “vittime” e tutto intorno ci sono deforestazione, fame, insicurezza idrica e alimentare, flussi migratori indotti. “Le nascite non sono un problema, ma una risorsa: non sono contro la vita, ma per la vita, mentre certi modelli ideologici e utilitaristi che vengono imposti con guanti di velluto a famiglie e popolazioni rappresentano vere e proprie colonizzazioni”, afferma Papa Francesco.

 Rimettere i debiti che pesano sui popoli

Chiede allora che “non venga penalizzato lo sviluppo di tanti Paesi, già gravati di onerosi debiti economici” e “si consideri piuttosto l’incidenza di poche nazioni, responsabili di un preoccupante debito ecologico nei confronti di tante altre”.

 Sarebbe giusto individuare modalità adeguate per rimettere i debiti finanziari che pesano su diversi popoli anche alla luce del debito ecologico nei loro riguardi.

 Rilanciare il cammino

L’augurio è, dunque, che il “cambio di passo” tanto predicato “non sia una parziale modifica della rotta, ma un modo nuovo di procedere insieme”. Se l’Accordo di Parigi ha segnato “un nuovo inizio”, bisogna ora “rilanciare il cammino”.

 Questa Cop sia un punto di svolta: manifesti una volontà politica chiara e tangibile, che porti a una decisa accelerazione della transizione ecologica

 Cop28: i combustibili fossili al centro dei primi dibattiti

All’auspicio il Papa accompagna indicazioni pratiche per la sua concretizzazione: efficienza energetica; fonti rinnovabili; eliminazione dei combustibili fossili; educazione a stili di vita meno dipendenti da questi ultimi. “Per favore: andiamo avanti, non torniamo indietro”, chiosa. “È noto – aggiunge - che vari accordi e impegni assunti hanno avuto un basso livello di attuazione perché non si sono stabiliti adeguati meccanismi di controllo, di verifica periodica e di sanzione delle inadempienze”. Ma tanto è cambiato in questi anni e “qui si tratta di non rimandare più, di attuare, non solo di auspicare, il bene dei vostri figli, dei vostri cittadini, dei vostri Paesi, del nostro mondo”.

 Siate voi gli artefici di una politica che dia risposte concrete e coese, dimostrando la nobiltà del ruolo che ricoprite, la dignità del servizio che svolgete.

 Il potere per servire

A questo serve il potere: “A servire”. “E a nulla giova conservare oggi un’autorità che domani sarà ricordata per la sua incapacità di intervenire quando era urgente e necessario”, ammonisce Papa Francesco.

 “La storia – assicura - ve ne sarà riconoscente. E anche le società nelle quali vivete, al cui interno vi è una nefasta divisione in ‘tifoserie’: tra catastrofisti e indifferenti, tra ambientalisti radicali e negazionisti climatici... È inutile - osserva - entrare negli schieramenti; in questo caso, come nella causa della pace, ciò non porta ad alcun rimedio”. Il rimedio è solo “la buona politica”.

 Uscire dalla notte di guerre e devastazioni

Citando il santo Poverello che ne ha ispirato il nome e la missione, San Francesco d’Assisi autore del Cantico delle Creature, il Papa conclude il suo messaggio con la speranza che “il 2024 segni la svolta”.

 Lasciamo alle spalle le divisioni e uniamo le forze! E, con l’aiuto di Dio, usciamo dalla notte delle guerre e delle devastazioni ambientali per trasformare l’avvenire comune in un’alba di luce.

 Vatican News

 DISCORSO DEL SANTO PADRE