DI FARE
Cinquant’anni fa, il primo febbraio 1975, Pier Paolo Pasolini sul Corriere della Sera pubblicava “Il vuoto del potere”, un pezzo passato alla storia con un altro titolo: “L’articolo delle lucciole” (come venne ribattezzato sul volume Scritti Corsari, pubblicato lo stesso anno). Si tratta di rappresentazione magistrale del passaggio da un’epoca (quella di una società ancorata a un conservatorismo paleocapitalista, talvolta reazionario, a trazione democristiana) verso una fase inedita di un capitalismo nuovo che doveva fare i conti con il movimento operaio e le sue rappresentanze. Un processo che stava avvenendo senza che la classe dirigente ne avesse contezza e ne capisse le dinamiche. La scomparsa delle lucciole coincide quindi con un mutamento radicale. Il vuoto del potere, cui il titolo originale dell’articolo si riferisce rimanda appunto alla completa inconsapevolezza del regime politico dominante di un tale cambiamento e quindi alla completa incomprensione del Paese e della società.
Oggi quella divaricazione fra processi sociali e capacità di governo risulta forse ancora più clamorosa di allora, amplificata dai nuovi strumenti di comunicazioni digitali. Mai prima d’ora era emersa una distanza tanto larga fra il desiderio di una dimensione collettiva autentica e l’individualizzazione forzata delle nostre vite di consumatori.
I dati
sulla partecipazione elettorale sono lì a dimostrarlo: in Emilia Romagna, una
delle regioni con tassi di civismo più elevati in Italia, ha partecipato al
voto il 45% degli aventi diritto. Il 55% ha considerato ininfluente esprimere
una scelta. Percentuale che sale al 70% fra chi ritiene di vivere una
condizione economica di difficoltà. Elezione dopo elezione, la partecipazione
elettorale è in picchiata. E la cosa non sembra preoccupare i politici.
Torneremo alle democrazie dell’Ottocento fondate sul censo e la ricchezza che
funzionavano sulla base di poche migliaia di persone? Non sarà così.
Dentro il vuoto di potere del Pasolini di 50 anni fa si sta aprendo un varco una generazione di cittadini attivi che sta ritessendo reti di identità collettive solide e generative, capaci di interpretare l’interesse generale a partire dalla propria comunità.
I
soggetti impegnati sono tanti. E soprattutto sono in crescita. Lo racconta il
decimo rapporto Iref-Acli sull’associazionismo sociale dato alle stampe poche
settimane fa.
Sostengono i curatori (Cristiano Caltabiano, Tommaso Vitale e Gianfranco Zucca) sulla base anche di un’analisi sul campo condotta in quattro grandi città, Milano, Firenze, Roma e Napoli: «In Italia, la partecipazione associativa appare in diminuzione, e anche la partecipazione multi-associativa è ridotta. Tuttavia, il fenomeno non indica una crisi dell’impegno, ma una sua trasformazione.
Molte associazioni
si concentrano ora sulla coproduzione, rendendo i beneficiari protagonisti
consapevoli e attivi. L’associazionismo è così una scuola di
formazione civica, creando spazi di partecipazione anche per le classi popolari
che trovano così modo di confrontarsi e impegnarsi per la cosa pubblica». E di
seguito: «L’impegno associativo risulta sempre più orientato verso il
riconoscimento reciproco: gli attivisti, infatti, non cercano solo di incidere
sulle politiche, ma considerano prioritario il giudizio e il feedback della
comunità in cui operano. Empiricamente l’indagine conferma l’ipotesi
che aveva fatto Filippo Barbera in Piazze Vuote di una “reciprocità
dissonante”, in cui i volontari dedicano tempo e risorse per costruire un
rapporto paritario con le persone che aggregano, valorizzandone il ruolo e
incoraggiando la partecipazione attiva. In questo modo, il volontariato non è
un’azione a senso unico ma sempre più una collaborazione». Nella scuola, nei
centri di salute mentale, nelle reti dell’organizzazione dei lavoratori della
cultura, affiorano dunque importantissimi segnali di rinnovo e cambiamento.
L’associazionismo oggi in
Italia rappresenta un potente contromovimento di demercificazione sociale. Un
movimento che la società dei consumi con i suoi schemi comunicativi (il Natale
è un successo, se i consumi voluttuari sono maggiori dell’anno precedente) non
è in grado di leggere. Ci sono sempre più persone, spesso giovani, a cui non
basta poter contare su un reddito per soddisfare i propri desideri materiali,
ma cerca comunanza, riconoscimento, convivialità e persino partecipazione
politica (che però difficilmente diventa partitica).
Simone
Cerlini (uno dei contributors di vita.it), grande esperto del mercato
del lavoro nota come in Italia stia nascendo «una nuova antropologia positiva,
fondata sulla natura collaborativa di uomini e donne; una nuova economia, che
valorizzi la missione verso il bene comune dell’impresa; una nuova idea di
valore che supera una mera quantificazione monetaria; una nuova idea di lavoro
che ne mette in luce la funzione di risposta ai bisogni degli altri, che ne
riconosce l’utilità al consorzio umano, come diceva Primo Levi; una nuova idea
di fine collettivo, che promuove la lotta alle diseguaglianze e la tutela del
pianeta. Infine, forse, finalmente, una nuova idea di comunità, talmente tanto
vasta da abbracciare le generazioni future. Si intuiscono i primi vagiti di
questa creatura nuova: da più parti nascono proposte per una fiscalità più
giusta, che possa tassare i grandi patrimoni, che ripensi le tasse di
successione e premi il lavoro sulle rendite. Si scorgono barbagli di una nuova
sensibilità nelle nuove generazioni per l’attivismo civico e climatico, per la
coerenza valoriale con le aziende presso cui si lavora, per un consumo
sostenibile e per un fare impresa inclusivo. C’è un disperato bisogno di
senso». Un attivismo che merita di essere riconosciuto e raccontato.
Nessun commento:
Posta un commento