venerdì 31 maggio 2024

ESCALATION !


COME AIUTARE L'UCRAINA 

A DIFENDERSI?

 

-        -  di Giuseppe Savagnone*

 

Truppe europee in Ucraina?

All’inizio di aprile il premier polacco Donald Tusk, in una intervista, aveva ammonito: «Non voglio spaventare nessuno, ma la guerra non è più un concetto del passato» e che, per la prima volta dal 1945, con gli ultimi sviluppi della crisi ucraina, «ogni scenario è possibile». 

Sono trascorse poche settimane da quella dichiarazione, e il corso degli eventi sta confermando, con il succedersi rapidissimo di sviluppi fino a poco tempo fa impensabili, il suo carattere profetico.

È stato l’andamento stesso delle operazioni militari, nettamente sfavorevole agli ucraini, a determinare questi “balzi in avanti”. Per contenere l’avanzata delle truppe di Putin gli occidentali stanno tentando disperatamente di aumentare e accelerare la fornitura di armi a Kiev, ma è forte il dubbio che questo non sia sufficiente, anche tenendo conto della superiorità numerica dell’esercito russo e dell’assottigliarsi delle risorse umane ucraine.

E così il presidente francese Macron, ai primi maggio, in un’intervista a «The Economist», riprendendo una ipotesi già avanzata a febbraio circa l’opportunità di inviare truppe europee sul terreno di guerra, ha dichiarato: «Se i russi sfondassero in prima linea, se ci fosse una richiesta ucraina – cosa che oggi non avviene – dovremmo legittimamente porci la domanda». Anche questa volta, come già alla sua prima uscita, questa apertura a un coinvolgimento diretto degli europei nella guerra in corso è stata accolta da un coro unanime di dissensi. Ma adesso meno convinti e risoluti.

Sono cominciati ad affiorare i primi “distinguo”. Fornire truppe europee a Kiev, si osservava in un articolo di «Foreign Affairs,», non significa necessariamente utilizzarle per combattere al fronte. I soldati inviati dall’Europa potrebbero addestrare le unità dell’esercito ucraino, assisterle nell’uso e nella riparazione delle armi fornite dall’Occidente, curare gli aspetti logistici…

In questa logica, la Francia si prepara già ad inviare degli istruttori militari e, secondo un’accreditata fonte diplomatica, ne darà l’annuncio ufficiale entro «una, massimo due settimane», probabilmente in coincidenza con la partecipazione  – fortemente simbolica –  del presidente ucraino Volodymyr Zelensky alle celebrazioni dello sbarco in Normandia, che si svolgeranno il 6 giugno prossimo. Già forme di addestramento di militari di Kiev si sono svolte in vari Stati occidentali.

Ma ora «gli ucraini vogliono che l’addestramento sia fatto sul loro territorio, risolverebbe molti problemi logistici e per molti alleati questo ha senso». La fonte sottolinea che all’iniziativa si assoceranno «altri paesi». E commenta: «Il tabù è stato infranto».

La caduta del secondo tabù: colpire la Russia

Ma anche un secondo tabù vacilla, anzi sembra sul punto di cadere. Qualche giorno fa il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg ha esortato gli Stati dell’Alleanza atlantica a riconsiderare i limiti all’invio di alcune armi all’Ucraina.

È giunto il tempo per i Paesi membri della NATO di considerare se debbano revocare alcune delle restrizioni all’uso delle armi che hanno donato all’Ucraina», detto Stoltenberg in un’intervista a «The Economist». «Negare all’Ucraina la possibilità di usare queste armi contro obiettivi militari legittimi nel territorio russo rende loro difficile difendersi».

Sottolineando che questa eventuale decisione spetta comunque ai singoli membri della NATO. Infatti, alcuni di essi, tra cui l’Italia, sono stati fino a questo momento riluttanti nel fornire a Kiev armi più potenti e a più lunga gittata, che trasformerebbero la difesa dell’Ucraina in un attacco alla Russia.

Anche questa dichiarazione in un primo momento è stata accolta con forti riserve, anzi in qualche caso con irritazione. Da molti è stato fatto notare che il segretario generale della NATO, per la natura del suo incarico, dovrebbe astenersi da suggerimenti e valutazioni personali circa le decisioni che dovrebbero assumere i governi e i parlamenti legittimi degli stati membri.

Qualcuno, come il vicepremier italiano Salvini, ne ha chiesto addirittura le dimissioni. E l’altro vicepremier e ministro degli Esteri, Antonio Tajani si pronunziato con chiarezza in senso contrario: «Siamo parte integrante della NATO, ma ogni decisione deve essere presa in maniera collegiale. Lavoriamo per la pace. Non manderemo un militare italiano e gli strumenti militari mandati dall’Italia vengono usati all’interno dell’Ucraina».

Non è mancato qualche riferimento alla tendenza di Stoltenberg alle gaffe, come quando ha ammesso che la NATO addestra e arma gli ucraini per combattere i russi fin dal 2014 o quando ha affermato che l’Alleanza Atlantica aveva respinto nel dicembre 2021 la proposta russa per evitare la guerra in Ucraina, proponendo un trattato di sicurezza che stabilisse la neutralità di Kiev e lo stop all’ampliamento a est della NATO.

Verità scomode, per chi sostiene, come lo stesso Stoltenberg, che la guerra non ha alternative e su cui l’interessato avrebbe certamente fatto meglio a stare zitto. Questa sarebbe, dunque, solo l’ultima di una serie.

Via via, però, le parole del segretario generale della NATO, invece di essere liquidate come un’uscita fuori luogo, hanno ricevuto sempre maggiore attenzione. Il presidente Macron, in una conferenza stampa congiunta con il cancelliere tedesco Olaf Scholz, si è espresso a favore di questa linea e anche le parole del cancelliere tedesco Olaf Scholz sono state giudicate come un’apertura.

Fermo restando che obiettivi degli attacchi sarebbero soltanto strutture militari, «dovrebbe essere possibile colpire questi luoghi in modo circoscritto. E non credo che questo porti una escalation», ha detto il presidente francese, assicurando che «non si colpiranno altri luoghi, né obiettivi civili». 

In realtà già il Regno Unito ha permesso all’Ucraina di utilizzare i missili a lungo raggio Storm Shadow, che le fornisce, per colpire la Russia sul suo territorio. E il  vice ministro della Difesa polacco ha dichiarato che «non ci sono restrizioni sulle armi polacche fornite all’Ucraina».

Secondo il «Washington Post» anche il presidente americano Joe Biden starebbe prendendo in considerazione l’idea di revocare i limiti all’uso delle armi a corto raggio statunitensi.

«La nostra politica non cambia: non vogliamo attacchi all’interno del territorio russo da parte dell’Ucraina», aveva detto pochi giorni fa il portavoce del Consiglio per la sicurezza nazionale americana, John Kirby. Ora invece alla Casa Bianca si sta valutando la possibilità di una svolta.

Da parte sua, il presidente russo Vladimir Putin ha minacciato l’Europa di «gravi conseguenze» se i paesi della NATO permetteranno all’Ucraina di utilizzare gli armamenti occidentali contro obiettivi in territorio russo.

Così come l’invio di truppe occidentali sul terreno in Ucraina porterebbe a un’ulteriore escalation e a «un altro passo verso un grave conflitto in Europa e a un conflitto globale». Tali truppe, infatti, ha aggiunto il premier russo, «si troverebbero nella zona di tiro delle nostre forze armate. Vogliono fare così? Possono andare e auguriamo loro buona fortuna».

La conferenza di pace di Lucerna

Il paradosso, in questa escalation, è che essa si svolge all’insegna della ricerca della pace. Putin dice di volerla, mentre però le sue truppe avanzano ogni giorno. Da parte loro, anche i governi aderenti alla Nato ritengono di stare operando per arrivare a una soluzione pacifica, ricordando il classico detto «si vis pacem, para bellum», “se vuoi la pace, preparati alla guerra”. 

Proprio Stoltenberg, in una conferenza stampa a Sofia, ha puntualizzato che gli unici obiettivi dell’Alleanza Atlantica «sono sostenere l’Ucraina e prevenire l’escalation del conflitto».

Sembrerebbe una conferma di questa volontà il fatto che la Svizzera, su richiesta di Zelensky, abbia indetto una grande conferenza di pace sull’Ucraina, che si terrà a Lucerna dal 15 al 16 giugno, invitando più di 160 delegazioni di tutto il mondo. Saranno presenti anche i capi del Consiglio d’Europa, del Consiglio europeo e della Commissione europea.

Ciò potrebbe apparire rassicurante e aprire davvero prospettive sul futuro, se non fosse per il particolare che l’invito non è stato esteso alla Russia. Che non a caso – e forse almeno su questo punto con qualche ragione – ha commentato: «Negoziati di pace senza di noi non hanno senso». ciò che il Leader ucraino si aspetta da questo incontro è l’assenso di principio di un certo numero di paesi al suo piano di pace, in vista di una seconda conferenza alla quale “ammettere” Mosca. «Ai leader mondiali dico: se desiderate la pace venite in Svizzera», ha detto Zelensky. .

In questa logica il premier ucraino ha nuovamente respinto, pochi giorni fa, l’idea di invitare la Russia al vertice di Lucerna, perché «bloccherebbe ogni tentativo di pace”» dal momento che Mosca «non ha interesse alla pace».

Che dire di questo quadro? Putin è un dittatore senza scrupoli, pericolosamente chiuso in un suo autoreferenziale progetto di ricostituzione dell’impero russo, per riportarlo ai confini dell’ex Unione Sovietica.

Non sono perciò infondati i timori di chi prevede – come i paesi baltici, particolarmente allarmati e pronti a questa eventualità – che un suo successo in Ucraina possa aprire le porte a ulteriori aggressioni e respinge ogni forma di negoziato, rievocando la Conferenza di Monaco del 1938, in cui la cedevolezza dei governi democratici nei confronti delle pretese di Hitler creò le premesse la seconda guerra mondiale.

Tutto ciò evidenzia sicuramente la necessità di tenere gli occhi bene aperti, e di seguire una linea di fermezza nei confronti dell’aggressore russo. Non può non allarmare, però, la tendenza dei paesi della NATO – fin dall’inizio ipnotizzati da Zelensky e dal suo entusiasmo guerriero – a concepire la pace unicamente come il risultato della sconfitta, diplomatica, economica e militare, della Russia. Questo ha sicuramente contribuito, simmetricamente all’aggressività di Putin, a rendere impossibile ogni forma di dialogo. Significativa l’impostazione – voluto dal premier ucraino e accettata dall’Occidente – della prossima conferenza di pace di Lucerna. Non è così che si costruisce la pace.

In questo modo la guerra diventa l’unica soluzione. Così, il motto «si vis pacem, para bellum», tante volte citato dai paesi della NATO, si sta trasformando rapidamente in uno molto diverso: «si vis pace, fac bellum», “se vuoi la pace, fai la guerra”. E l’escalation in atto ci avverte che la prospettiva di un conflitto mondiale, catastrofico per tutti, vincitori e vinti, si sta avvicinando ogni giorno  di più a velocità vertiginosa.

 

*Scrittore ed editorialista – Pastorale della Cultura Arcidiocesi di Palermo

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SCUOLA, COMUNITA' DI VITA


Alleanza scuola-famiglie

 per promuovere

 l'educazione

In un messaggio ai partecipanti al Congresso dell'Association des Parents d’Élèves de l’Enseignement Libre (Apel), il Papa ricorda ai genitori il fondamentale ruolo di “protagonisti e primi artefici” dell’educazione dei figli, compito che richiede “l’aiuto di tutta la società, a cominciare dalla scuola”



-         di Rosario Capomasi - Città del Vaticano

 

“In questi giorni intendete lavorare, riflettere e scambiare opinioni sulla vostra missione al servizio della comunità educativa, e io mi unisco alla vostra riflessione, perché i giovani e le famiglie, presente e futuro delle nostre società, sono al centro della mia attenzione”. Così il Pontefice in un messaggio ai partecipanti al Congresso dell'Association des Parents d’Élèves de l’Enseignement Libre (Apel), in corso a Valence, in Francia, dal 31 maggio al 2 giugno. Con circa un milione di membri, l’Apel è la più grande associazione nazionale di genitori che desiderano prendere parte alla vita scolastica dei propri figli.

Le associazioni di genitori sono state particolarmente incoraggiate dal Concilio che esortava i cristiani a offrire spontaneamente il loro aiuto per seguire e sostenere tutto il lavoro della scuola

Garantire la costruzione di un mondo più umano

Papa Francesco, dopo aver sottolineato come i genitori siano “davvero i protagonisti e i primi artefici dell’educazione” dei figli, avverte al contempo che tale compito non può essere debitamente svolto senza l’aiuto della società e in particolare della scuola. “Un’alleanza forte tra la scuola e le famiglie – ribadisce – permette la trasmissione delle conoscenze e al tempo stesso la trasmissione dei valori umani e spirituali”. Una tale sinergia, “è quindi l’occasione per promuovere l’educazione integrale dell’uomo, al fine di garantire la costruzione di un mondo più umano e assicurargli la sua dimensione spirituale”. Si tratta in sostanza, aggiunge, “di far scoprire ai giovani il progetto di Dio per ognuno di loro”, sfruttando il rapporto scuola-comunità, che Francesco definisce un “microcosmo reale e aperto al futuro” in cui operano e interagiscono personale direttivo e amministrativo, insegnanti e, soprattutto, genitori, che costituiscono “il perno centrale attorno al quale ruota tutto questo piccolo mondo”.

Date così vita a una comunità che, con una diversità di ruoli ma una convergenza di fini, riveste le caratteristiche di una comunità cristiana e umana cementata dalla carità.

Impegno alla base del Patto educativo globale

Esortando ancora una volta i genitori di studenti a seguire le strade dell’alleanza, dell’incontro e della collaborazione, il Papa coglie poi l’occasione per ringraziarli del loro “indispensabile” impegno “al servizio delle nostre comunità educative”. Perché esso, spiega, è “uno dei pilastri del Patto educativo globale che vi invito a proporre con entusiasmo, anche dinanzi a opinioni divergenti”, in quanto “le convinzioni religiose riguardo al senso sacro della vita umana ci permettono di ‘riconoscere i valori fondamentali della comune umanità, valori in nome dei quali si può e si deve collaborare, costruire e dialogare, perdonare e crescere, permettendo all’insieme delle diverse voci di formare un nobile e armonico canto’” (Lettera enciclica Fratelli tutti, n. 283). Importante, chiarisce Francesco, è anche la funzione pedagogica del tempo, dato che “l’educazione non termina con la fine della scuola: i suoi effetti si manifestano nel corso di tutta la vita, permettendo di accogliere le gioie e le prove che la costellano”.

Come nella parabola del granello di senape (cfr. Mc 4, 26-29), il lavoro dei genitori e dei professori, difficile perché delicato, si svolge nel corso delle stagioni ed è volto a portare in futuro frutti insperati.

Il discernimento di fronte alla sfida posta dall’intelligenza artificiale

Il Pontefice affronta, come in altre occasioni, la questione relativa alle sfide poste dall’intelligenza artificiale e alla maniera in cui essa “cambia profondamente, al di là dei metodi di apprendimento, il modo di pensare in modo autonomo”. Una questione che richiede “tutto un lavoro di discernimento che vi invito a fare con l’insieme della comunità educativa e la luce della Chiesa, perché questo genere di sfida non può essere affrontato da soli!”.

Per affrontare questa sfida, che non riguarda soltanto l’etica ma anche la formazione dell’intelligenza e del giudizio dei vostri figli, dell’intera gioventù, vi assicuro che la Chiesa è al vostro fianco.

Scuola-comunità vera scuola di vita

A conclusione del messaggio, Francesco augura ai partecipanti di fare tesoro delle giornate del Congresso, in modo che la “scuola-comunità” diventi realmente una “scuola di vita” in grado di consentire “ai vostri figli di affrontare un mondo difficile ma illuminato dalla speranza: una speranza fondata sulle promesse di Cristo che non delude”. E invoca la Vergine Maria affinché ispiri “le vostre iniziative e il vostro impegno al servizio delle vostre scuole: che vi protegga, vi mantenga saldi in Cristo e faccia sempre di voi testimoni del suo amore”.  

MESSAGGIO PONTIFICIO



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PERSEVERANTI NEL BENE

 


All’istinto del bene serve perseveranza

 Senza distrazioni

 

-        -  di MARCO VOLERI

 

“Dà al mondo il meglio di te, e forse sarai preso a pedate:

 non importa, dà il meglio di te”

 Madre Teresa di Calcutta

 

Un giorno, un saggio viandante attraversò il regno e si fermò sotto un albero. Gli animali della foresta, curiosi, si avvicinarono per ascoltare le sue storie. «C'era una volta, in un regno lontano tra le alte montagne, un'aquila fiera e solitaria che dominava i cieli con la sua eleganza inconfondibile. Volava sopra le vette innevate, osservando il mondo dall'alto con occhi penetranti e saggi. Tutti gli animali della foresta la rispettavano e ammiravano la sua maestosità. Nello stesso regno c'era anche un corvo, impertinente e audace, con una buona dose di superbia, invidioso della regalità dell’aquila. Un bel giorno decise di sfidare sua maestà. Il corvo, con la sua arroganza, si posò sulla schiena dell'aquila e cominciò a beccarle il collo, convinto di poterla infastidire e distrarre. Gli altri animali, spettatori increduli, trattennero il fiato, immaginando che da lì a poco il corvo sarebbe stato ridotto a brandelli dal rapace. Ma l'aquila, con calma olimpica, non reagì, non sprecò nemmeno un battito d'ali per scacciare il piccolo volatile. Era come se sapesse, nel suo silenzio dignitoso, che c'era un modo migliore per risolvere la situazione. Con una serenità inaspettata l'aquila iniziò a salire verso l'alto. Il vento divenne più freddo e rarefatto, ma lei continuava a volare con le sue ali possenti che fendono l'aria. Il corvo, testardo e presuntuoso, non smetteva di beccare. A ogni metro guadagnato dall'aquila, l'aria si faceva più sottile e il corvo cominciava a sentirsi affaticato. I suoi colpi di becco si fecero più deboli, il suo respiro più affannoso. E l'aquila, imperturbabile, saliva ancora, sempre più in alto, verso il cielo limpido e infinito. Alla fine, il corvo non ce la fece più.

 Sfinito e senza fiato, si staccò dall'aquila e precipitò verso il basso.

L'aquila non si voltò, non spese nemmeno un pensiero per il suo aggressore caduto. Continuò a volare verso le vette, libera e regale come se nulla fosse accaduto». Gli animali della foresta rimasero spaesati e sorpresi dalla storia raccontata dall’uomo. Un giovane scoiattolo, con gli occhi pieni di dubbi, si fece avanti e chiese: «Saggio viandante, come possiamo continuare a fare il bene e perseverare quando il mondo è così pieno di ingiustizie? Come possiamo non essere scoraggiati quando sembra che i nostri sforzi non facciano alcuna differenza?». « Non importa quanto gli altri siano irragionevoli, egoisti e insensati – rispose con voce ferma e calda il viandante –, voi dovete comunque continuare a fare il bene. Non importa quanto le vostre azioni possano essere fraintese o sottovalutate; voi dovete perseverare.

 Non lasciate che le piccole distrazioni vi portino via energia. Non combattete battaglie che non valgono il vostro tempo. Invece, come l'aquila, puntate sempre più in alto. Lasciate che siano i corvi a cadere per la loro stessa presunzione, mentre voi continuate a crescere, a volare, a vivere la vita al massimo delle vostre potenzialità».

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mercoledì 29 maggio 2024

ACUTIS, UNO DEI NOSTRI RAGAZZI

  


-         di Marco Pappalardo

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«Che c’entra con me Carlo Acutis – dice Roberto del secondo anno di un liceo – io non vado a Messa da due anni, il rosario lo recita mia nonna per me, e comunque con tutta questa fede e bontà muore pure giovanissimo, perché?».

Gli adolescenti sono i più “tosti”, i coetanei di Carlo quasi vent’anni dopo, cresciuti a pane e social network, alcuni già con idee abbastanza chiare sulla fede, la Chiesa e la religione, di solito non positive e al contrario rispetto alla sua testimonianza.

Il rischio, in effetti, è che il futuro santo, pur vicino d’età ai ragazzi, possa apparire irraggiungibile concretamente, quando non si rischia ancor più di farne un santino, soprattutto se mostrato attraverso lo sguardo ammirato degli adulti.

Dopo i due libri per adolescenti su padre Pino Puglisi e sul giudice Rosario Livatino, che avevano avuto un buon riscontro presso le scuole grazie ai temi della giustizia e della lotta alla mafia, quello sul beato Carlo Acutis dal titolo “Io e C@rlo”, edito come i precedenti da Paoline, sembrava destinato solo alle realtà ecclesiali.

Del resto, navigare nella sua storia, è mettersi alla ricerca di Gesù verso cui Carlo sin da piccolo ha tracciato la rotta con le vele della fede, con il timone della Chiesa, con la mappa del Rosario.

A 7 anni la Prima Comunione, la devozione all’Eucaristia «la mia autostrada per il cielo» e alla Madonna lo portavano quotidianamente a messa.

Invece, così come il giovane prossimo santo, i suoi coetanei attuali mi hanno stupito! Dall’uscita un anno fa ad oggi, infatti, quasi ogni settimana ho avuto la gioia di incontrare studenti e docenti delle scuole primarie e secondarie italiane, la maggior parte delle quali statali, che hanno letto il libro.

Mi piace ascoltare le loro domande e tra le prime c’è sempre: «Perché ha scritto questo libro?».

Rispondo che è una bella storia e che le belle storie vanno raccontate!

«Ma come può essere bella una vicenda in cui il protagonista muore prematuramente così giovane?», aggiunge qualcun altro. «Perché quei pochi anni sono stati vissuti intensamente, hanno lasciato un segno in quanti hanno incontrato Carlo, tanto che la sua storia ha superato i confini della sua città, del nostro Paese, raggiungendo ogni punto della Terra, e tornando indietro fino a qui, fino a noi».

A questo punto chiedo io agli studenti come sia possibile tutto questo e ne segue di solito una pioggia di voci: «Era un bravo ragazzo, voleva bene a tutti, pregava Gesù e la Madonna, aiutava i poveri, aveva tanti amici, usava internet, era benestante ma restava umile, la sua famiglia credeva in lui…».

I bambini di solito si lasciano andare con la fantasia e, spesso, grazie allo stimolo degli insegnanti presentano disegni ed elaborati originali frutto della lettura del libro, che reinterpretano in modo creativo.

I preadolescenti sono pieni di domande, vogliono saperne di più, chiedono i minimi dettagli della vita, sanno mettermi in difficoltà citando persino pagina e rigo, ma ci sta questa sana curiosità.

Qui viene in aiuto Ester, l’io del titolo del libro, coprotagonista nella finzione letteraria, cioè una ragazza come loro, che “incontra” Carlo per un compito assegnato dall’insegnante, facendo una ricerca online; un incontro inaspettato, quasi uno scontro all’inizio, si trasforma in un’amicizia virtuale e virtuosa tra adolescenti che, in un’età fatta d’incertezze e desideri, vivono questo tempo così complesso.

Le sue paure, i suoi sogni, le difficoltà, le risorse, i problemi a casa, la forza degli amici, la scuola come noia, la musica come rifugio, il virtuale e il reale sullo stesso piano, il passato che non esiste, il presente da vivere, un futuro a cui meglio non pensare, li riportano con i piedi per terra, percorrendo un pezzo insieme a lei e avvicinandosi allo stesso tempo al beato.

In questo modo Carlo pian piano diventa uno di loro, non per imposizione bensì per scelta, poiché un amico si sceglie e spesso ci viene presentato da altri, e la frequentazione permette di conoscerlo meglio ed apprezzare pure ciò che all’inizio sembrava più distante.

«Mi piace – afferma Giulia della stessa seconda classe – che oltre a dedicarsi alla famiglia, alla scuola, agli amici, allo sport, agli animali domestici, ai viaggi, era sempre sorridente e aiutava i poveri, facendo spesso delle rinunzie e coinvolgendo gli amici.

Tra le sue passioni c’erano la fotografia, i video e l’informatica, il web e dal mio punto di vista anche avere fede lo è.

Io ammiro chi fa le cose che dice e chi crede in qualcosa o in Qualcuno!».

Originale, umile, credente, connesso: queste le virtù di un giovane milanese “millennial”, ormai patrimonio dell’umanità e per molti un influencer, che si dedica a chi è in difficoltà, vive la fede nella sua pienezza senza esibizionismo, gode delle cose semplici, usa le nuove tecnologie a fin di bene, ama la natura, non rinuncia alle relazioni vere e mai banali.

 

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L'ALZHAIMER, METAFORA DI UNA SOCIETA' SMEMORATA

 


SOVENTE IL FARE MEMORIA, SIGNIFICA CELEBRARE SE STESSI, DIMENTICANDO LE RADICI E NON SAPENDO GUARDARE OLTRE L'ORIZZONTE

Pubblichiamo, di seguito, due articoli sull'Alzheimer come metafora. Ci sono vari spunti per riflettere, come educatori, sulle strategie più opportune per educare alla memoria, una memoria non autocelebrativa, ma seme feconda per un futuro migliore.

La memoria e la gratitudine esaltano la dignità della persona e la proiettano verso l’infinito. gp  

Noi siamo la memoria che abbiamo e la responsabilità che ci assumiamo. Senza memoria non esistiamo e senza responsabilità forse non meritiamo di esistere.   José Saramago@


-         di Graziano Graziani

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La vita è un processo di trasformazione continua, che passa dall’agilità dell’infanzia alla rigidità della vecchiaia, un processo così mirabolante di mutazione che è difficile credere che sia davvero lo stesso soggetto ad attraversare l’uno e l’altro stadio, ad “essere” ed “essere stato” la stessa persona. E in effetti l’individualità, intesa come identità costante di un soggetto, è da tempo al vaglio di una serrata critica di carattere filosofico, psicologico e perfino artistico, se è vero che già nel 1871 Rimbaud affermava che “io è un altro”. Il collante di questa incessante mutazione, prima ancora di qualcosa che potremmo chiamare “io”, è il racconto di ciò che questo io è stato, la concatenazione consequenziale di episodi della vita, in una parola il ricordo. La memoria. È la memoria di ciascuno e ciascuna a creare l’io, o per lo meno a renderlo visibile, pensabile, grazie a un processo di racconto che dà senso al flusso, di per sé assai meno ricco di significato, dell’esistenza. Già Pasolini, nell’accostare il montaggio alla morte in un celebre saggio sul cinema, cercava di evidenziare quanto fosse l’intellegibilità, il racconto – che è anche selezione e sintesi – a creare in un certo senso l’esperienza umana, riducendola ad un fatto narrabile. Se è pur vero che il culmine di questo costante processo di trasformazione è l’«abisso orrido, immenso» di cui parla Leopardi nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, è pur vero, tuttavia, che finché è possibile raccontare la propria storia, trasmetterla a qualcuno, esiste una speranza di continuazione e di sopravvivenza che va oltre il corpo e la sua fisicità, oltre quel destino dove «il tutto oblia».

In uno dei passaggi più emotivi del romanzo storico I tamburi nella pioggia, Ismail Kadare racconta di un soldato ottomano intrappolato in un tunnel crollato assieme a dei commilitoni, inghiottiti dal buio e in attesa della morte; in una simile terribile condizione tutto quello che desidera fare quel soldato è cercare, invano, qualcuno che sia disposto ad ascoltare la sua storia. Quel desiderio, così umano e tuttavia inutile, poiché chiunque avrebbe ascoltato sarebbe comunque poi morto con lui, ci racconta di quanto insopprimibile sia il desiderio di operare questa ricapitolazione della propria esistenza.
Non stupisce allora che in una società come la nostra – che dà un lato ha edificato un vero e proprio culto della memoria collettiva e personale, e dall’altro si trova ad affrontare la condizione inedita di invecchiare sempre di più, di sperimentare la sproporzione tra giovani e vecchi a vantaggio di questi ultimi – si rifletta sempre di più sull’identità in chiave della sua disgregazione, non più secondo il topos della follia, caro ai secoli passati, ma seguendo il tracciato del decadimento fisico. Decadimento che, in questo tipo di società sempre più anziana, diventa materia tangibile, esperienza quotidiana, e che interessa il corpo quanto la mente.

L’Alzhaimer, oltre che essere una malattia, è una metafora. È il simbolo dell’impotenza di una società che crede di poter dominare ogni aspetto della vita; è il segnale tangibile dell’illusione a cui la memoria ci espone. Buco narrativo nel racconto del sé, ma anche lo sguardo impudico sulla disgregazione di un io, è uno strappo che non riguarda soltanto chi affronta la malattia, ma anche chi è vicino al malato, perché l’ambiente affettivo di ciascuno di noi, che è parte di noi stessi, ne viene investito e travolto.
Diversi artisti, negli ultimi anni, hanno scelto di indagare questa frattura, spesso partendo da questioni biografiche, come è intuibile, ma non solo, cercando di affrontare la malattia nelle sue implicazioni che travalicano la dimensione privata, quella sorta di “lutto anticipato” che è il disgregarsi di una mente che ha fatto parte, spesso in modo intimo, del nostro mondo. Questo numero di «93%» sceglie allora di indagare la malattia, il decadimento, come materia di riflessione artistica oltre che filosofica, dando spazio alle riflessioni di quattro artisti che hanno lavorato su questo tema. Quattro diversi approcci che però hanno moltissimi punti di connessione tra loro.
Adrian Bravi, da scrittore e romanziere, riflette sulle parole che scompaiono. Scompaiono le parole, come strumento della comunicazione con l’altro, ma con esse scompare anche la relazione. Non dissimile è il ragionamento di Andrea Cosentino, che nel suo spettacolo evoca anche l’illusione che abbiamo del tempo come moto lineare, tirando in ballo persino la fisica quantistica. Se scompaiono il senso e persino il tempo, da questa scossa tellurica sembrerebbe emergere nient’altro che il caos della nuda esistenza, eppure entrambi gli autori intravedono qualcosa che riconnette gli esseri umani a un elemento trascurato, quando non perfino negato, dell’esistenza: la sua leggerezza, la sua consistenza effimera. Sullo stesso procedimento di racconto, ma di segno opposto, si snoda il lavoro teatrale di Fabiana Iacozzilli, che evoca un quadro familiare dove la tensione si concentra sul tentativo, destinato inevitabilmente alla sconfitta, di trattenere la memoria, di arrestare la scomparsa e l’oblio. È questo, in parte, un compito affidato all’arte stessa, compito a sua volta effimero, ma che nell’allungare oltre i limiti fisici l’esperienza di una persona disegna comunque la possibilità di una dimensione ulteriore, collettiva, intergenerazionale, che ha a che vedere con il lascito, con l’eredità. Jacopo Giacomoni ricorre invece – come anche Cosentino – alla musica, una musica “slogata” che si interfaccia con un loop testuale, dove la decadenza diventa tangibile esperienza della dissipazione del significato. Un’esperienza che, seguendo la lezione di Mark Fisher, Giacomoni allarga dal particolare della mente individuale, soggetta a decadimento, al generale di una società “infestata” dal passato (un passato sovente utilizzato per celebrare se stessi, non per fare vera memoria) galleggiante in un presente immutabile dove frammenti di codici retrò riaffiorano periodicamente, sconnessi dai propri significati originali.

 

Novantatrepercento

 

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-       L’Alzheimer come metafora dell’oggi

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-         - di Stefano Allievi

Siamo un paese che invecchia e si spopola. Più morti che nati. Più emigranti che immigrati. Lo scompenso tra generazioni è in crescita. La piramide demografica è diventata una specie di cilindro in precario equilibrio, perché più largo in alto che in basso: e dunque a rischio di crollo. Con conseguenze impreviste. La malattia di Alzheimer è una di queste, e può essere letta come una metafora della nostra situazione. Perché è legata direttamente all’anzianità (colpisce una persona su cento tra i 65 e i 74 anni, ma ben una su cinque sopra gli 85 – il frutto avvelenato di una buona notizia, l’allungamento della speranza di vita). E perché produce, tra le altre cose, perdita della memoria e del senso della realtà: scaricandone le conseguenze sulle generazioni più giovani.

I malati di Alzheimer (che può avere forme più o meno gravi) sono persone con cui è difficile relazionarsi. Moltissimi hanno problemi per vestirsi o curare la propria igiene. Una cospicua minoranza (vicina al quaranta per cento) manifesta forme di aggressività verbale, quasi il venti per cento anche fisica, un po’ di più reagiscono ad accadimenti che non comprendono urlando. Quasi un terzo confonde il giorno e la notte, moltissimi, nella forma più nota e anche leggera, non riconoscono congiunti o conoscenti, o non hanno memoria di breve termine, per cui ripetono continuamente le stesse domande, di solito a proposito delle medesime persone.

Ma a parte i cambiamenti nella loro personalità, inducono cambiamenti nelle loro reti di relazione, e nella società. Mediamente hanno bisogno di quattro ore di assistenza diretta, e dieci-undici ore di sorveglianza. Producono in chi si occupa di loro frequenti e improvvise assenze dal lavoro, in molti casi la necessità della richiesta del part-time (che di solito finisce per pesare sulle donne), nel venti per cento dei casi la perdita stessa del lavoro (idem). Con un costo medio stimato a paziente di 70mila euro l’anno, di cui 19mila direttamente a carico delle famiglie, significa che spesso i figli, costretti a diventare i genitori dei loro genitori, a seguito del sovraccarico lavorativo ed emotivo vivono situazioni di stanchezza e depressione, che si riverberano sulla vita familiare. Così come il costo economico dei genitori si riverbera e ha conseguenze sulle opportunità, anche educative, offerte ai figli, dalla generazione che sta in mezzo. I risparmi di una vita, in non pochi casi, finiscono per svanire in poco tempo per occuparsi di persone che non recupereranno alcuno stato di salute. Gli stessi caregiver (assistenti, badanti) assoldati allo scopo, spesso stranieri, non sono adeguatamente professionalizzati, e tamponano come possono le falle del sistema (come fanno, giocoforza, coniugi e figli dei malati). I servizi, infine, non sono adeguati alla drammaticità del problema, e gli investimenti previsti insufficienti rispetto al suo aggravarsi.

Nella sua drammaticità, specifica di una categoria per fortuna non amplissima, ma in crescita, descrive bene la situazione del paese. Un sistema che regge grazie al lavoro e all’inventiva di adulti e forza lavoro, non abbastanza aiutati per quello che fanno. Ma squilibri di genere ingiustificati. I vantaggi delle generazioni più anziane che diventano svantaggi per quelle più giovani, le tutele degli uni che diventano i gravami degli altri. E ancora, le reti di servizio insufficienti e sottodimensionate, con il conseguente peso che grava interamente su famiglie peraltro sempre più piccole, con meno risorse e più problemi. E in tutto questo, un dibattito politico che parla di tutt’altro, di preferenza di cose inutili o addirittura controproducenti per risolvere la situazione (un esempio: immaginiamo come sarebbe la situazione senza colf e badanti stranieri…). E pochi (che per fortuna ci sono) tra i governanti e i responsabili, che avendo una visione delle tendenze in atto, cercano di affrontare i problemi, e al contempo di far quadrare i conti, come un buon padre di famiglia (come si diceva una volta nel linguaggio giuridico: oggi dovremmo dire un genitore avvertito) dovrebbe fare.

Davvero, non sembra la descrizione del nostro paese?

Corriere della Sera

 

 

 

martedì 28 maggio 2024

PREGARE CON SANTI E PECCATORI


 Una scheda sul quarto sussidio pubblicato 

dal Dicastero per l’evangelizzazione 

a cura di p. Giuseppe Oddone

Continua la serie di schede curate da p. Giuseppe Oddone, assistente ecclesiastico nazionale delle associazioni Aimc e Uciim, sui sussidi che il Dicastero per l’Evangelizzazione sta pubblicando in vista del Giubileo.

Il quarto della serie si intitola “Pregare con santi e peccatori” ed è stato scritto da Paul Brendan Murray, domenicano irlandese, teologo ed insegnante di letteratura mistica, autore di numerosi libri di spiritualità.

“La tesi di fondo, per alcuni aspetti paradossale – rileva p. Oddone – è questa: molti santi, ma potremmo includervi l’esperienza di tutti i cristiani, imparano a rivolgersi a Dio e a convertirsi attraverso la preghiera di pentimento di celebri peccatori. Infatti, quanto più uno percepisce il proprio peccato come lontananza da Dio e mancanza di amore, tanto più intensa ed efficace diventa la sua invocazione al Signore”.

Il testo analizza quindi la preghiera di quattro giganti della santità, veri testimoni di Dio, due uomini e due donne, tutti dottori della Chiesa e maestri di spiritualità: Sant’Agostino, San Tommaso d’Aquino, Santa Teresa d’Avila, Santa Thérèse di Lisieux. 

In questo modo – continua p. Oddone – si spiega “che la preghiera è un cammino di tutta la vita, come lo è la conversione: ha un suo punto di partenza, uno sviluppo, momenti di difficoltà e di crisi, una sua realizzazione, una sua atmosfera, una sorgente che continuamente la alimenta. Questi santi ci propongono una strada che tutti possiamo percorrere”.

In allegato il testo di p. Giuseppe Oddone.

PREGARE CON SANTI E PECCATORI



 

 

UN SENSO ALLA VITA

 

«Essere giovani oggi è tremendo, perché sei senza punti di riferimento. Non conosco nessun ragazzo della mia età che vada a votare e che vada in chiesa». 



Così il cantautore Niccolò Moriconi, in arte Ultimo (suo di diritto questo banco), nella recente intervista.


-          di Alessandro D’Avenia

 

Per i giovani di cui parla il ventottenne romano che riempie gli stadi, le grandi narrazioni, un tempo capaci di unire e mettere in moto, non hanno più energia. Politica e religione non danno più senso e non fanno più comunità, sono relitti a cui si aggrappa chi ci è cresciuto dentro. «Siamo stufi — dice Ultimo — di questa spaccatura tra destra e sinistra. Immagini che effetto avrebbe un politico che dicesse: non scelgo né la destra né la sinistra. Scelgo l’alto».

 Disimpegno giovanile? Non credo: per rimanere in musica, già Gaber nel 1994 chiudeva con un «basta!» la canzone Destra-Sinistra, ridotte da tempo a etichette, ma sperava nostalgicamente: «L’ideologia/ Malgrado tutto credo ancora che ci sia/ È la passione, l’ossessione della tua diversità/ Che al momento dove è andata non si sa». E le chiese? «Un conto è credere in un dio, in un’entità, nelle energie; io credo nelle energie, che Jung chiamava sincronicità: come incontrare la persona giusta al momento giusto. Un altro conto è credere nella Chiesa».

 Che cosa è «l’alto» indicato da Ultimo? E quali «energie» sono più affidabili della Chiesa?

 Alto, dal latino alo, nutrire, è chi è cresciuto, stessa radice di alimento, ciò che nutre, e di alunno, chi deve esser nutrito per raggiungere la sua altezza. La cultura dominante, di cui la politica è manifestazione, non fa più crescere. Le manca, dieta inadeguata, sostanza: il senso della vita. Una cultura alta non fa morire di fame chi è in cerca di senso. Invece politica, religione, libri, serie, musica, tv, podcast, social... sono spesso solo aperitivi, solleticano la fame, ma lasciano a stomaco vuoto. Un pensiero «spritz e noccioline» non soddisfa il perché e per chi val la pena vivere, cioè come si affronta e si vince la morte. Mancano narrazioni «alte», visioni di mondo ricche di sostanza, capaci di dare energia all’ordinario facendolo diventare straordinario.

 Vasco, nel 2004, lo cantava già stancamente in Un senso: «Voglio trovare un senso a questa vita/ anche se questa vita un senso non ce l’ha.// Sai che cosa penso?/ Che se non ha un senso/ Domani arriverà/ Domani arriverà lo stesso»; e Ultimo, riecheggiandone i versi, di questa speranza senza sostanza certifica la fine: «I giovani sono anestetizzati. Fermi. Aspettano un domani che non arriva e non arriverà... Noi proviamo a dare un senso alle cose. Ma la realtà non è sensata. La realtà è tremenda. È schifosa. Guerra, paura, sottomissione, chiusura: stai attento a quello, non fare quell’altro. Per questo ci costruiamo un altrove».

 Il cantautore stufo di catene evoca un luogo. Se prima era una direzione, l’alto, ora è un rifugio privato: «bere un buon vino con i miei amici, guardare una serie con la mia fidanzata, le canzoni. Non è scappare dal mondo. È guardarlo con gli occhi dell’altrove. Da ragazzo l’altrove era il parchetto di San Basilio». Non è spento il desiderio di appartenere e di comunità, ma è per lo più un rimpianto: i metri quadri in cui un bambino trovava tutto.

 Oggi l’altrove sembra non essere più «pubblico» come un parco, ma «privato», un orticello, in cui almeno ci sono legami buoni. Pensiamo alle imminenti elezioni europee. Coinvolgono i giovani, che Europei lo sono solo per qualche euro in tasca? Che narrazione e quindi che energia ha l’Europa per la loro vita? Che senso ha un sistema in cui nella quasi totalità dei partiti viene poi eletto chi non hai scelto? Perché quindi votare l’inappartenenza? E le chiese? Esaurite, meglio rivolgersi ad altre energie depositarie del sacro senza cui l’uomo non può vivere. Nelle chiese spesso trovi il Dio della terza età, barbuto e barboso, moralistico, individualistico e sentimentale, non un Amore forte che mi viene incontro e parla a me, che mi tira fuori dall’io isolato e mi dà energia per amare, cioè per godere la vita con gli altri.

 Del primo Nietzsche aveva certificato la morte (cioè che non fosse più fonte di senso) già nel 1885 in Così parlò Zarathustra, definendo l’arrivo dell’ultimo (il cantautore qui non c’entra) uomo, di massa: «Ecco! Io vi mostro l’ultimo uomo. La terra sarà diventata piccola e su di essa saltellerà l’ultimo uomo, che tutto rimpicciolisce. La sua genia è indistruttibile, come la pulce di terra; campa più a lungo di tutti. “Noi abbiamo inventato la felicita” — dicono gli ultimi uomini e strizzano l’occhio. Si continua a lavorare, perché il lavoro intrattiene. Ma ci si dà cura che l’intrattenimento non sia troppo impegnativo. Nessun pastore e un sol gregge! Tutti vogliono le stesse cose, tutti sono uguali: chi sente diversamente va da sé in manicomio. Una vogliuzza per il giorno e una vogliuzza per la notte: salva restando la salute. “Noi abbiamo inventato la felicità” — dicono gli ultimi uomini e strizzano l’occhio». Il filosofo aveva intuito l’esaurirsi dell’energia creativa in un mondo in cui la felicità diventa una quieta e piacevole disperazione, e il denaro per le vogliuzze una fede.

 Questa è la vita tremenda da cui Ultimo cerca l’uscita (in alto) o la fuga (altrove). E in questo desiderio di liberazione o evasione si identificano moltitudini d’orecchie e di cuori: «Sono vero. Onesto. Trasparente al cento per cento. Non scrivo canzoni per farne un successo, ma per tirare fuori quello che ho dentro. Quando canto, io ci credo. E la gente capisce quando una cosa è vera. Le persone si aggrappano a me, alle mie parole». I concerti sono eventi comunitari, per due ore si appartiene a qualcosa di meno asfissiante del proprio io, prigioniero di rabbia e malinconia, disprezzo e anestesia, perché la cultura dominante non nutre ma affama. Ci resta della musica leggerissima, adatta ai passi del ballo delle incertezze contro la noia total, per rimanere nel credo sanremese. Per Nietzsche gli ultimi uomini sono coloro che hanno rinunciato all’amore, al desiderio, alla speranza. Dov’è l’amore che mi vuole esistente e non viene meno? Dov’è l’infinito all’altezza del mio desiderio? E l’altrove che può unirci e in cui sperare?

 Domande che mezzo secolo fa l’adolescente Camilla Unwin pose a J.R.R.Tolkien così: «Qual è lo scopo della vita?». Il 20 maggio 1969, l’autore più letto del XX secolo e visto del XXI, le rispose con una lettera in cui le diceva che «non viviamo, non possiamo vivere, in isolamento, abbiamo un legame con tutte le altre cose, sempre più stretto fino a quello unico con la nostra specie» e aggiungeva che da questi legami, che la settimana scorsa chiamavo di «co-nascenza», derivava lo scopo della vita: sviluppare i propri talenti senza sprecarli o abusarne; non ferire il prossimo e non interferire nel suo sviluppo, anzi essere disposti al sacrificio di sé per amore; accrescere la conoscenza di un universo inesauribile e soprattutto di Dio, fonte di tutti i legami, bellezze e misteri.

 Le nuove generazioni, ieri come oggi, hanno fame di questa sostanza che fa crescere e partecipare al banchetto della vita. Sta a noi prepararla e offrirla, sta a loro cercarla, e scegliere tra la rimpicciolita felicità di massa degli ultimi uomini, «le sostanze», o una vita più bella, grande e gioiosa, «di sostanza», degli uomini nuovi. Qui e ora, al banco Ultimo.

 Alzogliocchiversoilcielo

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lunedì 27 maggio 2024

INTRAPRENDENZA, UNA "VIRTU'" CHE FA CRESCERE

             Educare

ed 

educarsi all’intraprendenza 


-di Adriano Fabris

 

Voler fare tutto nuovo, è certamente una virtù. Ma lo è solo se non si coltiva l’illusione che sia possibile svincolarsi del tutto da quei limiti che definiscono la propria vita. È questo che dobbiamo insegnare ai nostri giovani.

 Per noi esseri umani, tuttavia, cominciare da zero non è possibile. Infatti, il passato ci vincola ben più di quanto pensiamo. E, in parallelo, il futuro ci sfugge, ben al di là delle nostre intenzioni. Così l’intraprendenza, come volontà di rompere con una situazione di fatto, si scopre, da una parte, pur sempre condizionata da ciò che siamo stati e dal contesto in cui viviamo e, dall’altra parte, inserita nell’orizzonte ben preciso di ciò che concretamente possiamo fare. In una parola: l’intraprendenza, il voler fare tutto nuovo, è certamente una virtù. Ma lo è solo se non coltiviamo l’illusione che sia possibile svincolarci del tutto da quei limiti che definiscono la nostra vita.

 La consapevolezza di tali limiti rende prudente chi vuol esercitare l’intraprendenza. Ma mentre la capacità d’intraprendere qualcosa di nuovo è una predisposizione naturale, a cui solo in parte si può educare, così non è per quella prudenza che può accompagnarla. Intraprendenti, infatti, sono coloro in grado di sopportare, e magari di amare, il rischio della novità: condottieri, esploratori, creativi. Essi vogliono andare oltre i limiti imposti da una certa situazione. La prudenza, invece, permette di contenere l’attitudine al rischio, e perciò di renderla feconda. Chi, dunque, coniuga intraprendenza e prudenza lo fa per rendere stabile la novità che intende conseguire. Il condottiero coraggioso, se vuole vincere, non può essere temerario. E dunque superare i limiti non vuol dire dimenticarli. Significa sapere che si ripresenteranno e che, rispetto a ciò, sarà necessario trovare un punto di equilibrio.

 Questo, appunto, si può insegnare. Si può insegnare la prudenza. Si può insegnare che esistono limiti e che con essi, per realizzare qualcosa che sia non solamente nuovo, ma guadagnato stabilmente, bisogna pur sempre fare i conti.

 Certo: insegnare ai nostri ragazzi, intraprendenti per natura, il senso del limite non è affatto facile. A loro piace il rischio, piace l’avventura. Perché, nella pienezza di vita che li caratterizza, è facile che si sentano quasi onnipotenti. Cominciare da zero è la loro intenzione, più o meno consapevole; sfidare chiunque voglia sottometterli a regole è una costante tentazione. L’avventura diventa un’abitudine: magari per sfuggire alla noia di un’esistenza fin troppo garantita e coccolata.

 Come educare dunque la loro intraprendenza? Come far loro capire che l’intraprendenza diventa feconda, produttiva, solo se tiene conto fin dall’inizio dei limiti ai quali andranno incontro? Ricette universali non ne esistono. Vale, anche in questo caso, l’esperienza che ognuno, genitore o amico, ha fatto: purché sia capace di ascoltare, non solamente d’imporre regole che rischiano di essere immediatamente disattese o infrante.

 Come comportarsi, allora? Per chi fa dell’intraprendenza la sua bandiera ciò che risulta semplicemente imposto – ben lo sappiamo – è un incitamento alla trasgressione. Invece, se delle regole facciamo comprendere il senso, forse allora riusciamo insieme a far capire che anche la volontà di rendere tutto nuovo è qualcosa che si realizza solo in un contesto relazionale: in una relazione con gli altri, con il mondo in cui si vive, con le speranze e i progetti da realizzare. E che in questo contesto emergono non solo i limiti che il nostro agire è destinato a sperimentare, ma anche la possibilità di oltrepassarli.

 Ben lo sanno gli audaci. Sanno, cioè, che la fortuna aiuta la loro intraprendenza. Ma sanno anche che la fortuna va conquistata e tenuta saldamente in mano. E che ciò avviene solo grazie a un esercizio di prudenza. Ai nostri ragazzi questo va detto. Affinché torni loro in mente quando, magari, vogliono compiere un sorpasso azzardato.          

  

Parole da meditare. Intraprendenza

 

-           di Enzo Bianchi

 

Nei vangeli la virtù dell’intraprendenza assume molti volti: è l’audacia profetica di Gesù che scaccia i venditori dal tempio (cf. Mc 11,15-19 e par.; Gv 2,14-22); è il coraggio risoluto con cui egli persegue il suo cammino verso Gerusalemme, raccogliendo tutte le sue forze per affrontare le difficoltà che lo attendono (cf. Lc 9,51); è la franchezza di fronte alla quale anche i suoi avversari sono costretti ad ammettere che egli «non ha soggezione di alcuno, perché non guarda in faccia a nessuno, ma insegna la via di Dio secondo verità» (cf. Mc 12,14 e par.). Ma tutti questi elementi sono approfonditi e riassunti dal «bel rischio» della fede di cui parla Clemente di Alessandria (Protrettico X,93), riprendendo un’espressione di Platone.

La bellezza di questo rischio trova la sua attestazione degna di fiducia nel rischio che Gesù stesso ha vissuto, spendendo la sua esistenza nella dedizione a Dio e agli uomini, cioè «amando fino alla fine» (cf. Gv 13,1), anche a costo di subire una morte ingiusta e vergognosa. È solo con l’autorevolezza propria di chi ha vissuto in questo modo che egli ha potuto chiedere: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Mc 8,34 e par.). Sono parole che, nella loro paradossalità, hanno un significato semplice e netto: chi vuole essere realmente discepolo di Gesù deve smettere di considerare se stesso come misura di ogni cosa; deve rinunciare a difendersi e accettare di portare lo strumento della propria condanna a morte; deve uscire dai meccanismi di autogiustificazione e abbandonarsi totalmente al Signore. Solo chi accetta di fare questo può conoscere Gesù Cristo e cogliere se stesso in lui, intraprendendo così un cammino di vita piena e felice.

 La miglior interpretazione di queste esigenze la fornisce lo stesso Gesù, commentandole con l’affermazione che costituisce il vero fulcro della «differenza cristiana»: «Chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà» (Mc 8,35 e par.).

 Ma noi cristiani siamo ancora convinti che vale la pena perdere la vita per Gesù Cristo? Ovvero: crediamo che il suo amore vale più della vita (cf. Sal 63,4), che solo a motivo di questo amore trovano senso anche le fatiche e le contraddizioni della vita? Ecco l’intima verità del Vangelo, ecco in cosa consiste la vera audacia, la vera intraprendenza: perdere la nostra vita per amore di Gesù Cristo è ciò che può giustificare ogni nostra rinuncia, è la vera beatitudine possibile già qui e ora, nella nostra vita umanissima. Ma se non comprendiamo questo, possiamo ancora dirci cristiani?


  SPIRITO DI INIZIATIVA E INTRAPRENDENZA

PERCORSI EDUCATIVI

Lo Spirito di iniziativa e intraprendenza è la competenza su cui si fonda la capacità di intervenire e modificare consapevolmente la realtà.

Ne fanno parte abilità come il sapere individuare e risolvere problemi, valutare opzioni diverse, rischi e opportunità, prendere decisioni, agire in modo flessibile e creativo, pianificare e progettare.

Anche in questo caso, l’approccio per discipline scelto dalle Indicazioni non consente di declinarla con le stesse modalità con cui si possono declinare le competenze chiave nelle quali trovano riferimento le discipline formalizzate.

Anche questa competenza si persegue in tutte le discipline, proponendo agli alunni lavori in cui vi siano situazioni da gestire e problemi da risolvere, scelte da operare e azioni da pianificare.

E’ una delle competenze maggiormente coinvolte nelle attività di orientamento.

E’ anch’essa fondamentale per lo sviluppo dell’autoefficacia e della capacità di agire in modo consapevole e autonomo.

 Educare all’intraprendenza – Percorsi di crescita