sabato 8 marzo 2025

IL PUBBLICANO

 


 Vangelo - Lc 5 27-32

 

Commento di Piotr Zygulski

  

Non per i giusti, ma per i peccatori; non per i sani, ma per i malati. 

E potremmo aggiungere: non per i “normali”, ma per i cosiddetti “diversi”; non per i praticanti che vanno in chiesa, ma per i non praticanti che non ci vanno; non per i cittadini, ma per gli stranieri; non per chi è a posto, ma per chi parrebbe fuori posto; non per chi fa la comunione, ma per gli scomunicati; non per gli interni, ma per gli esterni; non per gli ordinati, ma per i disordinati. 

Gesù è venuto principalmente per loro.

Talvolta si fa presto a dire che, in fondo, siamo un po’ tutti malati, peccatori, acciaccati; e, beandoci di questo, confortati dalla onnipresenza di Dio, dimentichiamo chi è veramente lasciato fuori, magari per nostra colpa. 

Ecco chi è prioritario: chi è escluso, non chi è già incluso.

Chi segue Gesù vive le periferie, le marginalità, le frontiere. Non è un optional, una moda di ricchi filantropi né un vezzo fricchettone: stare sulle soglie è la missione stessa del cristiano.

Ciò senza nulla togliere alle nostre più o meno grandi manchevolezze, e senza nemmeno guardare gli altri dall’alto verso il basso; tutt’altro: Gesù stesso si è fatto peccato, elevato in croce, dove è morto, senza respiro, martoriato dalla violenza umana, del potere politico e religioso.

Nella vittima – hostia – lo riconosciamo, per quanto essa possa gridare o essere ormai senza più voce. E ogni autentico incontro con ogni sofferente ci umanizza: ci evangelizza.

Fonte

 

INCANTATE LE NOSTRE VITE


 Gianni Nuti vince il Premio Italiano di Pedagogia 2025 con 
 “Incantate le nostre vite”

Il premio verrà consegnato ufficialmente 

il prossimo 21 giugno a Parma, 

durante il convegno nazionale della Società Italiana di Pedagogia.

 

Con Il suo ultimo libro, “Incantate le nostre vite. Storie e pensieri su educazione e società” (pubblicato da Armando Editore nel 2024), Gianni Nuti, docente dell’Università della Valle d’Aosta e sindaco di Aosta, si aggiudica il premio Italiano di Pedagogia 2025, promosso dalla Società Italiana di Pedagogia.

L’opera affronta il ruolo dell’educatore nella società contemporanea, partendo da una riflessione profonda sulla necessità di educare oggi. Nuti esplora il valore dell’ascolto, della pazienza e della ricerca della bellezza nell’essere umani, ponendo l’educazione come strumento per contrastare la frenesia della vita moderna e ritrovare un senso di incanto collettivo.

“All’Università della Valle d’Aosta non sono il primo docente a ricevere questo riconoscimento e, proprio per questo, dobbiamo considerare questo premio come la conferma della credibilità che il nostro Ateneo, seppur piccolo, dimostra anche a livello nazionale” sottolinea Nuti.

La Rettrice dell’Università, Manuela Ceretta, esprime soddisfazione per il prestigioso riconoscimento, sottolineando come il lavoro di Nuti contribuisca ad approfondire la riflessione sul ruolo dell’educatore nella società di oggi.

Il premio verrà consegnato ufficialmente il prossimo 21 giugno a Parma, durante il convegno nazionale della Società Italiana di Pedagogia.

Il libro colloca nella contemporaneità la figura dell’educatore partendo da una domanda generatrice: perché farlo e perché proprio oggi? 

Da qui una serie di interrogativi sulla vita profonda, su cosa significhi ascoltare sé e il mondo, su come riconoscere stili, climi, modi di essere con i quali ogni individuo e ogni gruppo racconta la propria storia. 

È un esercizio di pazienza, di operosità sapiente e calda insieme, di vocazione alla bellezza dell’essere umani, ma anche di ricerca della solitudine e del silenzio come incubatore di azioni giuste contrastando i nostri tempi accelerati alla ricerca di un perduto, collettivo incanto.

 Anno di Edizione  2024

Collana LE FRONTIERE DELLA PEDAGOGIA

Autore Gianni Nuti

Numero di Pagine 218

Editore ARMANDO


 

 

 

 

 

venerdì 7 marzo 2025

DONNE NELLA CHIESA E NELLA SOCIETA'


 
 
Tra passi avanti 
e resistenze


 Poco tempo fa ho accompagnato delle classi a un’esperienza interessante a Roma: l’Italian model of United Nations (Imun), in cui adolescenti di tutta Italia si immedesimano per alcuni giorni nel lavoro dei delegati Onu dibattendo in inglese di problemi e risoluzioni.

Una piccola finestra su un mondo possibile, con giovani che studiano le situazioni di Paesi lontani, in atteggiamento inclusivo, responsabile, attivo verso le più grandi sfide del mondo, sebbene in modo simulato. Le delegazioni erano assolutamente equilibrate dal punto di vista del genere, una in particolare, che simulava la Commissione sulla condizione delle donne (Csw), organo del Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite (Ecosoc), doveva approfondire strategie per implementare la parità di genere e l’avanzamento dei diritti delle donne.

Questa commissione è il principale organismo intergovernativo globale e si dedica alla verifica della realizzazione dei punti della Dichiarazione di Pechino (1995) dedicata alla promozione delle donne e dell’uguaglianza di genere. Approfondendo tali tematiche delle giovani donne potrebbero farsi delle domande rispetto alla distanza di molte posizioni ecclesiali da quelli che vengono considerati diritti da promuovere.

 TANTI PASSI AVANTI

Il cammino delle donne verso una piena e paritaria partecipazione nella società e nella Chiesa è uno dei grandi temi del nostro tempo. È un percorso segnato da conquiste significative. Come un fiume che scorre verso il mare, questo movimento ha conosciuto rapide impetuose e anse placide, ha incontrato dighe e deviazioni, ma non ha mai smesso di avanzare.

Guardando indietro, non possiamo non riconoscere i passi da gigante compiuti nelle ultime decadi. Nelle società occidentali, le donne hanno conquistato diritti fondamentali: dal voto all’istruzione, dall’accesso alle professioni alla tutela contro le discriminazioni. Oggi vediamo donne ai vertici di aziende, in parlamento, nelle aule dei tribunali e nei laboratori scientifici. La cultura stessa si è evoluta, mettendo in discussione stereotipi di genere radicati da secoli.

Un esempio significativo di progresso legislativo recente è la Direttiva Ue sulla trasparenza salariale, approvata nel 2023. Questa legge obbliga le aziende con più di 100 dipendenti a fornire informazioni sulla differenza retributiva tra uomini e donne, imponendo misure correttive in caso di divario superiore al 5%.

Sarebbe ingenuo tuttavia pensare che il cammino sia compiuto. Le statistiche ci ricordano impietosamente che la parità salariale resta un miraggio in molti settori. La violenza di genere continua a essere una piaga sociale, alimentata da pregiudizi duri a morire. Molte donne si trovano ancora costrette a scegliere tra carriera e famiglia, in un sistema che fatica a riconoscere il valore sociale della paternità e della cura.

Volgendo lo sguardo alla Chiesa, il quadro si fa ancora più complesso.

Papa Francesco ha compiuto gesti significativi, nominando donne in ruoli di responsabilità mai ricoperti prima all’interno della Curia Romana. Il dibattito sul diaconato femminile, riaperto dal Pontefice, è segno di una Chiesa che si interroga e cerca nuove strade.

In Svizzera, la diocesi di Losanna, Ginevra e Friburgo ha nominato nel 2021 Marianne Pohl-Henzen come vicaria episcopale, la prima donna a ricoprire questo ruolo di alta responsabilità nella Chiesa cattolica svizzera. Con tale incarico ha un’autorità significativa nella gestione pastorale e amministrativa della diocesi.

Fuori dall’Europa, in Amazzonia, suor Laura Vicuña Pereira Manso è stata nominata nel 2022 amministratrice ecclesiastica della Prelatura di São Félix do Araguaia in Brasile, in assenza di un vescovo. Questo ruolo le conferisce la responsabilità di guidare la prelatura, ruolo tradizionalmente riservato al clero maschile.

IL FRENO A MANO ANCORA TIRATO

Tuttavia, non possiamo ignorare le resistenze che ancora persistono. Certe mentalità tradizionaliste faticano ad accettare un ruolo più incisivo delle donne nella governance ecclesiale. Nel campo della teologia e dell’insegnamento, se pur con notevoli eccezioni, la voce femminile stenta ancora a trovare piena cittadinanza.

Che fare, dunque? La strada da percorrere è ancora lunga, ma non impossibile. Nella società, è necessario continuare a lavorare per una vera parità di opportunità, che passi attraverso politiche concrete di sostegno alla genitorialità, di contrasto alla violenza, di promozione dell’educazione. Servono leggi, certo, ma ancor più serve un cambiamento culturale profondo, che riconosca nella diversità una ricchezza e non una minaccia.

Nella Chiesa, il cammino sinodale, seppure con varie disillusioni, è ancora un’occasione preziosa per smuovere le acque. Si tratta di riconoscere i carismi affidati alle donne come agli uomini come dono dello Spirito per l’intera comunità e, dunque, nei casi opportuni, da rendere ministeri stabili. La sfida è quella di una Chiesa che, almeno alle nostre latitudini, si fa numericamente più piccola, ma dove la corresponsabilità tra uomini e donne è vissuta come espressione autentica del Vangelo e ricerca di autenticità e pienezza umana. Come ci ricorda Papa Francesco, “l’alleanza dell’uomo e della donna è chiamata a prendere la regia della società nel suo complesso” (Amoris Laetitia, 201).

Beati quelli e quelle che con pazienza e determinazione sapranno riconoscere i pregiudizi che ci abitano nel profondo, affrontare con coraggio le resistenze e accogliere con umiltà il nuovo: saranno testimoni e artefici di una cultura del vero rispetto e della valorizzazione reciproca.

IMPLICAZIONI PER IL FUTURO

Ogni volta che una donna viene riconosciuta per le sue capacità e non per il suo genere, ogni volta che un uomo si fa carico della cura familiare senza sentirsi sminuito, ogni volta che nella Chiesa si ascolta con rispetto la voce profetica di una donna, facciamo un passo avanti verso il «tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28) che annuncia Paolo.

Le implicazioni teologiche di una maggiore partecipazione femminile nella Chiesa sono profonde. La teologia femminista ha già arricchito la riflessione ecclesiale, offrendo nuove prospettive sull’interpretazione delle Scritture e sulla comprensione dei dogmi.

La stessa immagine di Dio in prospettiva femminile si arricchisce di sfumature. Se sia l’uomo che la donna sono creati a immagine di Dio, come possiamo riflettere più pienamente questa realtà nelle strutture e nei ministeri ecclesiali? Si tratta di riconsiderare la natura dell’autorità nella comunità cristiana e questo si riflette anche in una nuova visione dell’umano all’interno dell’intera creazione.

La questione tocca il cuore della nostra comprensione dei sacramenti e dei ministeri, compresi quelli ordinati alla cura e guida della comunità, a partire dal sacerdozio battesimale, ancora concetto misterioso per molti fedeli.

Il cammino verso una piena partecipazione delle donne nella Chiesa e nella società è un segno dei tempi che non possiamo ignorare. Ciascuno di noi, uomo o donna, si senta interpellato a fare la propria parte, con fiducia e speranza, per costruire una Chiesa e una società più giuste, più inclusive, più conformi al sogno di Dio per l’umanità.

 

Rocca

 

 

PAPA FRANCESCO, DODICI ANNI DOPO

 

Mancano solo pochi giorni alla data del 13 marzo. Essa ci riporta ancora una volta a 12 anni fa, a quella sera del 13 marzo 2013, in cui il nuovo pontefice si presenta al mondo con il nome di Francesco. 



-          
Di Antonio Autiero*

 Una voce irrinunciabile 

Le apprensioni per le sue condizioni precarie di salute di queste ultime settimane rendono la persona di papa Francesco particolarmente vicina alla coscienza dell’umanità e non solo a quella parte di essa che si professa cattolica. Il modo di esercitare la sua funzione come papa ha reso Francesco una voce irrinunciabile nel narrare la storia che viviamo: esso ha dato al suo massaggio e al suo stile quel valore da tutti riconosciuto di leadership morale per capire e fronteggiare quello che egli stesso, mutuando il termine dal sociologo e filosofo francese Edgar Morin, definisce «policrisi». 

In questi dodici anni di papato Francesco ci ha educati a guardare con occhio disincantato l’intreccio drammatico in cui convergono temi di portata globale, come le guerre, i cambiamenti climatici, l’esaurirsi delle risorse energetiche, le epidemie, il fenomeno migratorio, l’emergere di innovazioni tecnologiche. 

Senza cadere nella retorica della catastrofe, Francesco ha presentato al mondo un messaggio aperto di speranza, di fiducia nelle capacità dell’uomo di sottrarsi alla spinta del male e di abbracciare la via del bene. Ma per fare questo, egli ce lo insegna, l’uomo deve potenziare le risorse di empatia, prendendo spunto dall’immagine di un Dio che si lascia coinvolgere, un Dio vulnerabile che si curva sul destino del mondo e offre spazi di redenzione e di salvezza. Le encicliche di papa Francesco (Laudato sì, Fratelli tutti, Laudate Deum) hanno allargato le dimensioni dell’insegnamento e della dottrina; hanno fatto capire che religione e destino dell’umano non sono realtà disgiunte. Per lui l’attesa della salvezza non distrae dalla responsabilità di impegnarsi qui e ora nella costruzione di un’umanità più giusta, più accogliente, più inclusiva. Coltivare uno sguardo globale che parte dalla fede religiosa e arriva all’impegno politico e civile è l’elemento distintivo e decisivo dello stare al mondo da donne e uomini che amano la vita, la rispettano e se ne prendono cura. 

Eppure, questo dodicesimo anniversario dell’elezione di Francesco a pontefice suona con toni particolari, quasi come di un tempo di fine papato. Da molte parti si tratteggiano quadri riassuntivi del suo pontificato, bilanci di un cammino intenso e complesso. Si cercano fattori specifici per capire quello che è stato e quello che resterà del pontificato del papa argentino, venuto da molto lontano. 

Chiesa sinodale 

Proprio in questi giorni esce in Germania un libro sul pontificato di Francesco. Il titolo suggestivo – Der Unvollendete (L’incompiuto) – dice una grande verità sull’eredità di Francesco e, come l’autore, il giornalista italiano Marco Politi insinua, anche della lotta per la sua successione. 

Numerose volte in questi dodici anni Francesco ha sorpreso il mondo e la Chiesa (particolarmente quella cattolica) con immagini a cui, in un certo senso, non eravamo abituati. Il suo modo di pensare alla Chiesa come a un «ospedale da campo» ha fatto da telaio per definire in modo nuovo la missione ecclesiale: non è la conquista di nuovi adepti, ma la compagnia con l’umanità dolente; non è la patria dei benestanti dell’anima, ma il luogo di accoglienza per prendersi cura delle ferite della vita. 

Su questo sfondo papa Francesco ha intessuto un programma di rinnovamento e di riforma della Chiesa. Intuitivamente, egli ha visto lungo sul binario della storia; ha espresso giudizi severi sulle istituzioni sclerotizzate dell’apparato burocratico-curiale, esigendo inversioni di marcia per esprimere più lucidamente la benevolenza di Dio e l’appello del Vangelo alla fraternità e all’amore. 

Muovendo dalla visione del Concilio Vaticano II, Francesco ha aperto varchi importanti nell’ecclesiologia, potenziando l’immagine della Chiesa sinodale. Certamente questa visione teologica resterà come un punto rilevante del pontificato di Francesco. Essa, infatti, tocca le dimensioni fondamentali dell’essere Chiesa e traduce in esperienza concreta il superamento da un’ecclesiologia piramidale, strettamente gerarchica a un’ecclesiologia partecipativa, comunionale. In modo particolare il recente sinodo sulla sinodalità è entrato nel tessuto vivo della Chiesa e ha mostrato il bisogno di una riforma che è solo appena iniziata. 

Nell’orizzonte della Chiesa sinodale trovano la loro specifica consistenza le altre espressioni di riforma a cui Francesco ha inteso dare vita. In modo particolare si deve menzionare tutta una serie di provvedimenti con i quali egli ha esteso lo spazio di partecipazione delle donne nella vita e nella leadership della Chiesa. 

 Abbiamo già alcuni esempi molto rilevanti di posizioni apicali in dicasteri della curia e in funzioni amministrative dell’apparato ecclesiale ricoperte da donne e in modo più esteso ancora non si può non riconoscere che, proprio in questo clima, si è estesa la consapevolezza di partecipazione delle donne alla cultura teologica, dentro e fuori degli ambiti accademici, nella guida di comunità, nell’organizzazione della vita ecclesiale anche su scala locale. La via per quello che papa Francesco aveva indicato come un proclama e un programma, cioè di «smaschilizzare la Chiesa» (discorso alla Commissione Teologia Internazionale, 30 novembre 2023) era imboccata e dovrà rimanere come una strada senza ritorno. 

L’incompiuto 

Eppure, la figura di «Unvollendet»–incompiuto che forma il titolo del libro di Marco Politi non può essere spazzata via frettolosamente. Essa contiene una chiave di interpretazione e un punto di equilibrio e di compensazione. L’incompiutezza è una figura retorica complessa. Essa non dice solo il deficit rispetto a quello che non c’è, ma fa appello anche a valorizzare ciò che è stato avviato e già c’è, pur sapendo che non è tutto. 

L’incompiutezza può essere un sinonimo di incoerenza, di inconsistenza, ma può esprimere anche quella forma di faticosa e paziente elaborazione di un processo che viene avviato e al quale non si vuole più rinunciare. 

Nella definizione di Francesco come papa incompiuto, la seconda parte del termine, quella costruttiva e processuale, deve essere particolarmente sottolineata. Questa non è l’opzione per un giudizio banalmente benevolente, ma è la risorsa per prendersi cura responsabilmente della parte di cammino che resta da fare, riconoscendo la verità dell’impresa avviata. E questo serve anche a capire che la parte non realizzata del processo di rinnovamento e di riforma alla fin fine rimanda a una visione di insieme, di carattere teologico ed ecclesiologico, ancora legata a residui preconciliari, dove l’indole giuridico-gerarchica della Chiesa aveva la sua predominanza. 

Anche sul versante teologico-dottrinale la sua visione resta ancorata a nessi e presupposizioni che impediscono o rallentano l’elaborazione di una dottrina sinceramente rinnovata. Il luogo in cui questo massimamente diventa evidente è in una certa disgiunzione tra teoria e prassi, tra impianto dottrinale non messo in discussione e prassi pastorale resa più morbida e accogliente. Dal canale di questa disgiunzione – o meglio, attraverso il superamento di essa – passa la vera energia di riforma e di rinnovamento della Chiesa. 

Sì: Der Unvollendete – l’incompiuto ha visto lungo per certi processi di cambiamento e si è fatto “apripista” di essi, anche a costo di attirare incomprensioni e contrasti interni ed esterni alla Chiesa. Ma, alla fine, ogni pontificato è unvollendet – incompiuto, perché ogni papa è un punto sulla linea della storia della Chiesa che non nasce e non finisce con il papa, con ogni papa concreto. 

Allora è anche plausibile e onesto aprire il discorso sull’eredità di un pontificato e soprattutto sulla sua successione. Non per stabilire chi deve essere il prossimo, ma per riconoscere che, chiunque esso sia, deve sapere di essere un papa unvollendet – incompiuto e per questo non gli è consentito ignorare il cammino avviato da chi lo ha preceduto. Semmai gli è richiesto di analizzare i motivi per cui tale cammino è rimasto a metà strada e lavorare per rimuovere gli ostacoli e incrementare le condizioni, affinché esso possa fare ancora passi in avanti. 

 *Antonio Autiero è professore emerito di teologia morale all’Università di Münster (Germania) 

 Fonte: Settimana News

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REARM EUROPE


 La risposta dell’Europa 

alla nuova realtà internazionale

 



-di Giuseppe Savagnone*

 Quella che il Consiglio dell’UE doveva affrontare, e per cui era definito “straordinario”, era una situazione internazionale del tutto nuova: per la prima volta l’Europa si trova a dover gestire da sola, senza l’ombrello americano, la propria sicurezza e, al tempo stesso, garantire all’Ucraina la continuazione del suo appoggio, di fronte all’aggressione russa, ora che gli Stati Uniti hanno sospeso i loro aiuti militari.

Era in gioco una svolta epocale, dunque, da cui doveva emergere una nuova capacità del vecchio continente – ora riunificato, di fatto, dal riavvicinamento del Regno Unito, dopo il ripudio da parte di Trump della sua storica sintonia con gli USA – di riscoprire finalmente la propria dimensione politico-militare, divenendo a sua volta un soggetto in grado di far fronte allo strapotere di Stati Uniti e Russia e di sedere con loro, da pari a pari, al tavolo dove si decidono le sorti dell’Ucraina e non solo.

E a questo era finalizzato il piano ReArm Europe, proposto dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, che il Consiglio ha approvato all’unanimità, anche se con la dissociazione dell’Ungheria per quanto riguarda l’appoggio all’Ucraina. 

Già quando era stato reso noto, il documento aveva suscitato reazioni molto positive, nel nostro paese, da parte di rappresentanti di entrambi gli schieramenti politici.

«Finalmente si fanno concreti passi in avanti per costruire una indispensabile difesa europea», ha scritto su X il segretario di Forza Italia, e ministro degli Esteri, Antonio Tajani. «Era il grande sogno di Alcide De Gasperi e Silvio Berlusconi». E secondo Carlo Fidanza, capo delegazione di Fratelli d’Italia al Parlamento europeo, il piano «ha il merito di passare finalmente dalla mera enunciazione di principio a strumenti concreti per rafforzare il quadro degli investimenti europei nella difesa».

Ma anche autorevoli esponenti del PD, come Gentiloni e Guerini, si sono detti favorevoli. Secondo il primo, quella proposta dalla von del Leyen «è la strada giusta». Quanto a Guerini, per lui «l’esigenza della crescita della Difesa europea è ineludibile (…). Altrimenti facciamo solo chiacchiere».

Ma, quando si va a vedere il documento, non si può non restare delusi. Non entriamo nel merito della sua struttura, per la quale una persona intellettualmente rigorosa come il ministro Giorgetti lo ha definito privo di «un senso» e «fatto in fretta e furia senza una logica».

Ma è il suo contenuto a lasciare molto perplessi. Esso, infatti, non fa altro che autorizzare gli Stati membri dell’UE a sforare, per spese militari, fino a 650 miliardi di euro, il tetto previsto dal patto di stabilità e ad avere prestati fino a 150 miliardi di euro.

Una festa per le industrie e i mercanti di armi, le cui azioni in borsa infatti sono salite alle stelle. E una conferma di quello che papa Francesco ha instancabilmente ripetuto da tre anni a questa parte sul fatto che sono loro i soli a trarre profitto dalla guerra, sulla pelle di centinaia di migliaia di giovani vite stroncate o mutilate.

Un prezzo da pagare è stato ribadito nel Consiglio straordinario, per riscattare l’Europa da una condizione di minorità e per sostenere i diritti del popolo ucraino, ora che gli Stati Uniti lo hanno clamorosamente abbandonato.

Ed è verissimo che l’alternativa ad un’assunzione di responsabilità da parte dei paesi europei oggi sembra essere quella di un umiliante vassallaggio nei confronti del Grande Fratello americano, di cui è una triste anticipazione la resa incondizionata del presidente ucraino, costretto a presentarsi col cappello in mano a chi lo aveva insultato e cacciato via dalla Casa Bianca, rimettendosi umilmente al suo volere.

Se si vuole evitare questo, all’Ucraina e a tutta l’Europa, bisogna pur ricorrere ad un rafforzamento militare. Il problema, però, è il modo in cui ci si propone di farlo.

Non mi capita spesso di essere d’accordo con Eddy Schlein, ma stavolta credo proprio che abbia avuto ragione di criticare fin dal suo apparire il piano ReArm Europe: «Quella presentata oggi da von Der Leyen non è la strada che serve all’Europa. All’Unione Europea serve la difesa comune, non il riarmo nazionale. Sono due cose molto diverse», ha detto, aggiungendo che «manca ancora la volontà politica dei governi di fare davvero una difesa comune». Il piano della presidente della Commissione UE «così rischia di diventare il mero riarmo nazionale di 27 Paesi e noi non ci stiamo».

Prospettive illusorie di pace

Quello che la segretaria del PD non ha detto è che questa non è altro che la continuazione di una logica che ha ispirato finora la Commissione dell’UE, rieletta recentemente proprio con i voti del suo partito, e di cui la von der Leyem coerentemente resta sostenitrice. 

Una logica che ha puntato sulla forza militare in vista di quella che Zelensky – allora con l’appoggio degli Stati Uniti – annunciava come la prossima «vittoria completa» e di una pace che ne sarebbe stata la ovvia conseguenza.

Disegno già allora illusorio e oggi più che mai privo di reali fondamenti, come ha ribadito, un’autorevole voce del mondo cattolico, Stefano Zamagni, che ha definito il piano ora approvato dal Consiglio UE «un errore tragico dal punto di vista politico».

«Con i fondi indicati da Von der Leyen», ha fatto notare Zamagni, «si raggiungerebbe un target di armamenti convenzionali non adeguato», e ancora più insufficiente se confrontato con l’arsenale atomico della Russia. «Invece di aumentare la spesa militare» dunque, «dovremmo puntare su politiche di disarmo bilanciate tra i vari Paesi».

Ma anche da parte di ambienti laici la proposta di puntare univocamente sull’aumento delle spese militari è contestata decisamente. A detta di Francesco Vignarca, coordinatore delle campagne della «Rete italiana pace e disarmo» «la pace vera non è la mancanza di conflitto armato (…). La pace vera è (…) la crescita delle società, delle culture, delle opportunità per le persone, del rispetto dei diritti a partire da quello della vita.

La “forza” invocata da von der Leyen tutto questo non lo garantisce». La logica a cui si ispira il suo piano «porta al riarmo, e il riarmo porta a nuova conflittualità, porta cioè a una crescita di guerra e quindi a nuovo riarmo (…). Ripenso a chi in questi tre anni ha ripetuto che si sarebbe vinta la pace perché si sarebbe vinta la guerra contro Putin».

Una critica che a prima vista può apparire simile a quella della Lega, anch’essa molto critica nei confronti del piano: «Per Ursula von der Leyen gli Stati europei possono fare debito solo per armarsi», ha commentato ironicamente Salvini. «È questa la via maestra per sostenere e lasciare i nostri figli in un continente in pace?».

Una presa di posizione che però in realtà nasce da premesse molto diverse da quelle di Zamagni e Vignarca. Salvini è da sempre un entusiasta ammiratore di Putin e ora lo è di Trump, così come è da sempre ostile all’idea di un’Europa che diventi soggetto politico-militare sovranazionale. La pace che invoca è dunque la sottomissione a cui il nostro continente sarebbe ridotto rinunziando ad armarsi.

I problemi su cui si sono chiusi gli occhi

Il vero problema allora non è se sia giusto potenziare le forze militari europee, ma in che prospettiva farlo. Se puntare solo su questo potenziamento o, attraverso di esso, avviare un salto di qualità che permetta a un nuovo soggetto politico europeo di cercare una pace autentica al tavolo dei negoziati.

Quella scelta finora e confermata nel piano approvato dal Consiglio straordinario è la linea sostanzialmente nazionalista/sovranista che finora ha impedito il passaggio dall’unità economica dell’Europa a quella politica. Nessuno Stato vuole rinunziare al suo esercito.

Le conseguenze negative sono evidenti già a livello funzionale ed economico. A fronte di un solo modello di aereo di combattimento oggetto sviluppato negli USA (JSF-F35), in Europa ce ne sono tre (Tempest, Gripen, e Rafale), con una duplicazione dei costi. E in Europa si producono diciassette tipologie differenti di carro armato, rispetto agli Stati Uniti, muniti del solo M1 Abrams. Per non parlare delle inevitabili disfunzioni derivanti dalla mancanza di un comando unificato.

Ma c’è un aspetto più sostanziale. La creazione di una difesa comune sarebbe un passo significativo verso l’unità politica. Il piano della von der Leyen riproduce lo schema nazionalistico e non guarda al futuro, confermando la frammentazione che rende l’Europa irrilevante, sullo stesso piano militare, non perché spende poco, ma perché spende male. Certo, creare un esercito europeo non è compito che possa essere realizzato dall’oggi al domani. Ma qui non si vede neanche la volontà di muoversi in questa direzione.

Come non si vede un progetto che consenta di redistribuire i costi di questa operazione senza scaricarli, come sempre, sulle fasce più deboli, riducendo i finanziamenti ai servizi essenziali. Ancora una volta devo dare ragione a un esponente politico con cui spesso non mi trovo d’accordo, il leader dei 5stelle Giuseppe Conte, che ha parlato di «una furia bellicista», e di «30 miliardi per l’Italia sottratti a sanità, istruzione, scuola, sottratti agli aiuti, al sostegno per famiglie e imprese che sono vessati, al caro bollette, al carovita».

Perché è chiaro che le uscite aggiuntive, a cui si sta dando il via libera, saranno tutte a debito e, prima o poi, dovranno essere compensate nei bilanci nazionali aumentando le tasse o tagliando la spesa sociale.

Si tratta di sacrificare, insomma, settori vitali come la sanità o l’istruzione, tanto più in un paese come l’Italia dove si preferisce ridurre i servizi ai poveri che “mettere le mini” nelle tasche dei ricchi.

Soprattutto, però, quello che è assente – sia nel piano approvato dal Consiglio della UE, sia nelle critiche della Schlein e di Conte – è l’esigenza di trovare una piattaforma valoriale comune, indispensabile per arrivare a una vera integrazione politica, di cui la dimensione militare dovrebbe esser solo un aspetto.

Anche questo non si può certo improvvisare, anzi richiede ancora più sforzi e più tempo, perché si tratta di dare all’Europa un’anima che in questo momento essa sembra avere perduto. Ma si dovrebbe almeno porre il problema, senza illudersi che per ritrovarla basti aumentare le spese militari. O credere che quest’anima si possa recuperare, come sembra pensare Tajani, mettendo sullo stesso piano De Gasperi e Berlusconi, due modelli opposti di umanità e civiltà.

La svolta che la nuova realtà internazionale esigeva, dunque, non c’è stata veramente. Si sono chiusi gli occhi sull’urgenza di procedere verso una maggiore unità europea. Saranno i fatti a dimostrare inesorabilmente le conseguenze di questa cecità. Possiamo solo sperare che, quando ciò avverrà, non sia troppo tardi.

Il piano ReArm Europe sicuramente ha il merito di contrapporsi all’ambigua linea della Lega e in generale alla rassegnata accettazione della logica predatoria condivisa da Putin e Trump.

 

www.tuttavia.eu

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VOLONTARIATO. FARSI DONO

 


I Papi e il volontariato, 

scuola di vita 

che insegna 

il primato del dono


In occasione 

del Giubileo dell’8 e 9 marzo prossimi, 

ricordiamo alcune

 riflessioni dei Pontefici 

a partire da Giovanni Paolo II

 

-       -  di Amedeo Lomonaco – Città del Vaticano

 Il segno distintivo del volontariato è racchiuso in una scelta d’amore: quella del donare. “Cristo - scrive l’apostolo Giovanni - ha dato la sua vita per noi”. La conseguenza di questo dono dovrebbe essere un discepolato vissuto, dall’uomo, nel solco dell’imitazione di Cristo: “anche noi dobbiamo dare la nostra vita per i fratelli” (Gv 3,16). Il Giubileo del mondo del volontariato, in programma a Roma l’8 e il 9 marzo è dedicato in particolare a volontari, associazioni no-profit, Ong e operatori sociali di tutto il mondo. Un’occasione per riflettere su questo impegno gratuito ma ricco di senso e promuovere la solidarietà.

Scuola di vita

Solo se ama e si dona agli altri, l’uomo si realizza pienamente. È questo il fulcro del messaggio di Papa Giovanni Paolo II in occasione dell’Anno internazionale del volontariato proclamato nel 2001 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite per riconoscere, promuovere e celebrare il servizio volontario in tutte le sue manifestazioni. Il volontariato - sottolinea Papa Wojtyła - è chiamato ad essere in ogni caso scuola di vita”.

Carità e gratuità

Attraverso l'amore per Dio e l'amore per i fratelli, il cristianesimo sprigiona tutta la sua potenza liberante e salvifica. La carità rappresenta la forma più eloquente di evangelizzazione perché, rispondendo alle necessità corporali, rivela agli uomini l'amore di Dio, provvidente e padre, sempre sollecito per ciascuno. Non si tratta di soddisfare unicamente i bisogni materiali del prossimo, come la fame, la sete, la carenza di abitazioni, le cure mediche, ma di condurlo a sperimentare in modo personale la carità di Dio. Attraverso il volontariato, il cristiano diviene testimone di questa divina carità; l'annuncia e la rende tangibile con interventi coraggiosi e profetici. Non basta venire incontro a chi si trova in difficoltà materiali; occorre al tempo stesso rispondere alla sua sete di valori e di risposte profonde. E' importante il tipo di aiuto che si offre, ma ancor più lo è il cuore con cui esso è dispensato. Che si tratti di microprogetti o grandi realizzazioni, il volontariato è chiamato ad essere in ogni caso scuola di vita soprattutto per i giovani, contribuendo a educarli ad una cultura di solidarietà e di accoglienza, aperta al dono gratuito di sé.

Amare con Dio

“L’impegnarsi a titolo volontaristico costituisce un’eco della gratitudine ed è la trasmissione dell’amore ricevuto”. È quanto sottolinea Papa Benedetto XVI incontrando il mondo del volontariato nel 2007 durante il viaggio apostolico in Austria.

“Deus vult condiligentes – Dio vuole persone che amino con Lui”, affermava il teologo Duns Scoto nel XIV secolo. Visto così, l’impegno a titolo gratuito ha molto a che fare con la Grazia. Una cultura che vuole conteggiare tutto e tutto pagare, che colloca il rapporto tra gli uomini in una sorta di busto costrittivo di diritti e di doveri, sperimenta grazie alle innumerevoli persone impegnate a titolo gratuito che la vita stessa è un dono immeritato. Per quanto diverse, molteplici o anche contraddittorie possano essere le motivazioni e anche le vie dell’impegno volontaristico, alla base di tutte sta in fin dei conti quella profonda comunanza che scaturisce dalla “gratuità”. È gratuitamente che abbiamo ricevuto la vita dal nostro Creatore, gratuitamente siamo stati liberati dalla via cieca del peccato e del male, gratuitamente ci è stato dato lo Spirito con i suoi molteplici doni.

Uscire per incontrare

Papa Francesco si è soffermato più volte, durante il Pontificato, sul valore del volontariato. In particolare, durante l’incontro con i membri della Federazione organismi cristiani servizio internazionale volontario (Focsiv) ha sottolineato che essere volontari significa innanzitutto “uscire per incontrare”.

Il volontariato. È una delle cose più belle. Perché ognuno con la propria libertà sceglie di fare questo cammino che è un cammino di uscita verso l’altro, uscita con la mano tesa, un cammino di uscita per preoccuparsi degli altri. Si deve fare un’azione. Io posso rimanere a casa seduto, tranquillo, guardando la tv o facendo altre cose… No, io mi prendo questa fatica di uscire. Il volontariato è la fatica di uscire per aiutare altri, è così. Non c’è un volontariato da scrivania e non c’è un volontariato da televisione, no. Il volontariato è sempre in uscita, il cuore aperto, la mano tesa, le gambe pronte per andare. Uscire per incontrare e uscire per dare.

Farsi dono

Uscire per incontrare l’altro attraverso il dono, in una società che sta vivendo profonde lacerazioni a causa di guerre, è un inno alla fratellanza. È come il suono dello Jobel, soprattutto in questo Giubileo della speranza.

 Vatican News

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TRA L'INFERNO E IL PARADISO


 Tra l’inferno e il paradiso 

di una scuola di periferia

 

di Ilaria Dioguardi  

   

In un istituto scolastico della periferia della Capitale arriva la lettura della "Divina Commedia", con cui «proviamo a uscire dall’Inferno, per inseguire il Paradiso». È la sinossi del libro "Leggere Dante a Tor Bella Monaca", che è stato proposto da Marco Cassini per il Premio Strega. Lo scrittore ed insegnante: «Il nostro compito, il nostro dovere di dipendenti pubblici, è quello di trasformare la diversità in ricchezza, in valore aggiunto, in una reciproca opportunità»

Leggere Dante a Tor Bella Monaca di Emiliano Sbaraglia (Edizioni e/o) è «la storia di un professore di una di quelle scuole definite “difficili” di una periferia “difficile”», scrive Marco Cassini, che l’ha proposto per il Premio Strega 2025. «Con questo libro volevo raccontare anche un’altra Tor Bella Monaca», dice lui.

Sbaraglia, come nasce l’idea di questo libro?

Durante il periodo del Covid. Poi ho iniziato a prendere degli appunti nella scuola secondaria di primo grado nella quale insegnavo. Quando sono andato via da quell’istituto, ho deciso che era arrivato il momento. È stata una lunga riflessione e scrittura, durata cinque anni. Dopo questa gestazione, per concluderlo, mi sono dovuto allontanare. Non che sia andato via dalla scuola per questo motivo, i motivi sono altri, come anche nel libro si racconta.

Sì, nel libro lo racconta: «Ormai da un po’ continua a ronzare nella testa la percezione che sia arrivato il momento di lasciare il proprio posto a qualcun altro, qualcuno che dentro la sua, di testa, non abbia niente di tutto questo e porti energie fresche». Lei insegna sempre?

Sì, in una scuola di Frascati.

Leggere Dante a Tor Bella Monaca è stato proposto al Premio Strega da Marco Cassini. Come ha preso questa notizia?

È per me una grande soddisfazione, non lo nascondo. Lo sento come un riconoscimento. Cassini mi ha detto di aver apprezzato non solo il contenuto, ma anche il modo in cui è stato scritto. Però non mi faccio illusioni: per me va già bene così.

«Lontano dalla retorica sul senso di “missione” o “vocazione”, il docente-protagonista si definisce semplicemente un “dipendente pubblico”, che con pazienza e inventiva riesce pian piano a conquistarsi la fiducia di una classe che altrimenti sarebbe molto probabilmente destinata all’abbandono scolastico», scrive Cassini nella motivazione.

Ho cercato, nel libro, di approfondire un paio di temi che mi stavano particolarmente al cuore nel momento in cui ho deciso di scriverlo. Io ho insegnato 11 anni in quella scuola, dove ogni tanto torno: non ho perso i contatti, soprattutto con il territorio. Il primo, se dovevo scrivere di Tor Bella Monaca, anche se il mio racconto è in una scuola, volevo cercare di uscire un po’ dalla retorica della cronaca nera. Con questo libro volevo raccontare anche un’altra Tor Bella Monaca, che esiste, fatta di famiglie che vengono a chiedere un sostegno rispetto al modo in cui i ragazzi possono stare in classe, fatta di gente che lavora e che vorrebbe lavorare in una maniera migliore. Poi ho cercato di sottolineare anche un fatto al quale tengo molto: la storia dell’insegnante “missionario” deve finire.

Ci spieghi meglio.

Siamo degli insegnanti, io dico nel libro dei “dipendenti pubblici”, io mi sento questo, soprattutto in questi ultimi anni, dopo aver maturato un po’ di esperienza: finora ho fatto 24 anni di insegnamento, 12 da supplente e 12 da insegnante di ruolo. Non è questione di fare i “missionari”, di andare a fare una missione, di sacrificare il proprio ruolo di insegnante in determinate scuole. Si tratta di andare in contesti territoriali un po’ più complicati, di cercare di comprendere che cosa serve, come bisogna lavorare. E lavorarci. La logica della missione non fa bene a nessuno, non fa bene al mondo degli insegnanti per come vengono visti e non fa bene a quelle scuole dove vai a lavorare. Deve essere una scuola come tutte le altre, poi non lo è, però bisogna lavorare con questa prospettiva.

La logica della missione non fa bene a nessuno, né agli insegnanti né alle scuole. Non siamo missionari, siamo dipendenti pubblici

Quanto è complicato essere, come dice nel suo libro, dei “PPP”, dei professori professionisti passionali?

È complicato, ci devi mettere tanto nell’arco della tua giornata, perché poi quando esci da lì non se ne vanno i pensieri, restano se sei passionale. Io un po’ mi stavo giocando anche la salute, è stato il medico che, ad un certo punto, mi ha chiesto se non era il caso di trovare un’altra scuola. Ma se senti che stai cercando di fare qualcosa di utile, è anche uno stimolo per continuare a farlo tutti i giorni. Lì la sensazione di essere utile a qualcuno c’è, per me c’è in tutte le scuole e c’è sempre stata. Però in scuole come quelle, c’è di più.

Quanto è difficile cercare di scardinare la disillusione dei ragazzi di cui parla? Penso, ad esempio, a Fabiano, di cui scrive che «è quasi annoiato, lontano, disilluso. Una disillusione rinforzata dalla convinzione che niente cambierà nella strada dove vive, lasciando il sapore inconfondibile di una sconfitta annunciata, collettiva, confezionata e servita dal circolo degli adulti del ancora non fa parte, ma di cui è costretto a pagare gli errori».

Scardinare la disillusione di questi ragazzi è quasi impossibile, anche se loro spesso non dicono che stai riuscendo a far coltivare loro un dubbio rispetto a questo… Ma se si studia in un determinato modo, se si cambia un po’ la propria quotidianità, qualcosa può cambiare. È certo che loro guardano la statistica: vedono che non cambia quasi mai niente per nessuno, di chi è nato in quei luoghi lì, e quindi dicono: «Come mai dovrebbe cambiare proprio per me?» Ma starci tutti i giorni e far vedere che tu ci credi, è importante per loro, lo posso testimoniare.

Non mi sono voluto arrendere alla logica della “vigilanza”, al fatto che in certe scuole l’aspettativa è solo arrivare alle 14 con meno danni possibile

Perché la scelta di Dante, con cui «proviamo a uscire dall’Inferno, per inseguire il Paradiso»?

Dante è stato un po’ un caso. In determinati contesti scolastici, secondo il mio punto di vista, per l’esperienza che ho maturato, bisogna procedere per tentativi. Non è che Dante, nei dieci anni che sono stato lì, abbia sempre funzionato. Il libro è anche una raccolta di un’esperienza vissuta nell’arco di un decennio. Però non mi sono voluto neanche arrendere alla “logica della vigilanza”, chiamiamola così.

A cosa si riferisce?

Al fatto che in determinati luoghi, in determinate scuole, si entra alle otto cercando di arrivare alle ore 14 con meno danni possibili. Però rinunciare a priori a un certo tipo di didattica è una cosa alla quale io, dopo qualche anno, non mi sono voluto arrendere. Mi sono detto: «Ma perché non provare a fare qualcosa di più rispetto a leggere, scrivere e far di conto, che lì serve come il pane? Proviamo a ragionare su delle cose». Poi c’è a chi piace di più, a chi piace di meno. Ci sono stati degli anni in cui le cose sono andate nel verso giusto: volevo raccontare il padre della lingua italiana che i ragazzi lì, secondo me, era giusto che avessero il diritto di conoscere.

«Dante ci salverà? La scrittura ci salverà? E la letteratura, la poesia? Chi può dirlo. Quello che purtroppo è quasi certo è che non potranno salvare Marvin». Da insegnante quanto è difficile da accettare il fatto che i vari Marvin che incontra non potranno essere salvati?

Molto, perché io posso fare ben poco. È giusto che provi a fare tutto quello che è possibile e che sento che si può fare, nelle mie forze e nella mia mente. Però non è che si possa fare molto, se non c’è un lavoro più ampio di carattere anche istituzionale. Io dico soprattutto per quanto riguarda la possibilità di avere un certo tipo di strutture, di attenzione, cosa che quella scuola negli ultimi anni è riuscita ad avere. Infatti, è molto migliorata, anche da quando c’è stata una fondazione che ha voluto investire. Si deve lavorare soprattutto sulla manutenzione delle scuole. Questo già aiuta, anche il luogo in cui questi ragazzi e queste ragazze stanno è importante. Un conto è stare in un’aula fatiscente, un conto è stare in un luogo dove sei ben accolto, quando entri. È molto diverso.

Scardinare la disillusione di questi ragazzi è quasi impossibile. Ma se si studia in un determinato modo, se si cambia un po’ la propria quotidianità, qualcosa può cambiare

Lei scrive: «Il nostro compito, il nostro dovere di dipendenti pubblici, è quello di trasformare la diversità in ricchezza, in valore aggiunto, in una reciproca opportunità». A lei cosa hanno dato tutti questi anni di insegnamento?

A me hanno dato tantissimo, ma lo dico senza retorica. Io negli 11 anni che sono stato in questa scuola ho sicuramente più ricevuto che dato. Al netto di tutto quello che ho fatto, di quello che ho provato a fare, delle arrabbiature, dei ricoveri in ospedale per stato di ipertensione, dello stare lì molte più ore di quelle da contratto, di fare attività pomeridiane. Ho cercato di fare il mio lavoro: non ho fatto niente di speciale.

Però ho ricevuto tanto, dagli studenti e dalle loro famiglie, perché sentono empaticamente che tu stai cercando di fare qualcosa per loro. È solo quello: neanche lo razionalizzano, lo sentono. Nel momento in cui lo sentono è come se entrassi nella loro comunità. Mi ha insegnato tanto perché questi sono ragazzi costretti dalla vita ad essere molto svegli, si impara molto da loro. E io, dopo aver capito dov’ero, mi sono messo anche in questa posizione: non ero il professore che, da dietro la cattedra, voleva spiegare loro come funziona la vita. Al contrario, erano loro che mi spiegavano un po’ come funziona la vita.

Lei è rimasto in contatto con qualcuno di questi ragazzi?

Sì, sono rimasto in contatto con qualcuno di loro. Per esempio, ho molto piacere che una ragazza, Giovanna, adesso sta terminando il liceo. C’era una sua predisposizione però non era scontato. Un triennio insieme di italiano, storia e geografia penso che abbia fatto la sua parte. Ogni tanto alcuni ragazzi mi chiamano per un calciotto se manca uno e, quando posso, vado. Ma loro diventano sempre più grossi e io sempre più vecchio…

 

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