Addio al sonno della ragione
- di Mauro
Magatti
«È finita
l’epoca dell’abbondanza»: così ha affermato il presidente Macron, forse per
preparare i suoi concittadini a un autunno e a un inverno che si annunciano
complicati. Le reazioni sono state immediate: in un Paese come la Francia, con
9 milioni di poveri, una dichiarazione del genere è apparsa a molti fuori
luogo. Per tanti francesi «la fine dell’abbondanza» non è iniziata oggi, ma
diversi anni fa. E tuttavia la presa di posizione di Macron – politico molto
vicino alla tecnocrazia internazionale – è qualcosa in più di una semplice
battuta.
Fine
dell’abbondanza significa, molto concretamente, l’uscita forzosa dalla lunga
stagione di una crescita quantitativa pensata come illimitata, cioè senza
vincoli dal punto di vista finanziario, energetico, delle risorse naturali e
umane. A cui nell’immediato rischia di seguire una grandinata di cattive
notizie: scarsità di energia e materie prime, inflazione a due cifre,
recessione economica. La paura (giustificata) è che le difficoltà annunciate
possano scatenare un’ondata di protesta e destabilizzare le democrazie. A
cominciare da quella italiana. Esattamente ciò che spera Putin, che ha saputo
rivoltare contro l’Occidente le sanzioni decise dopo l’invasione dell’Ucraina.
In questa
situazione la risposta automatica è: più risorse pubbliche. Una soluzione che,
seppur necessaria, è tuttavia insufficiente. E che però, in una campagna
elettorale che guarda a mesi che si annunciano tempestosi, diventa il flauto
magico suonato da tutti i leader. In fondo, nel nostro Paese l’abbondanza si è
per lo più tradotta nell’ampliamento abnorme del debito pubblico e della
rendita, al punto che, come ha fatto notare qualche giorno fa Alberto
Brambilla, oggi «metà degli italiani vive 'a carico' di qualche altro».
Ma non esistono
soluzioni facili a problemi difficili: e così, al di là delle pezze che pure
occorre mettere, le difficoltà che abbiamo davanti sono un invito a cercare la
via di uno sviluppo migliore rispetto a quello alle nostre spalle. Per quanto
difficile, ciò è possibile a tre condizioni. In primo luogo, 'fine
dell’abbondanza' significa tornare a declinare crescita economica e giustizia
sociale. Una relazione che proprio l’idea di crescita infinita ha rimosso: se
la torta cresce, non importa preoccuparsi troppo di come la si divide.
Sappiamo, invece, che le cose sono andate diversamente: nel corso degli anni,
la ricchezza si è sempre più concentrata, la quota di valore aggiunto destinato
al lavoro si è ridotta a vantaggio dei profitti, gli squilibri territoriali
sono aumentati.
C’è bisogno di
ricomporre le divaricazioni che spaccano le nostre società, dove i ricchi sono
sempre più ricchi e i poveri sono sempre più poveri. Con ampie quote del ceto
medio che scivolano verso una condizione di precarietà. E con le nuove generazioni
che stentano a mantenere le condizioni di vita dei padri. In secondo luogo,
'fine dall’abbondanza' non significa necessariamente meno, ma può anche volere
dire più.
Un più diverso
dal semplice aumento del Pil. In gioco vi è l’idea di 'valore', cioè la misura
di ciò che è davvero in grado di accrescere il nostro ben vivere. Sono gli choc
che si stanno susseguendo a imporcelo: lo sviluppo è fatto di tutte quelle
dimensioni immateriali, qualitative e relazionali che abbiamo messo tra
parentesi e che invece, alla fine, sono essenziali per la nostra vita,
individuale e collettiva. In terzo luogo, 'fine dell’abbondanza' comporta la
capacità di gestire e trasformare il forte risentimento che cresce in una
società abituata ad avere tutto ed è perciò insofferente all’idea stessa di
limite. Lo abbiamo visto durante la pandemia.
Le restrizioni
che ci sono state imposte dal virus hanno generato un diffuso senso di
responsabilità. Ma hanno anche sviluppato forti reazioni che in alcuni casi
hanno rasentato la violenza. Una società più sobria ha bisogno di una pedagogia
che oggi non c’è. Ecco perché è necessario che tutti coloro che hanno
responsabilità pubbliche – dai politici agli imprenditori, dai manager ai
docenti – evitino di cavalcare la tigre dell’odio che questa stagione
inevitabilmente alimenta.
In definitiva,
la 'fine dell’abbondanza' potrebbe essere il vincolo esterno per avviare quella
trasformazione di cui si sente il bisogno ma che non si sa come realizzare.
Riuscendo a immaginare una crescita che, senza ridursi all’aumento dei consumi
privati, sia capace di rigenerare i legami sociali, di affiancare ai diritti
individuali i doveri sociali, di scommettere sulla sussidiarietà intesa come
responsabilità diffusa, di investire sulla generazione e sulla formazione, di
portare avanti la transizione energetica sapendo della sua urgenza e dei suoi
costi.
La 'fine
dell’abbondanza' significa fondamentalmente risvegliarsi dal sonno della
ragione che ci ha portati a credere che la crescita sia frutto di un meccanismo
automatico, di un funzionamento sistemico, indipendente dalla spinta spirituale
e dalla intelligenza che vengono dalle persone e dalla comunità. Nella società
che abbiamo la possibilità di costruire non si tratta più semplicemente di
rivendicare il proprio benessere individuale, ma di contribuire al bene comune.