della violenza
che tradisce
le democrazie
- di Giuseppe Savagnone
Il ritorno dei muri
Intenti
come sono a seguire gli sviluppi militari e diplomatici delle due guerre
che da mesi polarizzano l’attenzione del mondo, molti
osservatori rischiano di non dedicare abbastanza attenzione a ciò che esse
stanno significando per il mondo e per le nostre stesse democrazie.
Quando
è esplosa la crisi ucraina, il nostro pianeta viveva la stagione di una
globalizzazione (a livello economico) e di una distensione (a livello politico)
che aveva progressivamente dissolto il clima pesante della “guerra fredda”
post-bellica e consentito l’avvio di processi significativi di cooperazione
pacifica anche tra paesi, come la Germania e la Russia – che la seconda guerra
mondiale aveva visto sanguinosamente contrapposti. La caduta dei muri – a
partire da quello di Berlino, nel 1989 – sembrava essere diventata simbolica di
un nuovo clima, carico di speranze.
Questa
guerra ci ha riportato indietro di molti decenni. All’origine c’è stata la
protervia imperialistica di Putin, che l’ha provocata con la sua invasione
e l’ha resa selvaggia con una conduzione che ha ignorato il diritto
internazionale, meritandogli la condanna della Corte pena internazionale.
Ma
la risposta delle democrazie occidentali è stata altrettanto estrema e non ha
certo favorito la possibilità di un negoziato. Incalzate dalla foga oratoria e
diplomatica del presidente Zelenskyi, esse hanno sempre più assunto
un ruolo di protagoniste, ponendosi nella logica dello scontro frontale.
L’obiettivo dichiarato e perseguito, sia con le misure politiche, sia con le
sanzioni economiche, è stato fin dall’inizio quello – per usare le parole del
presidente Biden – di «isolare la Russia dal palcoscenico internazionale»,
riducendola al ruolo di «paria».
Così,
all’indomani dell’invasione, si è scatenata una demonizzazione senza precedenti
di tutti coloro che avevano a che fare con la Russia. Non solo le squadre – per
esempio la Nazionale di calcio e i club russi – furono bandite dalle
competizioni internazionali, ma anche i singoli che chiedevano di
gareggiare a titolo personale – per il solo fatto di essere russi, a
prescindere dalle loro prese di posizione politiche.
I
tennisti, furono esclusi dal torneo di Wimbledon; il Comitato Olimpico
Internazionale raccomandò «vivamente» a tutte le federazioni mondiali di «non
invitare atleti russi e bielorussi» alle gare sportive internazionali; il
divieto fu addirittura applicato anche agli atleti disabili che avrebbero
dovuto partecipare (ed erano disposti a farlo senza bandiera) alle
para-olimpiadi invernali di Pechino.
Perfino
nei teatri occidentali venero cambiati i programmi, togliendo dai cartelloni,
per solidarietà all’Ucraina, opere e artisti russi. Un muro altissimo e
invalicabile, in un certo senso più alto e impenetrabile di quello di
Berlino.
Il
«nuovo ordine» della corsa alle armi
Si
è avverato così quello che Biden, all’indomani dell’invasione, durante un
viaggio in Europa, aveva preconizzato: «Ci sarà un nuovo ordine mondiale là
fuori, e dobbiamo guidarlo. E dobbiamo unire il resto del mondo libero nel
farlo».
In
questo «ordine» ha assunto un ruolo decisivo il rilancio della NATO,
un’alleanza militare a guida americana con la finalità di far fronte
all’Unione Sovietica – e perciò ritenuta da molti ormai superflua dopo la fine
di quest’ultima – e che, dopo la crisi ucraina, è diventata protagonista,
ponendosi come «il modello di una nuova costruzione occidentale» (Giuseppe
Sarcina, «Corriere della Sera» online del 24 marzo 2022).
Anche
se tutto il progetto salterebbe nel caso di un’elezione, a novembre, di Donald
Trump, che aprirebbe però scenari diversi, ma forse non meno inquietanti.
In
questo «nuovo ordine» planetario, fondato sulla reciproca ostilità senza
dialogo, al fronte guidato dagli Stati Uniti si contrappone un asse
russo-cinese, reso molto più saldo da questi ultimi sviluppi (si veda la piena
sintonia registrata nella recentissima visita di Putin a Pechino) e che conta
sulla simpatia di paesi come l’India (il cui premier ha anche fatto le sue
congratulazioni a Putin per la sua rielezione), l’Iran, il Brasile, il
Sudafrica – legati tra loro anche dal BRICS, un patto economico che mira
a trovare un’alternativa al dollaro, – nonché un certo numero di Stati
africani (ultimo il Niger, che proprio recentemente ha espulso la guarnigione
statunitense, sostituendola con quella russa).
L’esito
di questa spaccatura del mondo, paragonabile solo ai tempi più bui della
“guerra fredda”, è una corsa agli armamenti, con un aumento record dei profitti
delle industrie che producono armi.
Con
il ripresentarsi del fantasma, che sembrava esorcizzato per sempre, di una
terza guerra mondiale – questa volta nucleare – di cui si parla ormai con
preoccupante frequenza.
Oggi
che le truppe di Mosca avanzano in Ucraina – smentendo le entusiastiche
prospettive di una rapida e totale vittoria, su cui Zelensky era riuscito a
coinvolgere l’Occidente – , le perplessità sulla guerra crescono.
Ma
c’è da chiedersi se la sfida lanciata dal regime autoritario di Putin alle
democrazie occidentali non sia stata già persa, prima che sui campi di
battaglia, per il fatto stesso di avere puntato sulla liquidazione
dell’avversario, fidando nella forza delle sanzioni economiche e
soprattutto sul successo militare.
Ora
che la pura forza sta dimostrando di non poter risolvere nulla, la sola via
plausibile è quella che forse avrebbe potuto essere praticata, o almeno
tentata, fin dall’inizio: quella di un confronto – arduo, problematico, ma
necessario. Anche se ora, dopo più di due anni, essa si pone in un contesto
planetario drammaticamente deteriorato.
La
guerra perduta dalla democrazia israeliana
Qualcosa
di simile viene dimostrato dalla guerra di Gaza. Anche qui c’è sta una
sfida, lanciata il 7 ottobre 2023, da un soggetto politico-militare non
certo democratico, com’è Hamas, con i metodi propri del peggiore terrorismo, a
un paese democratico, Israele, che proprio in quel momento stava lottando al
suo interno per sventare il disegno autoritario di Netanyahu.
Anche
qui, però, la risposta, invece che una presa di coscienza dei problemi che
stavano all’origine della crisi e un tentativo di aprire un confronto con la
parte del modo palestinese con cui era possibile dialogare, per risolverli
pacificamente, si è scelto di puntare su una reazione di violenza inaudita, che
ha assunto i tratti, se non di un genocidio, almeno di una vera e propria
pulizia etnica.
I
risultati anche qui sono stati disastrosi. Nessuno dei due obiettivi additati
all’inizio della campagna è stato, dopo più di sette mesi, raggiunto,
mostrando l’impotenza di un apparato militare come quello israeliano, che
in passato aveva sempre sbaragliato in poche settimane, in qualche caso in
pochi giorni, le coalizioni militari dei paesi arabi alleati. Né gli ostaggi
sono stati liberati, né Hamas è stata annientata.
In
compenso, Israele si sta trovando in un isolamento internazionale senza
precedenti, condannato da un’opinione pubblica mondiale in cui il suo
comportamento disumano ha ridestato i fantasmi dell’antisemitismo e abbandonato
perfino dai governi tradizionalmente suoi più stretti alleati.
Forse
la lezione che emerge da queste due vicende è che le democrazie non possono e
non devono, in politica estera, appiattirsi sulle forze non democratiche – la
Russia di Putin, Hamas – con cui devono fare i conti. La simmetria nella
violenza non porta loro fortuna, non solo perché non risolve affatto i
conflitti, ma anche e soprattutto perché tradisce la loro più intima
aspirazione alla pace. E non si raggiunge la pace facendo la guerra.
La
sola alternativa non è una colpevole resa alla prepotenza dei violenti. C’è una
via di mezzo tra questa scelta, sicuramente inaccettabile, e la logica dell’“occhio
per occhio dente per dente”. È proprio nel saperla trovare e percorrerla
che una democrazia dà la piena prova di se stessa. Altrimenti rivela la sua
fragilità.
*Scrittore
ed editorialista. Pastorale della Cultura – Arcidiocesi di Palermo
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