Nelle fedi è da sempre simbolo di solidarietà. Mangiarne insieme significa condividere. Non averne nega, spesso, anche il diritto al nome e alla parola: evidenze di vuoto umano e spirituale
- di Andrea Ricciardi
Prendiamo il tema della tavola in
comune che tocca i primi secoli del cristianesimo. La tavola unisce, nella
memoria della cena, ma anche nell’agape condivisa, gente che si dice cristiana,
di provenienza sociale e religiosa differente. Ebrei e non ebrei, gente di ceto
diverso: le diversità, però, si fanno evidenti alla tavola comune, non solo per
gli interdetti alimentari, ma per gli usi delle varie classi sociali e anche
della qualità del cibo. A Corinto la comunanza di tavola suscita problemi
gravi: si fatica a mangiare insieme.
Mangiare insieme vuol dire
riconoscersi dello stesso mondo e solidali nella stessa famiglia. Ha avuto
successo nei decenni dopo il Vaticano II un versetto della Didaché, testo tra
la fine del I secolo e l’inizio del II, perduto e ritrovato a fine Ottocento:
«Se condividiamo il pane del cielo, come non condivideremo quello della
terra?». Il pane evidenzia distanze e divisioni, come pure la volontà di
fraternità.
Condividere il pane della terra
non è facile e spontaneo, come si vede anche in antiche comunità entusiaste
come quella dei corinti. Paolo scrive, ammonendoli: «Ciascuno, infatti, quando
partecipa alla cena, prende prima il proprio pasto e così uno ha fame e l’altro
è ubriaco. Non avete le vostre case per mangiare e per bere?» (I Cor 11,
21-22). Ci sono quelli che consumano il proprio cibo senza condividerlo con gli
altri, nota l’esegeta Richard Hays. Per Paolo è un’umiliazione dei fratelli
poveri e un oltraggio all’unità della Chiesa. La tavola, luogo d’intimità e di
gusti e abitudini di gruppo, mette in luce il classismo dei vari gruppi
sociali. Paolo lotta perché la comunanza alla tavola esprima l’uguaglianza e la
fraternità dei cristiani.
La tavola è una prova per la
fraternità.
Plinio il Giovane, morto circa nel 114,
illustra il classismo a tavola, quando parla di un ospite raffinato che esalta:
«Per sé e per pochi imbandiva cibi ricercati, per tutti gli altri cibi di poco
valore e dozzinali. Anche il vino in piccole bottiglie aveva suddiviso in tre
categorie… l’una era per lui e per noi, un’altra per gli amici meno importanti
(perché egli gradua le amicizie), l’ultima per i liberti suoi e nostri».
Le religioni, nella loro storia,
con tutte le diversità dei tempi e delle situazioni, hanno dato il pane a chi
aveva fame o hanno spinto i loro fedeli a darlo. Ma sono state sfidate dalla
distanza, dal senso di superiorità, dal disprezzo, quando - lo dice Gregorio -
non basta dare il pane ma bisogna dare la parola, che sola costruisce
fraternità. Anche perché il povero ha bisogno di parlare e di essere chiamato
per nome come ognuno, perché la povertà si accompagna alla solitudine.
Le vicende dei senza fissa dimora
che popolano le nostre città e che hanno storie tanto diverse, sono quasi
marcate da solitudine profonda. Senza fissa dimora e senza parole. Chi ha
esperienza di questo mondo che popola le nostre città -a Roma ce ne sono circa
8.000 con storie e motivazioni diverse - sa bene come la deprivazione di quasi
tutto (anche se talvolta si dorme all’aperto anche per motivi personali) sia
accompagnata da un grande silenzio, mancanza di parole, dialogo, senza mai
essere chiamati per nome.
Chi ha esperienza di questo mondo
conosce la fame di parole e di conversazione che taluni hanno, espressa anche
nella volontà di raccontare storie.
Universalità del pane.
Il pane, nel sentire comune, ha
conservato per secoli un valore simbolico e sacro, con l’idea, viva fino a ieri
in varie famiglie, che il pane non debba andare buttato. Ricordo della
sacramentalità dell’Eucarestia, coscienza legata al fatto che è un alimento
prezioso. C’è, rispetto al pane, così basilare nella dieta di molti, l’idea di
una sua destinazione universale. David Maria Turoldo, in una raccolta di
poesie, Il sapore del pane, scrive: «l’ultimo pane è per chi ha fame». È la
tradizione che biso-gna lasciare qualcosa, un po’ di pane, per chi verrà. Il
mio pane non è tutto mio. Una ribellione all’appropriazione totale del pane.
Pablo Neruda ne canta
l’universalità: «Il pane… / di ogni uomo, / ogni giorno / arriverà perché
andammo a seminarlo / …non per un uomo / ma per tutti, /…per tutti i popoli / e
con esso ciò che ha / forma e sapore di pane / divideremo: / la terra, / la bellezza,
/ l’amore, / tutto questo ha sapore di pane». Pane non per uno solo, ma per
ogni uomo, per tutti. Il sapore del pane è quello di una terra condivisa
assieme all’amore e alla bellezza. Sembra quasi che il pane si trascenda.
D’altra parte, pane significa anche intimità familiare. Edith Bruck, ragazza
ebrea, ungherese e contadina, strappata dalla sua povera casa, mentre i
gendarmi ungheresi irridevano il padre che aveva sul petto le medaglie di
guerra, e stanno per portare gli ebrei nel ghetto e poi allo sterminio… sente
la madre che, nell’istante della deportazione, grida: «Il pane, il pane!». Il
ricordo della madre e della vita familiare del villaggio ungherese,
discriminati tra i poveri, diventa il pane perduto, un romanzo-memoria.
Il sapore del pane.
Il sapore del pane è anche quello
dell’intimità, ma allo stesso tempo il pane chiama a essere condiviso oltre, in
solidarietà. Questo è il dramma che ha spaccato il cristianesimo. Il quale ha
colto, in taluni momenti e personaggi, il valore di solidarietà che promana dal
pane. Ma anche vissuto il divorzio tra pane e parola e ha generato un’elemosina
univoca, che non crea solidarietà, incapace di cogliere la voglia di riscatto
del mondo povero.
Il cristianesimo orientale, meno
organizzato dei cattolici in opere caritative, ne ha colto il dramma. Olivier
Clément, occidentale ma ortodosso, ha parlato di divorzio tra le aspirazioni di
riscatto del mondo dei poveri e la Chiesa: un divorzio all’origine del
conflitto tra movimento socialista e comunista, che proponeva una redenzione
sociale e la Chiesa stessa.
Il filosofo russo Berdjaev, che
ha vissuto la rivoluzione bolscevica, critica il prometeismo marxista, ma anche
l’individualismo che separa fede e giustizia sociale. Tocca il tema del pane e
della solidarietà con una profondità straordinaria: «Quella del pane per me è
una questione materiale; ma la questione del pane per il mio prossimo, per gli
uomini di tutto il mondo, è una questione spirituale e religiosa. La società
dev’essere organizzata in modo tale che vi sia pane per tutti; soltanto allora
la questione spirituale si porrà davanti all’uomo in tutta la sua profonda
essenza».
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