venerdì 28 giugno 2024

TALITA' KUM

 


VANGELO

 DOMENICA 30 GIUGNO 2024

(...) Giunsero alla casa del capo della sinagoga ed egli vide trambusto e gente che piangeva e urlava forte. Entrato, disse loro: «Perché vi agitate e piangete? La bambina non è morta, ma dorme». E lo deridevano. Ma egli, cacciati tutti fuori, prese con sé il padre e la madre della bambina e quelli che erano con lui ed entrò dove era la bambina. Prese la mano della bambina e le disse: «Talità kum», che significa: «Fanciulla, io ti dico: àlzati!». E subito la fanciulla si alzò e camminava; aveva infatti dodici anni. Essi furono presi da grande stupore. E raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a saperlo e disse di darle da mangiare. Marco 5,21-43

 

Commento di fra Ermes Ronchi

  E le disse: “Talità kum. Bambina alzati”. Tocca a te farlo: rimettiti in piedi, sulle tue gambe, con le tue risorse.

 Qualunque sia il dolore che portiamo dentro, qualunque sia la morte che ci assedia, il Signore ripete: alzati!

 C’è una casa a Cafarnao, dove la morte ha messo il nido. Una dimora importante, quella del capo della sinagoga, eppure impotente a garantire la vita di una bambina. Giairo ha preso il mantello ed è uscito, ha camminato in cerca di Gesù, e Gesù interrompe ciò che sta facendo e si mette a camminare con lui. Sulle frontiere tra la vita e la morte. Stare con il dolore degli altri diventa uno dei gesti cristiani più rivoluzionari.

 Perché il dolore, il dolore innocente? I figli di tanti Giairo muoiono in un’età in cui invece è d’obbligo fiorire, non soccombere. Eppure Gesù non dà una risposta, dà altro: il dolore non domanda spiegazioni, ma condivisione: “e andò con lui”.

 “Non temere, soltanto continua ad aver fede”, quella che ti ha fatto uscire di casa in cerca di aiuto e di ascolto. Ma come è possibile non temere, non essere nella paura quando la morte si è portata via il mio sole? Il contrario della paura non è il coraggio, è la fede, atto umanissimo che tende alla vita! Che dice: ho bisogno, mi fido, mi affido. Sulla tua parola getterò le reti, anzi: nelle tue mani getto la vita!

 Giunsero alla casa e vide gente che piangeva e gridava. disse loro: “Perché piangete? Non è morta, ma dorme”. Coloro che noi chiamiamo ‘morti’ dormono a questa vita nostra, ma in realtà sono stati presi per mano e si sono alzati, come la bimba di Giairo.

 Lo deridono. Con quella derisione con cui dicono anche a noi: ma tu credi alla resurrezione? Ti illudi, non c’è niente dopo la morte. Ma la fede assicura che Dio è dei vivi e non dei morti, che dire Dio è dire risurrezione.

 Gesù cacciò tutti fuori di casa. Caccia via quelli che non credono che Dio inonda di vita anche le strade della morte.

 Gesù prende con sé il padre e la madre. Li prende con sé perché il tempo dell’amore è infinitamente più lungo del tempo della vita. La vita finisce ma l’amore no. E ciò che vince la morte non è la vita, è l’amore. Ogni bambino, dice alla mamma: tu non morirai mai!

 Ed entrò dove era la bambina.

 E non è solo la stanzetta interna della casa, è la stanza più oscura del mondo, quella senza luce: l’esperienza della morte, dove anche Gesù entrerà, per essere come noi.

 Poi la prende per mano. Dio non è un dito puntato, ma una mano che ti prende per mano. E mostra che bisogna toccare la disperazione delle persone per poterle rialzare. Toccare le loro lacrime.

 E le disse: “Talità kum. Bambina alzati”. Tocca a te farlo: rimettiti in piedi, sulle tue gambe, con le tue risorse.

 Qualunque sia il dolore che portiamo dentro, qualunque sia la morte che ci assedia, il Signore ripete: alzati!

 E subito la bambina si alzò e camminava. Restituita all’abbraccio dei suoi, a una vita incamminata e verticale. Là dove ci siamo fermati, Dio continua a farci ripartire.

 E ripete su ogni essere la benedizione delle antiche parole: Talità kum, giovane vita, alzati, rivivi, risplendi.

 E aggiunge: datele da mangiare, nutrite di sogni, di carezze e di fiducia il suo rinato cuore bambino.

 E ci rialzerà tutti, trascinandoci su, in alto, dentro la sua risurrezione.

Convento Santa Maria del Cengio

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DIALOGO E DEMOCRAZIA


ITALIA ED EUROPA, QUALE DIALOGO?


- di Giuseppe Savagnone



La furia della Meloni

E così il governo italiano si trova ad essere, insieme ad Ungheria e Slovacchia, il solo dell’Unione ad opporsi alle proposte maturate nel corso del Consiglio europeo e che dovrebbero essere ratificate dal Parlamento europeo il 18 luglio: Ursula von der Leyen del Partito popolare, confermata alla presidenza della Commissione, il socialista portoghese Antonio Costa presidente del Consiglio, la liberale estone Kaja Kallas “ministro degli Esteri”. La Meloni si è astenuta sulla prima e ha votato contro gli altri due. «Non potevo fare altro», ha detto.

 Lo aveva preannunziato, del resto, la furibonda esternazione con cui la nostra premier – riferendo in Parlamento sugli accordi per i vertici dell’UE, prima della loro definitiva conferma – li aveva bollati come un esempio di mancanza di democrazia, definendoli, più tardi, «sbagliate nel metodo e nel merito», segno di «una mancanza di rispetto ai cittadini».

 Una rabbia – neppure malcelata – che si riferiva innanzi tutto al metodo. Fin dai tempi in cui era all’opposizione e poi nel programma di governo nelle reiterate dichiarazioni fate all’inizio del suo mandato, la Meloni ha sempre considerato un punto centrale del suo progetto politico ridare all’Italia un prestigio internazionale, soprattutto nei confronti dell’Europa che, secondo lei, da troppo tempo aveva perduto.

 Una valutazione che per la verità contrastava con l’evidente considerazione di cui godeva il suo predecessore Draghi da parte di tutti i capi di governo delle due sponde dell’Atlantico, ma che corrispondeva alla logica di una leader cresciuta nel clima fortemente nazionalistico dell’estrema destra.

 Sta di fatto che, fin dall’entrata in carica di questo governo, la nostra presidente del Consiglio si è lanciata in un vorticoso giro di incontri con altri capi di Stato, insistendo ad ogni occasione per attribuire a questo attivismo il significato di una accresciuta influenza internazionale.

 Una lettura che appariva confermata dal maggiore peso a livello europeo, di cui era un segno evidente il sodalizio creatosi tra la Meloni e la presidente del Consiglio dell’UE, la Von der Leyen, i cui nomi negli ultimi mesi si sono trovati spesso associati.

In realtà non era necessario essere dei politologi per rendersi conto che alla base di questa improvvisa sintonia c’era la prospettiva di una sconfitta del Partito popolare, alle scorse elezioni di giugno, che avrebbe costretto la Von der Leyen a contare, per il rinnovo del suo mandato, sui voti del gruppo dei conservatori, guidati dai FdI.

 Pur con l’avanzata delle destre, questa sconfitta in realtà non c’è stata e, malgrado l’indebolimento dei socialisti, popolari, socialisti e liberali hanno avuto i voti necessari per tornare a formare la maggiorana di governo, senza dover ricorrere al sostegno dei conservatori della Meloni.

 Risultato: malgrado il suo successo elettorale, che ha portato i conservatori  a scavalcare i verdi nella gerarchia di forze del parlamento europeo, la nostra premier non è stata neppure coinvolta nelle trattative per le massime cariche  dell’UE ed è rimasta fuori della porta ad aspettare, furiosa, le decisioni degli altri.

L’ “amica” Ursula, a questo punto, non ha mosso un dito per toglierla da questo isolamento e ora lei non l’ha neppure votata. Dove non è in gioco l’assegnazione all’Italia, nella ripartizione delle cariche di seconda linea, di un vicepresidente e di un commissario di peso nella Commissione – questo fin dall’inizio era garantito e avverrà – ma il modo in cui ci si sta arrivando. «C’è stata una mancanza di rispetto», ha detto Meloni.  Altro che rilancio del prestigio dell’Italia!

 Il problema della democrazia

Ma non è questa umiliazione personale il motivo ufficiale dell’opposizione della Meloni bensì il fatto che «le nomine ignorano il voto di cittadini». Al di là dei sogni di gloria infranti, c’è l’oggettiva ingiustizia dell’avere escluso dal confronto sui problemi della gestione dell’intera Unione coloro che avevano avuto meno voti, anche se comunque rappresentanti di una larga parte dei cittadini europei.

 A questo evidentemente si riferiscono le accuse di mancanza di “democrazia” rivolte dalla nostra premier ai partiti della maggioranza.

 Un’accusa che appare giustificata e che però fa riflettere sullo stile “democratico” che il governo italiano sta adottando nei confronti delle opposizioni nel varo delle due grandi riforme che cambieranno il volto del nostro paese, l’autonomia differenziata e il premierato.

 Anche qui i cittadini hanno espresso una larga fiducia anche a partiti dell’opposizione, senza contar il largo margine dell’astensionismo che riduce la rappresentanza del governo, rispetto all’insieme dell’elettorato, ad oscillare tra il 24,7% delle politiche e 22,7% delle europee.

 Malgrado questa esile rappresentatività, il governo di destra ha chiaramente dichiarato che andrà avanti senza esitazione anche in presenza della frontale opposizione degli altri partiti. E qui non si tratta di nomine, ma dell’assetto fondamentale della nostra vita associata.

 Non sarebbe il caso che la Meloni si interrogasse sul doppio standard da lei adottato nella situazione in cui è le ad essere in minoranza, come in Europa, e a quella che la vede al governo?

Il ritornello «abbiamo avuto più voti di voi e perciò decidiamo noi» non esprime il metodo democratico in nessuno dei due casi. La democrazia non è una pura somma aritmetica di voti, ma uno stile di partecipazione che deve coinvolgere quante più persone è possibile, ascoltandole e valorizzando il loro apporto.

 Altrimenti diventa la dittatura della maggioranza, che spacca una comunità in fronti contrapposti e dissolve il bene comune, a cui tutti dovrebbero essere interessati, trovando in esso un punto d’incontro in un’alternativa perversa di obiettivi ideologici di parte, incompatibili tra loro.

 Gli amari frutti di questo declino sono sotto i nostri occhi: astensionismo dilagante, fuga dalle responsabilità sociali evidenziata dall’evasione fiscale alle stelle, corruzione.

 Non si valorizza la nazione – la Patria, come ama definirla la Meloni – continuando a procedere su questa strada. Come non si valorizza l’Europa rafforzando una ristretta governance sorda alle esigenze dell’opposizione.

 Ma la nostra premier non può ribellarsi a questo secondo errore continuando a chiudere gli occhi sul primo. Vale per entrambi quello che giustamente lei ha detto: non né così che costruisce la democrazia.

 *Scrittore ed editorialista. Pastorale della Cultura -Arcidiocesi Palermo

www.tuttavia.eu

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CORPI SENZ'ANIMA


 Il problema è che 

ai ragazzi 

mancano le emozioni"

 

 Intervista a Paolo Crepet

  

"Il problema è che ai ragazzi mancano le emozioni". Mordere il cielo è l’ultimo libro del professore e psichiatra Paolo Crepet. Con lui abbiamo cercato di capire qualcosa di più su come si possa arrivare, a sedici anni, ad ammazzare un coetaneo, con la crudeltà con cui è stato ammazzato Christopher Thomas Luciani a Pescara.

 Professor Crepet, nell’essere umano non esiste un istinto, scritto nel dna, a non uccidere? "No, questa è una visione buonista dell'essere umano. L'essere umano è più complicato di come viene raccontato. Dentro ognuno di noi c'è l'empio, il malvagio. C'è sempre stato."

 In dotazione alla nascita abbiamo cattiveria e bontà? "In egual misura. Siamo portati a pensare che il viaggio della civilizzazione ci abbia condotti a una maggiore quantità di bontà, rispetto, amore, interesse e curiosità. Ma tutto questo non è vero. Nel tempo non abbiamo curato l'anima. Ci siamo solo impegnati a curare le cellule. I nostri trisavoli campavano cinquant'anni, oggi i nostri figli ne campano novanta."

 Allungare l’aspettativa di vita è stato il solo interesse verso l'essere umano? "Abbiamo pensato fosse importante far fare le corsette ai settantenni e fagli fare l'amore a ottanta. Ci siamo concentrati solo su questo."

 Dove sta l'equivoco? "Ritenere che questa spasmodica attenzione nei confronti delle cellule fosse collegata all'anima come sono collegati i vasi comunicanti. Migliorando la fisicità, la qualità della vita, automaticamente - pensiamo - si diventa una persona migliore."

 E invece? "Nulla di più falso."

 Nel caso di Pescara non ravvisa alcuno squilibrio psichico alla base della brutalità dell'omicidio? "C'è piuttosto uno squilibrio educativo. Nasciamo sani, nel senso fisiologico del termine. Appena nasce un bambino la prima cosa che guardano è il famoso indice Apgar."

 Non è un parametro importante? "Certo che lo è. Solo che siamo portati a pensare che, se il bambino ha un buon Apgar, allora è a posto. Ma non è così."

 Quindi se non c’entra la genetica, cosa spinge ragazzi così giovani ad ammazzare? "Tempo fa scrissi un libro sui ragazzi cattivi, Cuori violenti, dove raccontavo l'incontro con un ragazzo di sedici anni che era un delinquente, un assassino. Lui mi disse: 'Ma secondo lei perché mio fratello sta a Milano e a differenza mia è una brava persona?'"

 In effetti viene da pensare che l’educazione familiare sia stata la stessa. Quindi? "Tu hai cinque figli e fai la brava madre con tutti e cinque dandogli pane con marmellata a tutti e cinque, distribuendo le tue capacità a tutti. Ma non funziona così. Siamo ancora all’Apgar se pensiamo questo. Il vero problema è che magari il quinto lo hai ascoltato di meno e magari ti è pure un po’ antipatico mentre adori la seconda perché ti identifichi con lei. Questa cosa è impalpabile ma formidabile."

 Curiamo troppo il corpo e poco l’anima? "Esattamente."

 Spesso se la prende con i genitori che sistemano lo zainetto al bambino. Perché? "Perché quel bambino diventa un idiota. Ma se dico questa cosa mi coprono di insulti e mi accusano di essere un grillo parlante. Semplicemente dico cose semplici. Tua nonna, e mia nonna, capivano che i bambini dovevano farsi la cartella da soli. Adesso gli adulti non lo capiscono più."

 Cerchiamo di fare tutto il possibile per toglier loro le frustrazioni... "Ma è la cosa peggiore che si possa fare. L’orrore educativo è regalare a un ragazzo di 16 anni una bicicletta con la pedalata assistita. Pensando di aiutarli, li si conda."

 I due assassini dei quali stiamo parlando sono due classici bravi ragazzi: papà carabiniere, papà avvocato. Per chi viveva accanto a loro era possibile accorgersi che qualcosa non andava? "Assolutamente sì. C’è chi dice che no, che è colpa della genetica, che è colpa di un raptus o del destino... Ebbene, chi dice così non capisce niente. Perché, al contrario, si può e si deve intervenire."

 Come? "Parlando sempre del futuro. Se oggi mi mettessi lì con questi genitori e con il ragazzo, non parlerei del passato e di quanto è successo. Di questo si occuperanno i magistrati. Parlerei del futuro. Chiederei al ragazzo: che vuoi fare tra cinque anni? Chi vuoi essere? Chi ti immagini di essere? È qui che emergono tutti i limiti. Se mi dice, per esempio, di voler fare l’avvocato, gli chiederei come pensa di farlo dal momento che non ha studiato nemmeno cinque minuti. 'È qui il tuo problema', gli direi. 'La tua violenza viene dalla tua frustrazione, che è tua perché tu non hai un futuro e non sai neppure immaginarlo'."

 Quindi qual è la cura? "La cura è il futuro."

 C’è sempre una possibilità di recupero, anche per chi si è macchiato dei delitti più orrendi? "Si, sempre."

 Spesso questi drammi accadono durante l'adolescenza. "L’adolescenza è il vulcano che erutta. E ci si brucia quando erutta. Bisogna allungare l'infanzia. Smettere di ucciderla. Oggi pensiamo che un bambino è un bambino per tre anni. Poi deve iniziare a fare chissacché. La cura per l'adolescenza parte dall'infanzia. Dobbiamo fare una cosa semplicissima: far giocare i bambini. Lasciare che siano bambini."

 Nel suo ultimo libro Mordere il cielo spiega che a questi ragazzi mancano le emozioni. "Proprio perché gli è mancato il gioco. Il gioco è empatia. Questi bambini devono giocare, vincere e perdere. La pedagogia della sconfitta è fondamentale."

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mercoledì 26 giugno 2024

I TRAFFICANTI SONO CRIMINALI

 


Aiutiamo chi cade 

nella schiavitù della droga. 

 

La catechesi dell'udienza generale tutta dedicata alla tragica realtà delle tossicodipendenze in occasione dell'odierna Giornata mondiale Onu contro l’abuso e il traffico illecito di droga. La liberalizzazione del consumo di droghe come strategia per il suo contenimento "è una fantasia", afferma Francesco, che indica la prevenzione come via prioritaria. E definisce coloro che alimentano questo mercato "assassini e trafficanti di morte"

 

-       -  di Adriana Masotti - Città del Vaticano

 

"Di fronte alla tragica situazione della tossicodipendenza di milioni di persone in tutto il mondo, di fronte allo scandalo della produzione e del traffico illecito di tali droghe, non possiamo essere indifferenti". In occasione della Giornata mondiale contro l’abuso e il traffico illecito di droga che ricorre oggi, Francesco dedica a questa piaga sociale la catechesi all'udienza generale di questo mercoledì, 26 giugno, in piazza San Pietro. Tema della Giornata istituita dall'Onu nel 1987 è "Le prove sono chiare: bisogna investire nella prevenzione."

Ogni persona ha la dignità di figlio di Dio

Se, come aveva affermato san Giovanni Paolo II, l'abuso di droga danneggia ogni comunità in cui è presente, Francesco ricorda che l'attenzione è sempre dovuta ad ogni persona coinvolta nel suo utilizzo. E, citando ciò che aveva detto ai partecipanti all'incontro promosso dalla Pontificia Accademia delle Scienze il 24 novembre 2016, afferma:

Ogni tossicodipendente "porta con sé una storia personale diversa, che deve essere ascoltata, compresa, amata e, per quanto possibile, guarita e purificata. Continuano ad avere, più che mai, una dignità, in quanto persone che sono figli di Dio. Tutti hanno una dignità"

Porre fine alla produzione e al traffico

Il Papa cita poi le severe parole di Benedetto XVI che esortava i trafficanti a riflettere "sul male che stanno facendo a una moltitudine di giovani e di adulti", tenendo presente che Dio ne chiederà loro conto. "Sono degli assassini", afferma Francesco che entra poi nel merito di che cosa sia necessario fare per fermare l'uso delle droghe:

Una riduzione della dipendenza dalle droghe non si ottiene liberalizzandone il consumo - questa è una fantasia - , come è stato proposto, o già attuato, in alcuni Paesi. E questo: si liberalizza e si consuma di più. Avendo conosciuto tante storie tragiche di tossicodipendenti e delle loro famiglie, sono convinto che è moralmente doveroso porre fine alla produzione e al traffico di queste sostanze pericolose. Quanti trafficanti di morte ci sono – perché i trafficanti di droga sono trafficanti di morte! – quanti trafficanti di morte ci sono, spinti dalla logica del potere e del denaro ad ogni costo!

La prevenzione quale via prioritaria di contrasto

Francesco indica quindi la prevenzione come "via prioritaria" di contrasto all'abuso di droghe. Attingendo alle sue esperienze personali il Papa aggiunge:

Nei miei viaggi nelle diverse diocesi e Paesi, ho potuto visitare diverse comunità di recupero ispirate dal Vangelo. Esse sono una testimonianza forte e piena di speranza dell’impegno di preti, consacrati e laici di mettere in pratica la parabola del Buon Samaritano. Così pure sono confortato dagli sforzi intrapresi da varie Conferenze episcopali per promuovere legislazioni e politiche giuste riguardo al trattamento delle persone dipendenti dall’uso di droghe e alla prevenzione per fermare questo flagello.

Preghiera e impegno contro la droga

A titolo di esempio ricorda la rete de La Pastoral Latinoamericana de Acompañamiento y Prevençión de Adicciones (PLAPA) che condivide esperienze e difficoltà in fatto di lotta alla droga, e i vescovi dell’Africa Australe che nel novembre 2023 hanno convocato una riunione sul tema “Dare potere ai giovani come agenti di pace e speranza”. Nessuno può rimanere indifferente, afferma il Papa, di fronte "alla tragica situazione della tossicodipendenza", e allo "scandalo della produzione e del traffico illecito". Il nostro modello è Gesù. Riproponendo quanto da lui scritto nel Messaggio ai partecipanti al 60th Congresso Internazionale dei Tossicologi Forensi il 26 agosto 2023, dice ancora:

Sullo stile della sua prossimità, siamo chiamati anche noi ad agire, a fermarci davanti alle situazioni di fragilità e di dolore, a saper ascoltare il grido della solitudine e dell’angoscia, a chinarci per sollevare e riportare a nuova vita coloro che cadono nella schiavitù della droga.

Il Pontefice conclude invitando anche a pregare per "questi criminali che danno la droga ai giovani". E ribadisce: "Sono criminali, sono assassini. Preghiamo per la loro conversione".

 

Vatican News

 PAROLE DEL PAPA




ALLA VIGILIA DEL GIUBILEO


Il mondo ringiovanisce 

ad ogni Giubileo?

Cosa è davvero un Giubileo? E che senso ha ancora oggi nel tempo della intelligenza artificiale celebrarne uno? Sono le domande forse più comuni a sei mesi dal grande evento del 2025.




Un libro di Angelo Scelzo racconta cosa c'è ancora da sperare per il Giubileo 2025


 -         di Angela Ambrogetti

 Chi il Giubileo lo ha già vissuto nel 2000 o nel 1975, o anche nel 1950, sa che alla fine è un evento di fede per chi ci crede e un grande evento di affari per il resto del mondo. Ma per chi vuole andare oltre il consiglio è leggere il libro di Angelo Scelzo " Verso il Giubileo del 2025. Il mondo ha sempre 25 anni". Perché trova delle testimonianze come quella del Cardinale Sepe che il giubileo del 2000 lo ha organizzato, e pagine storiche, ma anche riflessioni sull' oggi, fino al testo della Bolla di indizione del Giubileo del 2025.

 Nella sua introduzione il Segretario di Stato Vaticano, il cardinale Parolin chiarisce che il senso stesso del libro di Angelo Scelzo, che da decenni segue i fatti vaticani anche da osservatori privilegiati, è il cambio di clima. Dalle Torri Gemelli all'attacco di Hamas ad Israele, con in mezze guerre e una pandemia che sa di medioevo.

 Ecco questo cambio di clima è la chiave per capire perché il Giubileo è ancora tanto significativo.

Da parte sua il Cardinale Crescenzio Sepe che nel 2000 era l'uomo del Giubileo e che racconta cosa succede dopo il Giubileo nelle Chiese locali, anche per capire in cosa consista davvero il successo di un Giubileo. Con il cardinale Sepe si rivive passo passo il Giubileo che guardava avanti, al futuro.

Dopo 25 anni, il mondo è peggiorato e quelle speranze si sono umanamente perse. Viviamo appunto un periodo peggiore di quella buia immagine del "medioevo" che però nascondeva perle preziose. Oggi sembra difficile trovare nel fango dei diamanti se pensiamo solo da uomini. Ma è questa la differenza per i credenti.

Questo cerca di spiegare Angelo Scelzo nel suo libro che guarda il Magistero di Papa Francesco senza mai dimenticare, come invece accade spesso ultimamente, il lavoro e il Magistero di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI che, se pure non fu Papa durante un giubileo, fu uno dei cardini delle celebrazioni del 2000.




LA FINE DEL PATRIARCATO


 Nello specchio rotto di Narciso assassino 

la fine del patriarcato

 

L'assassino di Giulia Cecchettin dichiara di fronte agli inquirenti che la ragione più profonda che lo ha spinto a uccidere crudelmente la sua compagna a coltellate è stata la consapevolezza della fine irreversibile della loro relazione.

-         -di  Massimo Recalcati

«Voleva vivere senza di me», dice laconicamente evocando così quel desiderio di libertà - dichiarato da Giulia - che non avrebbe mai potuto accettare. Sì, perché molto frequentemente nei legami caratterizzati da una profonda dipendenza la vita dell'altro non viene percepita come vita libera, vita autonoma, ma solo come il prolungamento della propria personalità. La psicoanalisi ha utilizzato il mito classico di Narciso, raccontato da Ovidio, per spiegare questa strana e paradossale dipendenza che lega il principe dell'amore per sé stessi - Narciso - all'altro in un legame che non tollera la minima separazione. Ma da quale altro Narciso si trova a dipendere? Nel mito si tratta della propria immagine riflessa dalle acque. 

Per un verso Narciso appare fissato nella contemplazione di sé stesso e, di conseguenza, libero da ogni legame nei confronti dell'altro. Ma, per un altro verso, come l'esperienza clinica dimostra, egli si trova a dipendere profondamente dall'altro nella misura in cui è solo attraverso l'altro che egli può coltivare il carattere idealizzato della propria immagine. Questo significa che Giulia molto probabilmente rifletteva l'Io ideale del suo assassino e che quando ella ha dichiarato la fine del suo amore e rivendicato la propria libertà ha irreversibilmente infranto lo specchio che teneva in vita il narcisismo del suo carnefice. Nel mito Narciso perisce perché vorrebbe coincidere con l'immagine ideale che il riflesso delle acque gli restituisce. Ma questa coincidenza è impossibile: lo specchio si rivela sempre una trappola ingannevole. 

Nel caso dell'assassino di Giulia è Giulia stessa, la sua vitalità e la sua intraprendenza, a costituire la superficie dello specchio dove egli riflette il proprio Io ideale. Dunque, colpendola egli colpisce l'ideale irraggiungibile di sé stesso. Se, infatti, Giulia può vivere senza di me, io sono perduto perché insieme a lei perdo tutto me stesso, perdo la mia stessa immagine, perdo ogni valore, sono ridotto a non essere più niente. È questo il punto nevralgico che unisce strutturalmente narcisismo e depressione: se quella che io ritenevo essere parte di me, la mia propria immagine ideale esteriorizzata, dichiara di voler vivere senza di me, lo specchio si rompe e io cado nel vuoto restando senza più nulla. La libertà dell'altro coincide con la mia rovina Non sentirsi più niente è, infatti, l'altra faccia del volersi sentire tutto. 

Il mito di Ovidio si conclude con il suicidio di Narciso che nel tentativo impossibile di raggiungere la sua immagine idealizzata muore affogato nelle acque. Nel caso dell'assassino di Giulia questa dinamica narcisistico-depressiva si staglia sullo sfondo non tanto dell'ideologia del patriarcato, ma del suo irreversibile sbriciolamento. Mentre infatti quell'ideologia si sosteneva sulla sudditanza e sulla minorità (cognitiva e ontologica) della donna rispetto al potere assoluto del maschio, in questo caso è la libertà della donna - la libertà di Giulia - a fare scricchiolare l'illusione del maschio-padrone. 

Rivendicando con determinazione il suo diritto a scegliere chi amare e come vivere, Giulia mostra quanto quell'ideologia stia esalando i suoi ultimi respiri. La risposta feroce e disperata del suo assassino non è rivelatrice di un potere che non vuole tramontare quanto piuttosto del suo tramonto già in corso. 

L'ideologia del patriarcato non è più il cemento ideologico delle società occidentali. Piuttosto essa governa i regimi totalitari, soprattutto quelli di origine religiosa. In quei casi non si manifesta solo come una disperata spinta alla sopravvivenza, ma come bussola valoriale che orienta dall'alto il destino di quei regimi e che dovrebbero suscitare agli occhi dell'Occidente, così tanto bistrattato da quegli occidentali che sputano nel piatto dove mangiano, una condanna senza appello.

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lunedì 24 giugno 2024

AUTONOMIA e PREMIERATO

 


 La Costituzione, 

i principi e le riforme

NELLA CARTA 

TUTTI E CIASCUNO

 

-         di  BRUNO FORTE

Riguardo alle recenti votazioni parlamentari che hanno aperto la strada alla cosiddetta “autonomia differenziata” e al “premierato” deve far riflettere il fatto che centottanta costituzionalisti di peso abbiano lanciato un appello tanto rigoroso, quanto documentato, in cui tra l’altro si legge: «La creazione di un sistema ibrido, né parlamentare né presidenziale, mai sperimentato nelle altre democrazie, introdurrebbe contraddizioni insanabili nella nostra Costituzione. Una minoranza anche limitata, attraverso un premio, potrebbe assumere il controllo di tutte le istituzioni, senza più contrappesi e controlli. Il Parlamento correrebbe il pericolo di non rappresentare più il Paese e di diventare una mera struttura di servizio del Governo, distruggendo così la separazione dei poteri. Il Presidente della Repubblica sarebbe ridotto ad un ruolo notarile e rischierebbe di perdere la funzione di arbitro e garante». 

La Costituzione è in realtà un testo di singolare saggezza, nato dalla confluenza delle grandi anime culturali, che cooperarono alla ricostruzione fisica e morale del Paese dopo la tragedia della guerra e della dittatura che ad essa aveva condotto l’Italia: l’anima cattolica, quella liberale e quella socialista. È tuttavia in modo particolare al personalismo di ispirazione cristiana che la legge fondamentale dello Stato repubblicano deve… sua fonte più ricca in materia di valori. Questa fonte era stata compendiata nel Codice di Camaldoli, testo programmatico di politica economica, elaborato al termine di una settimana di studio (18-23 luglio 1943), tenutasi nel monastero di Camaldoli, cui avevano partecipato una cinquantina di giovani dell’Azione Cattolica e della Fuci, per stabilire le linee dello sviluppo futuro del Paese, una volta finita la guerra.

Fra di essi non pochi sarebbero stati fra i protagonisti centrali della nuova Italia. Nei 99 punti del testo emergeva l’idea della centralità della persona umana nella futura organizzazione dello Stato e della sua economia, congiunta a quelle della corresponsabilità, della cooperazione, della mutualità e della solidarietà nazionale. Ora, se si guarda ai principi ispiratori della Costituzione non può non nascere la domanda se siano compatibili con essi le riforme che si vorrebbero tradurre in legge: un primo principio è quello della singolarità e dell’uguaglianza di ogni cittadino, fondato sull’irripetibile dignità di ogni persona umana. 

La Costituzione recepisce questo principio nell’art. 2, dove si afferma che «la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo». Questi diritti sono considerati naturali, non creati, cioè giuridicamente dallo Stato, ma ad esso preesistenti. Tale interpretazione è suggerita dall’uso della parola “riconoscere”, che implica la preesistenza di essi rispetto al loro riconoscimento giuridico. Si avverte qui il sintomo della reazione al totalitarismo e alla sua concezione dello Stato come fonte assoluta del diritto: ma non si può escludere la riserva espressa verso forme costituzionali in cui una singola persona verrebbe ad assommare in sé vastissimi poteri, come accadrebbe appunto nel caso del “premierato”. L’intero equilibrio dei poteri è fondato nella nostra Costituzione sul rifiuto di una tale concentrazione e sulla distribuzione articolata delle funzioni e delle potestà decisionali. La stessa figura del Presidente della Repubblica, oggi mirabilmente rappresentata da Sergio Mattarella, si profila soprattutto come quella di un garante di un tale equilibrio, senza minimamente assommare in sé i poteri sapientemente distribuiti e articolati.

L’altro principio alla base della Costituzione è quello della responsabilità di ciascuno verso sé stesso e verso gli altri. Di qui deriva l’importanza dell’appartenenza plurale, che non solo non esclude la pluralità delle differenze, ma la suppone come base di un’unità non formale né forzata, ricca della complessità del Paese reale e della necessaria interrelazione fra le sue componenti. La domanda che qui nasce è quella intorno alla proposta dell’autonomia differenziata: se non v’è alcun dubbio che la Costituzione recepisca il principio di responsabilità affermando il non meno importante principio del pluralismo, tipico degli stati democratici, l’intero edificio costituzionale è pensato sulla feconda articolazione della pluralità economica, sociale, culturale, territoriale.

Proprio perché la Repubblica è dichiarata senza mezzi termini una e indivisibile, è riconosciuto e tutelato il pluralismo delle formazioni sociali (art. 2), degli enti politici territoriali (art. 5), delle minoranze linguistiche (art. 6), delle confessioni religiose (art. 8), delle associazioni (art. 18), di idee ed espressioni (art. 21), della cultura (art. 33, comma 1), delle scuole (art. 33, comma 3), delle istituzioni universitarie e di alta cultura (art. 33, comma 6), dei sindacati (art. 39) e dei partiti politici (art. 49). In altre parole, la garanzia del pluralismo è coniugata a livello costituzionale alla non meno importante e necessaria affermazione dell’unità del Paese, decisiva e fondante rispetto alle differenze.

Non può non porsi allora la domanda se la differenziazione delle autonomie proposta dalla riforma in cantiere rispetti adeguatamente quest’unità fondamentale: saranno le regioni del Sud nelle loro varietà e articolazioni tutelate in modo analogo a quelle del Nord più produttivo ed economicamente più avanzato? Il sapersi responsabili verso sé stessi e verso gli altri, cardine del personalismo che ispira la nostra Carta costituzionale, fonda non solo l’esigenza del rispetto del diverso, ma esige anche il farsi carico da parte della Nazione intera del bisogno e della tutela dei diritti di tutti. Nessun cittadino è un’isola, né lo sono le componenti locali della nostra Italia, e a nessuno è lecito anteporre egoisticamente il proprio bene al bene comune. Sarà tutelata nell’eventuale attuazione della riforma proposta l’urgenza di coniugare il bene di ciascuno e delle singole parti col bene di tutti?

 Fra di essi non pochi sarebbero stati fra i protagonisti centrali della nuova Italia. Nei 99 punti del testo emergeva l’idea della centralità della persona umana nella futura organizzazione dello Stato e della sua economia, congiunta a quelle della corresponsabilità, della cooperazione, della mutualità e della solidarietà nazionale. Ora, se si guarda ai principi ispiratori della Costituzione non può non nascere la domanda se siano compatibili con essi le riforme che si vorrebbero tradurre in legge: un primo principio è quello della singolarità e dell’uguaglianza di ogni cittadino, fondato sull’irripetibile dignità di ogni persona umana.

La Costituzione recepisce questo principio nell’art. 2, dove si afferma che «la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo». Questi diritti sono considerati naturali, non creati, cioè giuridicamente dallo Stato, ma ad esso preesistenti. Tale interpretazione è suggerita dall’uso della parola “riconoscere”, che implica la preesistenza di essi rispetto al loro riconoscimento giuridico. Si avverte qui il sintomo della reazione al totalitarismo e alla sua concezione dello Stato come fonte assoluta del diritto: ma non si può escludere la riserva espressa verso forme costituzionali in cui una singola persona verrebbe ad assommare in sé vastissimi poteri, come accadrebbe appunto nel caso del “premierato”.

L’intero equilibrio dei poteri è fondato nella nostra Costituzione sul rifiuto di una tale concentrazione e sulla distribuzione articolata delle funzioni e delle potestà decisionali. La stessa figura del Presidente della Repubblica, oggi mirabilmente rappresentata da Sergio Mattarella, si profila soprattutto come quella di un garante di un tale equilibrio, senza minimamente assommare in sé i poteri sapientemente distribuiti e articolati. L’altro principio alla base della Costituzione è quello della responsabilità di ciascuno verso sé stesso e verso gli altri. Di qui deriva l’importanza dell’appartenenza plurale, che non solo non esclude la pluralità delle differenze, ma la suppone come base di un’unità non formale né forzata, ricca della complessità del Paese reale e della necessaria interrelazione fra le sue componenti.

La domanda che qui nasce è quella intorno alla proposta dell’autonomia differenziata: se non v’è alcun dubbio che la Costituzione recepisca il principio di responsabilità affermando il non meno importante principio del pluralismo, tipico degli stati democratici, l’intero edificio costituzionale è pensato sulla feconda articolazione della pluralità economica, sociale, culturale, territoriale. Proprio perché la Repubblica è dichiarata senza mezzi termini una e indivisibile, è riconosciuto e tutelato il pluralismo delle formazioni sociali (art. 2), degli enti politici territoriali (art. 5), delle minoranze linguistiche (art. 6), delle confessioni religiose (art. 8), delle associazioni (art. 18), di idee ed espressioni (art. 21), della cultura (art. 33, comma 1), delle scuole (art. 33, comma 3), delle istituzioni universitarie e di alta cultura (art. 33, comma 6), dei sindacati (art. 39) e dei partiti politici (art. 49). In altre parole, la garanzia del pluralismo è coniugata a livello costituzionale alla non meno importante e necessaria affermazione dell’unità del Paese, decisiva e fondante rispetto alle differenze.

Non può non porsi allora la domanda se la differenziazione delle autonomie proposta dalla riforma in cantiere rispetti adeguatamente quest’unità fondamentale: saranno le regioni del Sud nelle loro varietà e articolazioni tutelate in modo analogo a quelle del Nord più produttivo ed economicamente più avanzato? Il sapersi responsabili verso sé stessi e verso gli altri, cardine del personalismo che ispira la nostra Carta costituzionale, fonda non solo l’esigenza del rispetto del diverso, ma esige anche il farsi carico da parte della Nazione intera del bisogno e della tutela dei diritti di tutti. Nessun cittadino è un’isola, né lo sono le componenti locali della nostra Italia, e a nessuno è lecito anteporre egoisticamente il proprio bene al bene comune.

Sarà tutelata nell’eventuale attuazione della riforma proposta l’urgenza di coniugare il bene di ciascuno e delle singole parti col bene di tutti?

www.avvenire.it

  


domenica 23 giugno 2024

PERSONA NON INSIEME DI DATI

 

"La tecnologia 

sia al servizio 

della dignità umana"

 Dopo l'udienza con il Papa, l'intervento del segretario di Stato alla sessione conclusiva della Conferenza internazionale sull’Intelligenza Artificiale organizzata dalla Fondazione Centesimus Annus Pro Pontifice

 -di Rosario Capomasi - Città del Vaticano

 Di fronte alle sfide poste dall’Intelligenza Artificiale, occorre "un’alfabetizzazione di base" che, tenendo conto del progresso tecnologico, "sia orientata a migliorare le condizioni dell’umanità": è questa la strada per far sì che le macchine rimangano "centrate sull’uomo e sulla difesa dei suoi diritti" e si possa così "evitare che l’unicità della persona venga identificata e ridotta ad un insieme di dati". Lo ha sottolineato il cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin, durante l’intervento tenuto stamane nella Sala Clementina — al termine dell’udienza con Papa Francesco — in occasione della sessione conclusiva della Conferenza internazionale sull’Intelligenza Artificiale (IA) organizzata dalla Fondazione Centesimus Annus Pro Pontifice, dal 20 al 22 giugno, presso il Pontificio Istituto Patristico Augustinianum di Roma.

 Ascoltare le domande dell'uomo di oggi

"L’ascolto della Parola di Dio - ha osservato il porporato - chiede un ascolto delle domande e degli interrogativi di senso dell’uomo di oggi" di fronte ai vari cambiamenti in atto nella società. Tra di essi si pone con tutte le sue sfide il tema dell’IA, che "si insinua in maniera pervasiva" nei rapporti umani, "influenzando abitudini individuali e comportamenti sociali", tanto che sembra di trovarsi dinanzi, più che a "un’epoca di cambiamenti, a un cambiamento d’epoca", ha rimarcato Parolin citando le parole di Papa Francesco. Infatti, "rispetto alle innovazioni tecnologiche del passato, come ad esempio l’invenzione della stampa, della macchina a vapore, dell’automobile, che sono servite a trasformare il mondo fisico, le nuove tecnologie informatiche processano una realtà immateriale" e hanno perciò un significativo "impatto sul modo in cui si sviluppa l’intelligenza umana".

 La rivoluzione tecnologica sia equa e sociale

Ciò porta a una "trasformazione strutturale dell’esperienza dell’io e dei suoi rapporti con gli altri", come Romano Guardini aveva già profeticamente segnalato nei primi decenni del XX secolo. Bisogna infatti considerare, ha precisato il segretario di Stato, che "attualmente l’Intelligenza Artificiale è oggetto di una base in rapida evoluzione che segna il passaggio dall’apprendimento automatico" - in cui è fondamentale il ruolo umano nella figura degli sperimentatori - a quello che viene definito "apprendimento profondo". In quest’ultimo prevale la capacità di acquisire i dati in modo autonomo ottimizzando progressivamente le prestazioni.  È allora doveroso, ha fatto presente il cardinale, vigilare attentamente per non cedere alla logica del pragmatismo, della programmazione, bensì per "indirizzare la rivoluzione tecnologica in modo equo e sociale".

 Le diverse tipologie di Intelligenza Artificiale

Alla luce di queste considerazioni, Parolin ha poi passato in rassegna alcune tipologie di Intelligenza Artificiale, come quella “predittiva”, quando cioè una macchina è in grado di fare previsioni sulla base di input acquisiti in precedenza.  È quello che accade, ad esempio, nei campi "del mercato azionario, nella diagnostica medica, nella previsione del comportamento dei consumatori". Ma ciò è un limite, ha avvertito, perché, basandosi su modelli passati, non si tiene conto "di un’inaspettata congiuntura di eventi". Anche l’IA “decisionale”, che estrae informazioni per fornire "suggerimenti volti a indirizzare le scelte e offrire riscontri utili a verificarne l’efficacia", presenta delle lacune. In questo caso, infatti, le macchine hanno "un ruolo esecutivo più determinante. e l’automatizzazione decisionale implica la significativa riduzione del coinvolgimento degli esseri umani", rendendo difficile "determinare su chi ricadrebbe la responsabilità di rendere conto di eventuali danni". Da ultimo il cardinale ha fatto riferimento all’intelligenza “generativa”, che è in grado di generare testo, immagini, video, musica o altri media in risposta a degli input, "confezionandoli nello stile che le è stato richiesto". Gli esempi, molto significativi, sono presenti in campo farmaceutico e in quello medico, con risultati che non sarebbe stato possibile raggiungere facendo affidamento solo sulle singole competenze. E questo potrebbe essere valido anche nel campo dell’agricoltura, consentendo "l’ottimizzazione dei raccolti" e "permettendo ad intere popolazioni di contrastare il problema della fame".

 Un prodotto dell'uomo che deve rispettare la dignità degli individui

Dopo aver messo in guardia dai pericoli che l’IA potrebbe causare in caso di controllo da remoto di armamenti militari senza le dovute precauzioni - come del resto avverrebbe anche nel mondo lavorativo e nella cura della casa comune - il cardinale ha concluso il suo intervento invitando a considerare l’IA non come una minaccia ma come un’alleata dell’umanità, e facendo notare che essa è sempre un prodotto dell’uomo. Pertanto, il progresso tecnologico deve essere assistito da un modus operandi che rispetti la dignità e la fraternità degli esseri umani, evitando di utilizzarlo per il benessere di pochi a discapito di molti.

 Vatican News

INTERVENTO DEL CARDINALE PAROLIN