per una comunicazione
pienamente umana”.
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di Chiara Giaccardi
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Il
messaggio per la giornata mondiale delle comunicazioni sociali di quest’anno ha
un titolo che è già in sé programmatico: “Intelligenza artificiale e sapienza
del cuore: per una comunicazione pienamente umana”. Rischiamo sempre, e già lo
aveva riconosciuto McLuhan evocando il mito di Narciso, di lasciarci sedurre
dalla nostra stessa immagine cristallizzata nelle tecnologie, dimenticando il
nostro ruolo e la nostra responsabilità.
Ma
oggi più che mai i rischi sono molteplici, e minacciosi. Intanto ci sono le
metafore ingannevoli, che ci orientano verso cattive interpretazioni. Una volta
si parlava dei “cervelli elettronici” per indicare i computer, e questa
antropomorfizzazione dei dispositivi si è poi ribaltata nella meccanizzazione
delle facoltà umane: il cervello come macchina che processa informazioni, un
riduzionismo che mortifica la complessità della mente.
Anche
“intelligenza artificiale” è un’espressione scivolosa, perché l’analogia
rischia di esaltare le macchine, di sminuire l’idea di intelligenza riducendola
ad attività di calcolo (che trasforma tutto in “dato”, dove ciò che non si può
contare non conta) e di interiorizzare le capacità umane: se l’intelligenza è
calcolo, le macchine sono certamente superiori agli umani!
Forse
non possiamo abbandonare la metafora, ma dobbiamo essere consapevoli del suo
limite, e delle conseguenze negative che derivano dal non coglierlo. Kate
Crawford, cofondatrice dell’AI Now Institute presso la NY University, ha
scritto Né intelligente né digitale (Edizioni Il Mulino) per mettere in guardia
da tutti i discorsi che fanno da velo alla comprensione delle reali dinamiche
in corso: per esempio, che quella dell’IA è una vera e propria “industria
estrattiva”, che depaupera la terra di risorse, sfrutta il lavoro sottopagato,
contribuisce in modo rilevante alla produzione di anidride carbonica, senza
contare che i data center sono tra i maggiori consumatori di elettricità al
mondo.
Non
solo: il suo sviluppo non è neutro. Cosa viene ottimizzato, per chi, chi decide
sono questioni che seguono interessi ben precisi. Gli algoritmi non sono mai
neutri, lo afferma anche Papa Francesco nel messaggio di quest’anno, ed è un
primo caveat. Come poi ha sostenuto Jonathan Crary nella sua analisi del
capitalismo digitale (Terra bruciata) il funzionamento degli algoritmi basato
sull’estrazione e gestione dei dati alimenta e sfrutta il meccanismo
stimolo-risposta per accelerare il flusso di consumo e comprimere il tempo di
riflessione, sollecitando una reazione immediata alla molteplicità di stimoli.
Ormai reagire è diventata la forma comune di azione, con gli effetti
disumanizzanti che ne derivano, e con l’assottigliamento sempre più
preoccupante dei nostri margini di libertà - che consiste non nel reagire, ma
nell’agire altrimenti. E per farlo bisogna avere il tempo di pensare! «Quando
un’informazione scaccia l’altra, ecco che non abbiamo più tempo per la verità»,
scrive il filosofo coreano Byung-chul Han.
Non
possiamo e non dobbiamo demonizzare i cambiamenti, ce lo ricordava già Guardini
nelle sue Lettere dal Lago di Como: il nostro posto è nel divenire. Abitiamo la
possibilità, direbbe Emily Dickinson. Ma per non rimanerne schiacciati, o
sedotti e per non diventare “idioti tecnologici” come scriveva McLuhan, magari
abilissimi nell’utilizzo ma incapaci di cogliere il senso di ciò che facciamo,
la consapevolezza è fondamentale.
Perché,
se lasciamo che gli algoritmi decidano per noi, se ci rassegnano al “dataismo”
che trasforma il pensiero in calcolo, l’esito non potrà che essere un
immiserimento della nostra conoscenza, una perdita di umanità e anche di
libertà.
Intanto
rendiamoci conto della natura “farmacologica” del nuovo ambiente tecnico.
Platone ci ha insegnato che ogni tecnica (a partire dalla scrittura, che
traduce il pensiero dalla forma temporale a quella spaziale) è un pharmakon,
ovvero allo stesso tempo un veleno e un rimedio. La nostra tentazione è sempre
quella di oscillare tra l’entusiasmo acritico e la logica del capro espiatorio,
mentre Papa Francesco ci richiama a un’ambivalenza ineliminabile, che possiamo
solo cercare di abitare umanamente. Sforzandoci di contenere la dimensione
tossica dei nuovi ambienti digitali e di potenziare quella curativa rispetto
alle fratture del nostro tempo.
E
qual è la via? Papa Francesco ci indica la via del cuore.
Le
radici etimologiche ci aprono un orizzonte di significato prezioso: non solo
“vibrare” (il cuore è il centro pulsante della vita!) ma anche “domare”, ovvero
trasformare l’esperienza in “sapienza” anziché lasciarsi travolgere dagli
eventi.
L’intelligenza
del cuore è quella che si sviluppa nella concretezza dell’incontro, del
coinvolgimento, della sollecitudine, della cura. È quell’idea di intero che dà
senso alle parti, e che ci fa sentire parte: di una storia, di un mondo comune,
di una fraternità sempre a rischio di fratricidio. Che ci fa affezionare alla
realtà e in questo modo ci consente di vedere ciò che i dati non rivelano.
«Tutto quello che conosco, lo conosco perché amo», scriveva Tolstoj.
L’amore
è l’inizio del pensiero. Platone sosteneva che la mente non si apre se prima
non si è aperto il cuore. È questa la specificità dell’umano, che ha a vedere
non tanto con l’essere buoni, ma prima di tutto con l’essere sapienti. Con il
saper sentire, patire e compatire (anche la compassione, il patire-con è via di
conoscenza, lo ricorda il Papa). Con il saper perdonare, ovvero liberare il
futuro, senza cancellarlo, dal peso di un passato che inchioda al già
accaduto.
L’intelligenza
artificiale è “apatica”, senza pathos, senza passione. Forse può “cancellare”
ma non “perdonare”. È luogo di efficienza (forse) ma non di libertà: a meno che
non coltiviamo quella intelligenza vivente, quella intelligenza del cuore (cioè,
integrale) che solo l’umano ha ricevuto in dono.
Senza
dimenticare il monito di Bergson: «Ci sono cose che soltanto l’intelligenza è
capace di cercare ma che, da sola, non troverà mai».
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