Una
decisione che ha suscitato polemiche
- di Giuseppe Savagnone*
La
polemica suscitata nei giorni scorsi dal rifiuto del nostro paese di
sottoscrivere la dichiarazione del Consiglio dell’UE per la promozione delle
politiche a favore delle comunità LGBTQ+, costituisce un ottimo esempio di come
le legittime diversità di opinione possano degenerare in dispute ideologiche
che nascondono il senso delle questioni, invece di aiutare l’opinione pubblica
a capirne la complessità e a formarsi un giudizio critico.
«Che
rabbia e che vergogna questo governo che decide di non firmare una
dichiarazione per le politiche europee a favore delle persone LGBTQ+. Non è
accettabile», è stato il commento della segretaria del PD Elly Schlein. «Scelta
scellerata», l’ha definita Ivan Scalfarotto, responsabile Esteri di Italia
Viva. Quella del nostro governo è stata una «decisione inaccettabile» anche per
Avs. E da parte di Azione, la deputata Daniela Ruffino ha parlato di una
«brutta pagina».
Netto
anche il leader dei 5Stelle Giuseppe Conte, il quale ha sottolineato che a non
firmare il documento, tra i paesi dell’Unione, sono stati, oltre, l’Italia,
solo l’Ungheria e altri paesi dell’Est e ha contrapposto questa «posizione
reazionaria» al progetto del suo partito di dar vita a una società «in cui
tutti siano davvero liberi di vivere la propria vita senza dover rendere conto
a nessuno delle proprie scelte».
A
questo coro di critiche, la ministra per la Famiglia, la Natalità e le Pari
Opportunità Eugenia Roccella ha replicato con pari aggressività: «La sinistra
usa la sacrosanta lotta contro le discriminazioni legate all’orientamento
sessuale come foglia di fico per nascondere il suo vero obiettivo, e cioè il
gender».
E
ha accusato i critici di voler rilanciare in sostanza il disegno di legge Zan,
bloccato al Senato nell’ottobre del 2021, dopo infinite polemiche: «Siamo
contro le discriminazioni. Ma se la sinistra ed Elly Schlein vogliono
riproporre la legge Zan, il gender e la possibilità di dichiararsi maschio o
femmina al di là della realtà biologica, abbiano il coraggio di dirlo con
chiarezza».
Effettivamente,
poco prima del suo rifiuto di sottoscrivere il documento del 17 maggio, il
governo italiano aveva firmato un testo – proposto anch’esso a livello europeo
– contro omofobia, bifobia e transfobia, datato 7 maggio. Perché, allora, ad appena dieci giorni di distanza, questa
opposizione alla dichiarazione del Consiglio dell’UE?
La
risposta sta in un passaggio in cui si dice che «gli Stati devono riaffermare
il proprio impegno a promuovere l’uguaglianza e prevenire e combattere la
discriminazione» sulla base non solo «delle caratteristiche sessuali,
dell’orientamento sessuale», ma anche «dell’identità di genere e
dell’espressione di genere».
Può
essere utile, per chi non avesse familiarità con questi concetti, il piccolo
dizionario dei termini che si trovava
proprio all’inizio del disegno di legge Zan: «Per orientamento sessuale
si intende l’attrazione sessuale o affettiva nei confronti di persone di sesso
opposto, dello stesso sesso, o di entrambi i sessi; per identità di genere si
intende l’identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al
genere, anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dall’aver
concluso un percorso di transizione» (art. 1).
In
altre parole, il nostro governo è disponibile a combattere le discriminazioni
che riguardano l’orientamento sessuale –
e dunque quelle che colpiscono gay, lesbiche, bisessuali –, ma non intende avallare in alcun modo il
concetto di “identità di genere”, e dunque la figura del transgender,
«indipendentemente dall’aver concluso un percorso di transizione», cioè quando
ancora il suo corpo rimane quello del sesso precedente.
Le
ricadute pratiche della questione
Che
non si tratti di una presa di posizione valutabile semplicisticamente in base
alla contrapposizione retorica “reazionari vs progressisti” ce lo dice il fatto
– stranamente mai menzionato nell’attuale dibattito – che, al tempo del disegno
di legge Zan, ben 17 associazioni femministe, tra cui Arcilesbica, hanno
protestato pubblicamente, in un loro documento, contro il concetto di «identità
di genere» presente in quel testo.
In
particolare esse denunciavano in questa espressione uno sganciamento
dell’identità sessuale percepita soggettivamente da quella biologica del sesso,
in cui, a loro avviso, si poteva prefigurare un misconoscimento dell’identità
femminile: «In tutto il mondo l’“identità di genere” viene oggi brandita come
un’arma contro le donne. Non è più il luogo in cui il sesso si coniuga con
tutte le determinazioni sociali e storiche, è oggi il luogo in cui si vuole che
la realtà dei corpi – in particolare quella dei corpi femminili – venga fatta
sparire. È la premessa all’autodeterminazione senza vincoli nella scelta del
genere a cui si intende appartenere».
A
questo punto, continuavano le femministe, «il “genere” in sostituzione del
“sesso” diviene il luogo in cui tutto ciò che è dedicato alle donne può essere
occupato dagli uomini che si identificano in “donne” o che dicono di percepirsi
“donne”: dagli spazi fisici, alle quote politiche destinate alle donne; dai
fondi destinati alla tutela delle donne contro la violenza maschile, alle
azioni positive, alle leggi, al welfare per le donne».
E
citavano, ad esempio, un caso concreto: «In California 261 detenuti che “si
identificano” come donne chiedono il trasferimento in carceri femminili».
Non
si tratta di vaghi timori. In Europa – e non solo – è in atto una tendenza
politica ad avallare questo modo di intendere l’identità di genere, che
prescinde dal corpo e da qualunque altro accertamento, basandosi solo
sull’autocertificazione.
Come
in Spagna, dove, nel febbraio 2023, è stata definitivamente approvata una legge
– richiesta a gran voce dalle associazioni LGBTQIA+ e avversata dal Movimiento
feminista – che consente di cambiare identità di genere mediate la sola
espressione di volontà di modificare il proprio stato civile, con una doppia
dichiarazione a distanza di tre mesi, senza autorizzazioni giudiziarie o
mediche.
Si
capisce perché in Kansas, il 27 aprile 2023, sia stata approvata, dietro
pressione delle femministe, una “Carta dei diritti delle donne”, che le
definisce in base alla loro struttura biologica ed esclude i maschi –
indipendentemente dal genere in cui si identificano – dai bagni, dagli
spogliatoi e da altri spazi intimi femminili, oltre a separare i detenuti e a
limitare la partecipazione agli sport in base al sesso di nascita.
In
Italia, il 21 luglio 2015, la Corte suprema di Cassazione ha stabilito che la
sterilizzazione e l’intervento chirurgico di riassegnazionenon sono necessari
per cambiare legalmente sesso.
Ma
la Corte costituzionale, con la sentenza 180 del 2017, ha messo un chiaro
limite all’autodeterminazione individuale, specificando che «il solo elemento
volontaristico» non può rivestire un «rilievo prioritario o esclusivo ai fini
dell’accertamento della transizione».
Nella
sentenza si menziona la «necessità di un accertamento rigoroso non solo della
serietà e univocità dell’intento, ma anche dell’intervenuta oggettiva
transizione dell’identità di genere», affidando al giudice il compito di
accertare la natura e l’entità delle intervenute modificazioni dei caratteri
sessuali. In altri termini, se da un lato non è indispensabile una operazione
chirurgica che modifichi il corpo, si vuole evitare che l’autodeterminazione
dell’individuo diventi l’unico criterio valido per la comunità.
Una
filosofia in maschera
Si
capisce, allora, che invocare l’identità di genere sganciandola da questi
limiti non è solo un modo per affermare dei diritti individuali, ma implica uno
svincolamento dell’individuo dal controllo sociale, secondo il modello, evocato
da Conte, di una libertà «di vivere la propria vita senza dover rendere conto a
nessuno delle proprie scelte».
Una
ben precisa concezione filosofica liberista e individualista tradizionalmente
propria della destra liberale e che perciò è molto sorprendente trovare
sbandierata non solo dai 5stelle, ma da partiti che si dichiarano “di
sinistra”. Tanto più che questa visone è tutt’altro che rivoluzionaria, anzi è
alla radice dello stile di vita individuale e sociale delle società
neocapitaliste.
Ma
c’è anche un secondo aspetto da tenere in considerazione, di cui parlano le
associazioni femministe nel loro documento, ed è quello che riguarda «la realtà
dei corpi – in particolare i corpi femminili», che in una assolutizzazione
dell’identità di genere non hanno più importanza, sostituiti dalla percezione
soggettiva della propria identità sessuale.
Anche
qui è in gioco una filosofia. A dispetto delle ricorrenti prese di posizione
che smentiscono l’esistenza di “teorie del gender” e ne attribuiscono
l’invenzione ai reazionari (recentemente nel «Manifesto» si parlava, proprio in
riferimento all’attuale polemica, di una «fantomatica “cultura gender”»), basta
leggere i loro libri per apprendere che gli esponenti più significativi degli
studi sul gender non si sono limitati ai dati scientifici, ma, partendo da
essi, hanno costruito una vera propria “teoria”.
È
sicuramente una scoperta di cui dobbiamo essere grati ad autrici come Judith
Butler la differenza tra il “sesso” biologico, per cui è femmine o maschi, e il
“genere”, per cui si è donne o uomini. Si deve anche ad essa il superamento di
secolari discriminazioni di cui dobbiamo tutti vergognarci.
Ma
quando da questa scoperta si passa a sostenere, come fa la Butler nel suo libro
più famoso, che «“il corpo” è di per sé una costruzione», in sé inesistente, è
chiaro che non siamo davanti a un dato scientificamente osservabile, bensì a
una interpretazione filosofica, giusta o sbagliata che sia.
La
«fantomatica “cultura gender”» esiste! Ed è inquietante che se ne neghi con
tanta sicurezza l’esistenza. Perché una filosofia diventa veramente pericolosa
proprio quando riesce a convincere di non essere tale e di esprimere solo la
pura e semplice realtà. Il fantasma, mascherato da puro e semplice dato di
fatto, diventa indiscutibile. (Cfr., sull’intera questione, G. Savagnone, La
sfida del gender tra opportunità e rischi, Cittadella Editrice, 2024).
Di
tutto questo nessuno della “sinistra” ha ritenuto di far cenno. Si è preferito
accusare il governo di una generica discriminazione delle persone LGBTQ+,
oscurando agli occhi della gente il vero senso della questione.
Ma
anche il governo ha rivelato tutti i suoi limiti culturali impuntandosi su una
altrettanto generica condanna del gender e dando così l’impressione di
respingere in blocco la teoria – scientificamente indiscutibile – della
differenza tra sesso e genere, senza neppure menzionare il problema, realissimo
e molto serio, della disforia di genere.
Così,
invece di sviluppare un confronto più approfondito, che mettesse in luce le
condizioni e i limiti entro la società può e deve accettare la scelta del
transgender, ci si è trincerati, dall’una e dall’altra parte, su degli slogan.
In
questo modo è impossibile un vero dibattito pubblico, grazie a cui le persone
siano messe in condizione di capire e di decidere, come sarebbe consono a una
democrazia. Ma questo oggi non sembra interessare a nessuno.
*Scrittore
ed editorialista. Pastorale della Cultura – Arcidiocesi di Palermo
www.tuttavia.eu
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