sabato 28 giugno 2025

KOINONIA

 


La festa degli apostoli Pietro e Paolo ci ricorda che la Chiesa è un mistero di comunione.




At 12,1-11; Sal 33; 2Tm 4,6-8.17-18; Mt 16,13-19

 La Chiesa celebra e onora assieme nello stesso giorno i due santi apostoli Pietro e Paolo, che “Dio ha voluto unire in gioiosa fraternità” (prefazio della messa). Due personaggi molto diversi, ma ambedue spinti dallo stesso amore per Cristo e la sua Chiesa. Secondo sant’Agostino, il loro martirio è segno di unità della Chiesa: “Un solo giorno è consacrato alla festa dei due apostoli. Ma anch’essi erano una cosa sola. Benché siano stati martirizzati in giorni diversi, erano una cosa sola. Pietro precedette, Paolo seguì. Celebriamo perciò questo giorno di festa, consacrato per noi dal sangue degli apostoli” (Discorso letto nell’Ufficio delle letture). In questo giorno celebriamo il mistero della Chiesa, fondata sul sangue e sull’insegnamento degli apostoli (cf. l’orazione colletta).

 La prima lettura racconta che re Erode fece mettere in prigione Pietro per poi ucciderlo appena passata la Pasqua. Ma Dio lo liberò prodigiosamente in virtù della preghiera incessante della comunità di Gerusalemme. Nella seconda lettura, Paolo, ormai al tramonto, fa il bilancio della sua vita e anche lui, nonostante le difficoltà trovate e le prove subite nell’adempimento della sua missione apostolica, dichiara che il Signore gli è stato vicino e, guardando al futuro, conclude: “il Signore mi libererà da ogni male…” Perciò nel salmo responsoriale proclamiamo: “Il Signore mi ha liberato da ogni paura”. Il vangelo riporta la confessione di fede che Pietro fa a nome di tutti gli apostoli: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”, e la risposta di Gesù: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa…” Il prefazio fa riferimento a questo passaggio quando dice che “Pietro per primo confessò la fede nel Cristo”, ma subito dopo aggiunge: “Paolo illuminò le profondità del mistero”. La fede di Pietro è illuminata dal mirabile magistero di Paolo. Pietro e Paolo sono le colonne della Tradizione cristiana. Pietro, la roccia sulla quale Cristo ha fondato la sua Chiesa; Paolo, “il maestro e dottore, che annunziò la salvezza a tutte le genti” (prefazio).

 Oltre al prefazio anche le orazioni della messa delineano il significato ecclesiologico dei due apostoli. Il prefazio afferma che i santi Pietro e Paolo “in modi diversi hanno radunato l’unica famiglia di Cristo”. E l’orazione dopo la comunione contempla questa unica Chiesa alla luce delle note che hanno caratterizzato l’ideale della primitiva Chiesa gerosolimitana: perseveranza nella frazione del pane, nella dottrina degli apostoli, per formare nel vincolo della carità un cuor solo e un’anima sola. Il testo fa riferimento a At 2,42 (e paralleli), che descrive la vita della comunità primitiva come comunione fraterna o koinonia, termine greco che definisce la comunione di fede con Dio o con Cristo e l’unione profonda tra i credenti che si esprime e si attua nella fede comune, nell’esperienza eucaristica e nella condivisione spontanea dei beni. Questa comunione dei beni esprime tuttavia una realtà più profonda: la comunione dei cuori e delle anime. L’immagine della comunità delle origini sarà in seguito per la Chiesa di tutti i tempi l’ideale a cui tendere.        

La festa degli apostoli Pietro e Paolo ci ricorda che la Chiesa è un mistero di comunione. Possiamo quindi affermare che la missione primaria della Chiesa è quella di essere segno di comunione nel mondo. Il cristiano deve avere un cuore grande, sgombro di pregiudizi, un cuore pulito e trasparente, pronto all’incontro e al servizio.

 

Pubblicato da M. Augé B. 

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PIETRO E PAOLO


Il magistero dei Papi sui santi Pietro e Paolo, fondamento della Chiesa di Roma

Il 29 giugno è la festa dei due apostoli fratelli nel martirio. A Pietro, un pescatore di Galilea, Gesù dice: "Tu sei Pietro e su questa pietra io edificherò la mia Chiesa”. Paolo, un tempo nemico e persecutore dei cristiani, diventa testimone di Cristo. Ripercorriamo, attraverso alcune riflessioni dei Pontefici, il legame di questi due principi della fede con Roma

-         - di Amedeo Lomonaco – Città del Vaticano

Il 29 giugno, solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, Leone XIV presiederà, nella Basilica di San Pietro, la celebrazione eucaristica, benedirà i Palli e li imporrà ai nuovi arcivescovi metropoliti. In questa festa si riflette la storia della Chiesa di Roma, fondata sul martirio di Pietro e Paolo. Nelle riflessioni dei Pontefici su questi testimoni della fede, rigenerati dall’incontro con Cristo, emerge innanzitutto un orizzonte: i due apostoli, patroni di Roma, sono un esempio di unità nella diversità. Pietro, un semplice pescatore, ha vissuto nella sequela del Signore. Paolo, un colto fariseo, ha annunciato il Vangelo.

Pietro e Paolo, testimoni di vita nuova

Due uomini molto diversi ma uniti da un incontro

Pio XII: fede di Roma sigillata con il sangue di Pietro e Paolo

Pietro e Paolo, percorrendo strade diverse, hanno abbracciato e testimoniato la fede in Gesù. A questa fratellanza sono dedicate le parole di Pio XII nel radiomessaggio del 29 giugno del 1941:

Pio XII: la Roma dei Cesari fu battezzata Roma di Cristo

In questa solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, il vostro devoto pensiero e affetto, diletti figli della Chiesa cattolica universa, si rivolge a Roma con la strofa trionfale: O Roma felix quae duorum Principum es consecrata glorioso sanguine! ‘O Roma felice, che sei stata consacrata dal sangue glorioso di questi due Principi!’. Ma la felicità di Roma, che è felicità di sangue e di fede, è pure la vostra; perché la fede di Roma, qui sigillata sulla destra e sulla sinistra sponda del Tevere col sangue dei principi degli apostoli, è la fede che fu annunziata a voi, che si annunzia e si annunzierà nell’universo mondo. Voi esultate nel pensiero e nel saluto di Roma, perché sentite in voi il balzo della universale romanità della vostra fede. Da diciannove secoli nel sangue glorioso del primo Vicario di Cristo e del Dottore delle genti la Roma dei Cesari fu battezzata Roma di Cristo, ad eterno segnale del principato indefettibile della sacra autorità e dell’infallibile Magistero della fede della Chiesa; e in quel sangue si scrissero le prime pagine di una nuova magnifica storia delle sacre lotte e vittorie di Roma.

Giovanni XXIII: Pietro e Paolo hanno fatto splendere il Vangelo

Roma, Pietro e Paolo. È in questo trittico che si collocano le parole pronunciate nell’omelia da Giovanni XXIII il 29 giugno del 1961. Con la testimonianza dei due apostoli, sottolinea Papa Roncalli, l’Urbe è “diventata discepola della verità”.

San Pietro e San Paolo sono venerati dappertutto nel mondo per la più alta dignità del loro compito quale si è manifestato nel disegno di Cristo. Di fatto, San Leone Magno dice che i due Apostoli Pietro e Paolo, araldi precipui del Vangelo, sono giustamente oggetto di culto straordinario in quest'Urbe gloriosa, centro della cristianità, per aver consumato qui il loro sacrificio, e segnato per ciò da Roma l'inizio della loro universale esaltazione. Che belle parole per questa loro festa, in die martyrii laetitiae principatus. ‘Questi sono in verità i grandi personaggi che hanno fatto splendere innanzi a te, o Roma, il Vangelo di Cristo; e da maestra che tu eri di errore, sei divenuta discepola della verità‘.

Paolo VI e la bellezza morale di Roma

“Roma, se vuole essere beata, deve essere fedele a se stessa, per la sua formazione religiosa, per la sua coscienza cattolica, cioè universale, per la sua dignità morale”. Papa Paolo VI all’Angelus del 29 giugno 1972, intreccia come i suoi predecessori le figure dei due apostoli con la storia di Roma.

Paolo VI: Pietro e Paolo sono le prime colonne della cristianità

Pietro e Paolo, che possiamo dire le prime colonne fondamentali della cristianità, hanno dato a Roma la testimonianza del loro ministero apostolico e del loro martirio; un impegno perenne ne deriva ai Romani d’ogni secolo, e più che mai a quelli del nostro, di conservare all’Urbe il suo volto spirituale, nella fede e nel costume specialmente, e di qualificare cristianamente la sua caratteristica fisionomia, non profanata dalle bassezze, che oggi il decadente agnosticismo etico rende pur troppo tanto facili e comuni. A chi tocca difendere la bellezza morale di Roma? A noi Romani, a noi cristiani specialmente, facendo del culto dei due grandi apostoli, oggi commemorati, lo scudo nobile di difesa e la sorgente di autentica consapevolezza civile e religiosa del suo immortale decoro.

Giovanni Paolo II: la vita di Pietro e Paolo permane in Dio

La vita degli apostoli Pietro e Paolo è al centro dell’Angelus, il 29 giugno del 1986, di Giovanni Paolo II. Una vita straordinaria “per la potenza dello Spirito Santo”:

Giovanni Paolo II: Pietro e Paolo nella memoria della Chiesa

Questa vita - la vita di ognuno di loro - è stata tanto straordinaria per il rapporto con Cristo, che li chiamò alla sua sequela. Chiamò Simone, figlio di Giona, che fu pescatore in Galilea, e gli diede il nome di Pietro, cioè “pietra”. Chiamò pure Saulo di Tarso, che fu persecutore dei cristiani, e fece di lui l’apostolo delle genti, “strumento eletto” (At 9, 15). La vita di tutti e due è così straordinaria per la potenza dello Spirito Santo, che ha permesso loro di dare testimonianza a Cristo crocifisso e risorto: “Egli mi renderà testimonianza; e anche voi mi renderete testimonianza” (Gv 15, 26-27). La morte che l’uno e l’altro hanno subìto a Roma ai tempi di Nerone fu l’ultima parola di questa testimonianza. Decise della sua definitiva pienezza. Proprio per questa morte come martiri la loro vita permane in modo particolare nella memoria della Chiesa. Essa permane soprattutto in Dio che “non è il Dio dei morti ma dei viventi” (Mt 22, 32); in Dio in cui “tutto vive”.

Benedetto XVI e l’atto di nascita della Chiesa di Roma

La morte genera vita. È a questo fondamento dell’amore cristiano che Benedetto XVI lega la propria riflessione dell’Angelus del 29 giugno 2006. Pietro e Paolo, apostoli di Cristo, sono “colonne e fondamento della città di Dio".

Benedetto XVI: sangue fuso quasi in un'unica testimonianza

Il loro martirio viene considerato come il vero e proprio atto di nascita della Chiesa di Roma. I due Apostoli resero la loro testimonianza suprema a poca distanza di tempo e di spazio l'uno dall'altro: qui, a Roma, fu crocifisso san Pietro e successivamente venne decapitato san Paolo. Il loro sangue si fuse così quasi in un'unica testimonianza a Cristo, che spinse sant'Ireneo, Vescovo di Lione, a metà del secondo secolo, a parlare della "Chiesa fondata e costituita a Roma dai due gloriosissimi apostoli Pietro e Paolo" (Contro le eresie 3, 3, 2). Poco tempo dopo, dall'Africa settentrionale, Tertulliano esclamava: "Questa Chiesa di Roma, quanto è beata! Furono gli Apostoli stessi a versare a lei, col loro sangue, la dottrina tutta quanta".

Testimoni di Gesù che bussano ai nostri cuori

Le riflessioni di Papa Francesco sulle figure di questi due apostoli

Francesco: il Popolo di Dio è debitore verso Pietro e Paolo

Quella del 29 giugno è dunque, in modo speciale, la festa della Chiesa di Roma, fondata sul martirio dei Santi Pietro e Paolo. Ma è anche una grande festa per la Chiesa universale, sottolinea Francesco all’Angelus il 29 giugno del 2013:

Francesco: l’amore di Cristo genera la fede

Tutto il Popolo di Dio è debitore verso di loro per il dono della fede. Pietro è stato il primo a confessare che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio. Paolo ha diffuso questo annuncio nel mondo greco-romano. E la Provvidenza ha voluto che tutti e due giungessero qui a Roma e qui versassero il sangue per la fede. Per questo la Chiesa di Roma è diventata, subito, spontaneamente, il punto di riferimento per tutte le Chiese sparse nel mondo. Non per il potere dell’Impero, ma per la forza del martirio, della testimonianza resa a Cristo! In fondo, è sempre e soltanto l’amore di Cristo che genera la fede e che manda avanti la Chiesa.

È l’amore la chiave di un autentico apostolato. La parola “Roma”, letta nel senso inverso, forma il vocabolo “Amor”. Questa antica capitale del mondo, crudele con molte generazioni di cristiani, ha fatto morire come martiri i primi apostoli di Cristo. Ma nel suo nome si consolida la verità sull’amore di Dio, sulla misericordia del Padre. Una verità più grande della morte.

Vatican News

 

 

TRUMP E IL TEATRO DEL MONDO

 

La diplomazia 
diventa narrazione, 
la politica 
si fa performance
e il discorso pubblico spettacolo


Analisi del ritorno del potere antico della parola 

che crea mondi e sfida la democrazia

 

-         di ANTONIO SPADARO

-          Il mondo vive una situazione caotica che sembra lasciare sempre meno spazio all’analisi e sempre più spazio alle reazioni emotive, specialmente di indignazione. Forse proprio per questo le analisi si moltiplicano. Papa Leone ha spronato a valutare le cause dei conflitti, distinguendo quelle vere e a cercare di superarle, ma anche a rigettare «quelle spurie, frutto di simulazioni emotive e di retorica, smascherandole con decisione». E così ha toccato il punto nodale dei nostri tempi: sulla scena politica internazionale i confini tra politica, spettacolo e narrazione si sono fatti col tempo sempre più labili. Su questo set Donald Trump rifulge quale regista della scena globale, un producer-in-chief che ha trasformato la comunicazione pubblica e la diplomazia internazionale in un vasto palcoscenico. Trump non governa: dirige. Non persuade: performa. Non negozia: racconta. E lo fa con una lingua che, per quanto semplice e immediata, possiede un’indole poetica sorprendente. Trump è «poeta»? Non secondo i canoni accademici, certo, ma nella dimensione primordiale del linguaggio, quella che precede la razionalità e agisce direttamente sull’immaginario collettivo. Un esempio lampante è il suo particolare idiolect — un marchio linguistico personale — polarizzante e immediatamente riconoscibile. Non è tanto ciò che dice, ma come lo dice a renderlo efficace. 

Il Il suo linguaggio non argomenta: risuona. Non spiega: vibra.

La sua efficacia risiede in frasi brevi, ripetizioni, stile diretto. Questa apparente puerilità nasconde invece una sofisticata musicalità ritmica: punchline calibrate, sintassi sincopata, allitterazioni usate come percussioni verbali. Rob Sears, nel suo The Beautiful Poetry of Donald Trump, ha dimostrato come riorganizzando tweet e dichiarazioni emergano versi liberi inconsapevoli, capaci di costruire una grammatica poetica involontaria, fatta di ritmo, anafora e iperbole. E quella di Sears è solo una delle raccolte poetiche trumpiane disponibili sul mercato. Avevo previsto che le azioni Apple sarebbero scese / Costruirò un grande, grande muro / Costruisco edifici alti 94 piani / Le mie mani, sono piccole?

La forza retorica del testo sta proprio nella sua semplicità assertiva: ogni frase è una dichiarazione assoluta, che pretende adesione. Un lettore distratto potrebbe sentirci dentro Allen Ginsberg, per l’intonazione visionaria e la critica sociale. Ma anche gli echi della poesia concettuale contemporanea, da Kenneth Goldsmith a Vanessa Place, dove il ready-made linguistico diventa gesto artistico. Se la forma è poesia, il contenuto è mito. La sua retorica attinge a simboli religiosi e immagini apocalittiche. Trump si presenta come il salvatore di un’America decadente, come colui che ristabilirà un’età dell’oro. È una retorica messianica, potente ma fragile: se la promessa non si realizza, il profeta può trasformarsi in impostore. Nel suo discorso, Trump non cita Dio per sottomettersi a lui ma per sostituirsi a Lui. In questa teologia secolare, il leader diventa il verbo incarnato di una salvezza immediata e concreta. È il linguaggio della sua personalissima «teologia della prosperità».

Trump agisce su due livelli: la forma orale e la sacralità rituale. Il suo lessico è ridotto, tagliato con l’accetta, ma nel suo minimalismo costruisce visioni totali. Parole come always, never, total disaster non sono descrittive: sono sacrali. Sono dogmi gridati su un altare mediatico. Il nemico è demonizzato, l’alleato divinizzato, e ogni evento è tradotto in chiave epica. È una poetica binaria e performativa, che non mira alla comprensione ma alla mobilitazione.

E infatti la politica di Trump è performance. Susan Glasser lo ha descritto come colui che ha realizzato il sogno inespresso di diventare produttore di Broadway: ogni sua mossa è un atto di scena. Ogni ambientazione della sua presidenza — dallo Studio Ovale rivestito d’oro alle cerimonie trasformate in reality — conferma che siamo davanti a una drammaturgia permanente.

La diplomazia, sotto la sua regia, diventa teatro. L’incontro con Volodymyr Zelensky alla Casa Bianca è stato emblematico. Le vecchie regole delle relazioni internazionali svaniscono per lasciar spazio alla costruzione di un racconto potente. Che sia vero o falso non importa: conta che funzioni. Non è un caso che al suo fianco sieda oggi J.D. Vance, autore di Hillbilly Elegy, romanzo di successo che è diventato un film di cassetta. Vance non è un tecnico: è un narratore. Con lui, la Casa Bianca rafforza l’estetica trumpiana: non una sede di governo, ma una centrale narrativa.

Lo stesso schema si è ripetuto con la crisi iraniana. Prima l’attacco, poi il ringraziamento al nemico, poi ancora il dietrofront trasformato in vittoria. Il colpo più micidiale è quello di scena. “MIGA!” — Make Iran Great Again — è slogan, risata e copione futurista dell’orrore.

La guerra si trasforma in un episodio della serie Trump! The Musical.

Il conflitto reale, con le sue vittime, viene marginalizzato. Il dolore si dissolve dietro le luci della ribalta. Il sangue e la strage diventano irrilevanti in questo spettacolo. Mentre lo show si svolge, la realtà resta fuori campo: a Gaza, bambini muoiono in fila per il pane; a Beer Sheva, famiglie israeliane si rifugiano nei bunker. È qui che si manifesta il volto più inquietante del potere come narrazione: il dolore viene escluso dal montaggio. La tragedia è spezzata, resa invisibile. In fondo, l’obiettivo della narrazione dominante è di essere così travolgente da paralizzarti. Ti lascia catatonico, incapace di reagire. Oppure reagisci con indignazione, certo, ma anche quella viene inglobata e neutralizzata. Diventa parte dello stesso sistema narrativo. Per questo dobbiamo trovare nuove narrazioni.

L’unica salvezza possibile sarebbe un atto poetico che si opponga alla finzione, una contronarrazione fondata non sull’effetto ma sulla verità dei fatti. Donald Trump ci mostra, con brutale chiarezza, che la politica contemporanea non può più essere interpretata soltanto attraverso le categorie della razionalità illuminista, della competenza amministrativa o della prassi istituzionale. Il suo successo — che ha resistito a scandali, accuse, processi e sconfitte — dimostra che oggi il potere si esercita innanzitutto sul piano dell’immaginario. E che chi sa dominarlo, chi sa narrarlo con forza mitica e con un’estetica seducente, conquista consensi più duraturi e profondi di chi si limita ad “avere ragione”.

Trump ha portato al parossismo una forma politica che non si rivolge più alla ragione degli elettori, ma al loro inconscio simbolico: paure arcaiche, desideri compressi, bisogni di appartenenza. Ha capito che l’identità non è un dato, ma una narrazione. E ha scelto di scriverla con gli strumenti del teatro, della poesia ritmica, del linguaggio religioso. Ha ridato al discorso politico una funzione sacrale e rituale, facendo di ogni comizio un’esibizione di fede, di ogni gesto un atto liturgico, di ogni nemico un capro espiatorio.

In questo senso, la sua estetica del potere è profondamente regressiva, ma straordinariamente efficace: recupera gli strumenti arcaici della costruzione del mito in un’epoca dominata dai media istantanei. Non importa se ciò che dice sia vero: importa che sembri vero, risuoni come vero, agisca Trump non è tanto un bugiardo, quanto un creatore di realtà narrative, secondo la logica postmoderna in cui la verità è subordinata all’effetto. Il suo linguaggio è un dispositivo performativo, che non descrive il mondo, ma lo costruisce a propria immagine e somiglianza.

La sfida politica del XXI secolo è allora tutta qui: non si tratta solo di combattere con dati, fatti o leggi, ma con forme, visioni, parole che siano capaci di ricostruire un immaginario condiviso. Se la politica è diventata un campo estetico, serve un’estetica alternativa: non quella dell’effetto immediato, ma quella della profondità; non quella della divisione, ma quella della relazione; non quella della semplificazione, ma quella della complessità narrata con chiarezza. Lo aveva capito profeticamente papa Francesco quando scrisse: «in questo tempo di crisi dell’ordine mondia-le, di guerra e grandi polarizzazioni, di paradigmi rigidi, di gravi sfide a livello climatico ed economico abbiamo bisogno della genialità di un linguaggio nuovo, di storie e immagini potenti, di scrittori, poeti, artisti». Serve una contro-narrazione, una nuova poetica della responsabilità. Perché oggi, nel teatro del mondo, chi non sa raccontare è destinato al silenzio. Al tempo di Donald Trump e degli strongman, la poesia può tornare a essere uno strumento di discernimento politico. Per questo, la grande questione del nostro tempo non è solo “chi governa”, ma “chi racconta”. Chi ha la voce per dire il mondo, e con quali parole. E, soprattutto, quale immaginario sarà in grado di sostenere, nelle coscienze, una democrazia futura. Trump ci ha mostrato – e le conseguenze le avvertiamo – che la politica può diventare opera totale.

 www.avvenire.it

 

LA FINE DELLA REALTA'

 


L’eclisse della realtà

 e il dilagare

 della violenza



- di Giuseppe Savagnone 

 Una guerra senza verità

Lo svolgersi degli ultimi eventi sugli scenari internazionali sembra confermare l’idea, oggi così diffusa, che la verità non esiste, o, più precisamente, che non ce n’è una valida per tutti, perché ognuno ha la sua.

Si guardi alla “guerra dei dodici giorni” di Israele e degli Stati Uniti contro l’Iran. Frutto di un intervento necessario e urgente per garantire la sicurezza non solo d’Israele, ma del mondo intero, secondo l’interpretazione unanime dei governi occidentali, oppure aggressione sionista e imperialista, contraria ad ogni regola del diritto internazionale, come l’hanno definita, oltre allo stesso governo di Teheran, Russia e Cina?

E davvero l’Iran era sul punto di costruire la bomba atomica, come sostiene Israele appoggiato, ancora una volta, da tutto il mondo occidentale, oppure la repubblica islamica aveva fin dal 2003 rinunziato a questo obiettivo, puntando piuttosto su un uso pacifico dell’arricchimento dell’uranio, come nel mese di marzo  aveva affermato davanti al Congresso la direttrice dell’Intelligence nazionale Tulsi Gabbard (che però, in seguito alle reazioni del presidente americano, ultimamente ha ritrattato queste affermazioni)?

E il significato del bombardamento americano sui siti nucleari iraniani? «Gli attacchi in Iran come Hiroshima, hanno messo fine alla guerra», ha detto Trump, secondo cui con questa operazione, ammirevole sotto il profilo militare, si è raggiunto pienamente l’obiettivo.

Di danni significativi, ma non decisivi, per il programma di arricchimento dell’uranio parlano, invece, le autorità iraniane, ma anche autorevoli fonti giornalistiche americane come il «New York Times», la CNN e il «Financial Times», secondo cui gli iraniani avrebbero in tempo trasferito il materiale più prezioso  in altri siti, segreti e sicuri.

Addirittura è sull’esito stesso della guerra che si registrano versioni opposte e contraddittorie. Un trionfo di Israele e degli Stati Uniti, secondo Netanyahu e Trump, una «vittoria schiacciante» dell’Iran secondo la Guida Suprema Khamenei.

La doppia immagine della presidenza Trump e un episodio italiano

Ma non è l’unico caso in cui lo smarrito spettatore delle vicende pubbliche è indotto a ricordare le parole di Pirandello, a conclusione del suo dramma «Così è (se vi pare)», quando mette in bocca alla donna velata, sulla cui identità nel corso dell’opera ci si è interrogati, le famose parole: «Io sono colei che mi si crede».

La stessa figura del presidente americano Trump è al centro di opposte letture. I sondaggi fatti negli Stati Uniti in questi primi mesi del suo governo indicano una caduta verticale di popolarità, sia per gli effetti economici e finanziari devastanti della sua volubilità nella politica dei dazi, sia per il mancato adempimento della promessa di chiedere in pochi giorni le due guerre in corso in Ucraina e nella Striscia di Gaza.

Più recentemente, a esasperare questa delusione è arrivato l’attacco all’Iran, che ha addirittura esposto gli stessi Stati Uniti al rischio di impantanarsi in una guerra nel Medio Oriente. Così il Tycoon ha registrato il peggiore indice di gradimento dopo cento giorni di qualunque altro presidente dal 1952 a oggi.

In diversi sondaggi è emersa anche un giudizio negativo sulla politica migratoria di Trump, che pure era stato uno dei punti del suo programma che gli aveva garantito il successo. Per molti americani le deportazioni degli irregolari sono andate «troppo in là».

In particolare è stata espressa una netta opposizione alle deportazioni nei confronti di persone che hanno vissuto negli USA per più di dieci anni, o che hanno figli con la cittadinanza americana, o che non hanno commesso alcun reato.

Da parte sua, invece, Trump ha festeggiato questo stesso periodo come «i 100 giorni più di successo di qualsiasi Amministrazione nella storia del nostro Paese». E anche all’estero non sono mancati gli apprezzamenti, soprattutto da parte dei rappresentanti politici della destra come, in Italia, Salvini e Meloni.

Per non parlare degli editoriali di Mario Sechi, direttore di «Libero», e di Belpietro, direttore de «La Verità», che hanno esaltato senza mezzi termini la spregiudicatezza del presidente americano come l’inizio di una nuova era, contrapponendola alla ingessata ed obsoleta politica tradizionale.

Ed è degli ultimi giorni il messaggio che il Segretario generale della NATO, Mark Rutte, ha inviato a Trump dopo l’attacco all’Iran e l’imposizione ai paesi europei dell’aumento al 5% delle spese militari: «Caro Donald congratulazioni per la tua azione cruciale in Iran, una cosa che nessuno avrebbe osato fare». Poi, sull’obiettivo del 5%: «Donald, ci hai guidati verso un momento veramente importante per l’America, l’Europa e il mondo». E ancora: «Raggiungerai qualcosa che nessun presidente americano è riuscito a fare negli ultimi decenni».

Ultimo segnale di questo impero della contraddizione: pochi giorni fa il governo del Pakistan ha proposto di assegnare al presidente USA Donald Trump il Premio Nobel per la Pace 2026, come riconoscimento del suo «decisivo intervento diplomatico» in occasione della recente crisi tra India e Pakistan.

Anche per quanto riguarda il nostro paese, gli esempi di “doppia verità” non mancano. Alcuni giorni fa il nostro ministro degli Esteri, Tajani ha affermato che «quello che abbiamo fatto noi a Gaza non l’ha fatto nessun governo europeo».

E la nostra premier ha dichiarato in Parlamento che «obiettivo prioritario per l’Italia» è «il cessate il fuoco a Gaza, dove la legittima reazione di Israele a un terribile e insensato attacco terroristico sta assumendo forme drammatiche e inaccettabili, che chiediamo a Israele di fermare immediatamente». Solo qualche giorno dopo, però, al Consiglio europeo l’Italia, insieme alla Germania, si è fermamente opposta alla proposta, avanzata da diversi altri paesi membri dell’UE, di interrompere l’accordo di associazione con Israele, in forza di un articolo di esso che ne prevede la sospensione in caso di violazione di diritti umani.

Possiamo rassegnarci alla fine della realtà?

«Il mondo è diventato favola», aveva affermato Nietzsche, in uno dei suoi scritti. Nella sua visione nichilista la realtà non esiste e si riduce alle narrazioni che noi ne facciamo. Così come non esiste alcun criterio etico che  possa fondarsi sulla verità delle cose – «Al di là del bene del male» si intitola una sua opera. 

Non ci resta ormai che prendere atto dell’ineludibile forza di questa profezia e adattarci al quadro che in base ad essa si sta delineando?

Proprio ciò che abbiamo sotto gli occhi ci costringe a ribellarci a questo destino. Perché una verità almeno sembra imporsi in modo indiscutibile, ed è che la fine della verità consegna il mondo alla logica di una violenza illimitata, al cui trionfo stiamo assistendo. Dove violenza è la forza che non si fonda sul diritto, ma pretende di sostituirlo.

Violenza è quella del regime iraniano, che soffoca la libertà – soprattutto quella delle donne – e, sia vero no che sta costruendo la bomba, non rinunzia  comunque alla pretesa di cancellare dieci milioni di cittadini dello Stato d’Israele.

Violenza è quella di Netanyahu, che, simmetricamente, vuole fondare la sicurezza dello Stato ebraico su una guerra di annientamento senza limiti e senza fine contro chiunque costituisca un pericolo prossimo o remoto nei suoi confronti.

E violenza è quella di Trump, che in nome degli interessi americani – o di quelli che egli crede tali – calpesta le vite di milioni di persone, minaccia anche i paesi amici – con i dazi o addirittura con le armi, come nel caso della Groenlandia – e avanza pretese spudoratamente affaristiche, come quelle sulle terre rare dell’Ucraina.

Senza verità e senza distinzione tra bene e male la violenza non è più la patologia della politica, ma la sua regola, perché ognuno può raccontare la realtà come gli conviene. Ma questo non è più il mondo degli esseri umani, è la giungla, dove l’unica legge è quella del più forte.

E la violenza ricade su tutti, non solo su chi immediatamente la subisce. Ci si può illudere di rifare di nuovo grande l’America sostenendo Israele nel più grande massacro di civili dalla seconda guerra mondiale in poi, bloccando l’attività dell’USAID, la più grande agenzia al mondo di aiuti umanitari ai poveri, e al tempo stesso conducendo una lotta senza quartiere contro questi stessi  poveri che cercano negli Stati Uniti una vita migliore.

Così come ci si può illudere che questa stessa logica vada bene per rifare grande l’Italia, dove la nostra premier è totalmente appiattita sulla linea di Trump.

Così come si può anche credere che aumentando gli armamenti ci si tutelerà dalle minacce alla nostra sicurezza, in funzione della politica imperialista d Putin, senza rendersi conto che il dittatore russo, con le sue folli manie di grandezza, è solo la punta di un iceberg ben più minaccioso per l’Occidente egoista che abbiamo creato, e che è il Sud del mondo, del quale fanno parte i poveri, che diventano sempre più numerosi e il cui odio stiamo attizzando sempre di più. «Si vis pacem para bellum», ha detto in Parlamento Giorgia Meloni, ricorrendo a una dotta citazione per sostenere la sua adesione al programma di riarmo della NATO, che prevede l’innalzamento delle spese militari dall’1,5% al 5% del nostro PIL.

Ma davvero l’unica via per la sicurezza è spendere i soldi per le armi, invece che per rendere migliori le condizioni di vita di chi ci minaccia? Le armi non hanno mai garantito la pace.

Se vuoi la pace, prepara la pace. Essa ha bisogno che l’odio diminuisca, e le bombe su Gaza non solo non rendono più sicuro Israele, ma creano le condizioni perché la sua insicurezza duri per sempre, così come le violenze nei campi di concentramento in Libia e in Tunisia finanziati dall’Italia non sembrano un buon biglietto da visita per il tanto strombazzato “piano Mattei”, che vorrebbe avvicinare il nostro paese all’Africa.

A ricordarci che il mondo che stiamo costruendo, puntando sulla corsa agli armamenti, potrà solo basarsi su una guerra continua è stato recentemente Leone XIV: «Non dobbiamo abituarci alla guerra, bisogna respingere la corsa agli armamenti», ha detto il papa. «Ripeto ai responsabili ciò che diceva Papa Francesco: “la guerra è sempre una sconfitta”».

Ma la pace, come insegnava Gandhi, ha bisogno della verità e nasce da essa. È da qui che bisogna ricominciare. Solo che riscoprire la cultura della verità richiede l’abbandono di quella oggi dominante, che chiude non solo i politici, ma tutti noi, nella bolla delle nostre illusioni soggettive e ci impedisce di vedere la realtà.  È una sfida epocale. Ma noi saremo capaci di raccoglierla?

 www.tuttavia.eu 

 Foto di Mahmoud Sulaiman su Unsplash




 

 

 

venerdì 27 giugno 2025

VIVERE DA ANZIANI


Ci sono segni di speranza anche nell’età anziana. Ma è necessario guardarla come una fase della vita con opportunità proprie. 

Può essere tempo di racconto, di integrazione, di essenzializzazione, di lentezza, di recupero dei rapporti incrinati…


Luciano Manicardi

 

La situazione dell’anziano oggi è particolarmente complessa. Il notevole allungamento della vita nel ricco Occidente porta alcuni a distinguere tra giovani-anziani, anziani, grandi-anziani e centenari. L’anzianità nasce dall’incontro dialettico tra dato biologico e variabili culturali e oggi è possibile incontrare anziani attivi e in buone o discrete condizioni di salute, sicché un approccio che veda l’anzianità solo a partire dal «meno», dalla «riduzione» o dal «rallentamento» delle capacità cognitive e fisiche si rivela inadeguato. E più che mai, con l’avanzare dell’età, si accentuano le differenze tra gli individui. Il che rende problematico un discorso sull’anzianità in generale, in quanto quest’ultima si differenzia enormemente in ciascun individuo. 

Tuttavia, una considerazione si impone circa lo statuto sociale dell’anziano oggi: la contraddizione tra l’anzianità perseguita e diffusa e, al tempo stesso, discriminata. L’estendersi della popolazione anziana si accompagna alla cancellazione dei segni che visibilizzano nel corpo i segni dell’invecchiamento. In questa logica distorta, tanto più la vita diviene longeva tanto più deve nascondersi, fingersi giovanile, mascherarsi da giovinezza vergognandosi di ciò che è. Se Cicerone elencava quattro motivi che rendono triste la vecchiaia (allontanamento dall’attività lavorativa, indebolimento del corpo, negazione dei piaceri, prossimità alla morte), oggi se ne aggiunge un altro: l’era della tecnica e dell’informatica ha reso fuori luogo l’adagio che legava vecchiaia e sapienza e vedeva nell’anziano il depositario di un’esperienza che lo rendeva elemento fondamentale nel gruppo sociale. Oggi la sua esperienza è giudicata inutile: altro è il sapere necessario e spesso sono i giovani che insegnano ad adulti e anziani a usare marchingegni tecnologici. 

Il fenomeno dell’«anziani­smo» indica l’insieme degli stereotipi e dei pregiudizi proiettati sull’età anziana che diviene discriminazione dell’anziano stesso. Discriminazione visibile a livello strutturale in politiche pubbliche e norme del mondo lavorativo che penalizzano chi è più avanti nell’età. Ma poi diventa marginalizzazione sul piano relazionale e perfino, una volta introiettato lo «stigma», disistima di sé, senso di inutilità, colpevolizzazione (essere di peso) da parte dell’anziano stesso. Dalle differenze di classe si passa alle differenze di età e il conflitto sociale diviene conflitto di generazioni: segno della biologizzazione dei rapporti sociali. 

La differenza rispetto a forme di discriminazione che riguardano l’etnia (razzismo) e il genere (sessismo) è che chi discrimina un anziano è destinato a diventarlo a sua volta. E qui vediamo l’anzianità come pietra d’inciampo proprio nel suo essere visibilizzazione della fragilità e caducità umana. Si deve parlare della scomodità dell’anziano perché memoria della fragilità che concerne tutti e che, nella misura in cui è rimossa dall’immagine della vita riuscita oggi propagandata, vuole essere cancellata così come si cerca di cancellare le rughe dal volto anziano e di relegare gli anziani in ospizi che li rendano invisibili. 

Il bel volto anziano, provato, gravato di lutti ma con dolcezza e luminosità di sguardo di Alvin Straight (l’attore Richard Farnsworth) nel film Una storia vera, di David Lynch, presenta la possibile ricchezza e fecondità dell’anzianità: intraprende un viaggio di centinaia di chilometri per andare a trovare il fratello colpito da infarto e con cui non parla da dieci anni, con un tosaerba che traina un carretto. Ha problemi di vista, cammina con due bastoni, non ha la patente, ma la vita gli ha insegnato l’essenziale: «Alla mia età – dice –, ho imparato a separare il grano dalla crusca e a ignorare le sciocchezze». 

L’anzianità riguarda dunque chi la vive, chi vede e incontra la persona anziana, e l’immaginario collettivo. Per dare segni di speranza agli anziani non basta esortare figli e nipoti a essere vicini a genitori e nonni, ma occorre uno sforzo culturale per immaginare e creare funzioni per loro. E occorre accedere a una visione dell’anzianità come una fase della vita con le sue prerogative e opportunità proprie. Può essere tempo di anamnesi, di racconto, di integrazione, di essenzializzazione, di lentezza, di recupero dei rapporti incrinati. Un tempo di verità, in cui si vive per grazia e non per dovere (Karl Barth), un tempo di passaggio dall’esteriorità all’interiorità (Jung), in cui emerge che ciò che vale è ciò che si è, al di là di ciò che si fa. Nella vecchiaia semplicemente si è.

 Allora l’anziano può giungere a dire il suo grazie al passato e il suo sì al futuro, pregando il Salmo 71, e inoltrarsi nel crepuscolo della vita facendo sue le parole del Nunc dimittis.

Messaggero di Sant'Antonio

CRESCE LA VIOLENZA DIGITALE


 Bullizzati e cyberbullizzati 

68 adolescenti su 100.

 Telefono Azzurro:

 «Dati parziali, 

cresce la violenza digitale»


L'Istat presenta i dati del bullismo e del cyberbullismo ma relativi al 2023. La fondazione presieduta da Ernesto Caffo, citando il dato della linea di ascolto 114, gestita per conto del dipartimento Politiche della famiglia della presidenza del Consiglio, 120 segnalazioni nel 2024, spiega che il fenomeno è purtroppo più ampio.

di Giampaolo Cerri

 I dati sul bullismo e il cyberbullismo tra i giovani presentati oggi da Istat presentano un fenomeno allarmante, ma parziale. La rilevazione – infatti – si riferisce al 2023, ma è evidente che sono in fortissimo aumento tutte le forme di cyberbullismo e di violenza digitale in Rete. Tutto questo, rende lo scenario molto più complicato rispetto a quello analizzato dal report, dal momento che si assiste ad un forte spostamento del fenomeno sul digitale», a dirlo è Ernesto Caffo, presidente e fondatore di Telefono Azzurro. Secondo il neuropsichiatra «occorre considerare che molto dipende dalle capacità di rilevazione che vengono attivate. Ci sono contesti, infatti, dove la paura di segnalare episodi di bullismo è ancora molto alta. Di conseguenza esistono fenomeni sommersi e nascosti che fanno fatica a trovare riscontro nei numeri».

Caffo si riferisca i dati del report dell’Istat Bullismo e cyberbullismo nei rapporti tra i ragazzi presentato stamane a Palazzo Chigi alla presenza dei ministri Eugenia Roccella e Giuseppe Valditara e con il presidente dell’Istat Francesco Maria Chelli e la direttrice del Dipartimento per le Statistiche sociali e demografiche. Cristina Freguja.

L’Istat ha infatti spiegato che «nel 2023 il 68,5% dei ragazzi tra gli 11 e i 19 anni ha dichiarato di essere rimasto vittima di almeno un comportamento offensivo non rispettoso e/o violento, sia online sia offline, nei 12 mesi precedenti la rilevazione». Ben 21 su 100 hanno detto di aver subito simili comportamenti in maniera continuativa, vale a dire più volte in un mese, e nell’8% dei casi più volte a settimana.

Telefono Azzurro invece, riferendosi, alle segnalazioni arrivate alla linea d’ascolto del 114 – Emergenza Infanzia, il servizio di pubblica utilità istituto e promosso dal dipartimento per le Politiche della Famiglia – presidenza del Consiglio dei Ministri e gestito da Telefono Azzurro, ha sottolineato come soltanto nel 2024, sono stati gestiti ben 104 casi di bullismo e 14 casi di cyberbullismo. Tra i minori coinvolti i più piccoli avevano soltanto 5 anni, con una maggioranza di richieste d’aiuto arrivate dal Lazio, Toscana, Sicilia e Veneto.

«Tutto questo deve farci riflettere ma soprattutto deve spingere le istituzioni e il Parlamento a impegnarsi maggiormente per affrontare queste grandi sfide», rimarca Caffo, secondo il quale «quello che percepiamo attraverso il nostro servizio di ascolto è che i ragazzi hanno bisogno di un aiuto tempestivo, risposte qualificate e che sappiano essere vicine a loro. Coordinare azioni di aiuto alla vittima e di intervento sugli autori è prioritario. Un intervento che passa inevitabilmente attraverso il coordinamento tra pubblico e sociale e attraverso un sistema organico capace di affrontare il tema costruendo reti altamente formate e di qualità. Scuola e sport sono i due contesti principali da monitorare, perché è proprio quì che si verificano le principali situazioni di bullismo. È quindi importante promuovere programmi di formazione per lo sviluppo delle competenze per docenti, ragazzi, educatori sportivi e genitori in modo da strutturare misure di supporto per ragazzi e genitori».

 VITA

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ATTIVISTI o INFLUENCER ?

  

La disabilità nella bolla dei social

 fra visibilità e rappresentanza

Non è semplice distinguere tra chi usa la propria visibilità per sensibilizzare e costruire un cambiamento e chi, magari inconsapevolmente, finisce per trasformare la propria disabilità in uno strumento per ottenere consenso, follower, inviti in talk show o sponsorizzazioni. 

 di Giovanni Ferrero

 Negli ultimi anni, i social network hanno aperto spazi inediti di parola per le persone con disabilità. Per la prima volta, molte di loro hanno potuto raccontarsi senza filtri, senza l’intermediazione di genitori, operatori, politici o giornalisti. Un cambiamento importante, che ha portato all’emergere di voci nuove, dirette, autentiche, capaci di creare empatia e consapevolezza. Mostrare la propria quotidianità, le sfide di ogni giorno, le piccole conquiste o le grandi frustrazioni, può avere un impatto reale su chi guarda: aiuta a comprendere meglio cosa significa vivere con una disabilità, a riconoscere ostacoli invisibili, a cambiare punto di vista. Ed è giusto che accada senza filtri, senza bisogno che ci sia sempre un soggetto “autorizzato” a parlare.

Tuttavia, in questo nuovo scenario, si apre anche una domanda scomoda, ma necessaria: quante delle voci che oggi parlano di disabilità sui social lo fanno per difendere diritti e denunciare ingiustizie, e quante invece lo fanno per visibilità, per popolarità, per coltivare un personaggio?

La linea sottile tra attivismo e personal branding

Non è semplice distinguere tra chi usa la propria visibilità per sensibilizzare e costruire un cambiamento e chi, magari inconsapevolmente, finisce per trasformare la propria disabilità in uno strumento per ottenere consenso, follower, inviti in talk show o sponsorizzazioni. Da attivisti a influencer: il passaggio può essere rapido, e non sempre evidente.

In alcuni casi, si rischia che la disabilità venga spettacolarizzata: la quotidianità diventa contenuto da consumare, la battaglia si trasforma in storytelling, il disagio in engagement. Il sistema dei social premia ciò che emoziona, sorprende, commuove. E così, anche il dolore o la denuncia rischiano di essere modellati per piacere al pubblico.

Proprio per affermare il valore dell’attivismo competente e responsabile, all’interno del Premio Giornalistico Paolo Osiride Ferrero (le candidature per partecipare al premio – con elaborati di carta stampata, video o contenuti digitali – sono aperte fino a settembre) è stato istituito un nuovo riconoscimento: quello dedicato all’Attivista dell’anno. Un modo concreto per premiare chi, attraverso la comunicazione digitale, contribuisce in modo autorevole al cambiamento culturale e sociale in tema di disabilità.

Politici e aziende a caccia di volti noti

C’è poi un altro effetto collaterale da non sottovalutare: il politico o l’azienda che rincorre l’influencer con disabilità per parlare di disabilità. Si tratta spesso di operazioni di visibilità, ben lontane da un confronto autentico sui diritti. Il rischio è che si finisca per personalizzare un tema collettivo, dando credito e centralità a chi ha più visibilità, ma non è detto che sia rappresentativo, competente o preparato.

Negli anni ’90 lo slogan internazionale era chiaro: “Niente su di noi senza di noi”. Ma quel “noi” non era riferito al singolo, per quanto carismatico, bensì alle organizzazioni delle persone con disabilità, nate per rappresentare in modo strutturato e democratico una pluralità di esperienze. Oggi, con la presenza crescente di influencer chiamati a parlare in aziende, tenere speech motivazionali, partecipare a lunch&learn o diventare consulenti di diversity, si rischia di legittimare inconsapevolmente il disability washing: un’adesione di facciata all’inclusione, svuotata di contenuti e competenze reali.

Per questo, oggi più che mai, lo slogan andrebbe aggiornato: “Niente su di noi senza di noi se professionisti”. Perché la disabilità non è un tema da spettacolarizzare, ma da affrontare con responsabilità, esperienza, formazione e senso collettivo.

 La nuova intermediazione digitale

Paradossalmente, i social che sembravano offrire libertà di parola rischiano di generare nuove forme di intermediazione: l’algoritmo, il bisogno di like, il consenso del pubblico. Chi parla finisce per adattarsi a ciò che “funziona”, lasciando da parte i contenuti più scomodi, più politici, meno virali. Si creano nuove narrazioni dominanti, in cui la persona con disabilità è spesso rappresentata come “inspirational”, resiliente, positiva. Ma le disuguaglianze sistemiche, le barriere reali, le battaglie collettive rischiano di sparire sullo sfondo.

Il ritorno necessario delle associazioni

In questo scenario confuso, in cui non si capisce più chi è influencer e chi attivista, ritorna con forza il ruolo insostituibile delle associazioni. Organismi che, per natura e missione, non cercano follower, ma risposte. Non inseguono popolarità, ma lavorano ogni giorno per i diritti, per i servizi, per l’inclusione concreta. Le associazioni non devono “funzionare” per l’algoritmo, ma per i loro associati. Non sono al servizio della visibilità personale, ma di una rappresentanza collettiva. Ed è forse proprio da qui che bisogna ripartire. Non per negare il valore delle voci individuali, ma per ricordare che la disabilità è una questione politica e sociale, e come tale ha bisogno di strumenti organizzati, credibili, capaci di agire nei territori, nelle istituzioni, nei tavoli di confronto.

La popolarità di alcune persone con disabilità sui social non è di per sé un problema. Può essere una risorsa, un canale di sensibilizzazione, uno stimolo utile. Ma non può sostituire il ruolo delle associazioni. Perché solo lì, dove si ascoltano i bisogni reali di chi non ha voce, si costruiscono risposte condivise. Solo lì si fa davvero la differenza tra rappresentare sé stessi e rappresentare una causa.

 VITA  

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EDUCARE I GENITORI

 


Gratteri: “Chi educa i genitori? 

Se sono scostumati 

non possono educare i figli”.


 Un cambio di rotta è possibile


La Redazione


La denuncia di Gratteri riaccende il dibattito su genitori, scuola e valori: una riflessione scomoda ma necessaria...

Nicola Gratteri, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Napoli, nel suo intervento al Festival internazionale del Libro di Taormina, ha colto l'occasione per esprime a gran voce il suo pensiero, attraverso parole significative e degne di nota che non risparmiano genitori ed educatori. Negli ultimi anni, infatti, aumenta sempre di più la delinquenza giovanile e minorile ed allora la domanda sorge spontanea: "Che cosa sta succedendo?"

Gratteri, senza giri di parole, e con la sua chiarezza spesso estremamente disarmante, risponde alla domanda in tal modo:

"È un qualcosa che viene da lontano, non è una cosa degli ultimi anni, cioè nel mondo occidentale c'è un forte abbassamento della morale e dell'etica, la cultura occidentale è in crisi, come anche la religione cattolica è in crisi. La cultura occidentale ed il credo cattolico sono schiacciati, da anni c'è questo trend in negativo. C'è stata una prevalenza di una cultura dove si conta in base a ciò che si ha e non in base a ciò che si è, dove la cultura oggi non è più un valore, ma è un valore l'avere e non l'essere. Tutto questo ha portato anche ad una trasformazione nei comportamenti. Quando si dice: 'bisogna educare i giovani', ed i cinquantenni chi li educa? Se i genitori sono scostumati come fanno ad educare i figli?

Se i genitori cinquantenni vogliono fare i venticinquenni, se le mamme, se i papà sono sempre più egoisti perché pensano a se stessi, allora come si fa? È bello vedere una cinquantenne, una sessantenne curata, fa piacere, ci mancherebbe altro, però se pensassimo un po' più ai figli".

Nella nostra società, dunque, assistiamo ad un vero e proprio sovvertimento di valori e capovolgimento di ruoli: i genitori cinquantenni vogliono fare i venticinquenni, curano se stessi ma trascurano i loro figli, il loro egoismo determina conseguenze deleterie ed allora Nicola Gratteri esordisce in tal modo. "Se i genitori sono scostumati come fanno ad educare i figli?".

Vengono meno, dunque, le figure di riferimento ed i ragazzini si ritrovano a vagabondare da soli, a tarda sera, senza che nessuno si preoccupi per loro, senza limiti o regole da seguire, senza alcun codice etico ma completamente abbandonati a se stessi. E cosa determinerà tutto questo in futuro?

Nicola Gratteri, senza esitazione alcuna, risponde in tal modo: "Questi ragazzini tra cinque anni saranno carne da macello, saranno garzoni di camorra, ma di quella camorra bassa, di quella camorra che ti dice 'portami sta pistola là, portami questo chilo di cocaina'. Se così stanno le cose, allora noi vedremo sempre più che ogni anno l'età media di chi commette reati si abbasserà.

La famiglia fa poco, ci sono pochi educatori, ci sono poche persone che possono dare una mano d'aiuto, la scuola fa quel che può, noi avremmo bisogno di una scuola a tempo pieno, avremmo bisogno di altri insegnanti che di pomeriggio fanno altro. Gli insegnanti più di metà del tempo che stanno a scuola lo perdono a scrivere pareri. Forsa era meglio tornare al voto così i genitori avrebbero capito meglio e quelle ore che stanno lì a triturare aggettivi e sostantivi potevano utilizzarle per insegnare un po' più di italiano, di storia, di geografia, di matematica, di filosofia".

Lo scenario appare, dunque, preoccupante ed occorre pertanto porre rimedio, ristabilendo il giusto equilibrio, così che i giovanissimi possano tornare a considerare la cultura quale valore fondamentale, comprendendo fino in fondo che la propria libertà non ha prezzo e che essere liberi significa in primis essere capaci di esprimere il proprio pensiero senza alcun timore, senza condizionamenti, senza la paura di essere esclusi, derisi, denigrati, perché ciò che conta veramente non è omologarsi ma essere se stessi.

A scuola oggi

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