domenica 31 ottobre 2021

E IL CUORE DIVENTO' RADICE


  La punta delle radici, avendo il potere di dirigere i movimenti delle parti adiacenti, agisce come il cervello di un animale.

Charles Darwin, Il potere di movimento delle piante

 -         di Luigino Bruni*

-          In questa epoca di urgente cambiamento ecologico ed economico, qualcuno comincia a guardare alle piante in cerca di nuove ispirazioni, per salvare noi dal pianeta e il pianeta da noi. Perché finché si pensa alla sostenibilità restando all’interno dello stesso paradigma, si ragiona come se fosse possibile risolvere i problemi con la stessa macchina che li ha prodotti. In particolare, il sistema economico capitalistico è cresciuto secondo un modello animale. L’animale homo sapiens quando ha dovuto immaginare l’economia, la fabbrica e l’azienda, le ha disegnate a sua immagine.

Abbiamo così costruito aziende e istituzioni "animali", cioè con una forte divisione e specializzazione delle funzioni, con un "cervello" e un "cuore" da cui dipendono tutti gli altri organi. Queste istituzioni-animali hanno imparato a correre molto velocemente, sono diventate sempre più efficienti, depredando e divorando risorse. E così l’economia e il Pil sono cresciuti grazie alle folli corse di imprese e consumi, producendo risultati eccelsi; un giorno però hanno superato la soglia della cosiddetta "tragedia dei beni comuni", che stiamo osservando tutti, spettatori e vittime insieme.

L’economia non ha imitato le piante – come abbiamo scritto su queste pagine: "Nel tempo della ragnatela" (5 marzo 2016). Le piante, diversamente dagli animali, sono ancorate al suolo, e per rispondere all’estrema vulnerabilità dovuta al loro star ferme, non hanno sviluppato organi specializzati come gli animali (se non puoi scappare e hai cuore e fegato, se un animale ti mangia un organo vitale ti uccide). Hanno imparato a respirare, vedere, sentire con tutto il loro corpo. Da qui la loro grande resilienza: un animale lo uccidi colpendolo al cuore, la pianta invece può sopravvivere anche se perde l’80-90% del corpo, e un tronco mozzato può conoscere un nuovo virgulto. Nella Bibbia troviamo molte volte l’immagine dell’albero, della vigna, del seme per indicare il Popolo, la Chiesa, il Regno dei Cieli.

La vita delle piante ha molto da dire anche alle comunità carismatiche. Queste nascono da uno o più fondatori/fondatrici, che danno alla comunità carismatica una forma simile all’animale. Il fondatore è necessariamente il centro (cuore), e i singoli organi e funzioni dipendono dal centro. Questa configurazione viene poi replicata in tutte le funzioni e nelle varie comunità locali, che riproducono tutte lo stesso modello centrale. Nelle comunità carismatiche, diversamente dalle organizzazioni burocratiche (cioè "governate razionalmente dagli uffici" e non dai carismi delle persone), le responsabilità e i ruoli dipendono direttamente dal fondatore. Si creano sulla base di un rapporto totalmente fiduciario, da un patto implicito di mutuo riconoscimento. Ciò consente alla comunità di correre molto velocemente nella prima fase del suo sviluppo, di volare alto come aquila.

Ma come ci ha insegnato Max Weber, l’autorità di tipo carismatico termina con la scomparsa del leader carismatico, quando iniziano la routinizzazione del carisma e l’organizzazione burocratica. Nei secoli passati, la fase carismatica dei movimenti durava in genere poco tempo, e quindi era più semplice osservare con chiarezza le differenze tra la governance della fase carismatica e quella successiva. Nel nostro tempo, invece, i fondatori restano nelle loro organizzazioni per molto tempo. Accade così che una certa burocrazia si sviluppi mentre il fondatore è ancora alla guida della sua comunità, allo scopo di rendere ordinata e razionale quella vita comunitaria. Inizia una certa burocrazia carismatica. Ed è in questa fase di proto-istituzionalizzazione del carisma dove si addensano sfide decisive per il futuro. Perché?
Finché il fondatore è in vita, l’organizzazione che nasce è inevitabilmente pensata attorno al ruolo centrale e unico del fondatore. Non potrebbe svilupparsi diversamente. I problemi però nascono perché queste prime forme organizzative ibride carisma-istituzione passano alla generazione post-fondatore come parte essenziale dell’eredità immodificabile del carisma. I primi otri e il vino diventano quasi la stessa cosa. E così quando il fondatore esce di scena, chi lo sostituisce si ritrova dentro una organizzazione pensata "da e per" il fondatore. Deve interpretare un ruolo per il quale non ha le risorse, perché semplicemente quel ruolo pensato dal fondatore è possibile soltanto per il fondatore.

Il successore si ritrova al centro di tutte le connessioni e le circolazioni della comunità, senza poter essere nelle condizioni per poterle gestire. Il fondatore aveva doti e caratteristiche spirituali e umane che erano uniche in quanto fondatore. Il suo successore, invece, non può e soprattutto non deve svolgere la stessa funzione di cuore della sua comunità – e se lo fa crea una nuova comunità. Ma se si ritrova dentro la stessa governance del fondatore, inevitabilmente iniziano i problemi. Si verificano ritardi decisionali e ingorghi gestionali vari nello svolgimento del lavoro ordinario. E la quasi totalità delle risorse viene impiegata per la gestione delle dinamiche interne e così non restano energie libere per pensare strategicamente al futuro: un oggi ingestibile si mangia il domani.

Ciò si verifica perché quando il fondatore inizia a scrivere la regola e quindi il ruolo del presidente e del governo della sua comunità, ha in mente sé stesso e il suo governo, e prende la sua esperienza di fondatore-presidente per disegnare la figura dei futuri presidenti e il futuro governo. Gli esperti gli ricordano che il futuro presidente non potrà svolgere le stesse funzioni del fondatore, e spesso è lo stesso fondatore ad averne coscienza; ma la comunità e il fondatore non hanno altro materiale che il passato e il presente. Così la regola comunitaria finisce inevitabilmente per essere una foto della realtà che la scrive.

Questa è una delle ragioni della fatica che fanno oggi movimenti e comunità a gestire la fase post-fondazione, per non riuscire a "suonare" lo spartito lasciato loro in eredità. Che fare dunque? Se vogliamo essere onesti fino in fondo, dobbiamo dire che l’organizzazione generata e voluta dal fondatore in un certo senso muore il giorno dell’uscita di scena del fondatore, muore con la morte del suo cuore. È questa la prima, decisiva e inevitabile vulnerabilità dell’organizzazione-animale generata dalla prima fase. Non muore il carisma, muore solo la prima organizzazione che quel carisma aveva generato. Ma – e questo è il punto – se non muore la prima organizzazione può succedere che al suo posto muoia il carisma.


Per evitare equivoci occorre tenere ben presente che nella tradizione e spesso anche nella regola che scrive un fondatore, c’è una parte che riguarda la forma di vita della nuova personalità spirituale (individuale e collettiva) che il carisma porta sulla terra, che può cambiare nel tempo solo in aspetti molto marginali. Ma nelle tradizioni scritte e orali delle comunità spirituali (soprattutto di quelle moderne) c’è quasi sempre anche la descrizione delle regole di governance e dell’organizzazione pratica della comunità. In questa seconda parte ci sono pure dimensioni carismatiche fondative e originali che non vanno perse (una comunità carismatica ha un bisogno essenziale di una governance coerente con il carisma che l’ha generata); ma ci sono anche prassi e regole che sono state pensate sulla misura del fondatore e della sua "organizzazione-animale", e se non cambiano finiscono presto per bloccare lo sviluppo della comunità. Operazione (forse) facile a dirsi ma difficilissima a farsi, perché i discepoli del fondatore tendono per istinto a considerare intoccabile e "sacra" l’intera regola e tradizione, soprattutto se a pensarle è stato lo stesso fondatore.

Da qui la proposta. Tornando alla nostra analogia, nella fase di passaggio dal fondatore ai suoi successori, l’organizzazione carismatica dovrebbe trasformarsi da organizzazione-animale a organizzazione-pianta. Dopo il fondatore, la comunità può sostituirlo con un presidente, cambia cuore e lascia la governance di prima: questa soluzione non funziona perché non può funzionare. Ma può anche decidere di cambiare molto per salvare l’essenziale. E quindi mette mano alla parte "pratica" della regola, e crea una governance vegetale. Distribuisce le funzioni, prima addensate nel centro, in tutto il corpo, e crea una vera governance sussidiaria. Come quella delle piante, dove un attacco di un parassita su una foglia viene risolto prima dalla singola foglia, se questa non riesce subentrano le foglie vicine, poi l’intero ramo, e solo infine i rami più lontani e qualche volta gli alberi vicini. Impara a respirare, pensare, sentire con tutto il corpo. Detto per inciso, le comunità monastiche nascono simili alle piante: il loro centro non è il fondatore né, tantomeno, l’abate. La loro radice è la regola, e così molti monasteri hanno vissuto e vivono per secoli, come i grandi alberi.

Come si fa ad assicurare l’unità di una organizzazione-pianta? Anche le piante hanno un loro governo non meno efficiente di quello degli animali, ed è concentrato soprattutto nel loro codice genetico e, per certe funzioni, nelle radici. Nelle generazioni successive al fondatore, l’unità della comunità e il governo delle decisioni più importanti sono affidate al Dna e alle radici del carisma. Le comunità carismatiche possono farlo, perché diversamente dalle imprese, loro non hanno dipendenti: hanno persone con vocazioni, quindi con lo stesso Dna spirituale del fondatore (un francescano ha lo stesso "codice genetico" di Francesco, non lo impara ma lo scopre, perché era già nell’anima). Sono allora le sue persone la prima garanzia che la comunità avrà futuro - qui la loro forza, qui la loro vulnerabilità. Molto di ciò che prima faceva il cuore, ora lo potrà fare tutto il corpo se il carisma diventa radice. Sottoterra, invisibili, le radici sostengono e alimentano tutto l’albero, sentono e, come un cervello diverso, inviano messaggi a tutta la pianta, in dialogo con la terra. Non commettiamo l’errore di pensare che le radici siano il passato, magari immutabili e statiche; nelle piante le radici sono anche il passato, ma soprattutto sono il presente e il futuro. Se un carisma riesce a diventare pianta è resiliente alle crisi, diventa molto difficile farlo morire. Deve però rallentare, sviluppare nuovi sensi, crescere in profondità, conoscere tutto il bosco e imparare nuovi linguaggi per cooperare con alberi diversi.

Le piante hanno sviluppato la loro resilienza per rispondere alle sfide dell’ambiente: una grande vulnerabilità dovuta al loro ancoraggio al suolo le ha costrette a darsi organizzazioni molto diverse da quelle del regno animale, per poter vivere. Quella vulnerabilità che nasceva dal non potersi muovere è diventato il loro vantaggio evolutivo. Quando i fondatori scompaiono, l’ambiente cambia profondamente, e si sperimenta una nuova e diversa vulnerabilità. La saggezza delle piante può suggerirci come trasformare la debolezza in fortezza, e continuare la vita: «È come albero piantato lungo corsi d’acqua, che dà frutto a suo tempo» (Salmo 1,3).

 

*l.bruni@lumsa.it – Docente di Etica e cultura d’impresa, LUMSA Roma

www.avvenire.it 




 

sabato 30 ottobre 2021

SAPPITI AMATO


Trentunesima domenica durante l’anno

Dt 6,2-6/Eb 7,23-28/Mc 12,28-34

Dal Vangelo secondo Marco

 In quel tempo, si avvicinò a Gesù uno degli scribi e gli domandò: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?». Gesù rispose: «Il primo è: “Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza”. Il secondo è questo: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Non c’è altro comandamento più grande di questi». Lo scriba gli disse: «Hai detto bene, Maestro, e secondo verità, che Egli è unico e non vi è altri all’infuori di lui; amarlo con tutto il cuore, con tutta l’intelligenza e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici». Vedendo che egli aveva risposto saggiamente, Gesù gli disse: «Non sei lontano dal regno di Dio». E nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo.

Commento di P. Paolo Curtaz

Sappiti amato

 È saggio, lo scriba, e rispettoso. Riconosce in Gesù un rabbì. Chiede consiglio. Aspetta una risposta. Non tende trappole, non litiga, non baruffa. Non fa come i tanti che hanno cercato in tutti i modi di bloccare il falegname che si è preso per profeta. Non vuole fare sfoggio di cultura.

Non si barrica dietro al ruolo, dietro alla sua conoscenza. È uno scriba, sa leggere e scrivere e, soprattutto, sa interpretare le Scritture secondo le mille sfumature dei rabbini del passato e contemporanei. Potrebbe giocare con questo paesano del Nord, con questo provincialotto improvvisatosi rabbino. Non lo fa.

Va oltre.  Non è sufficiente avere studiato tanto per conoscere Dio. Non basta sfoggiare titoli infiniti per essere creduti. Credenti credibili.

Lo scriba riconosce in Gesù una Presenza, un carisma, una verità che va oltre gli schemi, le convenzioni religiose, i pregiudizi (anche quelli santi).

E tutto ciò avviene a Gerusalemme, durante l’ultima, tragica, settimana di vita del Signore. Almeno qualche gioia…

Comandamenti

Sono tanti i comandamenti, troppi. Come se moltiplicando le norme, i precetti, le regole, potessi aumentare la santità. Come se il problema fosse tenere al guinzaglio le persone. O Dio. Forse, onestamente, i precetti ci servono per fare la spunta a fine giornata, per far notare a Dio che, modestamente, buona parte li abbiamo osservati. E che se non siamo buoni cristiani (mi fa venire le bolle questa affermazione!), almeno non siamo pessimi cristiani, come i tanti intorno a noi. Se non meglio almeno non peggio. Insomma tanta premura nel dare giudizi, nello stabilire, definire non è una preoccupazione di Dio, ma nostra. Mia.

Dio ha dato delle indicazioni per la felicità. Certo. Una siepe che affianca la strada che porta alla felicità, come scrivono i rabbini. Ma non un’imposizione, non una regola da subire con malcelato fastidio. La norma è la forma dell’amore. È l’abito del bene. È l’allenamento del buono e del bello.

Allora sì, mi fido, seguo le indicazioni.

Ma senza entrare nel dettaglio. Senza descrivere quanto lungo deve essere un passo, con che inclinazione alzare il piede, che suola avere…

 Al tempo di Gesù, invece, si era entrati nel dettaglio, si erano confusi i piani. Quasi come se fosse più importante la lunghezza del laccio delle scarpe piuttosto della consapevolezza del cammino da fare.

Allora, certo, districarsi in una selva di oltre seicento norme era essenziale. E lo scriba, che sa, che conosce, ammette di non sapere, di non conoscere. Magnifico. Ha studiato tanto e, finalmente ha capito di non capire. Perché la conoscenza nutre e amplifica la curiosità e il dubbio, non ingessa la realtà.

Ama

La risposta di Gesù è quella data da altri famosi rabbini suoi contemporanei. Come riassumere tutti i comandamenti in uno solo? Fatti amare da Dio che ti ama. Amalo al meglio delle tue capacità, con forza, impegno, intelligenza. Ama te stesso perché ti vedi come Dio già ti vede. Ama il tuo prossimo con l’amore divino che trabocca dal tuo cuore. Ama. Non di quell’amore mieloso e appiccicoso che oggi ci vendono. Non di un amore narcisista e vittimista che sta facendo sprofondare il nostro occidente. Non di un amore idolatrico che ama solo per essere riamato. Ama e basta. Come fa Dio.

Allora ogni scelta, ogni percorso, darà volto a questo amore. E il cammino che faticosamente stiamo iniziando, un cammino sinodale che vorrebbe scuotere e incoraggiare, semplificare e rianimare, potrebbe avere nel cuore e nello sguardo questa semplice verità: Dio ha a che fare con l’amore. E raccontarlo (a volte anche con le parole) ai tanti smarriti che abitano le nostre città.  Sappiti amato, a prescindere. Lasciati amare. Scegli di amare. Sappiti amato, senza condizioni: perciò puoi cambiare e volare, libero, sopra le piccinerie della vita.

Felice

È felice lo scriba. Era tutto così semplice. Ammirato dal rabbì. Si sente sollevato da quella risposta, preoccupato da quella selva di comandamenti, da quel giudizio continuamente in agguato. Pieno di scrupoli e sensi di colpa, la vera tentazione per ogni credente, viene liberato da un peso. Si illumina. Gesù ha parlato con verità. Amare vale più di tutti i riti, le regole, le organizzazioni, i culti che possiamo fare. Più dei fioretti e dei sacrifici, più di tutto. Poi, certo, sarebbe bello se la preghiera fosse espressione di un innamoramento. Così le scelte che costano fatica ma che si fanno leggere quando si ama.

 Gesù sorride.

C’è stima reciproca. Ha risposto saggiamente lo scriba. Sanno, il Maestro e lo scriba, di essere orientati nella direzione. Non sei lontano dal Regno di Dio.  Non siamo lontani dal Regno di Dio quando ci interroghiamo, e interroghiamo. Quando cerchiamo la verità, quando cerchiamo l’amore. No, non c’è bisogno di porre altre domande.

È tutto così magnificamente chiaro.

 

paolocurtaz · Commento al Vangelo del 31 Ottobre 2021

 

 

SORELLA NOSTRA MORTE CORPORALE


 RIAPPACIFICATI CON LA MORTE


di Carlo Maria Martini
Io, mi sono più volte lamentato col Signore perché morendo non ha tolto a noi la necessità di morire. Sarebbe stato così bello poter dire: Gesù ha affrontato la morte anche al nostro posto e morti potremmo andare in Paradiso per un sentiero fiorito. 

E invece Dio ha voluto che passassimo per questo duro colle che è la morte ed entrassimo nell'oscurità che fa sempre un po' paura. Ma qui sta l'essenziale: mi sono riappacificato col pensiero di dover morire quando ho compreso che senza la morte non arriveremmo mai a fare un atto di piena fiducia in Dio. 

Di fatto in ogni scelta impegnativa noi abbiamo sempre delle "uscite di sicurezza". Invece la morte ci obbliga a fidarci totalmente di Dio. Ciò che ci attende dopo la morte è un mistero che richiede un affidamento totale: desideriamo essere con Gesù e questo nostro desiderio lo esprimiamo ad occhi chiusi, alla cieca, mettendoci in tutto nelle sue mani.

“L’anima mia ha sete del Dio vivente:

Quando vedrò il suo volto?”


HOMO RECIPROCANS


 A Napoli proseguono le attività educative delle persone coinvolte nelle Olimpiadi dei Saperi Positivi per un virtuoso allargamento alle altrui esperienze e personalità

- di Laura Colantonio

Il principio di reciprocità, su cui verte questa riflessione, può divenire sempre più il corridoio sociale tra l’io e il noi di ogni comunità.

La “sociabilità del sapere” di cui abbiamo detto nell’ultimo contributo ha infatti un’opportunità importante nella dimensione civica propria del pensiero che abbraccia anche l’economia civile. E il principio di reciprocità è il pilastro dell’economia civile: rispetto a iniziative o percorsi di qualsivoglia natura, affinché ciascun aspetto venga tutelato e valorizzato in ogni  potenziale espressione, le sinergie di impegno tra istituzioni ed enti locali, tra gestioni pubbliche e attività di privati cittadini possono far sì che ciascun soggetto rappresentativo di una parte della società civile si ponga in condizione di ascolto dialogico superando ogni tendenza  all’individualismo e all’ autoreferenzialità e puntando invece a traguardi di benessere per la collettività che si traducono in sostanza in traguardi per ciascuno.

L‘homo reciprocans, che si pone su un piano del tutto diverso rispetto a quello dell’homo oeconomicus, tende ad agire nella consapevolezza che i suoi obiettivi trovino misure di convergenza in quelli di altri soggetti che con i loro interventi vanno a sostenere e a consolidare gli impegni già promossi in determinate direzioni. Concetto strutturato nell’ambito delle contemporanee teorie sull’economia civile e divulgato infatti dal professore Stefano Zamagni, quello dell’homo reciprocans potrebbe essere associato alle determinazioni di due delle modalità di intelligenza individuate dallo studioso Howard Gardner nell’ambito della teoria sulle Intelligenze Multiple, quella intrapersonale e quella interpersonale. Prospettive di approfondimento diverse per un’analisi cognitiva che porta ciascuna persona a incontrare l’altro da sé per ritrovare almeno una parte di quel sé, ossia della propria identità.

L’introspezione, imprescindibile per potersi conoscere e far emergere ogni intrinseco livello di motivazione, consente di passare dalla intelligenza intrapersonale a quella interpersonale anche grazie a canali di percezione e poi di espressione quali il linguaggio, la musica, il teatro la danza o la scrittura creativa o di altro tipo. Quando conosciamo cosa ci motiva o ciò che ci provoca reazioni, quali sono i nostri punti forti e quali sono i nostri limiti, possiamo migliorare le nostre potenzialità relazionali. È in quel momento che abbiamo l’opportunità di creare strategie che ci aiutano a reagire adeguatamente nelle diverse situazioni della vita, sviluppando la fiducia in noi stessi e mettendo a fuoco quel corridoio che da interpersonale può divenire di effettiva relazionalità reciproca e quindi sociale.

E proprio in un sistema di rete nell’ambito di una comunità che decide di mettersi in gioco, la reciprocità si apre in più direzioni, potenziando il livello di inclusione della comunità stessa. E d’altra parte, l’attributo civile di quell’economia che può sempre più compensare il disagio socio-economico e culturale rimanda a quella civitas latina estremamente accogliente ed inclusiva in senso sostanziale: oggi, come nella civiltà latina, riconoscere il valore dell’altro come opportunità di valorizzazione di sé per la crescita della comunità. Riconoscere il valore del legame tra il proprio io e il noi, quel noi che già ci comprende proprio grazie a quella intelligenza interpersonale, nota anche come intelligenza sociale e quindi come capacità di stabilire relazioni con gli altri, permette di promuovere tanti processi di crescita che includano tutti, anche i Neet.

In tale ottica, infatti, obiettivo condiviso di un sistema integrato diviene il sostegno agli adolescenti nella identificazione ed esteriorizzazione dei loro sentimenti come l’aiuto nel trovare risorse per gestire i possibili comportamenti negativi come l’aggressività o l’impulsività. Questo l’intento dei percorsi sociali e formativi che a Napoli, nel cuore pulsante del centro storico rappresentato dalla Onlus Pietrasanta, il gruppo di persone coinvolte nelle Olimpiadi dei Saperi Positivi sta perseguendo grazie alla comunità educante che ha aperto rinnovate opportunità di vivere il noi mettendo all’opera una pluralità di io. Una rete di scuole, l’Ateneo Federico II, Accademie culturali, enti locali insieme alla dimensione forte del Terzo settore della Pietrasanta, retta per il complesso basilicale da monsignor Vincenzo De Gregorio e presieduta per la Onlus da Raffaele Iovine, condividono e animano le idee di chi ha scelto di fare del principio di reciprocità aperto e flessibile una forma di volontariato civile per accogliere tutti gli io che scelgono di mettersi in discussione per un modo diverso di crescere, chiamando in causa anche quelle intelligenze che ci sostengono nell’essere uomini e donne “reciprocanti”.

E grazie ai percorsi di scrittura, alle arti performative quali la musica o il canto lirico o il teatro, sposando temi di prioritario interesse pubblico quali l’acqua come bene comune o la valorizzazione dei beni culturali come volàno per uno sviluppo economico sostenibile e per far crescere il senso d’appartenenza, il fervore dell’attività della Pietrasanta sta proponendo un modello non solo sostenibile, ma anche replicabile proprio perché basato sulla motivazione della reciprocità relazionale e di scopo.

 Il sussidiario

 

GLASGOW. ECOLOGIA INTEGRALE PER UN FUTURO MIGLIORE


 L'ecologia integrale, concetto chiave per il futuro del pianeta

Vigilia del vertice di Glasgow. Alla luce dell'appello lanciato dal Papa ad una rinnovata solidarietà globale per compiere "scelte radicali" ed uscire dalla crisi trasversale che l'umanità affronta, la riflessione a Vatican News di Antonello Pasini, docente di Fisica del clima e ricercatore del CNR: la connessione nel mondo tra salute dell'ambiente e salute umana, ma anche tra natura, economia e vita dei popoli è fondamentale per il futuro del pianeta

 Fabio Colagrande e Adriana Masotti - Città del Vaticano

 Un deciso cambio di rotta urgente è quello sollecitato da Papa Francesco nel suo messaggio in vista della Cop 26 di domenica in Scozia, affidato ieri alla BBC tramite un audio-videomessaggio. Quella che attende l'umanità, scrive Francesco, è "una sfida di civiltà a favore del bene comune" e un cambiamento totale di prospettiva "che deve porre al centro di ogni nostra azione la dignità di tutti gli esseri umani di oggi e di domani". E il vertice di Glasgow è un'occasione assolutamente da non perdere per dare un forte impulso a questo cambiamento che veda l'impegno di tutti e coinvolga mente e cuori.

Il Papa: il vertice sul clima offra risposte efficaci e speranze concrete

Per Antonello Pasini, ricercatore dell'Istituto inquinamento atmosferico del CNR e docente di Fisica del clima all’Università Roma Tre, quanto afferma il Papa è estremamente importante e attuale:

Un appello e una riflessione quella di Papa Francesco che parla ai leader politici, agli scienziati e alla comunità nel suo insieme?

Ancora una volta il Pontefice dimostra, innanzitutto una modernità scientifica incredibile cioè il suo concetto di ecologia integrale che è sottinteso anche in questo messaggio è assolutamente basilare nel senso che ci fa capire che noi umani, la antroposfera, diciamo così, è completamente collegata a quella che è la natura, il sistema climatico, ma non solo, l'economia ecc..., quindi ci dà una visione veramente integrale di quello che è il nostro rapporto con la natura. E poi il fatto che ribadisca ancora una volta che bisogna pensare a uscire da questa crisi verso una nuova normalità, quindi una normalità che sia più solidale e più equa. Insomma, queste sono tutte cose estremamente importanti.

Ascolta l'intervista a Antonello Pasini

Papa Francesco mette insieme le crisi create sia dal cambiamento climatico che dalla pandemia e parla di crisi che ci mettono di fronte a scelte radicali...

Sì, assolutamente, noi dobbiamo ripensare completamente il nostro rapporto con la natura, a cominciare dal fatto che finora abbiamo agito come predatori, vedendo la natura come qualcosa di inerte, di plasmabile a piacere, con una visione estremamente antropocentrica, dobbiamo passare, invece, ad una visione in cui noi siamo intimamente legati e connessi alla natura e la salute dell'uomo equivale alla salute della natura, questo sia per quanto riguarda la crisi pandemica che per quanto riguarda la crisi climatica. È estremamente importante che il Papa ribadisca questo legame assolutamente stretto da cui non possiamo scioglierci e non vogliamo scioglierci.

I decisori politici che prenderanno parte alla COP 26 sono chiamati con urgenza ad offrire risposte efficaci alla crisi ecologica in cui viviamo. In concreto, professor Pasini, quali potrebbero essere queste risposte?

Le risposte si stanno intravedendo, al di là del fatto che ognuno di noi può fare qualcosa innescando dei circuiti virtuosi dal basso e può spingere sui politici affinché facciano qualcosa, è chiaro che la transizione ecologica va gestita dalla politica. Quindi adesso, per esempio l'Europa io credo si sia messa sulla strada giusta. In America si sta muovendo qualcosa con il cambio del presidente, anche in Cina si sta pensando veramente di virare a 180° verso le energie rinnovabili, anche perché c'è stata una grossa spinta dal basso da parte della popolazione perché lì, insomma, si moriva e si muore ancora, in parte, di inquinamento atmosferico. Quindi il legame fra popolazione e politici, con la spinta dal basso, può far sì che effettivamente si vada verso una direzione nuova e più efficace anche nelle misure da prendere, come ad esempio: disincentivare assolutamente i combustibili fossili, incentivare le energie rinnovabili e la mobilità sostenibile, tutto un mosaico di misure che porti realmente ad un nuovo modello di sviluppo.

L'ultimo Accordo importante sul clima era stato siglato a Parigi nel 2015, che cosa è successo in questi sei anni che hanno preceduto la COP 26 che sta per cominciare?

E' successo che stiamo vedendo sempre più le conseguenze del cambiamento del clima come gli eventi estremi, le ondate di calore assolutamente fortissime e così via. E dal punto di vista politico e programmatico per quanto riguarda il cambiamento delle azioni contro la crisi climatica, appunto l'Europa si è mossa, gli Stati Uniti si stanno muovendo e dalla parte, diciamo così, del business c'è, secondo me, una maggiore attenzione. Lo stesso Accordo di Parigi nel preambolo diceva qualcosa di importante e cioè che se vogliamo evitare i problemi più gravi del clima, bisogna che la seconda parte di questo secolo sia ad emissione di carbonio 0 e questo era un messaggio fortissimo agli economisti, ai politici e ai businnesman. Diceva: guardate che se volete fare business,  carbone, petrolio e gas naturale non hanno futuro. Ecco, in questo momento si sta evolvendo la situazione e io mi auguro che a Glasgow si trovino misure veramente concrete che leghino le popolazioni e soprattutto i governi a fare qualcosa di efficace.

Lei accennava agli effetti concreti dei cambiamenti climatici: spesso siamo un po' confusi dalle informazioni, ma c'è unanimità dal punto di vista scientifico che questi effetti ci sono veramente?

Assolutamente sì, ci sono, sono concreti e stanno peggiorando. Quindi se non facciamo nulla, siamo destinati, per esempio, a prendere 4,5 gradi da qui a fine secolo che un'enormità, perché non si tratta soltanto di sudare un po' di più, ma dell'impatto sui territori, sugli ecosistemi e sull'uomo. Il clima è un sistema globalizzato, quello che succede al Polo Nord può avere influssi su di noi, oppure sulla fascia del Sahel da dove arrivano 9 migranti su 10 di quelli che arrivano coi barconi. Quindi questa popolazione, come dire, incastonata fra guerre, fame, povertà e cambiamento climatico è ovvio che deve trovare una strada per poter vivere. Quindi è un problema di equità internazionale e il cambiamento climatico, purtroppo, allarga quella forbice di disequità che già c'è attualmente tra i Paesi sviluppati e quelli poveri e non bisogna fare divaricare ancora di più questa forbice perché andremmo in una situazione estremamente critica per loro, che appunto non avrebbero più risorse, ma anche per la stabilità internazionale.

Come dice il Papa è necessaria una corresponsabilità mondiale, e guardando a Glasgow, quali sono i Paesi sui quali dobbiamo puntare di più l'attenzione?

Ovviamente sui maggiori inquinatori che sono quelli più responsabili di questa situazione e quelli che devono per primi agire per fare qualcosa di concreto. Perché non possiamo guardare all'Africa e chiedere di fare qualcosa ai Paesi africani, che hanno una responsabilità assolutamente infinitesima per quel che riguarda il riscaldamento globale e i cambiamenti climatici e, un altro effetto di disequità, è che sono proprio questi Paesi che sostanzialmente risentono degli impatti più forti. Ecco, quindi, che i Paesi sviluppati devono mettersi in testa di agire concretamente e soprattutto anche di stabilire un fondo, che è già stato stabilito teoricamente, per l'adattamento e lo sviluppo dei Paesi poveri che dovranno svilupparsi, ma non facendo gli errori che noi abbiamo fatto in passato, quindi sviluppandosi con energie alternative, senza bruciare carbone, petrolio o gas naturale.

Professor Pasini, ha ragione quello scienziato, citato da Papa Francesco, che diceva che la sua nipotina appena nata se le cose non cambiano, entro 50 anni, dovrà abitare in un mondo inabitabile?

Inabitabile o, comunque, molto difficile da vivere. Sì, certo, dobbiamo guardare ai nostri figli e in parte lo abbiamo già fatto, perché io dico sempre che da quando è uscita sulla scena Greta, ha fatto più lei e gli altri giovani in 2-3 anni, che noi scienziati in 30 anni di rapporti internazionali con sommari per i decisori politici.

 Vatican News

MESSAGGIO DI PAPA FRANCESCO 




 

 

VACCINI. AUTODETERMINAZIONE?


VACCINI, L’ORDINE MORALE VINCOLA 

AL PARI DEL LEGALE

 Differenza tra autodeterminazione e autorealizzazione «per il bene»

-          di MAURO COZZOLI*

-           

Non perde intensità in Italia il dibattito, anche acceso, provocato dal ricorso ai vaccini per far fronte alla pandemia da Covid-19. E, per quanto alimentate da settori no-vax assai minoritari, le tensioni sono forti e le contrapposizioni persino rabbiose. Il motivo del contendere è dato dalla libertà da obblighi di vaccinazione. La libertà è un bene, espressione dell’essere proprio della persona: un bene-potere di scegliere e decidere, che la sapienza biblica riconduce al disegno creatore divino: «Dio da principio creò l’uomo e lo mise in mano al proprio volere » (Sir 15,14). La libertà è il potere della volontà, facoltà spirituale insieme all’intelligenza, che fa dell’individuo umano un essere sui iuris, dominus sui: 'padrone' di sé e delle proprie azioni, e perciò responsabile. È questa l’autodeterminazione, espressione prima della libertà, che si estrinseca nella scelta e nella decisione. Ma con cui la libertà non coincide, come invece si tende a credere e a far credere oggi.

Una libertà centrata sul potere di autodeterminazione è una libertà vuota e arbitraria. Vuota perché non inverata da un ordine di beni e valori morali. Arbitraria perché in balia dell’opinione, di 'quello che mi pare'.

La libertà cresce e matura nel passaggio dall’autodeterminazione: libertà di scelta; all’autorealizzazione: libertà morale. Libertà per il bene, che si lascia vincolare dal bene: lo ricerca, lo vuole, lo adempie. Bene che non è fatto dalla libertà. È fatto prima, da un ordine morale riconosciuto dall’intelligenza e fatto proprio dalla volontà, che insieme costituiscono la libertà.

Di questa riduzione della libertà a mera autodeterminazione abbiamo riscontri molteplici in prese di posizione di individui, opinion leader, associazioni, movimenti, partiti, specie in merito a questioni eticamente sensibili. Ne è espressione critica, altamente dissociativa, il rifiuto irragionevole di vaccinarsi da parte di settori della popolazione, in nome della libertà di autodeterminazione, disconoscitrice di ogni obbligo e responsabilità indotti dal vaccino.

Prescindiamo qui dalla responsabilità verso se stessi. Consideriamo la responsabilità verso gli altri, rispondente al dovere di tutelare la salute altrui. Se è vero, come la scienza dimostra, che il vaccino contrasta la diffusione del virus, impedendo o anche solo limitando i contagi e le letali conseguenze, e che i benefici della vaccinazione superano di gran lunga i rischi, allora – fatte salve legittime controindicazioni mediche – vaccinarsi è un obbligo morale. Obbligo tanto più grave quanto più contagiosa e nociva per gli altri può risultare la vicinanza e l’interazione con essi. Obbligo che inizia da una corretta e leale informazione sui vaccini.

Tale obbligo può (forse) non diventare un dovere legale, per la complessità e conflittualità delle situazioni, delle mediazioni e delle implicazioni che l’imposizione giuridica può comportare. Resta però un dovere morale che non obbliga per legge ma obbliga in coscienza, non obbliga davanti al legislatore, ma obbliga davanti a Dio; la cui inadempienza può non essere un reato ma può essere un male morale, un peccato.

La questione etica dei vaccini complica due princìpi: il principio di autodeterminazione e il principio del bene comune. Bene del 'noi tutti' uniti in società, che per noi qui è il bene della salute pubblica: bene di tutti e di ciascuno nella comunità di appartenenza. Due princìpi da coniugare insieme, indivisibilmente. Un’autodeterminazione centrata su se stessa, indifferente al bene comune, incurante del male arrecabile ad altri, è un’autoreferenzialità moralmente colpevole. L’ordine morale non è meno vincolante di quello legale. Non è ad libitum. «Vaccinarsi – ha detto il Papa qualche giorno fa – è un dono d’amore per gli altri'. Anche l’amore ha i suoi vincoli, il dono i suoi doveri. Essi non sono esigibili per legge. Non sono però espressione di mero sentimento. Ma di una libertà che si lascia vincolare, autodeterminare dall’amore.

 

*Teologo moralista, Pontificia Università Lateranense

 

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DDL ZAN, DOPO LA BOCCIATURA


 Reazioni opposte, 

ma tutte fuori misura 

Le reazioni, all’indomani dell’affossamento del ddl Zan al Senato, riflettono una radicale contrapposizione etica e politica.  «I diritti possono attendere», è il titolo de «La Repubblica». «Il Parlamento dei diritti negati» titola «La Stampa». «Vergognatevi», è il titolo di «Domani». Sulla stessa linea il commento del segretario del PD Letta, che scrive amareggiato su Twitter: «Hanno voluto fermare il futuro. Hanno voluto riportare l’Italia indietro».

Di segno opposto le reazioni dei giornali di destra. «Fine del delirio gender», titola «Il Giornale». «Affondata la legge bavaglio» è il titolo de «La Verità». «Libero» esulta, più che per il contenuto del ddl bocciato, per la sconfitta degli avversari politici: «Piange il PD. Che bello», titola in prima pagina. Così anche Salvini, soddisfatto soprattutto perché ha visto il ddl «affossato dall’arroganza di Letta».

In realtà, proprio alla vigilia della votazione che ha segnato la liquidazione del disegno di legge,  si era registrata, da parte del segretario del Partito democratico, una timida apertura. Letta aveva ipotizzato un’esplorazione con le altre forze politiche «per cercare di capire le condizioni che possano portare a un’approvazione rapida del testo». 

Mossa apprezzata da Renzi, che aveva ribadito la sua idea: «Se vogliamo che la legge passi, vanno cambiati i passaggi più delicati». A fare muro contro lo spiraglio aperto dal segretario del PD era stato però il mondo LGBT+, secondo cui il disegno di legge contro l’omotransfobia andava approvato così com’era, senza altre mediazioni e rinvii.

Davanti a questo spreco di depressioni, indignazioni e manifestazioni di esultanza, non guasta forse un momento più pacato di riflessione sul significato di ciò che è accaduto. 

La prima considerazione che si impone è l’enorme sopravvalutazione del ddl Zan – e quindi del suo  affossamento – sia da parte dei suoi sostenitori delusi, sia da quella dei suo oppositori esultanti. Basta rileggere (o forse, da parte di molti, leggere) il testo in questione per rendersi conto che esso non introduceva affatto la tutela dei diritti delle persone omosessuali e transessuali, ma si limitava a inasprire le pene per chi li avesse violati e a prevedere una giornata  all’anno dedicata alla loro valorizzazione.

Che poi il voto del Senato abbia posto fine al «delirio gender» è una evidente esagerazione retorica, visto che la questione non si esaurisce certo in una maggiore o minore tutela giudiziaria, come chiunque può constatare oggi davanti al moltiplicarsi – nella pubblicità, nei film, ma anche nella esperienza quotidiana – degli esempi di omosessualità e di transessualità.

Una tardiva apertura al dialogo 

Quanto alla tesi che il ddl costituisse una «legge bavaglio», essa ha certamente assai maggiore fondatezza di quelle precedenti. Non si può, però, ignorare lo sforzo fatto dai proponenti, con l’introduzione, in corso d’opera, dell’art.4, esplicitamente rivolto ad evitare questo effetto. Uno sforzo da molti giudicato (a ragione) insufficiente, ma da cui si poteva partire per un dialogo più costruttivo.

In realtà né dall’una né dall’altra parte questo dialogo è stato fermamente voluto. Solo tardivamente la Conferenza episcopale italiana è passata da una posizione di netto rifiuto dell’iniziativa parlamentare dell’on. Zan a una più possibilista e costruttiva, spiegando che non ne voleva l’affossamento, ma la modifica. E ancora più tardivamente, come si è appena visto, l’on. Letta si è mostrato disponibile  ad accogliere questa ipotesi di modifica.

Alla fine hanno vinto i “falchi” di entrambi gli schieramenti, portando a uno scontro frontale che ha visto la vittoria della destra, ma che in ogni caso è stato caratterizzato dalla incapacità, dell’uno e dell’altro fronte,  di uscire dai rispettivi schemi ideologici.

L’ideologia della sinistra… 

Perché di ideologia si tratta, quando si continua a vedere nella lotta – in sé sacrosanta – contro l’omofobia e la transfobia la questione centrale nella situazione odierna del nostro Paese e a farne, perciò, la punta di diamante della politica della sinistra. In una società che ha quasi 8 milioni (per la precisione 7 milioni e 734 mila) “incapienti” – cittadini, cioè, che  hanno un reddito complessivo non superiore a 8mila euro annui o con pensione fino a 7.500 euro –  il «futuro» a cui mirare non si può ridurre a inasprire le pene per chi incita alla  violenza contro gli omosessuali, per quanto giusto ciò possa essere, ma richiede una ridefinizione radicale dell’assetto socio-economico della nostra società neocapitalista, sostanzialmente ispirate, con delle occasionali attenuazioni, a quelle spietate di Squid Game. I «diritti che possono attendere», i «diritti negati», e la cui negazione merita il «Vergognatevi», rivolto alla nostra classe politica, sono “anche”, ma non “prima di tutto “ (e in definitiva quasi esclusivamente) quelli per cui la sinistra si è battuta in questi anni all’ultimo sangue e che, a quanti hanno il problema elementare di arrivare alla fine del mese, non possono non apparire un lusso.

… E quella della destra

Ma ideologico è anche l’appello ai grandi valori etico-religiosi della tradizione cristiana da parte di chi, in nome di essi, si è strenuamente battuto contro il ddl Zan. L’ostentazione del vangelo da parte di Salvini non può far dimenticare – anche se gli italiani ci sono riusciti, perché hanno poca memoria! – che la Lega è nata da una scelta religiosa che contrapponeva i valori pagani e il dio Po alla religione cristiana e al cattolicesimo in particolare. «Io ci credo, in Dio» – spiegava Bossi. «Ma non è il Dio che ci raccontano al catechismo. È un Dio che sta ovunque, nell’acqua e nel fuoco, nell’aria che respiriamo (…) Penso che il mio sia una specie di panteismo». 

Anche quando si è adattata alla visione cristiana, la Lega non è stata in linea con la visione del vangelo. Significativa la dichiarazione dell’eurodeputato leghista Borghezio, presidente dell’organizzazione “Padania cristiana” ed esponente di punta dell’anima cattolica della Lega, che ha ritenuto di poter circoscrivere il concetto evangelico di “prossimo” a «coloro che fuoriescono dal nostro stesso ceppo»: per lui, è «solo nell’ambito di questa ben delineata categoria di “prossimità” che deve intendersi il precetto dell’amore fraterno. Di conseguenza, per quanto mi riguarda, non è estendibile al vù cumprà o al vù lavà, certamente prossimi di molte altre persone, ma non del sottoscritto. Grazie a Dio».

Perciò non si può non condividere l’opinione del noto storico cattolico Franco Cardini: «Gli antiabortisti che auspicano l’affondamento dei gommoni dei clandestini e che vorrebbero escludere un bambino dal diritto ad avere una casa, a frequentare una scuola, a fruire di un posto-mensa, solo perché è extracomunitario, non sono cattolici nemmeno se riempiono la casa di crocifissi». 

Il discorso vale anche per la pretesa leghista di difendere, sul tema del gender, la visione cristiana della sessualità e della famiglia. E lo conferma la vita privata di Salvini, ispirata, al di fuori dei comizi, a ben altre prospettive. Come del resto quella (pubblicamente ostentata) di  Berlusconi e, in forme meno eclatanti, quella della Meloni. 

Ma dove sono i cattolici?

In questo contesto, la domanda che sorge spontanea è: ma dove sono finiti i cattolici (quelli che il vangelo non lo sventolano, ma lo leggono e cercano di praticarlo)? Dopo la fine della Prima Repubblica, sembrano scomparsi, inghiottiti, senza lasciare tracce, dai due poli che hanno dominato la Seconda. 

Avrebbero dovuto essere loro – i laici cristiani, non i vescovi! –  ad aiutare la sinistra a ricordare il primato del bene comune e dei valori in esso inclusi, a cominciare dalla giustizia, e la destra a capire che la difesa della vita nascente (nei confronti dell’aborto) o morente (nei confronti dell’eutanasia) e della famiglia (nei confronti delle teorie del gender) non ha senso se poi non si rispettano le persone già nate e non ancora moribonde, siano esse italiane (i poveri), siano straniere (i migranti). 

La presenza dei cattolici nei due schieramenti – sia a livello di vertice che di base – è risultata e rimane, invece, irrilevante. E c’è da temere che, quando il card. Bassetti apre le porte a un futuro testo che possa riproporre le esigenze contenute nel ddl Zan, sottolineando che esso dovrà però tenere conto anche della voce dei cattolici, quella a cui pensa sia la voce della Conferenza episcopale o della Santa Sede, non quella dei laici.

Dobbiamo rassegnarci a questo stato di cose o possiamo sperare di cambiarlo? A spingerci ad preferire la seconda ipotesi non è la difesa degli interessi del cattolicesimo, ma la constatazione che entrambe le posizioni maturate in questa Seconda Repubblica senza il contributo del pensiero politico cristiano sono disastrose – non per la Chiesa, ma per le persone. Ma è plausibile un risveglio culturale e politico del laicato cattolico che, senza pensare a un “partito cristiano” – renda di nuovo rilevante il vangelo nella ispirazione delle scelte politiche? È una domanda a cui forse dovrebbe cercare di dar risposta il Sinodo che si è appena aperto.

 

*Pastorale Cultura Diocesi Palermo

 

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giovedì 28 ottobre 2021

L'INCERTA FEDE



Il presidente Apsa alla presentazione dell’indagine sull’Italia “L’incerta fede”. «Il Papa è per la difesa della vita in tutte le sue forme» Augias: «La religione cattolica è stata uno dei tendini che hanno tenuto insieme gli italiani»

Galantino: nuovi scenari ma la diversità resta sempre tra Vangelo e non Vangelo

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-         di GIANNI CARDINALE

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Di fronte alla «fede incerta» registrata dal professor Roberto Cipriani nella sua imponente ricerca bisogna «smettere i panni della vecchia apologetica» per assumerne di nuovi. Tenendo sempre presente che «l’alternativa» non è fra «tradizionalisti e progressisti», ma tra «Vangelo e non Vangelo». Così «quando il Papa si interroga sul tema dell’immigrazione, le sue risposte non sono di natura sociologica ma evangelica». Francesco «ci ricorda una banalità: “Ero forestiero e mi avete accolto”». Qualche «buontempone» nella Chiesa dice che il Papa «non parla di tutte le dimensioni della difesa della vita». Ma «se mi batto contro l’aborto e per la sacralità della vita questo mio atteggiamento pro vita io devo impararlo a coltivarlo di fronte a tutti i momenti di vita». Non si può essere «fortemente impegnati contro l’aborto e poi lasciar morire i migranti nel Mediterraneo». Altrimenti «siamo schizofrenici e poco credibili». A parlare è monsignor Nunzio Galantino, vescovo emerito di Cassano all’Jonio, dal 2018 presidente dell’Apsa (Amministrazione del patrimonio della Sede apostolica). 

L’occasione è la presentazione del volume di Roberto CiprianiL’incerta fede. Indagine quanti-qualitativa in Italia” (Edizioni Franco Angeli),  commissionata dalla Cei quando segretario generale era proprio monsignor Galantino. Siamo nella sede del Dipartimento di Scienze della formazione dell’Università Roma Tre, e a parlare - moderati da Luca Caruso e Ignazio Ingrao - ci sono anche giornalisti e scrittori di diversa sensibilità. C’è, in collegamento da remoto, lo scrittore Corrado Augias, «serenamente ateo» ma preoccupato per l’eclissi del sacro che rischia di avere un impatto «fortemente negativo per la nostra vita collettiva». Perché «la religiosità cattolica, a parte gli eccessi del passato, è stata un elemento positivo, uno dei tendini che hanno tenuto insieme gli italiani assieme ai partiti e alle grandi ideologie». Monica Mondo di Tv2000 si professa invece «non serenamente credente» e invita a distinguere «religiosità» che «apre ad un vago relativismo e sentimentalismo» e «fede», sottolineando che laddove la fede si fa «incerta» allora lì si «infila» il potere per «dominare», come sta accadendo in Francia dove viene messo in discussione il sigillo sacramentale della confessione.

Lo scrittore e insegnante Eraldo Affinati parla della sua esperienza nella scuola “Penny Wirton” dedicata ai ragazzi stranieri. «Oggi – riflette – siamo di fronte a un mondo nuovo. Papa Francesco è consapevole di rinnovare il linguaggio. Da insegnante osservo che molti ragazzi non si avvalgono della lezione di religione ma quando li affronti mostrano una esigenza di spiritualità fortissima. C’è una interruzione di comunicazione fra la Chiesa e i giovani. Ci sarebbe bisogno di adulti credibili in grado di incarnare i valori nella loro vita». «I ragazzi che seguo nella scuola rivolta agli immigrati invece – prosegue Affinati – mi chiedono di pregare. Sono quasi tutti musulmani. Formiamo anche i ragazzi italiani come docenti di lingua italiana che vedono le preghiere musulmane e credono di avere di fronte un altro mondo. Credo che faccia bene a questi italiani questo rigore e potenza spirituale».

Infine, il professor Cipriani ha rimarcato che i risultati dell’indagine «portano a formulare una “teoria dell’incerta fede” che fa prevedere un futuro della religione in Italia piuttosto in chiave di dubbio, ma senza che vi siano differenze abissali tra quantità e qualità dei credenti da una parte e dei non credenti dall’altra». In questo contesto «si può prevedere una tenuta della Chiesa cattolica come istituzione, nonostante possibili crisi». La pratica religiosa «non si incrementerà ma nemmeno risulterà bassissima». Mentre la non credenza «crescerà, però senza raggiungere dimensioni eclatanti». Inoltre «nuovi orizzonti si apriranno in chiave di spiritualità, non legata tuttavia all’esperienza liturgica ufficiale delle Chiese e delle religioni».

 

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DDL ZAN. SERVE UN DIALOGO APERTO NON PREGIUDIZIALE

Il Senato con 154 voti favorevoli, 131 contrari e 2 astenuti ha bloccato l’esame degli articoli e degli emendamenti del controverso disegno di legge contro l'omofobia e l'omotransfobia. Per i vescovi italiani "una legge che intende combattere la discriminazione non può e non deve perseguire l’obiettivo con l’intolleranza"

 “L’esito del voto al Senato sul Ddl Zan conferma quanto sottolineato più volte: la necessità di un dialogo aperto e non pregiudiziale, in cui anche la voce dei cattolici italiani possa contribuire all’edificazione di una società più giusta e solidale”. Così il cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Cei, commenta - in una nota diffusa dai vescovi italiani -  lo stop del Senato al testo del ddl Zan in materia di violenza e discriminazione per motivi di orientamento sessuale o identità di genere. Il passaggio in Aula è avvenuto con voto segreto: 154 i voti favorevoli, 131 i contrari e 2 gli astenuti. In questo modo quindi è stata accolta la proposta di non passaggio al voto degli articoli presentata da Lega e FdI in relazione al disegno di legge. Si interrompe così l’iter del provvedimento che aveva ricevuto una approvazione in prima lettura dalla Camera nel novembre 2020 e che tornerà in Commissione Giustizia con tempi lunghi, non meno di sei mesi.

I due interventi precedenti della Cei

La presidenza della Cei aveva espresso perplessità sul testo con due note, diffuse il 10 giugno 2020 e il 28 aprile 2021. Testi, peraltro, condivisi da tante voci di diversa sensibilità. In modo particolare, la controversa nozione di identità di genere poneva e pone tuttora una questione etica e culturale seria che non può risolversi in banalizzazioni ideologiche. “Il voto del Senato – sottolinea ancora il cardinale Bassetti – offre un’ulteriore considerazione nel segno del concetto stesso di democrazia: una legge che intende combattere la discriminazione non può e non deve perseguire l’obiettivo con l’intolleranza. Tra l’approvazione di una normativa ambigua e la possibilità di una riflessione diretta a un confronto franco, la Chiesa sarà sempre a fianco del dialogo e della costruzione di un diritto che garantisca ogni cittadino nell’obiettivo del rispetto reciproco”.


 COMUNICATO CEI