lunedì 30 settembre 2024

IMMAGINARE LA PACE


 PERCHE'

 IL MONDO 

NON SIA SFIGURATO


 - di Andrea Riccardi

L’appello di pace, lanciato a Parigi la settimana scorsa da donne e uomini di religione e da personalità umaniste, chiede di «immaginare la pace» e ricordare cosa è stata la guerra.

Sul sagrato della basilica di Notre Dame, ormai quasi ricostruita, l’appello firmato dai vari leader è suonato grave.

Sembrava che ci fosse un’altra ricostruzione da fare per non scivolare nel fuoco della guerra. Infatti, è necessario guardare oltre l’attuale orizzonte, dominato dalle logiche di guerra, senza spazio per costruire o immaginare.

L’appello afferma: «Purtroppo, c’è una diffusa rassegnazione di fronte ai conflitti aperti, che rischiano di degenerare in una guerra più grande e travolgente. In tante parti del mondo, e anche qui in Europa, si è smarrita la memoria dell’orrore della guerra, eredità dei due conflitti mondiali del Novecento.

Quell’eredità che mostra come solo la pace è un’alternativa umana e giusta!».

La pace è stata ormai, in larga parte, espunta dal discorso pubblico.

Si parla di armi, minacce, scontri. A questo si fa l’abitudine.

Anche il recente e allarmante discorso di Putin sull’uso dell’arma atomica e il cambiamento della dottrina strategica russa è stato preso – mi pare – alla leggera.

Abbiamo dimenticato che cosa sono state le guerre.

Stanno scomparendo quanti hanno vissuto l’ultimo conflitto mondiale e i testimoni della Shoah. E con loro la memoria.

Papa Francesco, nell’enciclica Fratelli tutti, ha denunciato la «fine della coscienza storica».

In Lussemburgo ha ripreso questo tema con forza in una terra che ha conosciuto l’invasione nazista, nonostante la neutralità: «Siamo smemorati in questo.

Per sanare questa pericolosa sclerosi, che fa ammalare gravemente le nazioni e aumenta i conflitti e rischia di gettarle in avventure dai costi umani immensi, rinnovando inutili stragi, occorre alzare lo sguardo verso l’alto...».

La storia rischia di ripetersi.

Per questo ci vuole una svolta profonda, non si può lasciare tutto nelle mani delle logiche di guerra e di una politica a rimorchio degli eventi.

Bisogna «impedire l’impazzimento della ragione e l’irresponsabile ritorno a compiere i medesimi errori dei tempi passati, aggravati per giunta dalla maggiore potenza tecnica di cui l’essere umano ora si avvale».

La guerra oggi è più distruttiva di ieri.

Siamo sulla china dell’impazzimento della ragione, causato dai nazionalismi, per cui non c’è altra strada che sconfiggere l’altro e non esistono ragioni se non le proprie.

La guerra, anche se porta risultati militari a una parte, alla fine è la sconfitta di tutti.

Così Francesco, nel cuore dell’Europa, ha parlato con una solennità raramente usata, «come Successore dell’Apostolo Pietro, a nome della Chiesa... esperta di umanità».

Per lui – l’ha detto più volte – il momento è grave.

In questo tempo smemorato, la Chiesa non dimentica la storia e implora che non si ripeta.

Tutti oggi pagano un duro prezzo per le guerre. Soprattutto i Paesi più fragili.

Pensiamo al Libano, già modello di convivenza tra cristiani e musulmani, che ospita profughi – palestinesi e siriani –, che assommano a più della metà della sua popolazione.

Citando il Lussemburgo nella Seconda guerra, ma forse pensando al Libano oggi, il Papa ha detto: «Quando prevalgono logiche di scontro e di violenta contrapposizione, i luoghi che si trovano al confine tra potenze che confliggono finiscono per essere – loro malgrado – pesantemente coinvolti».

Eppure, questi luoghi sono crocevia preziosi, come il Libano in Medio Oriente: sono «i più adatti a indicare, non solo simbolicamente, le esigenze di una nuova epoca di pace e le strade da percorrere», ha concluso Francesco.

Bisogna immaginare un’epoca di pace.

Il dolore dei popoli in guerra lo esige: ucraini, palestinesi, israeliani, libanesi, sudanesi, gente del Kivu e tanti altri.

Si devono aprire percorsi di tregua e di dialogo per avanzare verso un’architettura internazionale di pace. Altrimenti le guerre non avranno fine.

Una vittoria militare non renderà mai sicuro un Paese.

Solo una solida “civiltà del vivere insieme” offre sicurezza e pace a popoli che confinano o abitano nelle stesse terre.

Tuttavia – come ha detto Francesco – bisogna alzare lo sguardo e ispirarsi a visioni e valori più alti, che ci liberino dal fascino prepotente delle ragioni della guerra e dalla logica della risposta conflittuale all’altro.

Alla base c’è anche un imbarbarimento dei cuori e delle menti.

Chiese, religioni, umanisti, persone di buona volontà devono muoversi per “una civiltà del vivere insieme”.

Ci vuole immaginazione: com’è stato dopo la Seconda guerra mondiale in Europa occidentale.

Perché il mondo non sia disumanizzato e sfigurato dalle guerre.

 

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domenica 29 settembre 2024

VERO o FALSO ?


 Quel ricordo falso

 che genera verità


Elizabeth Loftus, madre nobile delle neuroscienze della memoria, studia i modi in cui si formano i dejà-vu di eventi mai accaduti e le tecniche per crearne da zero.

Questi meccanismi possono anche modificare il comportamento delle persone con conseguenze reali, come è accaduto in numerosi casi giudiziari

 

-         di EUGENIO GIANNETTA

 La psicologa Elizabeth Loftus, madre nobile delle neuroscienze della memoria, esperta di “falsi ricordi”, da decenni studia i modi in cui si formano ricordi di eventi mai accaduti e le tecniche per crearne da zero. I falsi ricordi sono molto potenti e oltre a rivelarci preziose informazioni sul funzionamento della nostra memoria, possono anche modificare il comportamento delle persone con conseguenze reali, come per esempio è accaduto in numerosi casi giudiziari. In occasione della XXII edizione del festival di divulgazione scientifica Bergamo-Scienza, sabato 5 ottobre alle ore 17 Loftus terrà una lectio dal titolo L’illusione della memoria: come nascono (e che conseguenze hanno) i falsi ricordi. È a partire dal concetto della manipolazione dei ricordi che l’abbiamo intervistata: «È emerso – ci spiega – che gli scienziati della memoria si sono resi conto che questa non funziona come un dispositivo di registrazione. Non basta registrare l’evento e riprodurlo in seguito. Il processo è più complesso. In realtà, quando cerchiamo di ricordare qualcosa, stiamo costruendo o ricostruendo un’esperienza. Quindi prendiamo pezzi di esperienza da tempi e luoghi diversi e li mettiamo insieme per produrre quello che sembra un ricordo. Quindi, ci piace dire che la memoria è costruttiva o ricostruttiva, e una delle conseguenze di questo è che le cose che accadono dopo che un evento è completamente finito – le suggestioni, la disinformazione – hanno perciò anche il potenziale di contaminare la memoria, di cambiare i ricordi delle persone per le loro esperienze passate».

 Quindi, quando può essere manipolata una memoria?

 «Quando una persona ha un’esperienza; quando, per esempio, assiste a un crimine o a un incidente stradale, e in seguito viene esposta a informazioni fuorvianti. Potrebbe accadere quando parla con altri testimoni. Può accadere quando viene interrogata da un investigatore che magari ha un’ipotesi su ciò che potrebbe essere accaduto e può inavvertitamente contaminare l’interrogatorio. Può accadere quando le persone sono esposte a copertura mediatica di qualche evento che hanno vissuto personalmente. Avviene, quindi, quando il potenziale di contaminazione è reale. E nel mondo reale siamo esposti alla disinformazione regolarmente».

 C’è qualche pericolo nell’insinuare falsi ricordi?

 «Se si tratta di un piccolo dettaglio che non ha importanza no, ma a volte può avere molta importanza quando, ad esempio, si tratta di un caso giudiziario e le informazioni false fanno credere a una persona che sia accaduto qualcosa che in realtà non è successo, o che qualcuno abbia commesso un crimine quando non è così».

 Ma è possibile distinguere un falso ricordo da un ricordo vero?

 «Quando ascoltiamo qualcuno parlare della sua memoria, spesso ci crediamo. Ci crediamo perché viene espresso tutto con sicurezza, o perché vi sono dettagli, o ancora perché vengono mostrate emozioni nel racconto della storia, ma i falsi ricordi possono avere le stesse caratteristiche. Nel lavoro scientifico abbiamo scoperto che i falsi ricordi possono essere descritti con estrema sicurezza, molti dettagli e altrettante emozioni».

 E come si controlla tutto questo? Esiste una sorta di comitato etico?

 «Ci sono molte questioni etiche che sorgono. Una delle cose che abbiamo dimostrato è che si può contaminare la memoria di qualcuno e forse permettergli di vivere una vita più sana o felice. In alcuni dei nostri lavori abbiamo dimostrato, per esempio, che, se instilliamo un falso ricordo che da bambino ti sei ammalato mangiando un cibo che fa ingrassare, allora non sarai più interessato a mangiare quel cibo. Quindi, forse si potrebbero usare alcune di queste tecniche per far sì che le persone abbiano un falso ricordo e permettere loro di avere conseguenze positive. Eticamente ci chiediamo: dovremmo farlo? Sarebbe una buona idea indurre le persone con falsi ricordi a mangiare meno cibi grassi o a bere meno alcolici? Non spetta a me, in quanto scienziato della memoria, decidere, ma alla società. Dal punto di vista scientifico però crediamo sia importante conoscere la malleabilità dei ricordi per comprenderla e difendersi da essa, oppure sfruttarne il potenziale».

 C’è anche qualcosa che possiamo fare per migliorare i nostri ricordi?

 «Esistono molte tecniche che gli psicologi hanno sviluppato per consentire di ricordare meglio le cose. Se si incontra qualcuno e si vuole ricordare il suo nome, ci sono alcune cose che si possono fare per massimizzare le possibilità di ricordare il nome di quella persona. Ad esempio, ripetere il nome ad alta voce, ma non solo».

 Pensa sia possibile anche reprimere i ricordi di eventi traumatici?

 « Non c’è dubbio che possiamo dimenticare le cose e ricordarcele. Si possono persino dimenticare cose molto sconvolgenti e ricordarle. Questo è un normale dimenticare e ricordare, ma l’idea di una repressione mirata, che si possa prendere una collezione di traumi orribili, bandirla nell’inconscio, dove è murata dal resto della vita mentale, e che si debba andare lì e togliere questo velo di repressione e diventare consapevoli di queste esperienze in qualche modo nella loro forma incontaminata, per tutto questo non c’è alcun supporto scientifico credibile. Quindi, credo sia triste il fatto che talvolta siano state perseguite persone o citate in giudizio in cause sulla base di questa ipotesi scientifica non supportata».

 Il tema di BergamoScienza quest’anno è l’intelligenza. Come si interseca questo tema con quello dei falsi ricordi?

 « A volte le persone mi chiedono: “Ci sono differenze individuali nella suscettibilità di avere o meno un falso ricordo?”. Una delle variabili di differenza individuale che è stata esaminata è il punteggio standard in un test di intelligenza; si è scoperto che le persone con capacità cognitive un po’ più elevate sono un po’ più resistenti a questo tipo di manipolazioni. Ma dico un po’ perché le correlazioni possono essere statisticamente significative, ma non enormi, ed è vero che anche le persone più intelligenti, istruite ed esperte, sono suscettibili alla manipolazione dei ricordi».

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sabato 28 settembre 2024

UN BICCHIERE DI ACQUA


 Dal Vangelo di Marco  - 9,38-48

In quel tempo, Giovanni disse a Gesù: «Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demòni nel tuo nome e volevamo impedirglielo, perché non ci seguiva». Ma Gesù disse: «Non glielo impedite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me: chi non è contro di noi è per noi.

Chiunque, infatti, vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome perché siete di Cristo, in verità io vi dico, non perderà la sua ricompensa.

Chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, è molto meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato nel mare. Se la tua mano ti è motivo di scandalo, tagliala: è meglio per te entrare nella vita con una mano sola, anziché con le due mani andare nella Geènna, nel fuoco inestinguibile. E se il tuo piede ti è motivo di scandalo, taglialo: è meglio per te entrare nella vita con un piede solo, anziché con i due piedi essere gettato nella Geènna. E se il tuo occhio ti è motivo di scandalo, gettalo via: è meglio per te entrare nel regno di Dio con un occhio solo, anziché con due occhi essere gettato nella Geènna, dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue» (Vangelo di Marco 9,38-48).

 

Commento di don Marco Pozza

Niente da fare: proprio non ci arrivano gli apostoli. Proprio non ci arriviamo noi, discendenti diretti dei primi amici del Cristo. Che nessuno venga a dire, poi, che i tempi sono mutati: siamo ancora esattamente «in quel tempo» come ama specificare il vangelo. In quel tempo, cioè nel nostro tempo, dove i discorsi sono gli stessi d’allora, discorsi imbastiti all’ombra del campanile: «Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demoni nel tuo nome e volevamo impedirglielo, perché non ci seguiva». Glielo dicono così sfacciatamente e ingenuamente che ti viene da pensare che lo pensassero per davvero; che, dicendolo, si sarebbero portati a casa il più bell’applauso tra quelli che il Cristo aveva loro sinora riservato. Gli dicono, in parole povere, che scacciare il male cercando di accendere del bene lo possono fare soltanto loro. Perché solamente loro hanno l’autorizzazione ad agire in nome e per conto di Dio, quand’invece «io so e sento che fare del bene è la vera felicità di cui il cuore umano può godere» (J.J. Rousseau). Sono convinti, in parole povere, di essere loro coloro che hanno lo Spirito Santo in tasca. Dio è un affare loro, proprietà privata loro. L’altro è brutto, sporco, cattivo non perchè lo sia veramente ma «perchè non ci seguiva». Detto con linguaggio di parrocchia contemporaneo: “Non è dei nostri, don”. Di quelli che vengono alla messa, in parrocchia, che si smazzano per pulire chiesa, patronato e dintorni.

 Cristo, da parte sua, si sarà imposto (per l’ennesima volta) di non cedere a nessun sconforto: “Testa bassa e pedalare, vecchio!” avrà ridetto chissà quante volte a se stesso nei mille giorni passati in loro compagnia. E prova a fare d’una vigliaccaggine un’occasione di crescita personale: «Non glielo impedite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito dopo possa parlare male di me: chi non è contro di noi è per noi». Anche troppo galantuomo è Cristo con la nostra cafonaggine tipica della messa-prima: “Amici, imparate a non invidiare chi fa del bene: applaudite e poi cercate di fare meglio di loro”. Al cuore del Demonio, Cristo la sa molto bene, non ci sta il male come tutti amano pensare: al cuore di Satana ci sta l’invidia. Ecco perché, anche nei Vangeli, se l’invidia fosse un lavoro, non ci sarebbe mai il problema della disoccupazione. Il fatto è che la loro osservazione (ch’è ancora oggi la nostra di cristiani) nasce da una preoccupazione spicciola: che gli altri portino via a loro il cartello con scritto “Concessionario autorizzato del bene”. La notizia positiva c’è: gli amici di Gesù si rendono conto che fare del bene è bello. La correzione è altrove: questa bella capacità di fare del bene non è solo nostra, ma è di tutti gli uomini e le donne di buona volontà. Tanto che – sembra dire Cristo – qualcuno non ci segue con la spilla dell’oratorio sulla maglietta, ma nel cuore è dei nostri. Pur continuando a viaggiare apparentemente in borghese, da solo, senza tesserarsi in parrocchia.

 La missione continua: non s’interrompe nemmeno dopo questa ennesima defaillance apostolica. Cristo, dopo l’inciampo, rilancia l’andatura: “A voi che siete miei amici – sembra ripetere – spetta il compito di far nascere la curiosità di incontrare Me: con la vostra testimonianza, il vostro modo di vivere curioso, il vostro sorriso sulle labbra”. Poi la richiesta di collaborazione più feroce: “Però vi chiedo, se potete, di lasciarmi la libertà di fare anche quello che voglio io, senza dover sempre chiedere prima il permesso a voi. Io sono Dio, punto: questa cosa qui (sono io Dio e non voi) non scordartela mai”. È così che rinasce nel cuore di Cristo la bella certezza che il mondo – anche se non va ancora a messa – non è brutto, sporco e cattivo: è il mondo. E dentro il mondo c’è una percentuale alta di bontà e di bellezza che non dipende dal tesseramento annuale in parrocchia ma dalla libertà che si prende Dio di andare e venire dove vuole, a piacimento. Rimane un fatto: che la poca fiducia in se stessi, sovente rende assai invidiosi.

 (da Il Sussidiario, 28 settembre 2024)



LA CIVILTA' DELLA VITA

 


Due candidati 

a confronto

 




-         -di Giuseppe Savagnone*

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Ha destato sorpresa e sconcerto, in molti, ciò che papa Francesco ha detto nella conferenza stampa sul volo di ritorno da Singapore, a chi gli chiedeva quale consiglio dare a un elettore cattolico alla vigilia delle elezioni presidenziali negli Stati Uniti: «Non si può decidere. Io non sono statunitense, non andrò a votare lì, ma sia chiaro: ambedue sono contro la vita, sia quello che butta via i migranti sia quello che uccide i bambini».

 E ha aggiunto: «Nella morale politica in genere si dice che non votare è brutto, si deve votare e si deve scegliere il male minore. E qual è il male minore? Quella signora o quel signore? Non so… Ognuno pensi con la propria coscienza».

 Parole che sono suonate dure, soprattutto alle orecchie di tanti – credenti e non credenti – che vedono nello scontro fra Trump e Kamala Harris quello tra un avventuriero senza scrupoli, disponibile a qualunque eccesso –  sia sul piano morale che su quello politico (perfino a un colpo di Stato), – e una persona che rientra pienamente nei quadri del politically correct e promette di restare fedele alla linea “liberal” che è stata di Obama e di Biden.

 Certo, bisogna tenere conto che il giudizio del papa è dato da un punto di vista rigorosamente etico e non pretende di includere una serie di aspetti – come, per esempio, quello economico, particolarmente dibattuto in questa campagna elettorale – che un elettore americano deve pure tenere in conto.

 Ma, anche sotto questi profili, il confronto tra il candidato antidemocratico e quella più vicina ai nostri criteri di civiltà non sembra necessariamente premiare la seconda.

 Secondo un recentissimo sondaggio della CNN, il 50% degli intervistati sostiene che Trump governerebbe l’economia meglio della Harris; soltanto il 39% pensa il contrario, gli altri non si esprimono.

 Senza dire che ultimamente anche la candidata democratica ha avuto delle uscite imbarazzanti per tutti coloro che, da noi, guardano a lei come all’emblema della civiltà.

 Come il severo monito rivolto ai migranti: «Non venite negli Stati Uniti, noi continueremo ad applicare le nostre leggi e a difendere i nostri confini. Se verrete, sarete respinti». O, ultimamente, la risposta data, nel corso di un trasmissione televisiva, a chi le chiedeva se possedesse un’arma: «Certo che posseggo un’arma. Ho una pistola e se qualcuno entra in casa mia, sono pronta a sparare».

 Si tenga conto che negli Stati Uniti il secondo emendamento – uno dei dieci noti nel loro insieme come «Carta dei Diritti degli Stati Uniti d’America» – è espressamente dedicato al «diritto dei cittadini di detenere e portare armi». E che, secondo un recente sondaggio, il 51% degli adulti statunitensi afferma che proteggere il diritto di possedere armi è più importante che controllarne il possesso.

 E che le lobbies che difendono questo diritto, come la «National Rifle Association of America» (NRA), sono potentissime. Tenace eredità di una cultura che si è costruita sugli individui e sulla loro capacità di difendere la loro proprietà.

C’è da stupirsi se una candidata, alla viglia delle elezioni, evidenzia la sua vicinanza alla sensibilità diffusa e ai poteri che la alimentano?

 Lo stesso vale per le politiche migratorie. L’elettorato di Trump non è fatto da pochi fanatici reazionari, ma raccoglie metà degli americani, scontenti e preoccupati per il moltiplicarsi di immigrati che invadono il mercato del lavoro facendo abbassare il livello dei salari.

 Se vuole essere competitiva nei confronti di questi ambienti, Kamala Harris non può seguire una linea politica troppo lontana da quella del suo rivale.

 È vero anche il reciproco. Sul tema dell’aborto Trump – che almeno pubblicamente, aveva assunto una posizione restrittiva, attirandosi la simpatia dei cattolici e di tutti gli antiabortisti – ha ora dichiarato di non volere un bando nazionale di questa pratica e di preferire che siano i singoli Stati a decidere.

 Una scelta evidentemente dettata dalle preferenze di larga parte dell’opinione pubblica americana, ma anche dall’influenza della potente «Planned Parenthood» (“Genitorialità pianificata”), l’organizzazione ramificata in tutto il paese che sostiene le politiche abortiste.

 La sostanziale convergenza sulla guerra di Gaza

Qualcosa del genere si può riscontrare anche sui temi di politica estera. Nella guerra condotta da Israele a Gaza, Trump e i repubblicani sono stati decisamente favorevoli allo Stato ebraico e hanno minimizzato i costi umani spaventosi che le operazioni militari hanno comportato per i palestinesi.

 Apparentemente molto diversa la posizione del democratico Biden e della Harris, che più volte hanno espresso la loro riprovazione per la violazione dei diritti umani da parte dell’esercito di Tel Aviv e che si sono spasmodicamente impegnati, negli ultimi mesi, per un “cessate il fuoco” che facesse cessare i massacri di civili – con un’altissima percentuale di donne e bambini – e permettesse di far fronte alla terribile crisi umanitaria in corso.

 Se si guarda, però, ai fatti, non si può non restare sorpresi per ciò che è accaduto in questi ultimi mesi. Il premer israeliano Netanyahu si è potuto permettere di ignorare o contraddire esplicitamente gli appelli accorati di Biden, facendo sistematicamente l’opposto di ciò che, in alcuni momenti cruciali, questi gli chiedeva per favorire i negoziati di pace.

 Il primo ministro di uno Stato di dieci milioni di abitanti ha irriso, senza neppure curarsi di nasconderlo, le pressioni assillanti del presidente dello Stato più potente del mondo. E continua a farlo estendendo il conflitto, che lo vedeva impegnato prima solo contro Hamas, anche verso il Libano, accentuando enormemente il rischio di quella escalation che Biden sin dall’inizio lo aveva supplicato di evitare.

Non sappiamo come gli storici giudicheranno l’attuale inquilino della Casa Bianca. Una cosa non potranno tacere: che mai come sotto la sua presidenza gli Stati Uniti, un tempo arbitri della politica internazionale, sono apparsi impotenti agli occhi dell’opinione pubblica mondiale.

 Il paradosso, però, è che tutto questo Israele ha potuto farlo solo grazie alle continue e ingenti forniture di armi e alla protezione politico-militare dello Stato che umiliavano. Non si può riversare per dieci mesi – prima solo sulla Striscia, ora anche sul Libano – quasi centomila tonnellate di bombe attingendo solo ai propri arsenali.

 E del resto sono stati dei comunicati ufficiali  e le inchieste della CNN e del New York Times a confermare che il massacro della popolazione civile a Gaza – e ora a che in Libano – è stato effettuato con armi date a Israele dall’America. Proprio mentre Biden insisteva per sospenderlo.

 Assurdo? Solo in apparenza. Ancora una volta si deve tener conto della realtà della società statunitense, dove il potere delle lobbies ebraiche, schierate decisamente dalla parte di Israele, è evidentemente così grande da costringere anche il presidente a subire una umiliazione senza precedenti.

 Il risultato è stato che, in fin dei conti, il democratico Biden ha fatto esattamente ciò che avrebbe fatto, al posto suo, il repubblicano Trump, con la sola differenza che quest’ultimo lo avrebbe detto chiaramente.

 Il sistema funziona, ma …

La verità è che, quale che sia il livello di contrapposizione tra le due bandiere, repubblicani e democratici, anche ai livelli più alti, devono entrambi adeguarsi alla realtà della società americana.

 Personalmente considero Trump il peggio possibile e, se fossi americano, voterei per la Harris. Ma è chiaro che il problema non sono le persone, ma il sistema e la cultura su cui si regge, e che perciò nessuno dei due candidati alla Casa Bianca sarà in grado di cambiare il volto di questa società, ma ne sarà, in modi diversi, lo specchio.

 Recentemente, sul «Corriere della Sera», Aldo Cazzullo sottolineava la complessità e la problematicità della realtà americana, facendo riferimento a un ulteriore elemento problematico, la mancanza di un’assistenza sanitaria pubblica, in piena coerenza con la logica neo-capitalista. Ma concludeva: «È un sistema che ha aspetti terribili, che seleziona e scarta, che considera la salute non un diritto ma un bene da comprare e da vendere, come il cibo e la casa. Ma è un sistema che funziona».

 Sì, il sistema funziona. Ma, al di là degli slogan che lo esaltano come il baluardo della civiltà, al di là delle diverse interpretazioni che i diversi presidenti possono darne, contiene in sé delle logiche di violenza che l’appello alla libertà di Kamala Harris (non a caso polarizzato sul “diritto di aborto”) e le promesse di Trump di gettar fuori gli immigrati si limitano a tradurre in modi diversi ma in ultima istanza corrispondenti.

 Si capiscono le amare parole di papa Francesco. Il modello americano è sicuramente un baluardo che ci difende da forme ancora più perverse di totalitarismo e di oppressione, ma non è la civiltà della vita.

 Non è ad esso che – credenti o no – possiamo guardare come alla risposta alle esigenze umane più profonde di giustizia e di fraternità. Anche a questo livello più complessivo, oltre che nella scelta del futuro presidente, dobbiamo rassegnarci al “male minore”? Lo stesso pontefice non lo sta facendo.

 Lo testimoniano documenti come la «Laudato si’» e la «Fratelli tutti», che non sono affatto piaciuti sull’altra sponda dell’Atlantico e hanno portato molti ambienti americani a finanziare generosamente le spinte contrarie a papa Francesco.

 Pur con tutti i suoi limiti e le sue contraddizioni, con gli abusi sessuali e i compromessi di ogni genere, la Chiesa rimane portatrice di una visione alternativa, di cui tutti gli uomini e le donne scontenti delle logiche dell’individualismo possessivo sono chiamati a farsi sostenitori (anche dall’interno degli stessi Stati Uniti).

 Non possiamo accettare di dovere scegliere tra Putin o Xi Jinping e il neocapitalismo.

 La “terza via” proposta dalla Chiesa cattolica nel suo insegnamento sociale a molti può apparire un’utopia, ma rimane una prospettiva di speranza, per chi pensa valga la pena di lavorare alla costruzione di un’alternativa finalmente umana.

 *Scrittore ed editorialista. Pastorale delle Cultura – Arcidiocesi di Palermo

www.tuttavia.eu



venerdì 27 settembre 2024

UNA CONDOTTA BUONA

Voto in condotta, 

una legge nuova 

per una pedagogia vecchia

 

Torna il voto in condotta (e la bocciatura con il sei) dalla secondaria di primo grado. Gli studenti sospesi dovranno fare attività di cittadinanza solidale. 

Ma esattamente, i docenti sanno cosa valutare quando valutano la condotta? Davvero ha senso il volontariato obbligatorio?

 E se la scuola invece usasse di più il service learning? 

In dialogo con il pedagogista Italo Fiorin

-

-di Rossana Certini

 

La legge in materia di valutazione degli studenti, tutela dell’autorevolezza del personale scolastico e indirizzi scolastici è stata approvata in via definitiva dalla Camera dei deputati. Grazie a 154 voti a favore, 97 contrari e 7 astenuti nelle scuole italiane torna il voto in condotta per gli studenti delle scuole secondarie di primo grado; si introduce l’attività di cittadinanza solidale per chi viene sospeso e si prevedono multe per aggressioni al personale scolastico.

La “buona condotta”

«La legge approvata dal Parlamento rappresenta un passaggio fondamentale per la costruzione di un sistema scolastico che responsabilizzi i ragazzi e restituisca autorevolezza ai docenti», ha commentato il ministro dell’istruzione Giuseppe Valditara.

Parole all’apparenza condivisibili, quelle del ministro: del resto educare vuol dire proprio accompagnare i ragazzi verso la loro maturità intellettuale e morale. E cosa c’è di meglio che aiutarli a diventare adulti responsabili? Per non parlare del versante docenti, categoria sempre più privata della sua autorevolezza: chi non vorrebbe restituirgliela? Se, però, ci si sposta dal piano delle parole a quello dei fatti viene spontaneo chiedersi se la responsabilità può essere figlia delle sanzioni e l’autorevolezza dell’autorità.

«Un atteggiamento autoritario e repressivo è non solo inutile, ma anche dannoso», spiega Italo Fiorin, pedagogista che presiede la Scuola di alta formazione Educare alla solidarietà e all’incontro – Eis della Lumsa di Roma. Ha anche coordinato la commissione che ha lavorato alla stesura delle Indicazioni nazionali, ora in revisione all’insegna del concetto di patria. «I ragazzi, anche quelli che sono capaci di mettere in difficoltà la scuola, hanno bisogno di essere accolti, ascoltati e di ricevere delle proposte costruttive. Se pensiamo ad alcune figure significative del passato come san Filippo Neri, con i suoi oratori o don Bosco, con la sua attenzione agli ultimi oppure Giovanni Battista Piamarta, che ha offerto una prospettiva ai ragazzi di strada avviandoli al lavoro, ci accorgiamo che, pur essendo figure molto diverse tra loro, hanno in comune un approccio fatto di accoglienza, di ascolto e di creatività. Hanno saputo immaginare per i ragazzi delle cose nuove che prima non c’erano».

Leggendo la legge, invece, si ha l’impressione che di nuovo ci sia solo il ritorno a una pedagogia autoritaria e punitiva che usa come deterrenti il timore della bocciatura, della punizione o del voto in condotta. Ma esattamente cos’è la buona condotta?

Agire per il bene

«Prima di parlare di voto in condotta», prosegue Fiorin, «dovremmo chiederci cosa intendiamo per buona condotta. «Spesso si scambia per “buona condotta” quella dell’alunno che non disturba, che non interviene, che ripete in maniera speculare le parole che l’insegnante pronuncia. Io, invece, credo che il concetto di buona condotta dovrebbe essere quello di “agire per il bene”».

Spesso si scambia per “buona condotta” quella dell’alunno che non disturba, che non interviene, che ripete in maniera speculare le parole che l’insegnante pronuncia. Io, invece, credo che il concetto di buona condotta dovrebbe essere quello di “agire per il bene”

E prosegue: «dovremmo proporre ai ragazzi progetti capaci di collegare strettamente il servizio all’apprendimento in una sola attività educativa articolata e coerente. I progetti di Service learning, per esempio, uniscono attività di cittadinanza, azioni solidali e volontariato per la comunità all’acquisizione di competenze sociali, professionali e didattiche. I ragazzi che vengono coinvolti in questo tipo di progetti sono capaci di avere un buon comportamento, conoscono il rispetto e la solidarietà. Questi ragazzi imparano una virtù di tipo attivo che li porta ad agire bene. Una condizione completamente diversa rispetto a quella data dalla minaccia di una norma, che magari non condividono, ma che rispettano perché, tutto sommato, è utile per ottenere un voto. La vera buona condotta deve nascere dal desiderio di fare qualcosa di positivo e costruttivo per la società e l’ambiente».

La pedagogia del Service learning

La metodologia didattica del Service learning, di cui Fiorin è uno dei maggiori esperti in Italia, vede gli studenti protagonisti in tutte le fasi del progetto, dalla rilevazione dei bisogni, alla progettazione degli interventi, alle azioni messe in campo, alla valutazione degli esiti.

«A Bergamo, in un istituto di istruzione superiore, gli studenti si sono interrogati su cosa fanno i ragazzi migranti nei centri di accoglienza», racconta Fiorin, «e dal bisogno di rispondere a questa domanda è nato un progetto che ha consentito ai ragazzi migranti di entrare a scuola, imparare le tecniche fotografiche e grafiche insieme agli studenti bergamaschi. In questo scambio di conoscenze, relazione e racconto, grazie alle competenze acquisite tra i banchi di scuola, i ragazzi hanno progettato e realizzato degli album che raccontano le storie dei loro amici migranti. Un altro esempio è quello di un istituto alberghiero pugliese dove gli studenti si sono interrogati sullo spreco alimentare. Sono così entrati in contatto con la grande distribuzione, hanno raccolto gli scarti e li hanno trasformati ogni giorno in un menu diverso. Ne è nata una mensa sociale gestita dai ragazzi e aperta a chi ne ha bisogno. Il Service lerning è una proposta pedagogica che educa i giovani a quello che papa Francesco definirebbe amore sociale, che li aiuta a diventare cittadini attivi. Li apre alla dimensione del volontariato».

Il mettersi al servizio non conosce imperativo

Nella nuova legge, invece, le attività di cittadinanza solidale sono un obbligo che sono tenuti a svolgere i ragazzi che ricevono un provvedimento disciplinare: più di due giorni di sospensione. Vero è che “più scuola” per questi ragazzi è meglio di “meno scuola” e che la sospensione oggi come oggi in molte situazioni rischia di essere percepita più come un premio o un favore che come una punizione o una perdita.

«Non sono convinto che questo approccio possa sortire dei risultati a lungo termine», sottolinea Fiorin: «Daniel Pennac scrive in un suo libro che il verbo leggere non conosce l’imperativo. Cioè, non puoi dire a una persona “devi leggere”, devi generare in lei il piacere di leggere. La passione per la lettura porta le persone a leggere. Possiamo dire la stessa cosa del verbo “servire”. Mettersi al servizio non conosce imperativo. Solo se sei uno schiavo conosci l’imperativo. Una persona non può essere messa nelle condizioni di fare obbligatoriamente del bene. Dal punto di vista dell’efficacia educativa l’imposizione di “fare del bene” è controproducente. Se una persona deve ingoiare, come una medicina amara, una buona azione, presto, la cosa che gli verrà più spontanea fare sarà di disfarsi quanto prima di quella buona azione. Invece, se una persona viene resa responsabile in maniera motivata e protagonista di un’impresa che sente come importante e condivisa insieme ai suoi compagni allora cambierà la sua prospettiva».

Pennac ci ha ricordato che non puoi dire a una persona “devi leggere”, ma devi generare in lei il piacere di leggere. Possiamo dire la stessa cosa del verbo “servire”. Mettersi al servizio non conosce imperativo. Dal punto di vista dell’efficacia educativa, l’imposizione di “fare del bene” è controproducente.

Incontrare la realtà

Infine, spiega Fiorin: «la scuola deve proporre l’incontro con la realtà, con le persone migranti o senza fissa dimora oppure con gli anziani soli, ma deve essere una proposta alla classe. Deve saper costruire dei patti educativi, quindi un’alleanza con le realtà del volontariato del territorio, capace di mettere in relazione gli studenti con gli adulti che in queste associazioni operano per fare dei progetti curricolari e utili all’apprendimento».

 Immagine: Studenti di una scuola Montessori impegnati in una attività (foto di Milena Piscozzo)

 

VITA

 

RISCOPRIRE IL CUM


 Dionigi: 

riscopriamo 

con il linguaggio

 la bellezza del “cum”

 

 


Il latinista invita a una purificazione delle parole. 

«Oggi sono social, che è il contrario di sociale. 

Viviamo nell’isolamento, soprattutto i giovani, 

che vanno affascinati

 -         di Gianni Santamaria

-          

Prosegue con l'intervista a Ivano Dionigi il dibattito su cattolicesimo e cultura, avviato da PierAngelo Sequeri e Roberto Righetto. Sono intervenuti Gabriel, Forte, Petrosino, Ossola, Spadaro, Giaccardi, Lorizio, Massironi, Giovagnoli, Santerini, Cosentino, Zanchi, Possenti, Alici, Ornaghi, Rondoni, Esposito, Sabatini, Cacciari, Nembrini, Gabellini, Vigini, Timossi, Colombo, De Simone, Arnone, Bruni e Postorino.

«Dobbiamo riscoprire le parole con il “cum”. Comunicare, che per noi vuol dire altro, viene da cum-munus, è “mettere in comune i doni”, cum-testari, contestare, non è andare in giro con i cartelli a fare casino, ma è “testimoniare insieme”, cum-petere, competere, non è usare i muscoli, ma “andare tutti insieme nella stessa direzione”. Abbiamo stuprato il linguaggio». Ivano Dionigi, docente emerito di Letteratura latina dell’Università di Bologna, di cui è stato rettore, in questi anni ha rivolto la sua passione educativa soprattutto ai giovani. Che sono, come emerso dal dibattito innescato su queste pagine da Pierangelo Sequeri e Roberto Righetto, gli attori principali a cui guardare per un nuovo rapporto tra cattolici e cultura contemporanea. «Quando vado in giro, parlo delle parole che sono la cosa più concreta del mondo», dice il filologo classico. Parole che oggi sui social sono degradate a fake news, contro le quali la scuola deve fornire «non una cassetta, ma un’intera officina di attrezzi».

Per citare Isaia, come lei ha fatto di recente incontrando 500 laureati magistrali a Bergamo, «a che punto è la notte»? Quali sono le principali sfide che la cultura odierna pone al pensiero credente?

«Assistiamo all’eclissi delle grandi visioni, socialista, liberale e cattolica, per cui manca un orizzonte. Queste visioni camminavano sulle gambe di istituzioni come famiglia, Chiesa e partiti, che - quando ci sono - oggi sono fragili e in affanno. Il risultato è l’immanenza nel presente, siamo all’ossessione dell’uno e del medesimo. Non c’è la memoria del passato, né una prospettiva futura. E c’è un triplice deficit di alterità».

In cosa consiste?

«Il primo deficit è quello della comunità. Come ha scritto il filosofo Roberto Esposito siamo tutti preoccupati dell’immunità e poco della comunità. Parole anche etimologicamente opposte. Cum-munus vuol dire condividere con gli altri la propria identità, il proprio dono, avere un destino comune. In questo il Covid ha creato una cesura. C’è una grande solitudine, anche se oggi le parole sono social: con la caduta di un solo fonema si dice il contrario di “sociale”. Le parole “confinamento” e “distanziamento sociale” sono gas nervino. Si pensi ai danni dello smart working e della “didattica a distanza”. La solitudine, come diceva il cardinal Martini, ha un valore positivo, ma qui siamo all’isolamento, che è una pessima cosa. Secondo deficit è quello che accennavo: manca la dimensione del tempo, che riconduce alla memoria dei trapassati e al progetto dei nascituri. Va recuperata la memoria. Per cui bisogna capire il dentro e la profondità delle cose, intus-legere».

Il terzo deficit?

«Riguarda l’oltre, sia esso laico-razionale o cristiano-spirituale. Bisognerebbe semplicemente annunciare il Vangelo, la Risurrezione. Da quando non sono più all’Università ho incontrato circa 20mila giovani in 100 scuole superiori. Non ce n’è uno che sia contento della propria vita. La crisi oggi è economica perché è politica, è politica perché è culturale, è culturale perché è spirituale».

Questa è la diagnosi, quale la cura?

«La traversata di questo deserto spirituale è lunga. Va riscoperto il valore dei piccoli gruppi, quelli che Achille Ardigò chiamava i “nuclei vitali”. Va ricostruito un lessico fondamentale della comunità, della politica, a partire dal basso, perché la salvezza non è calata dall’alto. Serve poi che gli intellettuali, che stanno sparendo, facciano il loro dovere. A differenza dei politici, che badano al consenso, e ai capitani d’industria, che badano ai bilanci, non possono fare i notai: dicano come deve andare il mondo. I giovani li muovi con la testimonianza».

Uno dei compiti culturali urgenti. Come intercettare le loro domande di senso?

«Vanno resi protagonisti. Non basta dare dei messaggi sul senso della vita. Con il cardinale Ravasi e lo psichiatra Lingiardi abbiamo realizzato, insieme a 800 studenti di tutta l’Emilia-Romagna, degli incontri sul tema dell’identità, a partire dalla domanda di Agostino Tu quis es?, “Tu chi sei?”. Ravasi è rimasto colpito dal fatto che, durante gli interventi, non ha squillato un cellulare e nessun ragazzo ne aveva uno in mano. Erano sedotti. Bisogna parlare con loro e di loro. Cercare insieme una strada, fidarsi di loro e responsabilizzarli. Una volta, nella pausa di un incontro di orientamento alla scelta del liceo, una ragazzina di 13 anni mi ha avvicinato per farmi vedere sul cellulare la “faccia” del suo fidanzatino. Allora ho lasciato il mio discorso e ho parlato della differenza tra “faccia” e “volto”. Ho detto che oggi viviamo in un’epoca di facce, di maschere. Mentre “volto” viene dal latino volvere, cambiare. Cos’è che ci dice il dolore o la gioia, la bellezza o la bruttezza, la faccia o il volto? Successivamente, e per me è stata un’agnizione, ho trovato che l’aveva già detto Isidoro di Siviglia.

Uno che è vissuto tra VI e VII secolo. Ma il fenomeno attuale che pone molti interrogativi etici, come ha di recente sottolineato papa Francesco, è l’ “intelligenza artificiale”. Come non farsene fagocitare?

«Ho davanti a me un libro di Reid Hoffman (cofondatore di LinkedIn, ndr), scritto a quattro mani con ChatGpt4. È il mondo verso cui andiamo, guai a essere luddisti. Abbiamo fatto cittadino l’uomo agricolo, poi quello industriale, quello elettronico adesso dobbiamo fare cittadino l’uomo dell’intelligenza artificiale. Sia benvenuta, se produce più libertà e più giustizia. La mia paura è che creeremo macchine che ridurranno l’umanità a un gregge. Dobbiamo perciò tenere il pallino della tecnologia, che è parola bellissima, composta da tèchnel’ars latina, e logos. Ma sarà tecnologia o tecnocrazia? A prevalere sarà Prometeo o il fratello Epimeteo, quello che ha aperto il vaso di Pandora. Uno è pro, prima, l’altro epì, dopo, quello che ritarda. Infine, chi stabilirà il bonum comune?».

Lei ha intitolato un suo fortunato saggio Benedetta parola. C’è una dimensione religiosa della parola, comune tra cattolici e laici?

«A ispirarmi è stata la Lettera di Giacomo. L’uomo è parola, diceva Aristotele. Don Milani nella lettera a Bernabei del 1956 dice che chiama uomo chi è padrone della parola. È il punto d’incontro di tutti. Anni fa in un colloquio con l’arcivescovo Lorefice ho detto che abbiamo bisogno di una “Pentecoste laica”. Con il rispetto dobbiamo capire la parola di ciascuno. Tucidide dice di aver capito lo scoppio della guerra del Peloponneso, perché “avevano cambiato il significato delle parole”. Oggi se ci fosse la parola della politica non ci sarebbe la guerra».

 

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giovedì 26 settembre 2024

DAL VERO UOMO ALL'UOMO VERO

Per i ragazzi occorre un’educazione emotiva al rispetto dell’altro



La capacità di costruire relazioni sane, rispettose e solide cresce

 sin dall’infanzia. E riguarda i maschi come le femmine.

I ragazzi vanno educati a una nuova competenza emotiva per liberarli dal mito del controllo e del possesso, che deforma i rapporti con l’altro sesso. 

Un viaggio da fare insieme.

 

-       -   di ALBERTO PELLAI

Anticipiamo l’intervento dello psicoterapeuta Alberto Pellai nella giornata di lancio del progetto «Pari. Insieme contro la violenza di genere», venerdì a Milano al Centro culturale Base (dalle 9.30 alle 13.30). Con altre voci di differente ispirazione (tra loro Ester Viola e Telmo Pievani) si rifletterà su come “fare cultura”, avviando un progetto che nasce da un network di aziende con l’obiettivo di agire nella società e nelle imprese.

Noi esseri umani siamo nati con una mente affamata di relazionalità. Nel film Cast Away Tom Hanks, unico sopravvissuto in un incidente aereo, approda su un’isola deserta e deve imparare a sopravvivere. Prima di allora non aveva mai dovuto procurarsi il cibo, l’acqua o un riparo dalle intemperie. Nella sua vita tutto era garantito. Quando riesce a portare a termine questi obiettivi primari, e quindi quando la sopravvivenza non è più un problema, sente che gli manca qualcosa di fondamentale: una persona con cui relazionarsi. Ma l’isola è deserta e quindi non c’è nessuno. Per tamponare la disperazione, costruisce un pupazzo con un pallone riportato a riva dalla marea. Disegna un volto su quel pallone e lo umanizza: è così che nasce Wilson, il suo compagno di vita durante l’esperienza di uomo condannato alla solitudine da un incidente imprevedibile.

Questa immagine di uomo solo e disperato che, pur di relazionarsi con un “altro da sé”, umanizza un pallone da calcio è una metafora potentissima, che racconta in modo formidabile il bisogno di prossimità e intimità, di contatto e dialogo tipico degli esseri umani. La relazione amorosa rappresenta l’esperienza che nella vita più risponde ai nostri bisogni di prossimità e intimità, contatto e dialogo. La violenza di genere ci testimonia però che noi esseri umani siamo anche in grado di trasformare questo “bisogno” in sopraffazione, violenza, sottomissione, annullamento dell’altro. L’emergenza sociale associata a questo fenomeno ci ha spinto negli ultimi anni a promuovere un’azione educativa e preventiva finalizzata al suo sradicamento. Compito che a oggi appare difficile da raggiungere visto che i casi di cronaca ritornano con una periodicità costante e urgente. Nell’ampio dibattito intorno all’educazione di genere, e nelle azioni intraprese sempre più frequentemente a scopo educativo e preventivo in questo ambito, emerge oggi molto forte il bisogno di aiutare le ragazze e le donne a riconoscere e ad allontanarsi il più presto possibile dal partner affettivo che potrebbe incastrarle in una relazione manipolatoria e violenta. Si fa anche grande attenzione ad aiutarle a riconoscere i fattori di rischio, i campanelli di allarme e le situazioni “ trigger” che trasformano una relazione in cui ci si dovrebbe sentire amati in una gabbia dove si è intrappolati, resi dipendenti, violati sia emotivamente sia fisicamente.

È una narrazione necessaria, ma che spesso costringe i due generi – maschile e femminile – a considerarsi collocati su due fronti opposti: da una parte il genere femminile, che è a rischio e vulnerabile alla vittimizzazione, e dall’altra il genere maschile, che è aggressivo e predisposto alla violenza. È evidente che, quando la violenza accade, quando l’uomo che aggredisce rende vittima la donna, hanno agito tutti gli aspetti della mascolinità tossica e della cultura patriarcale, portando al fallimento di qualsiasi strategia educativa e preventiva efficace. Come uomo, compagno di vita di una donna, padre e specialista della salute mentale, io penso che l’educazione di genere oggi debba dare spazio anche a un altro aspetto: insegnare ai giovani maschi una nuova consapevolezza emotiva che permetta loro di sperimentarsi in un percorso di formazione e di crescita tale da aiutarli ad allontanarsi dal mito del “vero uomo” per permettere loro di addentrarsi alla scoperta “dell’uomo vero”. Questo processo deve contrassegnare tutto il percorso evolutivo del ragazzo, perché possa essere al centro della sua futura vita di uomo adulto. È un approccio molto diverso da quello che insegna a non agire con violenza in una relazione o all’interno di un rapporto, perché prevede di aiutare i maschi a considerare, nelle relazioni con ragazze e donne, e in generale con un/una partner affettivo/a, la bellezza di costruire vicinanza e prossimità, intimità e sicurezza. C iò che spesso fa esplodere la violenza di genere è il bisogno di “possedere” l’altro, presidiandone fermamente il controllo. Nel percorso di educazione oggi necessario si deve proporre ai ragazzi la bellezza e l’importanza di lavorare su di sé, sul proprio gruppo di riferimento, e più in generale su tutto l’universo maschile affinché ogni bambino che diventerà adolescente e poi uomo possa formarsi alla scoperta del valore e delle competenze emotive e cognitive necessarie a sentirsi appartenenti a una relazione, così da generare e condividere un’intimità sana con “l’altro da me”. In questa dimensione il controllo perde di significato, perché la formazione esistenziale e affettiva si basa sulla fiducia e sul rispetto della capacità di entrambi i componenti di una coppia.

Non penso sia possibile per noi uomini e padri fare tutto questo da soli. Questa sfida, educativa e culturale al tempo stesso, deve essere affrontata facendo squadra. Tra noi maschi, ma anche e soprattutto con le ragazze e le donne che vivono al nostro fianco. Il rischio, altrimenti, è quello di diventare tutti come Tom Hanks sull’isola deserta: ce la raccontiamo, ma stiamo in realtà parlando senza avere un vero interlocutore con cui confrontarci, generare ascolto e condivisione. 

In questo percorso è fondamentale imparare a costruire una nuova alleanza tra genere maschile e femminile che permetta a entrambi di trovarsi coinvolti a vivere relazioni efficaci e rispettose, dignitose e reciprocamente arricchenti, in cui il valore e la bellezza della parità e della reciprocità diventino prerequisiti desiderati e ricercati – con uguale passione e sforzo, consapevolezza e determinazione – da entrambi i membri della coppia. Non siamo nati per stare soli. L’altro ci permette di dare compimento alla nostra dimensione umana più complessa e profonda, quella che si basa sulla relazione, sulla cooperazione e sulla condivisione.

 L’ amore in fondo nasce proprio da questo: è più bello condividere in due un tratto di vita, o addirittura tutta l’esistenza, con ciò che ci sa offrire. Stare in relazione con “l’altro” non è facile. Richiede competenze emotive, socio-relazionali, cognitive. Comporta la capacità di far fruttare al meglio le due menti insite in ogni individuo e che Howad Gardner ha definito «mente intrapersonale» e «mente interpersonale». La prima aiuta a conoscere noi stessi e si basa sul dialogo interiore, sulla messa a punto di un vero sé nel corso della propria esistenza. Questo sé si confronterà e verrà condiviso con chi avremo accanto nella vita, per caso o per nostra scelta. E grazie alle competenze della nostra mente interpersonale sperimenteremo la bellezza del fare squadra, coppia e famiglia (con le molteplici declinazioni che oggi tale termine comprende). Tutto questo non ha genere. Ci appartiene in quanto esseri umani. E lo dobbiamo apprendere quando siamo in crescita, per poi metterlo in pratica una volta diventati adulti. 

Questo è un percorso che noi esseri umani del terzo millennio dobbiamo imparare a fare, senza distinzioni di genere. E che deve essere messo al centro del sostegno alla crescita che va reso disponibile a ogni bambino e bambina del terzo millennio, accompagnandone la crescita e lo sviluppo fino al raggiungimento dell’adultità.  

La bellezza del “fare squadra”, coppia e famiglia si impara durante tutto il percorso di crescita, e non contempla distinzioni: ci appartiene in quanto esseri umani.

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