Due
candidati
a confronto
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-di Giuseppe Savagnone*
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Ha
destato sorpresa e sconcerto, in molti, ciò che papa Francesco ha detto nella
conferenza stampa sul volo di ritorno da Singapore, a chi gli chiedeva quale
consiglio dare a un elettore cattolico alla vigilia delle elezioni
presidenziali negli Stati Uniti: «Non si può decidere. Io non sono
statunitense, non andrò a votare lì, ma sia chiaro: ambedue sono contro la
vita, sia quello che butta via i migranti sia quello che uccide i bambini».
E
ha aggiunto: «Nella morale politica in genere si dice che non votare è brutto,
si deve votare e si deve scegliere il male minore. E qual è il male minore?
Quella signora o quel signore? Non so… Ognuno pensi con la propria coscienza».
Parole
che sono suonate dure, soprattutto alle orecchie di tanti – credenti e non
credenti – che vedono nello scontro fra Trump e Kamala Harris quello tra un
avventuriero senza scrupoli, disponibile a qualunque eccesso – sia sul piano morale che su quello politico
(perfino a un colpo di Stato), – e una persona che rientra pienamente nei
quadri del politically correct e promette di restare fedele alla linea
“liberal” che è stata di Obama e di Biden.
Certo,
bisogna tenere conto che il giudizio del papa è dato da un punto di vista
rigorosamente etico e non pretende di includere una serie di aspetti – come,
per esempio, quello economico, particolarmente dibattuto in questa campagna
elettorale – che un elettore americano deve pure tenere in conto.
Ma,
anche sotto questi profili, il confronto tra il candidato antidemocratico e
quella più vicina ai nostri criteri di civiltà non sembra necessariamente
premiare la seconda.
Secondo
un recentissimo sondaggio della CNN, il 50% degli intervistati sostiene che
Trump governerebbe l’economia meglio della Harris; soltanto il 39% pensa il
contrario, gli altri non si esprimono.
Senza
dire che ultimamente anche la candidata democratica ha avuto delle uscite
imbarazzanti per tutti coloro che, da noi, guardano a lei come all’emblema
della civiltà.
Come
il severo monito rivolto ai migranti: «Non venite negli Stati Uniti, noi
continueremo ad applicare le nostre leggi e a difendere i nostri confini. Se
verrete, sarete respinti». O, ultimamente, la risposta data, nel corso di un
trasmissione televisiva, a chi le chiedeva se possedesse un’arma: «Certo che
posseggo un’arma. Ho una pistola e se qualcuno entra in casa mia, sono pronta a
sparare».
Si
tenga conto che negli Stati Uniti il secondo emendamento – uno dei dieci noti
nel loro insieme come «Carta dei Diritti degli Stati Uniti d’America» – è
espressamente dedicato al «diritto dei cittadini di detenere e portare armi». E
che, secondo un recente sondaggio, il 51% degli adulti statunitensi afferma che
proteggere il diritto di possedere armi è più importante che controllarne il
possesso.
E
che le lobbies che difendono questo diritto, come la «National Rifle
Association of America» (NRA), sono potentissime. Tenace eredità di una cultura
che si è costruita sugli individui e sulla loro capacità di difendere la loro
proprietà.
C’è
da stupirsi se una candidata, alla viglia delle elezioni, evidenzia la sua
vicinanza alla sensibilità diffusa e ai poteri che la alimentano?
Lo
stesso vale per le politiche migratorie. L’elettorato di Trump non è fatto da
pochi fanatici reazionari, ma raccoglie metà degli americani, scontenti e
preoccupati per il moltiplicarsi di immigrati che invadono il mercato del
lavoro facendo abbassare il livello dei salari.
Se
vuole essere competitiva nei confronti di questi ambienti, Kamala Harris non
può seguire una linea politica troppo lontana da quella del suo rivale.
È
vero anche il reciproco. Sul tema dell’aborto Trump – che almeno pubblicamente,
aveva assunto una posizione restrittiva, attirandosi la simpatia dei cattolici
e di tutti gli antiabortisti – ha ora dichiarato di non volere un bando
nazionale di questa pratica e di preferire che siano i singoli Stati a
decidere.
Una
scelta evidentemente dettata dalle preferenze di larga parte dell’opinione
pubblica americana, ma anche dall’influenza della potente «Planned Parenthood»
(“Genitorialità pianificata”), l’organizzazione ramificata in tutto il paese
che sostiene le politiche abortiste.
La
sostanziale convergenza sulla guerra di Gaza
Qualcosa
del genere si può riscontrare anche sui temi di politica estera. Nella guerra
condotta da Israele a Gaza, Trump e i repubblicani sono stati decisamente
favorevoli allo Stato ebraico e hanno minimizzato i costi umani spaventosi che
le operazioni militari hanno comportato per i palestinesi.
Apparentemente
molto diversa la posizione del democratico Biden e della Harris, che più volte
hanno espresso la loro riprovazione per la violazione dei diritti umani da
parte dell’esercito di Tel Aviv e che si sono spasmodicamente impegnati, negli
ultimi mesi, per un “cessate il fuoco” che facesse cessare i massacri di civili
– con un’altissima percentuale di donne e bambini – e permettesse di far fronte
alla terribile crisi umanitaria in corso.
Se
si guarda, però, ai fatti, non si può non restare sorpresi per ciò che è
accaduto in questi ultimi mesi. Il premer israeliano Netanyahu si è potuto
permettere di ignorare o contraddire esplicitamente gli appelli accorati di
Biden, facendo sistematicamente l’opposto di ciò che, in alcuni momenti
cruciali, questi gli chiedeva per favorire i negoziati di pace.
Il
primo ministro di uno Stato di dieci milioni di abitanti ha irriso, senza
neppure curarsi di nasconderlo, le pressioni assillanti del presidente dello
Stato più potente del mondo. E continua a farlo estendendo il conflitto, che lo
vedeva impegnato prima solo contro Hamas, anche verso il Libano, accentuando
enormemente il rischio di quella escalation che Biden sin dall’inizio lo aveva
supplicato di evitare.
Non
sappiamo come gli storici giudicheranno l’attuale inquilino della Casa Bianca.
Una cosa non potranno tacere: che mai come sotto la sua presidenza gli Stati
Uniti, un tempo arbitri della politica internazionale, sono apparsi impotenti
agli occhi dell’opinione pubblica mondiale.
Il
paradosso, però, è che tutto questo Israele ha potuto farlo solo grazie alle
continue e ingenti forniture di armi e alla protezione politico-militare dello
Stato che umiliavano. Non si può riversare per dieci mesi – prima solo sulla
Striscia, ora anche sul Libano – quasi centomila tonnellate di bombe attingendo
solo ai propri arsenali.
E
del resto sono stati dei comunicati ufficiali
e le inchieste della CNN e del New York Times a confermare che il
massacro della popolazione civile a Gaza – e ora a che in Libano – è stato
effettuato con armi date a Israele dall’America. Proprio mentre Biden insisteva
per sospenderlo.
Assurdo?
Solo in apparenza. Ancora una volta si deve tener conto della realtà della
società statunitense, dove il potere delle lobbies ebraiche, schierate
decisamente dalla parte di Israele, è evidentemente così grande da costringere
anche il presidente a subire una umiliazione senza precedenti.
Il
risultato è stato che, in fin dei conti, il democratico Biden ha fatto
esattamente ciò che avrebbe fatto, al posto suo, il repubblicano Trump, con la
sola differenza che quest’ultimo lo avrebbe detto chiaramente.
Il
sistema funziona, ma …
La
verità è che, quale che sia il livello di contrapposizione tra le due bandiere,
repubblicani e democratici, anche ai livelli più alti, devono entrambi
adeguarsi alla realtà della società americana.
Personalmente
considero Trump il peggio possibile e, se fossi americano, voterei per la
Harris. Ma è chiaro che il problema non sono le persone, ma il sistema e la
cultura su cui si regge, e che perciò nessuno dei due candidati alla Casa
Bianca sarà in grado di cambiare il volto di questa società, ma ne sarà, in
modi diversi, lo specchio.
Recentemente,
sul «Corriere della Sera», Aldo Cazzullo sottolineava la complessità e la
problematicità della realtà americana, facendo riferimento a un ulteriore
elemento problematico, la mancanza di un’assistenza sanitaria pubblica, in
piena coerenza con la logica neo-capitalista. Ma concludeva: «È un sistema che
ha aspetti terribili, che seleziona e scarta, che considera la salute non un
diritto ma un bene da comprare e da vendere, come il cibo e la casa. Ma è un
sistema che funziona».
Sì,
il sistema funziona. Ma, al di là degli slogan che lo esaltano come il baluardo
della civiltà, al di là delle diverse interpretazioni che i diversi presidenti
possono darne, contiene in sé delle logiche di violenza che l’appello alla
libertà di Kamala Harris (non a caso polarizzato sul “diritto di aborto”) e le
promesse di Trump di gettar fuori gli immigrati si limitano a tradurre in modi
diversi ma in ultima istanza corrispondenti.
Si
capiscono le amare parole di papa Francesco. Il modello americano è sicuramente
un baluardo che ci difende da forme ancora più perverse di totalitarismo e di
oppressione, ma non è la civiltà della vita.
Non
è ad esso che – credenti o no – possiamo guardare come alla risposta alle
esigenze umane più profonde di giustizia e di fraternità. Anche a questo
livello più complessivo, oltre che nella scelta del futuro presidente, dobbiamo
rassegnarci al “male minore”? Lo stesso pontefice non lo sta facendo.
Lo
testimoniano documenti come la «Laudato si’» e la «Fratelli tutti», che non
sono affatto piaciuti sull’altra sponda dell’Atlantico e hanno portato molti
ambienti americani a finanziare generosamente le spinte contrarie a papa
Francesco.
Pur
con tutti i suoi limiti e le sue contraddizioni, con gli abusi sessuali e i
compromessi di ogni genere, la Chiesa rimane portatrice di una visione
alternativa, di cui tutti gli uomini e le donne scontenti delle logiche
dell’individualismo possessivo sono chiamati a farsi sostenitori (anche
dall’interno degli stessi Stati Uniti).
Non
possiamo accettare di dovere scegliere tra Putin o Xi Jinping e il
neocapitalismo.
La
“terza via” proposta dalla Chiesa cattolica nel suo insegnamento sociale a
molti può apparire un’utopia, ma rimane una prospettiva di speranza, per chi
pensa valga la pena di lavorare alla costruzione di un’alternativa finalmente
umana.
*Scrittore
ed editorialista. Pastorale delle Cultura – Arcidiocesi di Palermo
www.tuttavia.eu