L’amore vero
salva dagli abusi
- di Emanuela
Vinai
«E
questo mi induce a interrogarmi sulle emanazioni del corpo rappresentate dalla
figura, dall’andatura, dalla voce, dal sorriso, dalla calligrafia, dalla
gestualità, dalla mimica, uniche tracce lasciate nella nostra memoria da coloro
che abbiamo davvero guardato». Quanta verità in questo passaggio di «Storia di
un corpo» di Daniel Pennac. L’amore si riconosce da quel che si nota, e resta
impresso, dell’essere amato, nella sua totalità: nel suo muoversi nel mondo,
nei suoi atteggiamenti, nella luce dello sguardo, in quei piccoli difetti che
diventano le perfette imperfezioni, in quella indivisibile unità tra il corpo
nella sua fisicità e chi quel corpo lo fa vivere. Se è così, quanto può essere
riduttivo, limitante, ristretto, un (ab)uso del corpo, considerato come
disgiunto dalla persona?
Il
tema della corporeità e dell’affettività, soprattutto quando parliamo di
giovani e ai giovani, è qualcosa che deve interpellarci nel saper trovare
parole nuove, con radici antiche, che raccontino della bellezza di una
relazione sana, improntata sul rispetto reciproco e sull’importanza,
necessaria, di scoprire i limiti della persona. Quando parliamo dell’esperienza
dell’affettività, facciamo riferimento a una dimensione relazionale cui va
riservata un’attenzione speciale, uno spazio prezioso che occorre costruire,
coltivare, custodire. L’apporto educativo della tutela dei minori passa anche
attraverso l’educazione a un corpo che sia soggetto e non oggetto, a
un’esperienza serena dell’affettività.
Oggi
il pensiero dominante, spinto da una certa pubblicistica che troppo spesso
propone modelli di guadagno facile connessi alla svendita del corpo, è quello
che si lega alla soggettività assoluta, in cui l’imperativo è la centratura su
sé stessi e sul soddisfacimento dei propri desideri, senza dare valore e
riconoscimento all’altro e nemmeno, paradossalmente, alla preziosità del sé.
C’è una nuova generazione che cresce a contatto diretto con modi di pensare e
di relazionarsi con la corporeità molto diretti, disintermediati, che nel tempo
corrono il rischio di diventare rapporti di abuso, perché non c’è rispetto
dell’altro. Quanto è importante individuare con precisione il valore del
consenso e dell’essere consenzienti? Se ogni cosa è consumo, mercificazione,
prestazione basata sull’aumento del gradimento, nel meccanismo perverso dei
like, quanto può essere davvero libera la scelta di mettersi in vista a tutti i
costi?
I
meccanismi dell’abuso passano anche attraverso lo sfruttamento delle fragilità,
delle insicurezze, degli smarrimenti che sono connaturati al nostro essere
umani e che negli anni dell’adolescenza e della giovinezza sentiamo ancora più
forti. Chi sono io? Cos’è questo corpo che si trasforma, cosa sono questi
sentimenti contrastanti che si agitano nel mio animo e a cui non so dare un
nome? Cosa determina la mia fame di volere essere amato, visto, riconosciuto?
Un
progetto educativo che abbia a cuore una crescita autentica deve partire dalla
persona, dalla sua dignità intrinseca. Chi abusa che visione ha della persona?
Vede solo un essere, una cosa, che può utilizzare a suo piacimento.
Nell’assenza totale di empatia e di incapacità di valutare le conseguenze delle
proprie azioni si ritrova una visione nociva della sessualità e della
corporeità, mentre il primo principio di una relazione sana è quello del non
usarsi e non usare, impegnandosi in scelte coerenti e corrispondenti.
Nella
formazione un tema insistito è relativo alla presa di consapevolezza degli
abusi. Se le segnalazioni di comportamenti ambigui (o abusanti) stanno pian
piano emergendo, è perché attraverso la divulgazione delle linee guida,
l’ascolto sul territorio, le pubblicazioni dei sussidi, si comprende che
esistono “le parole per dirlo”. E che non abbiamo timore di usarle. La visione
sistemica del fenomeno degli abusi spinge su quattro leve fondamentali:
formazione, vigilanza, contrasto, accompagnamento. E tutto questo è reso
possibile dal coinvolgimento della comunità tutta, perché il primo tassello di
un ambiente sicuro è ruolo del contesto, che è la comunità.
La
Chiesa, nelle parole di chi se ne è allontanato, è percepita come quell’entità
slegata dall’attualità, che vuole soltanto proibire. Al contrario, va reso
evidente che le buone prassi aiutano a vigilare su noi stessi e gli altri per
riconoscere il male in tempo. I no danno fastidio, ma dovrebbero essere
pronunciati a favore di quella ricerca della felicità che approfondisce il
perché, il significato di ciò che è. Per questo la prevenzione non è né
accusatoria né oppositiva, ma propositiva e dinamica.
I
giovani hanno fame di queste cose, il problema è che trovano nutrimenti
sbagliati. Scontiamo, a fronte di infiniti dibattiti, una preoccupante lacuna
nella presenza di interlocutori e accompagnatori adeguatamente formati su temi
su cui i ragazzi sono tanto sensibili quanto facilmente disorientati.
E
allora, se ci chiediamo quale contributo possiamo dare come Servizio per la
tutela dei minori a quello che è il progetto educativo di una pastorale
dedicata ai giovani, la prima domanda è: in che cosa possiamo lavorare insieme?
La prospettiva giusta è nel camminare su un percorso comune, aiutandosi
reciprocamente con quella sinergia positiva del formare e informare comunità e
persone, in cui si è d’accordo che fare certe cose non è un bene. Puntiamo a un
modo più bello e più sano di relazionarsi, all’essere testimoni credibili del
vivere relazioni buone, in cui tutti si sentano bene. E al sicuro.
www.avvenire.it
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