mercoledì 28 febbraio 2024

GOVERNO CHE VIENE, VALUTAZIONE CHE CAMBIA

Valutazione, “livelli”  e giudizi sintetici: 

l’ennesima giravolta non aiuta le famiglie


-di  Gianfranco Lauretano

 

A scuola per l'ennesima volta cambia la valutazione. Si comincerebbe dalla primaria. Sì può fare con un emendamento a un ddl ?

 Ormai lo sappiamo: Governo che sale, valutazione scolastica che cambia. E infatti il Governo in carica ha disposto un emendamento (al ddl S 924 bis) che ordina l’abrogazione della norma del Governo precedente e incarica l’attuale ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara di emanare un’ordinanza che ristabilisca la modalità anteriore di dare i voti, in pagella e non. Ma già detta così è difficile da capire, perché si tratta di una materia dove i cambiamenti sono ripetuti, confusi e mutevoli, esattamente come una banderuola al vento che soffia ora da destra e ora da sinistra. Occorre tentare di spiegarsi, con poca speranza di farsi capire.

 Il voto con cui gli insegnanti valutano i progressi o meno degli studenti ha varie possibilità. Può essere una descrizione, un piccolo discorsetto scritto finale in cui si cerca di tratteggiare un profilo narrato del ragazzo; può essere al contrario numerico, principalmente usando i voti da uno a dieci (ma, se si pensa all’università, la cifra è moltiplicata a sua volta per dieci ed entra in ballo tutto un delirio di crediti e frazioni); può essere una parolina, di solito Ottimo, Distinto, Buono, Sufficiente, Insufficiente, com’era prima dell’ultima svolta; può essere la definizione di un “livello”, com’è stato finora, prima dell’ennesima, attuale giravolta: Avanzato, Intermedio, Base, In Via di Prima Acquisizione. Quest’ultima trovata fu del ministro dell’Istruzione Azzolina, Governo giallorosso; i numeri li aveva reintrodotti invece il ministro Gelmini, Governo di centrodestra, in carica fino al 2011, dopo anni di giudizio “discorsivo”.

 Si capisce dunque che il modo di dare i voti è influenzato un po’ dall’ideologia politica: volendo semplificare grossolanamente, il numero corrisponde a un’idea di ordine e rigore della destra, mentre la parolina, più o meno attenuata, corrisponde alla permissività e allo sfumare delle differenze di merito della sinistra. Ma sarebbe già semplice se fosse così: il voto numerico, ad esempio, ha attraversato indenne ministeri di sinistra, come quello di Valeria Fedeli, la cui titolare veniva dall’esperienza sindacale della Cgil.

 Va poi detto che ogni modifica ambisce a riformare radicalmente il modo di valutare i ragazzi; ma ogni volta si ferma subito e, chissà perché, sempre alla scuola primaria, come una grande ondata che vorrebbe coprire ogni ordine scolastico e si infrange invece sulla spiaggetta della scuola elementare. Anche stavolta, c’è da scommetterci, andrà così. Non solo chi è esterno al mondo della scuola stenta a raccapezzarsi: succede anche a chi ci lavora e a chi ci porta i figli. Il sistema in vigore adesso, ad esempio, che è quello dei livelli, risulta per la stragrande maggioranza delle persone che lo utilizzano incomprensibile. Tutti chiedono: ma cosa significa “intermedio”? Risposta dei docenti: quello che era il “buono” di una volta, forse anche il “distinto”, un pochino… Domanda successiva: e in numeri quanto fa? Mah…può essere otto, talvolta sette, forse nove meno… E avanti così, in una specie di scenetta della commedia dell’arte.

 Si fa evidente ancora una volta lo scollamento tra la dirigenza della scuola e la realtà. Se certi metodi di valutazione possono anche rispondere a una buona idea teorica, di fatto le necessità pratiche della vita quotidiana stanno da tutt’altra parte. Inoltre ci si trova sempre in un regime di precarietà e transitorietà, persino con i Governi che hanno una solida base parlamentare. Si va avanti per toppe e rammendature, il disegno generale è presto perduto, se mai ce n’è uno, e al prossimo soffio di vento la bandiera, e i voti, cambieranno orientamento di nuovo.

 La valutazione è un tema basilare nel lavoro degli insegnanti, necessiterebbe di una riflessione lunga, diffusa, aperta a tutte le componenti che girano intorno alla scuola; farla con un emendamento del Governo e un’ordinanza ministeriale significa non avere la volontà né di capirci né di far capire niente a nessuno.

IlSussidiario

EUROPA SENZ'ANIMA


 Senza il cristianesimo

 l'Europa è senz'anima

 Dario Antiseri e Marcello Pera

 dialogano in un saggio 

che va alla ricerca di una vera unione.

 

-        -  di Michele Brambilla

 Un libro piccolo di pagine ma grande di contenuti ci pone di fronte a un tema di cui forse, anzi certamente, non si parla al bar, e ancor meno sui social, ma che è di vitale importanza per tutti noi: che cos'è l'Europa, se ha o meno un'anima, se è ancora cristiana oppure no. È di vitale importanza perché ha a che fare con la nostra identità e con la possibilità, per l'Europa, di fermare un declino cominciato da molto tempo. Il libro s'intitola Europa senz'anima? Politica, cristianesimo, scienza, è edito da Scholé (pagg. 146, euro 15) ed è un colloquio fra due filosofi: Dario Antiseri e Marcello Pera. O meglio, è il secondo che risponde all'interrogativo del primo: «Un'Europa scristianizzata è ancora Europa?». Se ne parla da anni, da quando si decise di non inserire, nel preambolo della Costituzione Europea, il richiamo alle radici cristiane.

Pera è consapevole del fatto che la società europea è oggi del tutto secolarizzata, e dice che al posto del cristianesimo c'è il nulla. «La religione laica un modo di dire che oggi nasconde il deserto dello spirito europeo sta sconfiggendo, mettendo da parte, privatizzando e secolarizzando il cristianesimo». E questa religione laica, aggiunge Pera, è tutt'altro che liberale: «Il laicismo imperante non è forse un rettile insidioso? Non ti dice che Dio non esiste: ti dice che, se proprio ne hai bisogno per consolarti, puoi appellarti a lui. () Sembra tollerante, questo modo di pensare, ed invece è una dittatura. Perché, alla fine, la ragion pubblica laica impone i suoi contenuti su vita, morte, matrimonio, sessualità, procreazione, democrazia, libertà, diritti, e tu puoi solo ubbidire».

 L'ex presidente del Senato, che si dice laico cristiano («e tu, Dario, ti consideri credente») si rifà a sant'Agostino, per il quale «la costruzione di una società in pace, che è lo scopo dello Stato, ha bisogno di un fondamento religioso () La ragione, il calcolo degli interessi e dell'equilibrio delle forze, non è autosufficiente neppure per la costruzione dello Stato».

 Ancora Pera: «L'Unione europea vorrebbe oggi fare eccezione: vorrebbe professare la religione laica e diventare sempre più unita. Ma conferma la regola: più si pensa a-cristiana o anticristiana, meno si realizza. Se non c'è concordia di valori morali, e se non ci sono valori morali comuni tenuti insieme per fede, gli interessi, anche meglio calcolati, ponderati, combinati, sono sempre discordi e discorde resterà lo Stato. Anche ove mai ce ne fosse uno lo Stato dell'Europa».

 Citando Locke, Pera dice che la morale cristiana è la migliore per mantenere la concordia fra gli uomini e per costruire e conservare uno Stato liberale. «Dal cristianesimo discende che tutti hanno la stessa dignità», bianchi e neri, uomini e donne: «Non si può essere cristiani e pensare che la differenza fra governanti e governati riguardi il valore intrinseco della persona. O che i sottoposti siano servi o strumenti. O che il governante non risponda ad alcuna legge».

 E d'accordo, ma l'uomo d'oggi non può sottrarsi a una domanda: il cristianesimo sarà anche la religione migliore, l'unica liberale: ma è anche vera? Questa è la domanda. Marcello Pera dice di non sapere se ha fede. «Io distinguo fra credente della fede cristiana e credente della cultura cristiana».

 Ma può bastare una religione civile? A Pera lo chiede anche Antiseri: «È sufficiente la cultura cristiana, quella di cui parla, per esempio, Benedetto Croce?». Leggendo Pera pare di sì, è sufficiente. Ma il cristianesimo non è, e non può essere un insieme di valori buoni per far funzionare lo Stato. Il cristianesimo non è una morale: è un fatto. Il cristiano crede che esista un Dio, che si sia fatto uomo, che sia morto e risorto e che ci attenda per il giudizio finale, perché c'è una vita eterna. Se non si crede che tutto questo sia vero, perché seguire la morale cristiana? L'uomo di oggi la pensa come Ivan Karamazov: «Se Dio non esiste, tutto è permesso».

 Da tempo, l'uomo occidentale ha riposto nella scienza la propria aspettativa di felicità. Siamo, innanzitutto, un popolo di consumatori, non più di cittadini. Consumatori controllati, indirizzati e diretti da una tecnologia che ci illudiamo sia apportatrice di libertà. Quali sono, oggi, i valori dell'uomo occidentale, se non il vivere bene, il far carriera, il guadagnare e il divertirsi? L'Unione Europea che non ha voluto nella sua Costituzione il riferimento alle radici cristiane non è madre della secolarizzazione, ne è figlia.

 Che cosa ci aspetta, in uno scenario che Pera, rileggendo Agostino, paragona alla caduta dell'Impero romano? Il futuro è imprevedibile, ma l'uomo è una tale creatura che, per quanto distratta, si troverà prima o poi a fare i conti con quello che Wittgenstein considerava Dio stesso: il senso della vita. «È una domanda ineludibile, una richiesta inestirpabile», scrive Antiseri, che cita Norberto Bobbio: «La scienza dà risposte parziali e la filosofia pone solo domande senza dare le risposte».

 Il Giornale

UMEC-WUCT e UNESCO



 Roma, 28 febbraio 2024

Questionario UNESCO-CCIC

1.     Quali sono le attuali linee d'azione prioritarie della vostra organizzazione?

UMEC-WUCT è un'organizzazione per le università, le scuole primarie e secondarie. Opera con insegnanti e scuole che si impegnano a testimoniare i valori del Vangelo nel quotidiano scolastico e sociale. 

UMEC-WUCT interagisce con le istituzioni locali, nazionali ed internazionali in cui lavorano i nostri membri e con società in cui vivono.

Le linee prioritarie sono: la formazione continua degli insegnanti, il dialogo e la solidarietà umana e professionale.

Inoltre: c'è attenzione alle persone svantaggiate, a tutte le situazioni di povertà, al dialogo intersociale e interreligioso, alle sfide delle nuove tecnologie ( AI, ecc. ), al rispetto della persona umana, ai problemi relativi all'ambiente e all'ecologia integrale.

 

2.     Quale tema principale proponete per un progetto collettivo per i prossimi due anni e sul quale sareste pronti ad impegnarvi?

  • Identità, formazione continua e difesa dei docenti.
  • Educazione e dialogo.
  • Solidarietà.
  • Impegno personale e comunitario per la costruzione della pace.

 

3- Come viene affrontata la questione della pace nei progetti che realizzate? Quali sono gli ambiti di intervento della vostra organizzazione che contribuiscono in un modo o nell'altro alla promozione della Pace?

 Educazione e sensibilizzazione alla pace

L’educazione alla pace è un aspetto essenziale della formazione scolastica (e universitaria), tenendo conto del contesto in cui vivono i nostri membri.

Iniziative per la risoluzione e la prevenzione dei conflitti

Esistono progetti specifici realizzati in diversi contesti e diversi paesi.

Mediazione e intervento a livello comunitario

A livello internazionale, cerchiamo di promuovere una mediazione umana e professionale, adeguata ai problemi che si presentano.

 Promozione della pace a livello comunitario

I nostri incontri, le nostre iniziative e il nostro blog sostengono e mettono in risalto le nostre idee di educazione alla pace.

Scambi culturali tra comunità per sostenere meglio il tema della Pace.

I membri dell'UMEC-WUCT operano in situazioni molto diverse (culturali, umane, religiose, ecc. ), in tutti i continenti. Cerchiamo quindi sempre di promuovere il dialogo, l’interazione, il sostegno reciproco e la solidarietà ovunque si presentino problemi.

Dialogo interreligioso e intracomunitario

Vedi la risposta precedente.

Genere e Pace

Lavoriamo per il rispetto e la valorizzazione di ogni persona (dimensione umana e spirituale)

 

4.     Partecipate al gruppo delle ONG per la pace, presso l'UNESCO, guidato da Pax Christi e New Humanity, con ONG di altre religioni?

Si, da sempre.

 5- Altro

 Siamo disposti a partecipare con l’UNESCO ad iniziative riguardanti l’educazione, entro i limiti delle nostre possibilità.


 

 

 

 

 

martedì 27 febbraio 2024

INVALSI. PROVE 2024

 Il dialogo con la Scuola per l’efficacia delle Prove

A due settimane dall’avvio delle Rilevazioni nazionali 2024 abbiamo intervistato Alessia Mattei, Responsabile dell’Area Prove INVALSI, per comprendere meglio l’evoluzione nel tempo degli aspetti organizzativi delle Prove standardizzate, ottimizzati anche grazie al costante dialogo con le scuole.

 Siamo a pochi giorni dall’inizio delle Prove INVALSI che, come di consueto, hanno come primi protagonisti le ragazze e i ragazzi dell’ultimo anno della Scuola secondaria di secondo grado. Il passaggio al formato Computer based, nella Secondaria di primo e secondo grado, è ormai compiuto da qualche anno. Cosa è cambiato nel tempo?

Uno dei cambiamenti che possiamo citare è sicuramente quello relativo all’aspetto logistico e organizzativo, che ha raggiunto in tempi rapidi livelli superiori alle nostre aspettative.

Le scuole sono ormai assolutamente in linea con le peculiarità della somministrazione in formato CBT e l’ottimizzazione dell’organizzazione delle classi e dei gruppi classe da tempo ha permesso di superare le comprensibili difficoltà logistiche iniziali.

Questo è accaduto anche grazie all’accoglienza da parte dell’INVALSI delle esigenze manifestate dalle scuole: ad esempio sono state modulate delle finestre di somministrazione appropriate e sono stati forniti tutti gli strumenti utili per una migliore organizzazione sia nelle classi campione sia in quelle non campione.

In sostanza, con le scuole abbiamo instaurato un rapporto molto costruttivo, costante e quotidiano.

I diversi interlocutori che incontriamo – i dirigenti scolastici, il corpo docente nel suo complesso e chi si occupa poi concretamente delle somministrazioni – si dimostrano molto attenti alle rilevazioni e ai dati che queste permettono di offrire loro.

Si possono incontrare ancora situazioni in cui permane qualche perplessità verso le Prove nazionali, ma sono assolutamente gestibili in forza di un dialogo tra scuola e INVALSI che negli anni è diventato più costante e aperto.

E questo dialogo ha consentito di comprendere appieno i vantaggi legati a un sistema di rilevazione standardizzato che ha una dimensione nazionale.

Il primo vantaggio, dal punto di vista scientifico, è senza dubbio legato al fatto che il nostro Istituto dispone di dati molto solidi; ciò è dovuto soprattutto all’utilizzo di ampie banche di domande. La somministrazione delle prove Computer based, basate appunto su banche di domande, consente infatti l’assegnazione allo studente, a ogni studente, di un livello.

L’altro vantaggio, tutt’altro che secondario e che gli insegnanti apprezzano molto, è l’assenza delle operazioni di codifica e di correzione delle domande aperte, che è tutta centralizzata e in carico all’INVALSI. È indubbio che questo non solo alleggerisce il carico di lavoro per i docenti, ma garantisce anche sull’oggettività della correzione.

Possiamo quindi senz’altro dire che il processo di somministrazione ha raggiunto un ottimo livello, sia dal punto di vista metodologico che da un punto di vista logico e tecnico-organizzativo. Di questo abbiamo un riscontro diretto proveniente dalle scuole stesse anche attraverso i canali di assistenza alle scuole.

Il rapporto dei docenti con la valutazione, e in particolare con la valutazione standardizzata, è certamente cambiato in questi anni. Quali sono i maggiori segnali di questo cambiamento?

In questi ultimi mesi ho avuto modo di riscontrare in prima persona l’esigenza e la disponibilità dei docenti a diventare parte attiva di una rilevazione standardizzata su larga scala, approfondendo il significato delle Prove e gli aspetti più prettamente metodologici relativi alla loro costruzione.

Lo abbiamo visto e apprezzato in particolar modo nei percorsi di formazione che offriamo agli insegnanti. Il numero di coloro che partecipano a questi percorsi che li rendono sempre più protagonisti del processo valutativo con prove standardizzate è in costante aumento.

Ciò indica una crescita culturale in merito alla valutazione e all’importanza che le viene riconosciuta.

Sempre più i docenti vogliono sapere quali sono i vantaggi e anche gli svantaggi della valutazione standardizzata, quali sono le competenze che si possono misurare con questo tipo di prova e quali no. Vogliono quindi comprendere un processo conoscendone le finalità e gli obiettivi.

Questo è senza dubbio molto apprezzabile perché costituisce un punto di partenza fondamentale per avere un’opinione più coerente rispetto a tutta l’operazione valutativa, per entrare nella logica delle Prove ragionando sia sugli elementi positivi sia su quelli negativi.

Sì, anche sugli aspetti negativi, non sembri strano. Come già detto, le rilevazioni standardizzate infatti hanno innegabili punti di forza, ma come tutti i tipi di valutazione non coprono tutte le possibilità.

Vedere entrambe le facce della medaglia aiuta a comprendere più a fondo quali sono gli aspetti positivi di una rilevazione come quella delle Prove INVALSI e l’utilizzo che si può fare degli esiti restituiti alle singole scuole.

Quando questa conoscenza manca può accadere che vi siano delle perplessità sulla valutazione standardizzata su larga scala. Queste resistenze possono essere legate a un principio generale, cioè non ritenere la valutazione esterna una risorsa utile per il sistema scolastico, per il decisore politico, ecc.

La mia esperienza mi permette però di asserire che l’insegnante quotidianamente impegnato a scuola, nel momento in cui si esplicitano i vantaggi e gli svantaggi di questa operazione, molto difficilmente ne nega tutti i possibili ritorni positivi.

Sappiamo di essere prossimi a una nuova transizione delle Prove INVALSI, la cui somministrazione passerà dal formato cartaceo al CBT anche nella classe quinta della scuola primaria. Come ci si sta preparando a questo passaggio?

In vista di questa ulteriore evoluzione il nostro Istituto ha avviato una linea di ricerca dedicata alla sperimentazione delle Prove in formato CBT nella classe quinta primaria.

È ovvio che, trattandosi di bambini, sorgono tutta una serie di problematiche metodologiche e tecniche che vanno affrontate.

Il passaggio alle prove computerizzate potrebbe garantire anche in questo caso un alleggerimento del lavoro degli insegnanti, come è stato per gli altri gradi scolastici, e la possibilità di avere anche per la primaria una banca di domande in forza delle quali il tipo di esito ottenuto potrebbe essere molto più articolato.

Il passaggio al CBT per questo grado scolastico è ora in fase sperimentale; al momento abbiamo attivato un processo di costruzione delle prove e di adattamento della piattaforma a questa diversa tipologia di utenza.

Come sempre, vedremo che cosa ci diranno i dati e, a partire da quelli, decideremo come proseguire in questo progetto dialogando con tutti gli interlocutori coinvolti in questa operazione.


 INVALSI

 

 

MANGANELLI o DEMOCRAZIA ?

Di manganelli 

e di iniziazione 

alla democrazia 

(a cui abbiamo abdicato)


-di Sara De Carli e Daniele Novara

Assistiamo a una crescente intolleranza verso i punti di vista diversi, anche da parte delle istituzioni.

La cultura della democrazia vive di ascolto delle posizioni differenti, ma anche la scuola - dice il pedagogista Daniele Novara - «da vent’anni non è più impegnata sul tema dell’educazione alla discussione e al confronto».

Ascoltami vs ti ascolto.

Sta nella distanza tra queste due posture il fare o non fare una iniziazione alla democrazia per i nostri ragazzi.

«Se vuoi sostenere la democrazia, devi sostenere i processi di apprendimento per cui ci si ascolta reciprocamente nelle opinioni diverse.

Le istituzioni – penso anche alla scuola – da anni invece dicono solo “ascoltami” e poi lamentano un “non mi ascolta” per giustificare azioni “correttive”.

Ma l’istituzione democratica si fonda esattamente sull’azione contraria, sul “ti ascolto”»: Daniele Novara, pedagogista che oltre trent’anni mette al centro del suo lavoro l’educazione e la gestione dei conflitti, commenta così le manganellate dei poliziotti sugli studenti di Pisa.

Che cosa si può dire?

«Con i ragazzi i manganelli esprimono un fallimento»: sul fatto in sé le parole del Presidente Sergio Mattarella sono definitive, non hanno bisogno di chiose o sinossi.

I manganelli sui ragazzi sono sempre un fallimento e «l’autorevolezza delle Forze dell’Ordine non si misura sui manganelli ma sulla capacità di assicurare sicurezza tutelando, al contempo, la libertà di manifestare pubblicamente opinioni»: non c’è da aggiungere altro.

La preoccupazione per una virata di autoritarismo c’è.

Che dire però del “prima”?

Del fatto che i ragazzi non avevano comunicato i loro percorsi, che la manifestazione non era autorizzata…

Che rispondere insomma, da educatori, all’obiezione che c’è modo e modo di manifestare e che non può valere tutto?

I poliziotti hanno detto che i ragazzi “non ci ascoltavano” e “non facevano quello che gli dicevamo”.

Ascoltami!

È questo il punto che ci porta a fare una riflessione più ampia: non è solo un clima sociale ma anche le istituzioni stanno andando nella direzione di una gestione del dissenso che non è più fondata sul confronto tra posizioni differenti, ma che cerca un nemico. Assistiamo a una crescente intolleranza verso i punti di vista diversi.

Anche le istituzioni dicono “ascoltami” e lamentano il “non mi ascolta”, tutto qui.

Mentre invece la cultura della democrazia dinanzi a un problema è esprimere le proprie opinioni, confrontarsi sulle opinioni differenti e quindi decidere.

L’istituzione democratica al cittadino dice l’opposto, dice “dimmi, io ti ascolto”.

E favorisce fra i ragazzi, proprio nella loro formazione come cittadini, l’apprendimento delle modalità per esprimere punti di vista diversi e per confrontarsi sui punti di vista diversi.

Chiama in causa la scuola?

C’è oggettivamente anche un tema di una scuola che fa lezione di educazione civica, cittadinanza, rispetto dei diritti umani… che restano teoria davanti alle manganellate della polizia.

Non è tanto questo, questo può dirlo superficialmente chi non conosce la scuola oppure chi vuole difenderla a priori.

La verità è che da vent’anni la scuola non è più impegnata sul tema dell’educazione alla discussione e al confronto, sul versante del creare una cittadinanza nella logica democratica.

Il dibattito maieutico, per esempio, è una tecnica che le scuole usavano tantissimo fino 10-15 anni fa: adesso non ne parla più nessuno.

La scuola ha abbandonato completamente le forme pedagogiche di introduzione alla democrazia e alla libertà di espressione, con la discussione libera in classe o con quel confronto sui problemi che si faceva leggendo il giornale in classe: queste cose non le fa più nessuno.

Che fine hanno fatto i libri preziosi di Clotilde Pontecorvo sulla discussione in classe?

L’aporia

È un dispositivo del tutto abbandonato, che ha portato i ragazzi a non saper più discutere. C’è un’aporia sostanziale, la scuola agli alunni chiede ormai solo l’ascolto del docente, soprattutto alla secondaria di secondo grado.

Il problema è questo: quale meccanismo di iniziazione alla democrazia attiviamo nella classe, se è vero che la scuola è il primo luogo di apprendimento della democrazia e la democrazia è proprio la gestione del conflitto senza violenza, attraverso una ritualizzazione in cui l’opinione divergente non viene vissuta come una minaccia da portare a un duello ma come elemento di ricchezza, da considerare per analizzare i vari punti di vista e poi arrivare a una decisione.

È una cultura di gestione dei ragazzi che si sta creando, di cui fa parte anche l’orribile norma per cui il 5 in condotta dal prossimo anno porterà alla bocciatura: è quanto di più antipedagogico esista.

Perché?

Perché nella storia della pedagogia gli alunni difficili sono quelli che hanno permesso alla pedagogia di progredire, ti costringono a trovare metodi e dispositivi, a fare il meglio possibile per recuperarli.

Se lo condanni con bocciatura, come se la scuola fosse istituto di correzione…

Questa scelta significa guardare la scuola come luogo di espiazione della pena e non più come una comunità di apprendimento.

 

Vita

 

IL CIGNO, L'INFERMIERA, LO SPAZZINO

 


-         - di Alessandro D’Avenia


«Ho finito di leggere Ciò che inferno non è, ma nella mia vita ultimamente ho difficoltà a vedere, nell’inferno, ciò che inferno non è e questo è pericoloso per me, che sono mamma di tre figli. Non ho vissuto una vita ovattata, il contesto in cui sono cresciuta è equivalente al degrado del quartiere descritto nel libro, ma il sorriso e la speranza, che non mi sono mai mancati, ora invece, nelle brutture odierne, vacillano, facendomi pensare che forse non è stata la migliore delle idee mettere a questo mondo marcio i miei ancora ignari figli. Come ritrovare il coraggio e la “leggerezza attenta” di cercare il bello anche dove non sembra esserci?».

Questo messaggio ricevuto di recente mi ha costretto a chiedermi se esiste un metodo per trovare gioia dove non sembra che ci sia, se ci sia ancora la possibilità di scorgere un cigno in mezzo alla polvere e all’immondizia della città, come racconta Charles Baudelaire in una delle sue poesie più belle. Siamo sicuri che questo mondo sia così marcio o più marcio di quello di prima? E se invece di aspettare l’apparizione del cigno fossimo noi a poterlo far apparire? Esiste un metodo per sperare anche nella disperazione amplificata da una comunicazione che, drogata dai click, predilige la sovraesposizione del marcio e crea un effetto depressivo? Provo a rispondere con due storie vere in cui mi sono imbattuto di recente.

La prima è quella di Cicely Saunders, una ragazza londinese avviata agli studi di economia a Oxford, che, durante la Seconda Guerra mondiale, incapace di stare a guardare, si arruola come infermiera per curare i feriti che giungono dal fronte. Trova l’inferno: centinaia di coetanei che muoiono tra atroci sofferenze. Invece di scoraggiarsi di fronte all’impossibilità di salvarli, comincia a studiare la situazione e scopre che per lenire la sofferenza dei moribondi non bastano le cure fisiche, bisogna curare la loro disperazione. Farà di questo la ragione della sua esistenza: trovata la sua vera vocazione, comincerà a studiare medicina a 33 anni e aprirà nel 1967 il primo Hospice moderno, dove non si va a morire ma a vivere bene sino all’ultimo istante. Le cure palliative create dalla dottoressa Saunders sono oggi un punto di riferimento a livello mondiale per la cura dei malati terminali.

Ho conosciuto la storia grazie al recente romanzo di Emmanuel Exitu, intitolato Di cosa è fatta la speranza. È proprio in mezzo all’inferno che Saunders inventa il nuovo: «La speranza è il modo peggiore di affrontare la vita. Naturalmente se si escludono tutti gli altri, che sono molto peggio». La frase che apre il libro è paradossale quanto vera. La speranza non è una tecnica di suggestione per vedere le cose come non sono, anzi è la capacità di stare talmente dentro e di fronte al presente da innamorarsene. In questo senso la speranza «è il modo peggiore di affrontare la vita» perché è impegnativa, ma «tutti gli altri sono molto peggio» perché escludono la creatività e la libertà, l’azione da protagonisti. Cicely Saunders fu visionaria perché sperava, essere visionario non significa avere visioni ma prestare attenzione fino a scorgere il possibile dove tutti vedono l’impossibile.

Nel capitolo che dà il titolo al libro, l’autore elenca gli ingredienti della speranza, e sono tutte quelle cose e persone che i malati terminali hanno care e che il personale dell’hospice procura loro: da un whisky con ghiaccio tritato a un cucciolo d’elefante, perché «la speranza è fatta di cose che hanno bisogno di qualcuno che le faccia accadere». Quindi il mio primo consiglio è essere una di quelle persone che le fanno accadere, essere visionari nel qui e ora. Altrimenti ci si consegna alla disperazione che è proprio ciò che impedisce di vedere. Se Saunders avesse pensato: prima, a casa, «ho i miei studi che m’importa di chi muore in guerra», e dopo, in corsia, «tanto è tutto inutile» non avrebbe inventato le pratiche che oggi rendono umana anche la morte inevitabile (la morfina veniva data solo su richiesta; i parenti non erano coinvolti e aiutati ad affrontare il lutto...).

La seconda storia vera è narrata dal protagonista, Michel Simonet: spazzino per vocazione. Ogni mattina, all’alba, da trent’anni, mette una rosa fresca sul suo carretto come un vessillo: è felice di rendere bella la sua città, portare a casa ciò che serve alla famiglia e far vivere meglio i suoi concittadini. Trova il bello anche in mezzo alla sporcizia, fosse anche solo la strada pulita dopo il suo passaggio. Il suo diario di strada fa vedere come ciò che conta nella vita non è innanzitutto il lavoro che si fa, ma perché e per chi lo si fa. Così la sporcizia diventa occasione di quotidiane scoperte e relazioni. Per Simonet la strada è il luogo in cui far accadere la speranza: fatto con e per amore il suo lavoro diventa ricco di possibilità inattese (anche diventare scrittore) e non prigione da cui fuggire.

Allora la seconda cosa che suggerirei è continuare a mettere al mondo e sempre di più i tre figli, proprio in un mondo marcio (quando il mondo non lo è stato? Però oggi il marcio ci viene sbattuto in faccia con più frequenza da quella che è una vera e propria infodemia). E poiché i figli si mettono al mondo in due, sono quei due che continueranno a metterli al mondo. Noi siamo le relazioni in cui siamo cresciuti. Dall’amore dei genitori e di chi lo educa dipende la fiducia con cui un bambino guarda la realtà, dalla cura che gli viene data dipende il suo sistema immunitario non solo fisico, ma anche psichico, che è la speranza, cioè saper stare nel presente senza soccombere (abbiamo bisogno di ricevere più amore di quanto male ci arriva) e senza fuggire (la tecnologia oggi offre un comodo altrove in cui rifugiarsi).

 Quei figli non vanno difesi dal mondo, perché saranno loro a portare nel mondo un mondo nuovo, che hanno sperimentato a casa. A noi non è chiesto di salvare il mondo ma lo spazio in cui ci muoviamo, come narra Simonet: «Non sono mai le meraviglie a mancare, ma la capacità di meravigliarsi attraverso tutti i sensi, che invece possono appagare con ben poca spesa. La strada ci rende semplici. Abbiamo la capienza di un ditale o di una cisterna? Ciò che conta è la pienezza» (M.Simonet, Lo spazzino e la rosa). Non importa quanto il mondo sia sporco, ma quanto siamo amati e amiamo. Parola di spazzino.

Alzogliocchiversoilcielo-Corriere della Sera

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lunedì 26 febbraio 2024

UNA CHIAMATA, UN CAMMINO

 

L'IDENTITA' PERSONALE  
E IL SENSO DELL'ESISTENZA

IL DIO IN CUI CREDO



Il percorso che Gesù fa compiere ai suoi discepoli e, in particolare, agli Apostoli, inizia con una proposta personale di conversione radicale, totalizzante e sincera, nella quale non c’è spazio per una concezione dell’esistenza diversa da quella che Dio le ha assegnato.

Cristo non propone loro una conversione di parole, ma un risolutivo cambiamento della loro visione e del loro stile di vita, per rifondarli solo sui suoi insegnamenti e sul suo esempio, affinché conformassero e finalizzassero la loro esistenza alla volontà del Padre.

Essi fanno un cammino di conversione sostenuto dai potenti segni compiuti da Gesù; cammino che si rivela impegnativo, totalizzante e duro; che li distacca dalle sicurezze sulle quali essi fondavano il loro vivere quotidiano e li rende assai distanti dallo stile di vita comune dei loro conterranei.

Questo libro, seguendo la via tracciata da Gesù ed imitandone il metodo, propone un ciclo organico di riflessioni che scava nel nostro modo di credere e di essere e ne approfondisce principi e contenuti per spianare la via, e per condurre ad una conversione sempre più profonda e matura.

 

Pippo Viola, L’IDENTITA’ PERSONALE E IL SENSO DELL’ESISTENZA, ed. Amen, pagg. 215,  febbraio 2024, € 15

 

domenica 25 febbraio 2024

QUANDO MANCA IL SENSO

 
La filosofia della storia 

riparte dalla persona

 Quando il pensiero ristagna non bisogna rassegnarsi alla mancanza di senso, al dominio della tecnica, alla decostruzione dell’umano, alle profezie sulla fine: occorre recuperare saperi profondi come quelli della teologia politica.

L’eventuale collasso dell’universo è un evento fisico, la fine del tempo storico invece è un evento che riguarda l’uomo e il mondo umano

 

-       -  di VITTORIO POSSENTI

 Una filosofia personalista della storia è una merce molto rara, di cui purtroppo non disponiamo anche per il sonno in cui è entrata la filosofia della storia. Scienza storica e filosofia della storia hanno compiti diversi: la seconda può sollevare il tema tanto del fine (o significato) della storia, quanto quello della sua fine. Il fine e la fine della storia – questioni spesso emarginate nel pensiero europeo moderno, volto verso un progresso continuo e secolarizzato -, sono riemerse con le due grandi guerre del ‘900, la bomba atomica, il disastro ecologico. La possibilità di una fine catastrofica della storia umana è ricomparsa, senza che sia rinato un interesse per la filosofia della storia, soffocata dalla ristrettezza del pensiero contemporaneo e dalla perdurante ostilità dello storicismo che la riduce a sociologia delle civiltà. La filosofia della storia deve invece porre come suo oggetto non il significato e lo svolgersi di una certa civiltà, ma il significato della storia universale. La disciplina di cui trattiamo ha per oggetto la storia umana, non la vicenda naturale del mondo e dell’universo: l’eventuale collasso dell’universo è un evento fisico, la fine del tempo storico è un evento che riguarda l’uomo e il mondo umano.

 Se sono gli esseri umani (o persone) a creare e a muovere la storia; incorrere in errore o riduzione su che cosa sia la persona umana compromette l’intero disegno della disciplina. Vale tuttora il giudizio di R. Guardini, un autore che raramente emette sentenze impietose come questa: «Nessun essere, cosciente della sua natura umana, dirà che egli si riconosce nell’immagine presentata dalla moderna antropologia, che essa sia biologica, o psicologica, o sociologica o di qualunque altro carattere […]. Si parla dell’uomo ma non si vede realmente l’uomo. L’uomo quale è concepito nei tempi moderni non esiste. I rinnovati tentativi di rinchiuderlo in categorie alle quali egli non appartiene: meccaniche, biologiche, psicologiche, sociologiche, sono tutte variazioni della volontà fondamentale di fare di lui un essere che sia “natura” e diciamo pure natura spirituale. E non si vede ciò che egli è anzitutto e in modo assoluto; persona finita, che, come tale, esiste, anche quando non lo voglia, anche quando rinneghi la propria natura. Chiamato da Dio, posto in relazione con le cose e con le altre persone». Settanta anni sono trascorsi dalla diagnosi di Guardini con il suo chiaro richiamo alla Trascendenza, e confermata a contrario già un decennio dopo con l’avvio dell’avventura postmoderna di J. Derrida, M. Foucault, G. Deleuze e dei loro seguaci italiani. Con l’onda postmoderna iniziò l’epoca della decostruzione, di cui si diceva (e si dice) che metteva in movimento il pensiero contro l’esaltazione moderna del soggetto (occidentale) e contro il fallologocentrismo. Derrida proseguiva l’opera genealogica e decostruttiva iniziata da Nietzsche e Heidegger, che avevano demolito “i vecchi idoli”. Foucault ed altri infliggevano il colpo di grazia, smascherando ulteriormente quell’io moderno, che si pensava autonomo, consapevole di sé e libero di scegliere. Il fatto è che il soggetto moderno, figlio a seconda dei casi del razionalismo, del materialismo, del naturalismo, aveva ben poco in comune con la nozione di persona. Ciò conferma la valutazione di Guardini secondo cui i moderni non hanno conosciuto l’essere umano.

 Per una persuasiva filosofia della storia occorre sorvolare sulle cogitazioni fantasiose e scarsamente attendibili sulla fine della storia, la post histoire, l’ultimo uomo, di moda alcuni decenni fa. Forse l’unica asserzione da condividere in merito alla fine della storia è che «la fine della storia è finita». Si scivola in una notevole ingenuità ritenere possibile ricavare dalle speculazioni di A. Kojève sullo snobismo, sull’ultimo uomo, la vita animale e umana un significato durevole per la filosofia della storia.

Taluni ricorrono ad espressioni – tipico il termine “macchina antropologica” – che non agevolano la comprensione della persona e dell’umanesimo. Nell’essere umano non si tratta di cercare il luogo di articolazione tra l’umano e l’animale, quasi fosse una zona di indifferenza o, peggio, un punto di contatto instabile tra l’umano e l’animale. Ciò significa che il corpo umano non è un corpo meramente animale cui si aggiunge alla meno peggio un’anima spirituale, ma è un corpo umano animato ed elevato da un suo proprio logos, immanente all’individuo sin dal primo momento. Pertanto, l’appunto severo che Heidegger eleva alla metafisica, ossia di pensare l’uomo «a partire dalla sua animalitas e non in direzione della sua humanitas», non è valido per la filosofia della persona cui guardiamo, che rende giustizia all’animale senza abbassare l’uomo. Le considerazioni avanzate da mezzo secolo sulla “macchina antropologica” che sarebbe propria della filosofia occidentale nella sua totalità, trascurano che la persona non è in alcun modo una macchina in cui debbano articolarsi meccanicamente l’animalità e l’umanità. La persona non è solo Dasein e il Dasein non è la persona.

 Noi manteniamo l’eccezione umana in quanto fondata sulla necessità ontologica che ogni individuo umano è persona, non riducibile alla sola natura fisica, alla sola physis come luogo della creazione e della distruzione, del generare e del morire. Solo in questo modo è possibile avanzare verso una concezione personalista della storia sinora mancante anche in occidente, che pur avrebbe qualche carta da giocare.

 Il progetto di occidentalizzazione del mondo ha comportato l’universalizzazione dell’homo oeconomicus et technicus.

 Nell’era del Capitalocene e del Tecnocene predomina il “progetto maschile” di attacco alla natura e la cibernanthropia (mescolanza di uomo e macchina). Dinanzi a tale situazione, non è sufficiente un nuovo illuminismo che, al pari di quello passato, confidi nella ragione e nella sua capacità di vincere le false certezze e le superstizioni; neanche un “nuovo illuminismo autocritico”, come da taluni versanti si auspica, potrebbe essere all’altezza della sfida. Dove cercare le sorgenti per oltrepassare il dominio della ragione tecnica e strumentale che insidia più o meno fortemente lo schema illuministico? L’eventuale nuovo illuminismo avrebbe bisogno di un innalzamento di prim’ordine: aiutare l’essere umano a diffidare di sé stesso, delle proprie allucinazioni, dei desideri smodati, della volontà di potenza che abita in noi, e che si esprime nel senso di onnipotenza del complesso scienza- tecnica. Dobbiamo imparare ad autoregolarci per trattenere l’onda di piena che esso stesso genera.

 Prometeo donò agli esseri umani la tecnica, ma da inventore sommo e insieme scaltro truffatore, lasciò in essa la sua impronta ambigua. Nella strutturale ambivalenza della tecnica incidono un ruolo costituente e uno destituente in rapporto all’uomo: costituente per farlo essere meglio persona e destituente nel senso di renderlo estraneo a sé stesso e agli altri, nell’epoca della digitalizzazione, della società automatica e dell’algoritmo.

 

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LO SGOMENTO DI EDUCARE

 


“Lo sgomento 
non serve
 per educare”

- di Vanna Iori*

Il lavoro educativo è in crisi. Dinanzi alla fragilità diffusa e al timore per il futuro, l'educare deve ripartire da azioni che nascono dalla capacità di vedere e farsi carico di ciò che si è veduto, senza limitarsi allo sgomento.

Sul valore del lavoro educativo si è costruita la storia dell’umanità. Educare significa lasciarsi interpellare dalla relazione e assumerne la responsabilità che contribuisce a costruire il futuro. 

Il “ruolo” degli educatori in ogni servizio educativo nasce da qui ed è cresciuto modificandosi in relazione ai cambiamenti sociali, politici, culturali.

E oggi proprio dalle grandi trasformazioni in corso dobbiamo partire.

Il tempo che stiamo vivendo è fatto di grandi trasformazioni sociali, relazionali e culturali, dal lockdown alle guerre, lo scenario ha comportato nuove fragilità e insicurezze che hanno profondamente cambiato il volto delle nostre comunità.

Ci troviamo in una crescente difficoltà economico-sociale e in presenza di diverse criticità culturali e sociali che si intrecciano nello spazio e nel tempo: le differenze territoriali, le differenze di genere, i cambiamenti relazionali, la dissoluzione del tessuto solidaristico e la chiusura familiare, l’inverno demografico, la trasformazione del ruolo genitoriale, l’aumento delle violenze profonde.

A questo si aggiunge la dispersione scolastica (l’Italia è uno dei paesi europei con il più alto tasso di abbandoni in Europa) e la mancanza di servizi educativi per la prima infanzia.

Tutti questi elementi di fragilità sono poi in relazione con i tre macrocambiamenti del nostro tempo avvenuti nell’arco di una generazione: la crescente presenza migratoria, l’ingresso del web nella nostra vita e ora il ruolo dell’intelligenza artificiale.

 Lo scenario

 Di fronte a queste difficoltà il lavoro educativo è divenuto ancora più rilevante e necessario, ma anche più complesso per la crescente incertezza educativa. Tutti i lavori di cura sono in crisi: i modelli, il ruolo, l’identità, il valore del lavoro educativo ed anche il suo senso devono dunque rafforzarsi per fornire risposte efficaci alle nuove criticità. Purtroppo tutte le ricerche ci dicono che oggi si stanno moltiplicando le sofferenze esistenziali, le situazioni di malessere emotivo e il vuoto vissuto da molti bambini e adolescenti: un quadro desolante che esprime i vissuti emotivi di giovani che sembrano vivere quotidianamente sensazioni di malessere esistenziale, senza risorse cui aggrapparsi.

Ragazzi isolati che non sanno prendersi cura di sé, come se la vita si esaurisse nell’attimo presente e non offrisse nessuna reale prospettiva di senso. 

Una diffusa insicurezza, il timore di non corrispondere alle aspettative, l’incapacità di gestire le emozioni, il disorientamento.

Ma le ricerche ci dicono anche che questi percorsi di fragilità hanno fatto riscoprire a molti ragazzi il valore della relazione “in presenza” con i compagni e le compagne di scuola.

E mostrano il valore e  il senso del lavoro educativo, la “bellezza” di aiutare a costruire benessere esistenziale.

La prevenzione

In questo quadro, la prospettiva prioritaria da potenziare è la prevenzione.

Per aiutare i figli della crisi a trovare ancora possibilità di progettare futuro si impongono interventi per azioni che nascono dallo sguardo; il che significa innanzitutto non limitarsi all’inquietudine o allo sgomento di fronte ai comportamenti più allarmanti che la cronaca ci riporta ogni giorno, ma cercare di conoscere i vissuti da cui hanno origine.

La capacità di vedere e farsi carico del veduto è il primo passo della cura educativa che vuole alleviare il malessere nelle situazioni difficili. Mentre lo sguardo indifferente, che esprime incuranza, “passa oltre”.

 È lo sguardo che genera il sentimento

 Molto significativa è la parabola del Vangelo di Luca, in cui il Samaritano si ferma per aiutare un sventurato, lasciato mezzo morto dai briganti, uno sconosciuto, eppure, scrive Luca, “passandogli accanto lo vide e n’ebbe compassione”.

Prima del samaritano erano passati un sacerdote e un levita che avevano proseguito la loro strada, senza curarsi di quella persona ridotta in fin di vita, cioè senza assumere la responsabilità di ciò che avevano veduto.

Lo sguardo genera il sentimento. Su questo versante le competenze emotive sono indispensabili per cogliere, valutare e gestire le emozioni proprie e riconoscere le emozioni di chi ci circonda e per compiere scelte di senso.

Le emozioni sono sempre collegate alla ragione.

Ma non dimentichiamo che anche se l’intelligenza cognitiva è molto importante, l’intelligenza emotiva e l’accompagnamento all’alfabetizzazione dei sentimenti sono indispensabili.

La grande sfida educativa oggi è proprio questa: tenere insieme le competenze emotive con quelle cognitive.

 Il sapere dei sentimenti

 Ecco perché educatori non ci si improvvisa.

E la competenza emotiva deve essere prioritaria competenza professionale.

Animare l’azione educativa significa darle anima e aver cura della vita emotiva è una risorsa pedagogica  spesso sottovalutata dal primato della ragione che ha dominato in gran parte il percorso del sapere: la visione cartesiana del “cogito ergo sum”.

C’è un sapere dei sentimenti che non può più essere ignorato o sottovalutato, proprio quando le competenze emotive sono indispensabili in questo momento difficile.

L’innovazione avrà quindi come obiettivo accoglienza  e inclusione che richiede la costruzione della comunità educante che è la risposta principale di solidarietà e condivisione di prospettive educative.

Occorre cioè saper tessere reti tra scuole, Pubbliche amministrazioni, Regioni e Comuni, Asl e integrazioni con il Terzo settore, il privato sociale (e non), il volontariato, parrocchie, oratori, centri sportivi e culturali, scoutistici, musicali, artistici, e altre realtà aventi finalità educative per ragazzi.

La corresponsabilità

Un sistema integrato dei servizi educativi basato cioè su coprogettazione e corresponsabilità dell’azione educativa.

Per superare questa stagione di isolamento e insicurezza, il tema della cura esistenziale diventa sempre più un perno educativo che riguarda tutti gli ambiti, formali e informali, dai nidi d’infanzia fino all’accesso al mondo del lavoro.

Più opportunità offriamo ai ragazzi, maggiore è la possibilità di sottrarli all’emarginazione, al disagio e alla violenza.

Bisogna iniziare subito ad agire, insieme.

*Università Cattolica Sacro Cuore

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