Lectio di Enzo Bianchi per la Fondazione
Balducci a Firenze su “L’altro come dono”: la condivisione di un percorso in
cui il fine «non è il consenso, ma il reciproco progresso»
Il fondatore della Comunità di Bose
riflette sull’alterità a partire dal pensiero del padre scolopio: «Amerei
scrivere una storia della nostalgia dell’altro lungo tutta la storia umana»
Senza contrapposizioni
di ENZO BIANCHI
«Amerei scrivere una storia della nostalgia dell’altro lungo tutta la
storia umana ». È da queste parole di padre Ernesto Balducci che prendo le
mosse per riflettere su «L’altro come dono». Nel nostro modo abituale di
pensare e di parlare questa nostalgia è assente e ricorriamo troppo sbrigativamente
a due categorie contrapposte «noi» e «gli altri». Ma è arduo definire i confini
tra queste due entità e, ancor di più, stabilire con certezza chi appartiene
all’una o all’altra, in che misura e per quanto tempo. Quando giustapponiamo i
due termini, in realtà intraprendiamo un percorso suscettibile di infinite
varianti: ci possiamo infatti inoltrare su un ponte gettato tra due mondi,
oppure andare a sbattere contro un muro che li separa o ancora ritrovarci su
una strada che li mette in comunicazione. Possiamo anche scoprire l’opportunità
di un intreccio fecondo dell’insopprimibile connessione che abita noi e loro.
Appare evidente allora come per l’essere umano la relazione con gli altri sia
una delle modalità di relazione che – assieme a quella con se stesso, con il
cosmo e, per chi crede, quella con Dio – gli permettono di costruire la propria
identità e di vivere. Chi di noi non si è mai chiesto come percorrere i cammini
dell’incontro, della relazione con l’altro, con ogni altro, con ogni volto umano?
In primo luogo occorre
riconoscere l’altro nella sua singolarità specifica, riconoscere la sua dignità
di essere umano, il valore unico e irripetibile della sua vita, la sua libertà,
la sua differenza: è uomo, donna, bambino, vecchio, credente, non credente,
ecc. È un essere umano come me, eppure diverso da me, nella sua irriducibile
alterità: io per lui (o lei) e lui (o lei) per me! Teoricamente questo
riconosci-mento è facile, ma in realtà proprio perché la differenza desta
paura, si deve mettere in conto l’esistenza di sentimenti ostili da vincere: in
particolare, c’è in noi un’attitudine che ripudia tutto ciò che è lontano da
noi per cultura, morale, religione, estetica o costumi. Quando si guarda
l’altro solo attraverso il prisma della propria cultura, allora si è facilmente
soggetti all’incomprensione e all’intolleranza. Non spetta a me ricordare
quanto sia stato decisivo il contributo di padre Balducci a tale proposito, soprattutto
nelle opere dell’ultima fase della sua vita: L’uomo planetario e La terra del
tramonto.
Bisogna dunque esercitarsi a
desiderare di ricevere dall’altro, considerando che i propri modi di essere e
di pensare non sono i soli esistenti ma si può accettare di imparare,
relativizzando i propri comportamenti. C’è un sano relativismo culturale che
significa imparare la cultura degli altri senza misurarla sulla propria: questo
atteggiamento è necessario in una relazione di alterità in cui si deve prendere
il rischio di esporre la propria identità a ciò che non si è ancora… Se ci sono
questi atteggiamenti preliminari, allora diventa possibile mettersi in ascolto:
ascolto arduo ma essenziale di una presenza, di una chiamata che esige da
ciascuno di noi una risposta, dunque sollecita la nostra responsabilità. Non mi
stancherò mai di ripeterlo: l’ascolto non è un momento passivo della
comunicazione, ma è un atto creativo che instaura una confidenza quale
con-fiducia tra i due ospiti, chi ospita e chi è ospitato. L’ascolto è un sì
radicale all’esistenza dell’altro come tale; nell’ascolto le rispettive
differenze si contaminano, perdono la loro assolutezza, e quelli che sono
limiti all’incontro possono diventare risorse per l’incontro stesso.
Nell’ascolto si arriva
progressivamente a porsi un semplice domanda: in verità, chi ospita e chi è
ospitato? Ascoltare l’altro non equivale dunque a informarsi su di lui, ma
significa aprirsi al racconto che egli fa di sé per giungere a comprendere
nuovamente se stessi. E nell’ascolto – lo sappiamo bene per esperienza –
occorre rinunciare ai pregiudizi che ci abitano, occorre lottare per farli
tacere dentro di noi e a volte addirittura nelle posture fisiche con cui stiamo
di fronte all’altro. Siamo inoltre chiamati a nominare e ad affrontare le paure
che ci abitano quando entriamo in relazione con l’altro, senza pensare
stoltamente di poterle rimuovere o sopprimere, perché altrimenti torneranno in
seguito con maggior forza. Quando ci si immette in questo percorso di
sospensione del giudizio, ecco che si appresta l’essenziale per guardare
all’altro con sym-pátheia: quest’ultima è un atteggiamento che si nutre di
un’osservazione partecipe, la quale accetta anche di non capire l’altro e
tuttavia tenta di esercitarsi a “sentire-con lui”. In tal modo si comprende che
la verità dell’altro ha la stessa legittimità della mia verità. E si faccia
attenzione: ciò non equivale a dire che non c’è verità o che tutte le verità si
equivalgono. No, ciascuno è legittimato a manifestare la propria verità, ognuno
deve impegnarsi con umiltà a confrontarsi e a ricevere la verità che sempre
precede ed eccede tutti, pur nella convinzione che la propria verità è quella
su cui può essere fondata e trovare senso una vita. Questa “simpatia” decide
anche dell’empatia, che non è lo slancio del cuore che ci spinge verso l’altro,
bensì la capacità di metterci al posto dell’altro, di comprenderlo dal suo
interno: è la manifestazione dell’humanitas dell’ospite e dell’ospitante, è
umanità condivisa.
Attraverso queste tappe – mai
schematiche, ma sempre da rinnovarsi nel faccia a faccia, mediante
un’intelligenza creativa e un amore intelligente – si può giungere al dialogo,
autentica esperienza di intercomprensione.
Dia-lógos: parola che si lascia
attraversare da una parola altra; intrecciarsi di linguaggi, di sensi, di
culture, di etiche; cammino di conversione e di comunione; via efficace contro
il pregiudizio e, di conseguenza, contro la violenza che nasce da
un’aggressività non parlata… È il dialogo che consente di passare non solo
attraverso l’espressione di identità e differenze, ma anche attraverso una
condivisione dei valori dell’altro, non per farli propri bensì per
comprenderli. Dialogare non è annullare le differenze e accettare le
convergenze, ma è far vivere le differenze allo stesso titolo delle
convergenze: il dialogo non ha come fine il consenso ma un reciproco progresso,
un avanzare insieme. Così nel dialogo avviene la contaminazione dei confini,
avvengono le traversate nei territori sconosciuti, si aprono strade
inesplorate.
Sono le strade che ha percorso
Gesù di Nazareth e che ha lasciato ai suoi discepoli come tracce da seguire,
facendosi maestro con la sua arte della relazione, la sua volontà di ascoltare
e accogliere quanti incontrava sul suo cammino, fino a lasciarsi costruire,
edificare da questi rapporti. Possiamo intendere anche in questo senso alcune
parole di padre Balducci in una delle sue ultime omelie: «La riconciliazione
consiste in uno scambio tale per cui uno non è se stesso se non in quanto si
riferisce all’altro.
Questa condizione antropologica
piena è il luogo in cui si ritagliano le positive avventure della nostra vita,
certamente parziali ma che ci fanno sognare un mondo diverso da questo». Un
mondo in cui possa finalmente trovare compimento il desiderio di Gesù, che è la
fonte e il culmine di ogni discorso sull’altro come dono: «Voi siete tutti
fratelli» ( Mt 23,8).