martedì 30 aprile 2019
domenica 28 aprile 2019
CAMBIARE LA SCUOLA? E' COME GUIDARE UN ICEBERG
di
Simone Paliaga *
Ci sono temi tabù. Inaffrontabili se non
schierandosi. Uno di questi, soprattutto tra chi ci lavora, è la valutazione
della scuola. O meglio la valutazione delle istituzioni scolastiche, del loro
operato e della loro efficacia. E, come conseguenza, l’indiretta valutazione
dei docenti. Ogni volta che si solleva la questione la polemica divampa. È
impossibile discuterne senza assumere posizioni radicali. E in Italia non si è
mai riusciti a parlarne pacatamente accettando l’idea che sia legittimo
valutare le istituzioni scolastiche e la loro efficacia. E questo sorprende
perché la scuola vive anche di valutazioni.
Oggi c’è una grande opportunità per riaprire il
dibattito sulla valutazione dell’efficacia del sistema di istruzione.
Disponiamo finalmente di un testo importante per prendere di petto la
questione. Si tratta di Efficacia e inefficacia educativa. Esame
critico della Knowledge Base (Springer editore, pagine 409,
s.i.p.), pubblicato da poco in traduzione italiana dall’Invalsi grazie a un
finanziamento europeo confluito nei celebri PON.
Il nome dell’autore, Jaap Scheerens, a molti dice
poco o nulla. Eppure è una delle figure in- tellettuali più influenti in
circolazione, soprattutto per l’analisi condotta da anni intorno alle politiche
scolastiche. Classe 1946, olandese di nascita, Scheerens ha anche insegnato in
Italia all’Università Roma Tre. Per lungo tempo ha partecipato a progetti di
ricerca internazionale. Attualmente è membro del consiglio scientifico
dell’Invalsi, l’agenzia nazionale a cui compete, tra l’altro, la valutazione
del sistema scolastico italiano.
Il testo, peraltro molto tecnico e specifico e
frutto di oltre dieci anni di lavoro, pone problemi di governance educativa
e di politiche di organizzazione del
sistema scolastico. Tutte cose apparentemente
lontane dalla quotidianità ma le cui conseguenze ricadono sulla vita di milioni
di persone tra studenti, famiglie e docenti. Dalle analisi dello studioso
olandese emerge «una evidenza della limitata malleabilità dei sistemi
educativi, indicando non solo scarse associazioni significative fra “cause” ed
“effetti” ma anche la lentezza, nella maggioranza dei casi, del processo di
riforma dell’istruzione». Snocciolando analisi e dati, il pedagogista
neerlandese mostra come la complessità dei sistemi scolastici sia così
ampia e variegata che trovare soluzioni atte al loro miglioramento diventa
difficile senza contare la pesante inerzia dei sistemi scolastici. Su ognuno di
essi gravano così tante variabili che ogni soluzione deterministica è destinata
a un probabile fallimento. Individuare una causa su cui intervenire per sortire
l’effetto desiderato sulla «malleabilità» dei sistemi scolastici si rivela
illusorio.
Scheerens, pur propendendo per il modello di
istruzione olandese, riconosce che sia difficile stabilire «scientificamente»
quali condizioni e quali azioni producano sistemi educativi efficaci. Le
variabili coinvolte sono così tante e per di più incastonate in un sistema
complesso multilivello (ministero, istituzione scolastica, classe e alunni e
insegnanti) che individuare degli indicatori condivisibili da tutti rischia di
mancare di rigore. Pur riconosciuta la complessità della situazione ancora di
più si dovrebbe aprire il dibattito sulle modalità della valutazione.
sabato 27 aprile 2019
PACE A VOI !
Commento di don Luciano Cantini
Il saluto è quello di sempre, di
ogni occasione, di ogni incontro: “shalom”, “pace”; oggi, però sembra assumere
un significato diverso, lo si deduce dal fatto che Giovanni ripete lo stesso
saluto per ben tre volte. C'è sicuramente un richiamo, un eco della cena
d'addio (Gv 14,27) quando Gesù dice: "vi lascio la pace, vi do la mia
pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi".
Il mondo sembrerebbe affannosamente
cercare la pace ma qual è la verità? Come è possibile giungere alla pace con
strumenti che gli sono contrari... si fanno accordi che sono i risultati di
compromessi destinati a cadere, gli armamenti sono sempre più sofisticati e le
armi sempre più diffuse, per le strade sperimentiamo violenza e la criminalità
è sempre più organizzata e trova terreno facile, le religioni danno spazio agli
integralismi che prima o poi manifestano atteggiamenti di chiusura. Si potrà
raggiungere una certa pacificazione, un equilibrio tra forze diverse, destinate
irrimediabilmente a saltare.
La Pace che Gesù ci dona è frutto
dell'evento pasquale della sua morte e resurrezione, di quella morte che è
amore, perdono per i persecutori e nemici, che è totale abbandono alla volontà
del Padre. Pace che il mondo non conosce e non è capace di dare perché non appartiene
a questo mondo e che, una volta accolta, il mondo non può togliere.
Non possiamo immaginare di avere un
percorso diverso per accogliere il dono della Pace se non passando attraverso
lo stesso evento Pasquale, quel mistero di morte e di resurrezione che Cristo
ha vissuto e insegnato: "Chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua
vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna". (Gv 12,25)
Soltanto il perdono e la
misericordia potranno portarci alla pace, soltanto la disponibilità a
"perdere" la vita ci rende possibile ottenerla. Non abbiamo altro
scampo, non ci è data altra via se non quella della Pasqua.
In Gesù, l'Amore ha vinto
sull'odio, la misericordia sul peccato, il bene sul male, la verità sulla
menzogna, la vita sulla morte...
“Faccia di noi dei costruttori
di ponti, non di muri. Egli, che ci dona la sua pace, faccia cessare il fragore
delle armi, tanto nei contesti di guerra che nelle nostre città, e ispiri i
leader delle Nazioni affinché si adoperino per porre fine alla corsa agli
armamenti e alla preoccupante diffusione delle armi, specie nei Paesi
economicamente più avanzati”. (Papa Francesco, Pasqua 2019).
..."Pace a voi! Come il
Padre ha inviato me, anch'io mando voi".
Gesù, ripete lo stesso dono della
Pace, lo aveva appena fatto mostrando ai discepoli i segni della passione,
adesso quel dono è legato allo stesso suo mandato e al dono dello Spirito
Santo. I discepoli, noi cristiani, condividiamo col Signore la stessa sua
missione, il medesimo suo respiro: soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito
Santo», è l'identico gesto del Dio Creatore che ad Adamo ha donato l'alito
della vita (Gn 2,7) che nella Pasqua ha la dimensione della misericordia e del
perdono.
... Pace a voi
Tommaso che voleva vedere e toccare
per credere adesso è presente, anche lui riceve il dono della pace, con
l'invito a guardare e mettere il suo dito nelle piaghe di Cristo. Tommaso, come
noi, è nel mezzo tra il credere ed il non credere... basta poco per scivolare
da una o dall'altra parte incapaci a cedere le nostre opinioni, i nostri
percorsi, le nostre prospettive. Gesù ci invita entrare dentro le sue piaghe
non dissimili dalle piaghe dell'umanità; la Fede è il dono che riceviamo
proprio penetrando dentro di lui, entrando nel suo Corpo per amare come lui ama.
Tratto da Qumran2.net | www.qumran2.net
LIBERTA' E VERITA' NELL'ERA IPERMODERNA
La trasformazione dell’idea di 'libertas' ai tempi
della globalizzazione
La libertà nell’era ipermoderna non può fare a meno
della verità.
*
*
Gli individui
talvolta si sentono spossessati di una soggettività che esprimeva la loro
identità.
L’uniformazione
comporta deformazione. Oggi pare sparito un pensiero che faccia appello alla
coscienza, al 'foro interno', alla radice di verità che nutre l’anima umana, la
sua fede e la sua storia.
Viviamo nel carnevale della libertà: tempo in cui
le categorie di pubblico e di privato si rovesciano e si confondono, in cui il
virtuale e il reale si compattano. Ma senza un’assunzione di responsabilità il
destino va alla deriva.
di
Giancarlo Ricci
Tema centrale e nevralgico, quello della libertà
nella nostra epoca. Inoltre, cosa inquietante, diversi constatano una sua lenta
ma inesorabile metamorfosi a partire dall’era della globalizzazione. In fondo
l’istanza della libertà rappresenta il cuore pulsante di ciascun essere umano e
al contempo di ogni società civile. Ripercorrere la tortuosa storia del
concetto di libertà nel corso dei secoli è un’avventura ricca di sorprese.
Non c’è filosofo, pensatore, saggista, teologo che,
soprattutto a partire dall’Era dei Lumi e degli albori della costituzione dello
Stato moderno, non intervenga sulla questione della libertà, e spesso per fare
i conti con il complesso e dibattuto tema della secolarizzazione, del laicismo,
della potestas.
Man mano
che nell’orizzonte del pensiero moderno il riferimento religioso e culturale
all’idea di Dio si indebolisce, gli umani sono costretti a mettere a punto,
attraverso gli strumenti del diritto e delle istituzioni, un diverso concetto
di libertà che leghi l’uomo alla propria responsabilità diretta, e che
ugualmente faccia i conti con un’autorità superiore. C urioso:
la storia del concetto di libertà non è rettilinea, procede piuttosto per
svolte improvvise, zone d’ombra, strane dimenticanze. Nel mondo dell’antichità
classica greca e romana la solida istanza della libertà si svolgeva
essenzialmente in funzione di un ambito pubblico connesso alla gestione della
Polis. Nell’epoca successiva, ossia nel cristianesimo, si afferma – molti
sembrano dimenticarlo – un concetto nuovo di liber- tas che,
lungo la dissoluzione dell’ethos pagano e la maturazione del concetto di humanitas, introduce
la sfera della coscienza dove il mondo dell’interiorità e del legame con la
fede diventano riferimenti decisivi in ogni scelta soggettiva. La svolta del
cristianesimo è stata ed è il diritto dell’uomo soggetto e persona.
La nuova prospettiva della libertas
christiana distingue, tra l’altro, l’ambito del 'foro interno' da
quello del 'foro esterno': il primo riguarda l’interiorità spirituale e
religiosa della coscienza e il secondo la scena pubblica e civile
dell’individuo. Sullo sfondo di questa distinzione si porrà successivamente la
complessa questione di stabilire un ordine nella libertà in base alla
priorità delle due autorità della Chiesa e dello Stato. La storia medievale e
quella moderna saranno dominate da questa strisciante conflittualità. E oggi?
La modernità promuove un’ipertrofia della libertà. Occorre tuttavia distinguere
tra il Novecento e l’attuale era della globalizzazione. In fondo l’uomo
novecentesco si accorgeva di perdere la propria libertà e combatteva per
conquistarla. Era una guerra totale e totalitaria: conquistare la libertà
equivaleva alla possibilità di poter continuare a sopravvivere. Nel regno delle
ideologie, l’ideale di libertà istituiva una sorta di legame patologico che
spesso sfociava in un nichilismo realizzato fatto di distruzioni e massacri.
Nell’ipermodernità si afferma invece un altro volto
del nichilismo: offrire bulimicamente ogni forma di libertà facendola
coincidere con la scelta obbligata di nuovi consumi, nuovi desideri, nuovi
piaceri. La libertà diventa un diritto, un orpello narcisistico, una cinica conferma
autoreferenziale. Questa libertà, ridotta a capriccio e poi a merce, svende
l’idea di 'credersi liberi'. Da qui al trionfo dell’autodeterminazione il passo
è breve: ritenere che la nostra libertà prescinda e possa fare a meno di quella
altrui, credere che il volere individuale possa trascendere la nostra memoria o
la nostra storia. L’offerta a gettito continuo di nuove libertà all
inclusive, conforta il cittadino e lo convince di poter fare a meno di
ogni responsabilità. L’ipermodernità sembra essere riuscita, inflazionando le
libertà, a neutralizzare l’istanza della responsabilità in cambio di una
promessa di sicurezza e di benessere. Intanto accumuliamo libertà, quasi le
collezioniamo. M a di quali libertà stiamo parlando? Nella scena sociale
lo constatiamo sempre più facilmente: simile idea di libertà produce
spesso disagio,angoscia, depressione, demotivazione. Gli individui talvolta
si sentono spossessati di una soggettività che esprimeva la loro
identità. L’uniformazione comporta deformazione. A tal proposito non
possiamo fare a meno di evocare qui i celebri e paradigmatici versi di
Giovanni secondo cui 'la Verità rende liberi' (Gv 8,32). Ecco un
punto
centrale e imprescindibile: la connessione tra
libertà e verità. Motore di ogni atto di libertà, l’istanza di verità, nell’era
della libertà globalizzata sembra oscurata o considerata superflua. In effetti
una libertà che non abbia salde le proprie radici nel terreno della verità lascia
il tempo che trova, si perde in un indifferenziato relativismo, si avvilisce in
estenuanti autoreferenzialità. I l celebre polemista
mitteleuropeo del secolo scorso, Karl Kraus, scriveva: «La libertà di pensiero
ce l’abbiamo, adesso ci vorrebbe il pensiero». Battuta di grande attualità. La
nostra società sembra essere in difficoltà in materia di pensiero. Pare svanito
un pensiero che sia all’altezza delle numerose complessità che attraversiamo:
un pensiero come progetto sociale, civile, culturale, politico, un pensiero
come programma di civiltà, come disegno di logiche e di relazioni
effettivamente cooperanti. Soprattutto pare sparito un pensiero che faccia
appello alla coscienza, al 'foro interno', alla radice di verità che nutre
l’anima umana, la sua fede e la sua storia.
Il tempo della post libertà pare esigere che tutto
debba consumarsi entro il perimetro coatto del 'foro esterno'. Ormai uomini
postmoderni e globalizzati, viviamo nel carnevale della libertà: tempo in cui
le categorie di pubblico e di privato si rovesciano e si confondono, in cui il
virtuale e il reale si compattano diventando uno la finzione dell’altro. In
questa logica si consuma una drammatica constatazione: senza un’assunzione di
responsabilità il destino va alla deriva al punto da sembrare ineluttabile e
fornendo l’alibi secondo cui ogni presa di responsabilità risulta inane,
inutile. Si preferisce chiamarsi fuori dalla complessità del mondo, della
coscienza, dell’anima umana. Che cosa è la verità? Una terribile complicazione
che è meglio consegnare al politicamente corretto in grado di rendere le cose
neutre, uguali tra loro, indifferenziate, senza più la necessità di scegliere,
di esporsi e di testimoniare il proprio essere al mondo. Così, come un gioco di
prestigio, ugualmente sparisce ogni traccia di responsabilità.
Siamo entrati nel tempo della post libertà. La
società contemporanea tende a inflazionare la libertà affinché l’uomo
contemporaneo creda di essere libero e di avere a portata di mano qualsiasi
scelta. Ma quando tutto sembra possibile la libertà implode, si svuota dal suo
interno e muore di troppa libertà. Pensata senza limiti, la libertà diventa
mortifera, un inferno. La vita si spegne, pulsa di insofferenza, risulta non
più vivibile.
Tale mortificazione è da porre al centro della
riflessione e dell’esperienza psicanalitiche. Il lavoro analitico e clinico
possono essere letti come un lavoro che punta a riattivare un livello vivibile
di libertà, come il percorso in cui un soggetto prova a ritessere il proprio
destino, a riscriverlo, a riprogettarlo partendo da un’istanza che scaturisce
da una responsabilità altra, forgiata da una consapevolezza senza compromessi e
impedimenti. In definitiva si tratta di un lavoro di libertà che scaturisce
dall’incontro con il desiderio di progettare una libertà Altra che
abbia il sapore di una conquista perenne: per un soggetto riuscire a tollerare
la fatica e la soddisfazione di riconquistare una libertà mai immaginata. E
risponderne.
IL VERO SCONTRO NON E' TRA LE RELIGIONI, MA DENTRO DI ESSE
di Giuseppe Savagnone
L’opinione pubblica italiana e l’Islam
Gli ultimi sanguinosi attentati contro le chiese
cristiane, nello Sri Lanka, hanno dato luogo, su una parte della stampa e sui
social, a una ridda di commenti aspramente ostili sia nei confronti dell’islam
che di quanti, in Occidente, hanno nei suoi riguardi un atteggiamento
dialogico.
Un bell’esempio lo troviamo sul quotidiano «Libero»
del 23 aprile, in un pezzo firmato dal direttore, Vittorio Feltri: «Il pensiero
unico progressista è che i figli di Allah spesso non sono figli di
puttana, bensì bravi ragazzi fedeli di una religione nobile che hanno
varie ragioni per odiare noi che non adoriamo il loro Dio».
Da qui una conseguenza sconsolante per un onesto
giornalista: «Guai a fare un titolo che definisca bastardi gli attentatori».
Vari esempi di giornalismo tollerante
Su questo veramente i fatti sembrano contraddire il
brillante opinionista. Perché proprio il suo giornale, quando ne era direttore
Maurizio Belpietro (ora alla guida di un altro foglio della medesima linea, «La
Verità»), all’indomani dell’attentato di Parigi del novembre 2015, uscì con il
titolo, a caratteri di scatola, «Bastardi islamici» e, accusato di «offese a
una confessione religiosa mediante vilipendio di persone», è stato poi assolto
con formula piena dal Tribunale di Milano.
Così come era stato già assolto qualche tempo prima,
anche questa volta perché «il fatto non sussiste», per aver pubblicato una foto
dell’attacco terroristico al giornale parigino Charlie Hebdo il
7 gennaio 2015, titolando «Questo è l’Islam».
Magari sarà perché i giudici che hanno emesso quelle
sentenze non aderiscono compitamente a quel «pensiero unico» secondo cui «i
figli di Allah spesso non sono figli di puttana», ma da esse non traspare
proprio quel filo-islamismo cieco che Feltri denunzia a gran voce.
Anche se, con franchezza, mi chiedo come avrebbe
reagito la mia sensibilità di cristiano se, sotto le foto dell’attentato del 15
marzo scorso contro due moschee di Christchurch, in Nuova Zelanda, dove sono
morti 50 fedeli islamici e altri 50 sono stati feriti, un quotidiano avesse
apposto il titolo: «Questo è il Cristianesimo». Oppure «Bastardi cristiani».
Una distinzione dentro l’Islam
Certo, questo suppone si possa far distinzione tra
quei seguaci dell’Islam che interpretano la loro fede in modo compatibile col
dialogo tra diverse religioni, escludendo il ricorso alla violenza fisica o
verbale, e quelli che invece possiamo definire, con una formula un po’
sbrigativa ma abbastanza fedele, “fanatici”.
Il caso delle autorità musulmane dello Sri Lanka
Che ce ne siano della prima categoria, e ai massimi
vertici della gerarchia religiosa musulmana, lo dicono le reazioni agli
attentati dello Sri Lanka.
Su di essi si è chiaramente pronunziato il Consiglio
dei saggi musulmani, sotto la presidenza del Grande Imam di al-Azhar Ahmed
El-Tayeb.
«Il Consiglio – si legge in un comunicato – denuncia
con forza attacchi così spregevoli che vanno contro gli insegnamenti di tutte
le religioni e credi, nonché contro tutte le leggi e norme sociali
internazionali».
Il Consiglio sottolinea inoltre «l’urgente necessità di intensificare gli sforzi internazionali per contrastare tutte le forme di terrorismo. Gli attacchi contro civili innocenti che celebrano una festività religiosa – si legge nel comunicato – dimostrano che le persone che hanno compiuto questi attacchi non sono altro che vigliacchi disumani».
Il Consiglio sottolinea inoltre «l’urgente necessità di intensificare gli sforzi internazionali per contrastare tutte le forme di terrorismo. Gli attacchi contro civili innocenti che celebrano una festività religiosa – si legge nel comunicato – dimostrano che le persone che hanno compiuto questi attacchi non sono altro che vigliacchi disumani».
Alla strage di Colombo il Grande Imam di
al-Azhar dedica anche un tweet personale: «Non posso immaginare che un essere
umano possa prendere di mira persone innocenti nel giorno della loro
celebrazione. Queste perverse azioni terroristiche vanno contro gli
insegnamenti di ogni religione».
Anche a livello locale, i massimi leader musulmani
dello Sri Lanka si sono pronunziati senza alcuna sfumatura di ambiguità: «A
nome della comunità musulmana dello Sri Lanka, offriamo le nostre condoglianze
al popolo della fede cristiana e estendiamo le nostre mani in segno di amicizia
in solidarietà».
A questa solidarietà ha fatto riscontro una precisa richiesta: «Esortiamo il governo a fornire sicurezza a tutti i siti religiosi e a dare la massima punizione a tutti coloro che sono coinvolti in questi atti ignobili», ha detto Jamiyyathuul Ulama, leader dei teologi musulmani di tutto il Paese.
A questa solidarietà ha fatto riscontro una precisa richiesta: «Esortiamo il governo a fornire sicurezza a tutti i siti religiosi e a dare la massima punizione a tutti coloro che sono coinvolti in questi atti ignobili», ha detto Jamiyyathuul Ulama, leader dei teologi musulmani di tutto il Paese.
Fanatici e traditori
Tutti figli di p…, tutti bastardi, travestiti da
brave persone per ingannare l’opinione pubblica mondiale?
A smentire questa ipotesi – peraltro già in sé piuttosto avventurosa – stanno ancora una volta i fatti. Raramente ci si rende conto che il bersaglio delle più efferate violenze compiute dagli islamici fondamentalisti non sono rivolte contro i cristiani, ma contro i loro correligionari illuminati e impegnati a sviluppare un dialogo con le altre religioni, prima fra tutte il cristianesimo. La logica è semplice ed è esattamene la stessa che porta personaggi come Feltri, o Belpietro, o Sallusti, a inveire, prima ancora che contro i musulmani, contro i non-musulmani che dialogano con loro. Per il fanatico, nulla vi è di più esasperante di un atteggiamento che ai suoi occhi appare un tradimento, le cui ragioni non possono che essere le più ignobili.
A smentire questa ipotesi – peraltro già in sé piuttosto avventurosa – stanno ancora una volta i fatti. Raramente ci si rende conto che il bersaglio delle più efferate violenze compiute dagli islamici fondamentalisti non sono rivolte contro i cristiani, ma contro i loro correligionari illuminati e impegnati a sviluppare un dialogo con le altre religioni, prima fra tutte il cristianesimo. La logica è semplice ed è esattamene la stessa che porta personaggi come Feltri, o Belpietro, o Sallusti, a inveire, prima ancora che contro i musulmani, contro i non-musulmani che dialogano con loro. Per il fanatico, nulla vi è di più esasperante di un atteggiamento che ai suoi occhi appare un tradimento, le cui ragioni non possono che essere le più ignobili.
Lo scontro tra civiltà e inciviltà
Così, è certamente una tragedia immane che solo nel
2018 – secondo un rapporto di World Watch List – ben 4.305 cristiani siano
stati uccisi per la loro fede.
Ma le cronache delle violenze intestine diffuse in
tutto il mondo islamico fa sospettare che ancora di più siano i seguaci
moderati dell’Islam uccisi dagli estremisti.
Il che, ovviamente, non attenua, anzi ingigantisce
la tragedia, ma la situa nella sua reale prospettiva, che non è quella dello
«scontro di civiltà» di cui parlava Huntington, ma della sfida all’ultimo
sangue tra civiltà e inciviltà, trasversale a tutte le religioni – ci sono
fondamentalisti ebrei, indù, cristiani – e che si sta svolgendo anche
all’interno dello stesso cattolicesimo tra una linea aperta al confronto e
all’incontro, pur senza edulcorare le diversità, e chi invece accusa la Chiesa
attuale, primo fra tutti papa Francesco, di colpevoli silenzi.
I presunti silenzi della Chiesa
È la denunzia del noto politologo americanoEdward
Luttwak, intervistato a La Zanzara, suRadio 24: «Il
Papa fa grandi dichiarazioni quando chiunque viene ucciso ma suicristiani sta
zitto».
La realtà, veramente, è un’altra. Il giorno di Pasqua, nel messaggio Urbi et orbi, Francesco ha parlato con chiarezza: «Desidero manifestare la mia affettuosa vicinanza alla comunità cristiana, colpita mentre era raccolta in preghiera, e a tutte le vittime di così crudele violenza».
La realtà, veramente, è un’altra. Il giorno di Pasqua, nel messaggio Urbi et orbi, Francesco ha parlato con chiarezza: «Desidero manifestare la mia affettuosa vicinanza alla comunità cristiana, colpita mentre era raccolta in preghiera, e a tutte le vittime di così crudele violenza».
E lo ha fatto di nuovo lunedì, all’Angelus, quando,
tra l’altro ha detto: «Prego per le numerosissime vittime e per i feriti.
Chiedo a tutti di non esitare a dare l’aiuto necessario. Auspico che tutti
condannino questi atti terroristici, atti disumani, mai giustificabili».
E più tardi, sempre lunedì, in un tweet: «Uniamoci
anche oggi in preghiera con la comunità cristiana dello Sri Lanka colpita da
una violenza cieca nel giorno di Pasqua. Affidiamo al Signore risorto le
vittime, i feriti e la sofferenza di tutti».
Gli hanno rinfacciato che il tweet sia stato postato
solo il giorno dopo (ma si era già espresso a voce!), con qualche ora di
ritardo rispetto a quello in occasione dell’incendio di Notre Dame. Sarà vero,
ma non mi sembra ci sano gli estremi per i toni esasperati di certa stampa e
certi ambienti “cattolici”…
Amici e nemici
Ma forse la vera ragione è un’altra e viene
evidenziata in una critica che si trova raccolta, insieme a quella di
filo-islamismo, nel sito «Dagospia»: «Il papa dedica la via crucis ai migranti,
ma abbandona i cristiani perseguitati nei paesi musulmani».
Già. I migranti. Tutta la politica dei “porti
chiusi” si regge su una logica che divide il mondo in “amici” – gli italiani, i
turisti stranieri ricchi (nessuno respinto alle frontiere…) – e “nemici” (i
migranti poveri, ricondotti acriticamente alla categoria dell’islam, anche se
in realtà molti sono cristiani come noi). Rientra in questo quadro manicheo
l’accusa fatta da Feltri nel suo articolo a tutti i critici della linea del
nostro attuale governo: «Non hanno neanche il coraggio di ammettere che il
monopolio del terrorismo ce l’hanno i cannibali dell’islam».
Se loro e solo loro sono una minaccia per il
cristianesimo, va bene la visione seguita, rigorosamente in nome del vangelo,
dal nostro ministro degli Interni e profeticamente anticipata da Feltri in un
suo articolo di tre anni fa: «Cerchiamo almeno di rendere la vita dura agli
invasori, così come fecero gli antichi romani. I quali (…) combattevano con
tutte le forze allo scopo di non farsi dominare dagli stranieri incivili»
(«Libero», 20 maggio 2016).
Se invece la minaccia – per il Cristianesimo come
per l’Islam – sono i fanatici che vogliono a tutti costi lo scontro, falsando
lo spirito delle loro rispettive religioni, la vera risposta è quella che ha
dato l’imam dei musulmani sufi che, a Colombo, ha invitato i cristiani, rimasti
esclusi dalle loro chiese, a venire a pregare nella sua moschea.
mercoledì 24 aprile 2019
25 APRILE - VIVA LA DEMOCRAZIA E LA COSTITUZIONE - NON DIMENTICARE CHI HA DATO LA VITA PER LA NOSTRA LIBERTÀ' ....
"La festa del 25 aprile ci stimola a riflettere come il nostro Paese seppe risorgere dopo la tragedia della seconda guerra mondiale. Un vero secondo risorgimento in un Paese materialmente distrutto e gettato nello scompiglio dal regime fascista nemico e da quello monarchico....
I giovani facciano propri i valori costituzionali ....
Conoscere la tragedia il cui ricordo è ancora vivo ci aiuta a comprendere le tante sofferenze che si consumano alle porte dell'Europa che coinvolgono popoli a noi vicini.
E' bene ricordare con gratitudine le donne e gli uomini, i civili e i militari, i sacerdoti che contribuirono al riscatto del nostro Paese....
La vostra testimonianza è un monito permanente, un argine di verità contro le interessate riscritture della storia....."
E' bene ricordare con gratitudine le donne e gli uomini, i civili e i militari, i sacerdoti che contribuirono al riscatto del nostro Paese....
La vostra testimonianza è un monito permanente, un argine di verità contro le interessate riscritture della storia....."
24 aprile 2019
Mattarella, Presidente della Repubblica
www.quirinale.it
lunedì 22 aprile 2019
AIMC - CONFERENZA NAZIONALE 2019
Conferenza nazionale 2019
L'AIMC OLTRE LE FRONTIERE
Roma, 11-12 maggio 2019
Centro nazionale AIMC
Clivo di Monte del Gallo, 48
domenica 21 aprile 2019
CRISTO, NOSTRA SPERANZA E NOSTRA GIOVINEZZA
Papa Francesco: " .....«Cristo vive. Egli è la nostra speranza e la più bella giovinezza di questo mondo. Tutto ciò che Lui tocca diventa giovane, diventa nuovo, si riempie di vita. Perciò, le prime parole che voglio rivolgere a ciascun giovane [e a ciascun] cristiano sono: Lui vive e ti vuole vivo! Lui è in te, Lui è con te e non se ne va mai. Per quanto tu ti possa allontanare, accanto a te c’è il Risorto, che ti chiama e ti aspetta per ricominciare. Quando ti senti vecchio per la tristezza, i rancori, le paure, i dubbi o i fallimenti, Lui sarà lì per ridarti la forza e la speranza» (Christus vivit, 1-2).
Cari fratelli e sorelle, questo messaggio è rivolto nello stesso tempo ad ogni persona e al mondo. La Risurrezione di Cristo è principio di vita nuova per ogni uomo e ogni donna, perché il vero rinnovamento parte sempre dal cuore, dalla coscienza. Ma la Pasqua è anche l’inizio del mondo nuovo, liberato dalla schiavitù del peccato e della morte: il mondo finalmente aperto al Regno di Dio, Regno di amore, di pace e di fraternità.
Cristo vive e rimane con noi. Egli mostra la luce del suo volto di Risorto e non abbandona quanti sono nella prova, nel dolore e nel lutto. ..........
Davanti alle tante sofferenze del nostro tempo, il Signore della vita non ci trovi freddi e indifferenti. Faccia di noi dei costruttori di ponti, non di muri.
Egli, che ci dona la sua pace, faccia cessare il fragore delle armi, tanto nei contesti di guerra che nelle nostre città, e ispiri i leader delle Nazioni affinché si adoperino per porre fine alla corsa agli armamenti e alla preoccupante diffusione delle armi, specie nei Paesi economicamente più avanzati. Il Risorto, che ha spalancato le porte del sepolcro, apra i nostri cuori alle necessità dei bisognosi, degli indifesi, dei poveri, dei disoccupati, degli emarginati, di chi bussa alla nostra porta in cerca di pane, di un rifugio e del riconoscimento della sua dignità.
Cari fratelli e sorelle, Cristo vive! Egli è speranza e giovinezza per ognuno di noi e per il mondo intero. Lasciamoci rinnovare da Lui! Buona Pasqua!"
PASQUA DI PACE A VOI TUTTI…….
Andrò in giro per le strade
sorridendo,
finché gli altri diranno:- è pazzo!
E mi fermerò
soprattutto
Coi bambini a giocare in periferia,
poi lascerò un fiore ad
ogni finestra
e saluterò chiunque incontrerò per via,
stringendogli la
mano.
E poi suonerò con le mie mani
le campane della torre a più
riprese
finché sarò esausto,
e dirò a tutti: PACE!
Ma lo dirò in
silenzio
e solo con un sorriso,
ma tutti capiranno.
David Maria
Turoldo
sabato 20 aprile 2019
POPULISMO ? UNA PAROLA CHE DIVIDE
Il termine nasce a fine
Ottocento ma non è legato a un concetto bene definito.
Federico Finchelstein propone un legame con il fascismo ma non convince.
Federico Finchelstein propone un legame con il fascismo ma non convince.
Lo storico argentino cerca le
esperienze comuni tra le esperienze populiste passate e recenti, arrivando a
definire il fenomeno «democrazia autoritaria» e «teologia politica» Gli
strumenti concettuali appaiono labili e i confini così ampi da divenire
evanescenti
di DAMIANO PALANO
«Dove i concetti mancano, ecco che al punto giusto compare
una parola », diceva Mefistofele nel Faust.
E qualcosa del genere è accaduto probabilmente per la parola
“populismo”: un vocabolo nato sul finire dell’Ottocento negli Stati Uniti, ma a
lungo rimasto circoscritto a un ambito piuttosto limitato, prima di conoscere
una straordinaria fortuna nell’ultimo quarto di secolo. A dispetto di un
utilizzo quantomeno inflazionato, al termine non è però legato un concetto
chiaramente definito. E anche per questo il dibattito condotto dagli studiosi
su cosa sia davvero il “populismo” – se si tratti cioè di un’ideologia, di una
mentalità, di uno stile retorico, di una modalità organizzativa, o altro – è
ben lontano dall’aver raggiunto una conclusione. E ovviamente la discussione è
diventata ancora più accesa dopo la conquista della Casa Bianca da parte di
Donald Trump, da molti considerato il portabandiera del nuovo “populismo
globale”.
Il libro di Federico Finchelstein Dai fascismi ai populismi.
Storia, politica e demagogia nel mondo attuale si inserisce proprio in questo
dibattito. In particolare, il lavoro dello storico argentino – da quasi un
ventennio trasferitosi negli Stati Uniti – nasce dall’insoddisfazione nei
confronti della gran parte della riflessione recente, accusata di due limiti:
per un verso dalla convinzione che il populismo sia un fenomeno nuovo,
innescato soprattutto dalla vittoria di Trump; per l’altro, dall’assenza di
riferimenti ai precedenti storici del populismo, e in particolare al regime di Juan
Domingo Perón in Argentina. Al contrario, sostiene Finchelstein, è
indispensabile riconoscere gli elementi comuni tra le esperienze populiste del
passato e quelle più recenti. E soprattutto è necessario comprendere il
fenomeno con la prospettiva di una «storia globale». A dispetto di queste
premesse, senz’altro condivisibili, il quadro che lo studioso dipinge finisce
però col ricorrere a categorie interpretative piuttosto evanescenti.
La tesi di fondo è che esista una stretta parentela tra
fascismo e populismo: quest’ultimo sarebbe in sostanza una «democrazia
autoritaria », oltre che un movimento – né di destra né di sinistra –
«portatore di una concezione intollerante della democrazia, in cui il dissenso
è ammesso ma viene dipinto come privo di qualsiasi legittimazione«. Dopo il
1945, il populismo avrebbe riformulato gli obiettivi del fascismo adattandoli a
un contesto democratico, senza però perdere il carattere autoritario. Pur
riconoscendo la variabilità delle forme in cui il fenomeno si è presentato, Finchelstein
propone un’articolata griglia definitoria, che considera il populismo, fra
l’altro, come «una forma estrema di religione politica», «una visione
apocalittica della politica», «una teologia politica fondata da un leader del
popolo che ha tratti messianici e carismatici», «una concezione omogenea del
popolo». Ma già da questa definizione emerge il limite di un notevole lassismo
concettuale.
Desta senz’altro qualche perplessità il fatto che
Finchelstein definisca l’ideologia fascista come «parte di una più vasta
reazione intellettuale all’Illuminismo » e come una «reazione alle rivoluzioni
progressiste del lungo
XIX secolo». In questo modo si fornisce una visione
monolitica del fascismo, trascurandone l’infatuazione per il progresso, le
ambizioni di radicale modernizzazione della società, gli elementi di affinità
con il socialismo. Qualche ulteriore perplessità è sollevata dalla stessa
categoria di «fascismo globale», che riconduce a un’unica matrice ideologica
regimi e movimenti in realtà piuttosto eterogenei. Ma problemi ancora più
evidenti emergono quando lo storico passa a considerare il populismo.
Contestando i tentativi di ridurre i fenomeni a ideal-tipi costruiti
astrattamente, Finchelstein ritiene si debba cominciare dalla storia, e cioè dai
caratteri delle esperienze populiste, a partire dal primo caso di regime
populista, individuato nel peronismo argentino. In altre parole, a suo avviso
non si deve tentare di definire teoricamente il concetto di populismo. Si
devono invece registrare gli elementi principali dei regimi e dei movimenti
populisti emersi nella storia. E proprio dall’osservazione di tali casi
risulterebbe una straordinaria affinità – che non è però un’identità – tra
populismo e fascismo. Ma, se il peronismo rappresentò davvero una
riformulazione di alcune componenti del fascismo, simili legami risultano
quantomeno più deboli per molti di quei leader che Finchelstein annovera nella
famiglia populista, come – per fare solo alcuni nomi – Carlos Menem, Alberto
Fujimori e Silvio Berlusconi. Le difficoltà non sono comunque solo queste. Il
populismo viene dipinto infatti in modo impressionistico, al tempo stesso, come
un’ideologia, un tipo di regime politico, uno stile, una visione del mondo e
molto altro. I confini del populismo diventano così davvero molto evanescenti.
Fra l’altro, Finchelstein sembra inconsapevole del fatto che il peronismo venne
definito “populismo” solo a posteriori, che quella categoria è il risultato di
una rielaborazione compiuta dalle scienze sociali, e che, più in generale, non
esistono testi fondativi della visione del mondo populista: e proprio queste
circostanze rendono quantomeno problematico definire il populismo come
un’ideologia, al pari di quella fascista e socialista. Ma altrettanto critica è
la definizione del populismo come “democrazia autoritaria”, soprattutto perché
non viene chiarito quali sarebbero gli elementi “empiricamente osservabili”
tali da rendere “autoritaria” una democrazia (senza al tempo stesso
trasformarla in un regime non competitivo e dunque non democratico). Il
rompicapo diventa così davvero insolubile. E la parola “populismo” rischia di
diventare una sorta di passepartout che promette di spalancare tutte le porte,
ma che non ne apre davvero nessuna.
Federico Finchelstein - Dai fascismi ai populismi - Storia,
politica e demagogia nel mondo attuale
Donzelli. Pagine 278. Euro 28 ,00
venerdì 19 aprile 2019
SPIRITUALITA' E POLITICA, INSIEME IN CAMMINO PER COSTRUIRE IL BENE COMUNE
Spiritualità e politica possono camminare
insieme?
''Debbono farlo'' secondo Luciano Manicardi priore di Bose
di Corona Perer
Costruire
una società solida richiede individui risolti. Occorre anche mettere a questa
costruzione mattoni solidi di pensiero, impegno, preparazione umana. Essere
pronti 'dentro' per 'darsi' alla comunità, rimanda alla dimensione spirituale
di chi "fa" politica.
Luciano
Manicardi biblista,
divenuto priore di Bose dal 2017 dove ha raccolto la pesantissima eredità di
Enzo Bianchi, ha scritto un piccolo e preziosissimo saggio "Spiritualità
e Politica" (Edizioni Qiqajon) in cui risuonano suggestioni importanti
a partire da Max Weber il quale ebbe a dire della politica “...chi è
interiormente debole si tenga lontano da questa carriera...”
Partendo
da una domanda del gesuita Paul Valadier, dottore in teologia e in
filosofia (“...e se la vita spirituale fosse una delle condizioni fondamentali
di un’intensa vita sociale e politica?”), Manicardi tenta una risposta
affermando che una politica mite, giusta, sensata e in una parola umana,
necessita di uno sforzo fondamentale: l'ascolto. Lo si esercita al meglio se il
politico ha una sua dimensione spirituale.
Da monaco e
biblista, spiega cosa sia (e come ci si possa dire) “comunità”, analizza
la dimensione del bene comune ed il valore della parola che nel politico
si esprime di sovente di promessa ed afferma che la qualità della
politica è legata alla qualità umana di chi si impegna in essa, alla sua
capacità di governare se stesso: come i profeti biblici che, spesso in
situazioni storiche di tenebra, hanno saputo creare futuro e dare speranza.
Manicardi
spiega l'importanza di una vita interiore come pre-requisito per donarsi agli
altri e affrontare le sfide della politica oggi, indicando nella
immaginazione, nella creatività e nel coraggio le tre facoltà da sviluppare per
costruire una interiorità. Tre vie che un buon politico deve percorrere, guardandosi
bene dalla tentazione della vanità.
“La
straordinaria forza sprigionata da alcuni uomini politici è connessa alla loro
profondità spirituale" scrive il Priore, che cita solo Gandhi (ma
en-passant) e lo svedese Dag Hammarskjöld segretario delle Nazioni Unite
che cambiò per sempre l'organizzazione, morto cinquant'anni fa in un incidente
sospetto il quale ebbe a dire: “Le domande che sono alla base di una vita
spirituale non sono affare privato, ma possono e anzi debbono alimentare un
impegno pubblico”.
Che legame
ci può essere allora tra politica e spiritualità? Attraverso un percorso che
tocca Simone Weil, Max Weber, Hanna Arendt e Blaise Pascal, il
priore di Bose spiega che ogni azione, ogni impegno sociale e politico trovano
il loro fondamento nell’interiorità, nel profondo di noi stessi. Capire
se stessi permette quindi di andare verso gli altri.
Spiritualità
e politica possono quindi camminare insieme. Anzi, debbono. Il che impone avere
percezione del limite, ma anche dell'immenso potere della parola. E poi la
dimensione del coraggio che – scrive Manicardi - “...si nutre di
orizzonti vasti ed estesi” ed agisce “malgrado”, cioè nonostante i pericoli e
le difficoltà dell'azione. “Il coraggio è proprio della persona che sa
decidere. Anzi il coraggio stesso consiste in una decisione, un atto risultato
che vince le resistenze che indurrebbero alla inazione”.
Non occorre
essere eroi, ma di fatto lo si diventa. Perchè, indica ancora il Priore, il
coraggio si vive nella normalità che è anzitutto il coraggio civico di fare il
proprio dovere.
E' la
dimensione dell'homo civicus. E spiega - in pagine ispirate che dovrebbero
essere lezione per chiunque amministra - che il mondo tecnologico tende ad
escludere sia il coraggio (inibito dentro procedimenti freddi e tecnici) che la
stessa immaginazione fondamentale a prefigurare e creare la realtà. Anzi
l'immaginazione è addirittura sovversiva, per questo il mercato crea prodotti
ancor prima che possiamo immaginarli o desiderarli. E' anche in questo modo che
si addomestica la libertà di immaginare: tutto è pronto all'uso non occorre
nemmeno pensarlo. L'homo emptor (compratore) non immagina: usa.
Particolare
importanza viene data alla parola in politica. Citando Hanna Arendt (“la polis
è il corpo politico più d'ogni altro basato sulla parola...”), Manicardi pone
la parola al cuore di un processo che da “io” diventa “noi”. Ed è bello lo
sdoganamento della parola promessa, o meglio di quelle parole che spesso
suonano di “promessa elettorale”, o lo sono.
“La promessa
non è arrogante, è volontà umile. Nel promettere io so di affrontare
l'incognito in me e negli altri. E mi dispongo a pagarne il prezzo”
scrive Manicardi che riconosce nella promessa sia potenza che estrema
delicatezza, tanto sul piano spirituale che politico. “In essa è implicata la
responsabilità verso se stessi, verso gli altri, verso il futuro e verso la
parola pronunciata al cui servizio, colui che promette, si pone”.
Magistrale,
infine, l'analisi di ciò che è “comunità” termine che deriva (e contiene) il
sostantivo latino “munus”: cioè il dono che si fa, non quello che si riceve.
Ebbene la comunità è l'insieme di persone donanti, l'uni agli altri, radunati
attorno a beni comuni. Prima di affrontare la lezione del limite (la morte) che
porta ogni individuo o società a creare per sopravvivere a sé, Manicardi ci
dona una definizione illuminante. “L'umanità conosce il desiderio di comunità
perchè essa è una comunità di desiderio. Perchè è il desiderio ciò che accumuna
gli umani”.
Fonte: www.giornalesentire.it
mercoledì 17 aprile 2019
Insegnanti, salute negata e verità nascoste, 100 storie di Burnout a scuola
100 storie vere, sofferte, vissute che meglio di ogni altra cosa rappresentano un sistema scolastico malpagato, disprezzato, umiliato e troppo spesso illuso da una classe politica affetta da “riformismo” inutile. Il testo si propone di schiacciare i nefasti stereotipi e far conoscere le situazioni reali a docenti e dirigenti per affrontarle con i pochi ma efficaci strumenti a disposizione. Un libro che si pregia di raccogliere i casi di vita scolastica più interessanti offrendo spunti e soluzioni a docenti e dirigenti che, nonostante tutto, sono chiamati a remare nella stessa direzione.
Resta la speranza che la lettura del testo faccia comprendere – anche a genitori e medici – l’importanza di una scuola sana sulla cui cima è posto il regista che i latini sapientemente chiamavano magister. Siamo all’alba del terzo millennio ma ancora oggi non sono state riconosciute ufficialmente le malattie professionali degli insegnanti. Eppure, gli studi a disposizione ci dicono che le cause di inidoneità all’insegnamento presentano diagnosi psichiatriche nell’80% dei casi, con un’incidenza 5 volte maggiore rispetto alle comprensibili disfonie. In Europa, noi italiani, siamo poi gli unici a non presentare risultati di studi su base nazionale, pur disponendo di dati completi presso l’Ufficio III del Ministero Economia e Finanze (MEF) che, da oltre tre anni, si rifiuta di metterli a disposizione di Università e sindacati. Un semplice incontro operativo MIUR-MEF sbloccherebbe la situazione e avremmo in pochi mesi il riconoscimento ufficiale delle malattie professionali della categoria permettendo l’attivazione di un serio programma di prevenzione basato su diagnosi collegiali e non su termini equivoci di nessun valore medico quali “burnout, rischi psicosociali, stress lavoro correlato”. Nonostante ciò il DL 81/08 (Testo Unico sulla tutela della salute dei lavoratori) nelle scuole non è mai stato finanziato con un solo euro, lasciando lettera morta l’indispensabile prevenzione di legge delle malattie professionali.
La salute dei lavoratori è sempre stata all’origine della ragione di nascita del sindacato ma forse siamo tutti caduti nell’errore di considerare usuranti solamente i lavori fisici (miniere, altoforni, catene di montaggio, fabbriche) trascurando quelli psichicamente usuranti nonostante queste abbiano un’incidenza 5 volte maggiore. L’83% del corpo docente è donna con un’età media di 50 anni con ciò che questo comporta: quintuplicazione dell’esposizione al rischio depressivo in periodo perimenopausale oltre alla professione psicofisicamente usurante.
Nelle azioni di governo si ricade troppo spesso nel solito errore di voler riformare le pensioni “al buio”, cioè senza considerare variabili fondamentali quali età anagrafica, anzianità di servizio e malattie professionali. Queste ultime invece dipendono direttamente dall’anzianità di servizio che comporta un aumento progressivo dell’altissima usura psicofisica del docente che è stata riconosciuta parimenti alta in tutti i livelli d’insegnamento. Nel giro di 20 anni (1992-2012) siamo passati dalle insostenibili baby-pensioni agli intollerabili 67 anni della Monti-Fornero. Restare in cattedra oltre i 60 anni, alle condizioni odierne, appare davvero incompatibile con l’attuale condizione di salute dei docenti. Prorogare un simile sistema di maestre-nonne equivale a calpestare l’art.28 del DL 81/08 che esige la tutela della salute del lavoratore commisurato a genere ed età del lavoratore.
Di questi tempi diviene sempre più caldo il fronte dei Presunti Maltrattamenti a Scuola (PMS) che sembrano essere strettamente collegati all’elevata anzianità di servizio (56,4 anni di età con anzianità di servizio media > dei 30) che si riflette negativamente sull’usura psicofisica dell’insegnante. Non passa oramai giorno in cui non si annunciano casi di PMS di alunni da parte delle maestre, scatenando l’opinione pubblica in sterili dibattiti sul posizionamento o meno di telecamere che non rappresentano una vera soluzione.
La responsabilità dell’incolumità degli alunni rientra di diritto tra le incombenze medico-legali dei dirigenti scolastici che dovrebbero gestire tali situazioni senza dover scomodare Forze dell’Ordine, magistrati, avvocati e periti ingolfando ulteriormente il sistema giudiziario. Non è altresì tollerabile l’altissimo numero di aggressioni fisiche e verbali di docenti da parte di genitori e/o studenti.
Anche per queste ragioni, oltre che per il fenomeno dei PMS occorre la costituzione immediata di un tavolo interministeriale MIUR-MGG (Ministero di Grazia e Giustizia) per affrontare con criterio le suddette emergenze. Per dirla in una frase: la salute professionale è il punto critico del sistema scuola perché la miglior garanzia per l’incolumità e la crescita degli alunni passa attraverso la tutela della salute degli insegnanti.
da Orizzonte Scuola
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