IL CASO DEL VENETO
e
LE DUE ANIME
DEL PD
- di Giuseppe Savagnone*
Un voto che ha sconvolto tutto
Il caso della consigliera regionale dem Anna Maria Bigon, il
cui voto ha contribuito alla bocciatura, in Veneto, della legge sul fine vita,
merita una riflessione che vada al di là delle polemiche strumentali dei
giornali della destra e delle indignate reazioni della segreteria del PD.
Riassumiamo brevemente i fatti. Il Consiglio regionale del
Veneto si accingeva a varare, per la prima volta in Italia, una legge sul fine
vita. La normativa prevedeva l’assistenza sanitaria gratuita al suicidio
medicalmente assistito – mediante l’auto-somministrazione di un farmaco letale
– riprendendo alla lettera le condizioni
stabilite nella sentenza della Corte costituzionale del 2019.
Le ricordiamo: il proposito di suicidio dev’essere maturato
«autonomamente e liberamente», in un soggetto «pienamente capace di prendere
decisioni libere e consapevoli», «tenuto in vita da trattamenti di sostegno
vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e
psicologiche che egli reputa intollerabili». Entro questi limiti, secondo la
Suprema Corte, l’assistenza a una persona che intende togliersi la vita non è
più da considerare un reato.
Di fatto, però, dopo quella sentenza, non c’era stato nessun
provvedimento legislativo che la traducesse in concreta pratica sanitaria. Il
Veneto, con l’appoggio del suo presidente, il leghista Luca Zaia – in polemica
con la linea del proprio partito e del suo segretario Salvini – , si apprestava
ad essere la prima regione italiana a fare questo passo.
I fronti della destra e della sinistra rappresentati nel
Consiglio regionale si presentavano a questa votazione spaccati, dando luogo a
paradossali alleanze: la Lega si è trovata a votare a favore insieme al
M5stelle e a buona parte del PD, mentre contrari erano FI e FdI. Ma la conta
dei prevedibili “sì” indicava come molto
probabile l’approvazione della legge.
A scompigliare le carte è stata la decisione della
consigliera e vice-segretaria provinciale del PD di Verona, Anna Maria Bigon,
di astenersi. Con effetti dirompenti: la legge non ha superato il 50% dei “sì”,
com’era necessario alla sua approvazione, per un solo voto, il suo.
I suoi compagni di gruppo le avevano chiesto di ripensarci, o
almeno di uscire dall’aula al momento della votazione, abbassando così il
quorum richiesto e consentendo l’approvazione della legge, ma lei si è
rifiutata.
La tempesta
Bufera nel partito. La segretaria nazionale, Elly Schlein si
è amaramente rammaricata per l’accaduto: «E’ un’occasione persa, quella del
Veneto, che voleva solo dare dei percorsi attuando quanto previsto dalla Corte.
Che la destra abbia sconfessato Zaia non stupisce, ma è una ferita che ci sia
stato un voto del PD».
E ha sollevato un problema di correttezza da parte della
consigliera: «Se il gruppo del PD vota a favore e ti chiede di uscire
dall’aula, è giusto uscire dall’aula, perché l’esito di quella scelta cade su
tutti».
«Anche per me, come per la nostra segretaria» – ha scritto
l’on. Alessandro Zan, attivista per i diritti LGBTQ+, deputato e membro della
segreteria del Pd con la delega ai diritti – rappresenta una ferita la
decisione della consigliera regionale veneta Anna Maria Bigon di partecipare al
voto sulla legge regionale sul fine vita lo scorso 16 gennaio, invece di uscire
dall’aula».
Questa disapprovazione ha avuto una immediata ripercussione a
livello regionale con la decisione del segretario provinciale del PD di Verona
di destituire la Bigon dalla carica di vice-segretaria.
Una decisione che, come il segretario regionale del Veneto si
è affrettato a precisare, è stata presa in autonomia e a livello locale, ma che
corrisponde alle prese di posizione della segreteria nazionale.
A contestarla sono intervenute le voci di alcuni autorevoli rappresentanti del PD, come il
cattolico Graziano Delrio, che ha definito il provvedimento «un brutto
segnale». «Resta inammissibile», ha detto – «che si voglia processare una
persona per le sue idee e non può essere accettato».
Pur non condividendone la decisione, si è schierata con Bigon
anche Debora Serracchiani, già vice-segretaria del partito, sottolineando che
«l’esercizio della libertà di coscienza non può essere punito» e chiedendo al
segretario del PD veronese «di ripensarci».
Da parte sua, l’incriminata ha reagito con fermezza: «Con il
mio voto sono stata all’interno di quelli che sono i principi del PD. Non vedo
di cosa dovrei pentirmi. Non potevo far altro che esercitare la mia scelta. Se
poi mi butteranno fuori, ne prenderò atto».
E, più tardi, dopo aver appreso della destituzione:
«Continuerò a lavorare nel Partito Democratico continuerò a lavorare nel
Partito Democratico, il luogo dove deve essere garantito il pluralismo delle
diverse sensibilità ».
Due anime
In realtà, quello che risulta chiaramente da questa vicenda è
che nel PD ci sono due anime, quella “laica”, che reincarna la posizione del
partito radicale di Pannella e vede nella continuazione delle sue battaglie la
propria vocazione, e quella di un cattolicesimo sociale che guarda con
diffidenza l’esasperata insistenza sul tema dei diritti individuali e che vede
nel PD innanzi tutto il difensore dei diritti sociali, quelli dei più poveri e
dei più deboli.
Per i sostenitori della prima anima la libertà è quella
dell’individuo che deve poter disporre del suo corpo e della sua vita senza doverne rispondere a
nessuno, purché non travalichi il confine della sua sfera privata.
Si pensi alla logica che sta dietro la rivendicazione del
diritto di aborto – «L’utero è mio e ne faccio quello che voglio» – e che è
alla base anche delle rivendicazione della istituzionalizzazione del suicidio
assistito o, nella forma più piena a cui aspirano i suoi sostenitori,
dell’eutanasia.
È ciò che suggerisce il detto secondo cui «la libertà di
ciascuno finisce dove comincia quella dell’altro». Che però non è affatto “di sinistra”, ma
nasce nel clima dell’individualismo liberale settecentesco e non a caso ha
ispirato il partito radicale, appassionato alle libertà dei singoli, ma
tutt’altro che sensibile ai problemi della giustizia sociale.
Questa metamorfosi dell’anima socialista del PD ha spiazzato
l’altra, quella cattolica, che invece punta, in linea con l’insegnamento
sociale della Chiesa, sul primato del bene comune e ha della libertà un’idea
molto diversa, fondata, piuttosto che sulle esigenze soggettive dell’individuo,
sulla sua responsabilità verso gli altri.
Giustamente la Bigon si è rifiutata di uscire dall’aula
perché, riducendo la questione a una semplice tutela della propria coscienza,
avrebbe tradito questa prospettiva, che è politica, contribuendo
all’approvazione di una legge che, certo, rispetta le condizioni poste dalla
Corte costituzionale, ma lascia da parte
le sue raccomandazioni a garantire quelle cure palliative che possono offrire
al malato un’alternativa al suicidio. Come del resto è avvenuto nell’applicazione
pratica della legge sull’aborto, che in teoria prevederebbe – contestualmente
al diritto di ricorrere, in caso estremo, all’aborto – un impegno concreto
della comunità per consentire alle madri
per permettere loro di non abortire.
Il punto è che nella prima prospettiva, “sacro” è il diritto
del singolo a disporre di sé (come dimostra, nel caso dell’aborto, la levata di
scudi e l’indignazione “morale” contro ogni voce che ne sottolinea la
drammaticità e cerca di riportarlo al suo senso originario di “ultimo
rimedio”).
Nella seconda i diritti devono sempre rapportarsi ai doveri –
verso se stesi, verso le altre persone, verso la comunità – e a questi ultimi
il singolo deve subordinare le proprie preferenze e i propri interessi privati.
Di fatto ormai da molto tempo il PD ha visto il prevalere
della prima anima sulla seconda. La segreteria Schelen ha solo confermato e
rafforzato questa tendenza. Ne è una conferma la totale incomprensione nei
confronti della scelta della Bigon di non limitarsi a pensare alla salvezza
della propria anima, uscendo dall’aula, come se in gioco non ci fosse piuttosto
un modo di vedere la libertà e la società che lei, proprio perché fedele alle
motivazioni della sua militanza, non poteva condividere.
Ma un partito che adotta una filosofia liberale, senza
neppure accettare di rimetterla in discussione, non è più “di sinistra”, anche
se per abitudine continua a dire di esserlo. E infatti le sue battaglie, più
che sul terreno della giustizia sociale, si sono incentrate prevalentemente
sulla tematica dei diritti.
E probabilmente nell’aumento esponenziale del fenomeno
dell’astensionismo, nelle penultime e nelle ultime elezioni, ha avuto un ruolo
importante anche lo sgomento di chi ormai si trova a dover scegliere tra i
partiti di destra del governo e una
opposizione metà populista e metà post-liberale. Senza parlare di coloro che
ormai, quando votano PD, lo fanno vedendo in questa sigla l’acronimo di “per
disperazione”.
Dopo tanto silenzio, anche i vertici cattolici dei dem
cominciano finalmente a mostrare di avere coscienza della situazione.
«Chiariamoci,», ha detto Delrio, «se il mio partito, nato per essere custode
dell’incontro tra i valori dell’umanesimo cristiano e di quello socialista,
diventa una copia del Partito radicale, che pure molto rispetto, allora non mi
sentirei più a casa mia». Sì, forse è venuto il momento per i (veri) socialisti
e per i (veri) cattolici del PD di far sentire la loro voce.
*Scrittore ed editorialista. Pastorale della Cultura
Arcidiocesi Palermo
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