L’educazione comunque la guardiamo, da qualsiasi punto di vista, che sia scolastico, extrascolastico o familiare, è sempre cambiamento.
INTERVISTA
a Roberto Farnè
Cosa
vuol dire essere insegnanti oggi? Ne abbiamo parlato con il Professor Roberto
Farnè, Già professore ordinario in Didattica generale, è ora docente a
contratto per l’insegnamento di “Pedagogia del gioco e dello sport” nel corso
di laurea in Scienze motorie, presso il dipartimento di Scienze per la Qualità
della Vita dell’Università di Bologna.
- di Fabio Gervasio
Professor
Farnè, cosa vuol dire essere insegnanti oggi e come è cambiata questa
professione nel tempo?
La
professione nel tempo è cambiata perché sono cambiati i tempi, ovvero è
cambiata la scuola e sono cambiati i bambini. Da questo punto di vista quando
sento dire che la scuola è in crisi, che l’educazione è in crisi, rispondo
sempre che la scuola è fisiologicamente in crisi, perché è chiamata a gestire
dei processi di cambiamento. La parola crisi va vista nel suo significato
autentico, vuol dire passaggio, cambiamento, e quindi come tale non mi aspetto
mai che la scuola sia una realtà tranquilla dove tutto funziona, dove tutto va
bene. Poi ovviamente la scuola deve funzionare, per cui ci sono criticità che
vanno affrontate e risolte perché rendono la scuola disfunzionale, ma che non
sono la dimensione di crisi che significa lavorare per attivare dei processi di
cambiamento.
L’educazione
comunque la guardiamo, da qualsiasi punto di vista, che sia scolastico,
extrascolastico o familiare, è sempre cambiamento. Un bambino entra a scuola a
sei anni che non sa leggere e scrivere e qualcuno glielo insegna ed acquisisce
queste competenze, questo è un processo di cambiamento che come tale esige
anche sforzo, fatica e impegno. I cambiamenti non sono mai piacevoli,
l’importante è come vengono fatti vivere, la competenza pedagogica è proprio
quella di gestire i cambiamenti nei processi educativi, rispettando però i
diritti dell’infanzia, in modo che questi cambiamenti diventino formativi, cioè,
aiutino la persona fin dall’infanzia a definire la propria formazione, il
proprio essere.
Oggi
ci troviamo di fronte ad una situazione che presenta delle criticità, delle
difficoltà, che non erano quelle di 50 anni fa. Se solo pensiamo ai cambiamenti
che sono avvenuti nell’arco di un paio di generazioni, possiamo vedere che
queste criticità toccano in maniera significativa la figura dell’insegnante che
oggi è una figura che presenta delle difficoltà probabilmente perché fa fatica
a gestire dei processi educativi di cambiamento che hanno delle caratteristiche
molto particolari, ad esempio chi poteva immaginare 50 anni fa che i social
network, le tecnologie ed internet sarebbero stati fenomeni così invasivi nella
vita quotidiana, quali sfide pongono queste tecnologie all’educazione e quindi
la scuola come deve porsi, l’insegnante come deve porsi, con un atteggiamento
di accettazione o di rifiuto, di negazione?
Tutti
questi aspetti oggi mettono l’insegnante di fronte a delle scelte che, come ho
detto, fanno parte di quella che è la fisiologica crisi della scuola nel
gestire i cambiamenti dei processi educativi, ma le risposte di oggi non le
possiamo trovare nel passato, queste risposte l’insegnante le deve trovare
oggi, nel tempo in cui vive, e da questo punto di vista all’insegnante è
chiesta non solo la competenza del tipo didattico-psico-pedagogica necessaria a
fare l’insegnante, questo vale dalla scuola dell’infanzia fino alla secondaria
di secondo grado, ma è richiesta anche una competenza dal punto di vista del
proprio essere insegnante, che non è il fare l’insegnante, ovvero fare
l’insegnante ma anche l’essere insegnante. Questo lo dico con maggiore enfasi
oggi anche perché quest’anno è il centenario della nascita di Alberto Manzi che
è stato un insegnante che ha guardato molto alla dimensione proprio
dell’essere, della sua identità professionale che andava al di là della sua
capacità didattica, che pure c’era ed era molto significativa.
Prendendo
spunto dalle sue parole le chiedo come può un insegnante capire se la sua
didattica è efficace?
I
modi sono diversi, uno può dire che una didattica è efficace semplicemente
perché vede i bambini che imparano, ma i bambini imparano anche perché gli
impongo di imparare, i bambini sono obbedienti, docili e studiano, per cui
questo è sì un indicatore ma lo è in modo parziale. Possiamo dire che la
didattica ha la sua efficacia nella relazione, ad esempio si può verificare la
situazione di una classe dove quando c’è un certo insegnante i bambini sono
attenti, partecipi, interessati e così via, mentre quando c’è un altro
insegnante i bambini sono disinteressati, ribelli, indisciplinati e via
dicendo, eppure la classe è sempre quella, i bambini sono gli stessi, ma questo
esempio ci serve per dire che è evidente che c’è uno stile dell’insegnante che
dà forma alla didattica e questo i bambini, così come i ragazzi, lo
percepiscono perfettamente.
Prima
che all’oggetto dell’insegnamento, i bambini ed i ragazzi sono interessati al
soggetto che insegna, cioè la figura dell’insegnante, per come si pone, è più
interessante di quello che insegna, della materia che insegna. Quindi
l’efficacia dell’attività d’insegnamento è molto legata ovviamente alla
competenza didattica che riguarda l’insegnamento della materia, ma è legata
anche allo stile, al modo di porsi, alla capacità di costruire relazioni,
all’essere autorevole come insegnante, che non vuol dire essere autoritario.
L’autoritarismo è patologico in educazione perché nega il dialogo, nega la
relazione, impone l’autorità, l’autorevolezza, invece, è una relazione
pedagogicamente positiva perché nell’asimmetria del rapporto educativo instaura
comunque una dimensione dialogica e quindi è credibile per i bambini e per i
ragazzi, loro si fidano dell’insegnante quando l’insegnante sa porsi con una
relazione significativa ancorché autorevole.
Lei
ci ha spiegato l’aspetto legato all’efficacia della didattica, ma quanto è
importante anche l’approccio attivo nella didattica?
L’approccio
attivo oggi è uno dei grandi punti deboli del nostro sistema scolastico. La
nostra non è una scuola attiva, lo è molto meno di quanto lo sia in altri paesi
europei dove la dimensione attiva, laboratoriale eccetera è molto più presente.
Anzi, devo dire che negli ultimi 30/40 anni la nostra scuola si è sempre più
passivizzata. Questo è uno dei problemi che ha la scuola oggi, questa
passivizzazione che porta i bambini a stare seduti in classe per tantissime ore
e a non usare il corpo, a non usare le mani, e questo fa male. Ritengo che
dobbiamo riflette in maniera molto spregiudicata sul fatto che oggi la scuola
crea malessere, perché ovviamente agisce sui bambini e sui ragazzi con una
didattica basata molto su una pressione, come i tempi stretti, gli
apprendimenti veloci, verifiche e prove di vario tipo eccetera, mentre il corpo
e il movimento sono relegati a frazioni di tempo insignificanti.
L’Italia
in Europa è il paese dove a scuola si fa meno attività motoria e questo nuoce,
fa male, abbiamo ricerche che dimostrano che i bambini a scuola incamerano
malessere e non è la pandemia, qui non c’entra niente, è sconfortante rendersi
conto che ci voleva la pandemia per capire che i bambini guadagnano in salute
più stanno all’aperto e meno stanno al chiuso. È una cosa che in realtà si è
sempre saputa, eppure non è bastata nemmeno la pandemia, oggi i bambini stanno
chiusi e seduti, sia a scuola che a casa oppure in macchina. Cinquant’anni fa
il problema non esisteva perché i bambini si muovevano, finito la scuola
facevano i compiti, velocemente, e poi andavano fuori a giocare, questa era la
vita normale di un bambino, che fosse in città o in campagna così era, si
trovava con i suoi amici e giocavano, sviluppavano quelle competenze
psicomotorie che facevano parte della normale attività di un bambino fuori
della scuola. Oggi questa dimensione non c’è più, è cambiata la città, sono
cambiati gli spazi, sono aumentate le ansie e le preoccupazioni su rischi e
pericoli, però ci accorgiamo del danno che tutto questo provoca sui bambini.
Abbiamo
bisogno di preoccuparci di questa dimensione, perché se non la curiamo questa
fa male e lo si vede nel tempo. Ognuno dovrebbe fare la sua parte, anche la
scuola, in realtà oggi la scuola tiene i bambini in posizione passiva, non
attiva, per moltissimo tempo, per gran parte del tempo. Faccio sempre l’esempio
della scuola finlandese, che è indicata come uno dei migliori sistemi
scolastici nel sistema OCSE, ebbene nelle scuole finlandesi ad ogni ora di
lezione c’è un quarto d’ora d’intervallo dove i bambini possono alzarsi,
girare, uscire, giocare, parlare e muoversi negli spazi della scuola, sia
dentro che fuori.
Questo
non perché c’è il problema del rilassarsi o del dare sfogo ai bambini, ma
perché gli insegnanti sanno, e le ricerche lo dimostrano, che quei 15 minuti
liberi, di movimento, si riversano positivamente sui tempi didattici e di
apprendimento successivi. Noi oggi abbiamo situazioni allucinanti dal punto di
vista della condizione dell’infanzia e del diritto dei bambini, abbiamo scuole
dove i bambini hanno, se va bene, 15 minuti d’intervallo nella mattinata, non
possono uscire nel cortile, devono mangiare seduti nel banco eccetera. Questo
non solo fa male dal punto di vista psicologico e fisico, ma va contro i
diritti del bambino. Una scuola che non è attenta al benessere, nel senso dello
star bene, che non si preoccupa del fatto che i bambini prima di tutto devono
stare bene a scuola, è una scuola che contraddice i suoi principi e non
funzionerà bene nemmeno come scuola.
Lei
recentemente ha partecipato al convegno del CPP a Piacenza e parlando della
competizione ha fatto un paragone con lo sport parlando della cultura del
podio, questo per dire che si parla sempre della competizione con un’accezione
negativa, ma può essere utile a scuola?
Certo
che può essere utile, la competizione non è una brutta parola, bisogna anche
qui sfatare dei pregiudizi e degli atteggiamenti ideologici, perché un conto è
ritenere che la competizione sia un aspetto dove conta solo se sei vincitore,
se arrivi primo, altrimenti sei un perdente, ma questa è una ideologia della
competizione. La competizione nel suo senso autentico ha un significato molto
chiaro, viene dal latino cum petere, cioè chiedere insieme.
La
competizione è un patto reciproco, è una condivisione, quando i bambini giocano
competono perché innanzitutto condividono il gioco, le sue regole, gli altri
compagni con cui giocare, poi ovviamente si confrontano. Ma questo non
avverrebbe se non ci fosse la condivisione, ad esempio due squadre di calcio o
di basket entrano in campo e certamente competono una con l’altra, ma prima di
questo condividono, condividono il campo, i tempi, lo spazio, insomma
condividono tutto del gioco, ovviamente nel confronto ci sarà qualcuno che
vince.
Ma
attenzione, perché quel qualcuno che vince, vince grazie a chi ha giocato con lui
perché, se io non gioco con te, tu non hai nemmeno la possibilità di vincere,
se tu vinci è perché io ho accettato di giocare con te. La competizione è una
grande scuola di vita quando è leale, ovviamente, quando è partecipativa e
quando chi non vince non vuol dire che è un perdente, vuol dire che ha misurato
le sue capacità con altri ed ha capito dove si colloca. Uno può essere più o
meno bravo in un gioco o in un altro, così come ci sono bambini che sono più
bravi in storia e meno bravi in matematica, mentre altri che sono più bravi in
scienze e meno bravi in italiano e questo non crea dei problemi. Un conto è
vivere la competizione come l’ideologia dell’essere vincenti, e questo è
terrificante, un altro conto è vivere la competizione come il confronto nel
quale tu conosci le tue capacità, a partire da una condivisione.
Credo
che questa sia la scuola della competizione, inoltre dobbiamo smetterla col
pensare che lo sport sia competitivo e quindi diseducativo perché educa
all’essere vincitore. La nostra cultura e la nostra civiltà nascono nell’antica
Grecia che ha inventato il concetto di agonismo, la parola agonismo significa
lotta, mettercela tutta, impegnarsi al massimo delle proprie capacità, e guarda
caso l’antica Grecia ha inventato la competizione dappertutto. Gli antichi
greci competevano non solo nell’atletismo, nelle gare atletiche, ma competevano
nel teatro, nella musica, nella poesia. Se leggiamo la letteratura della
civiltà greca noteremo che la competizione animava tutta quella cultura, ma
oggi noi non facciamo altrettanto? In questi giorni è iniziato il festival del
cinema di Cannes che è una competizione, alla fine ci sarà un film che vincerà
la palma d’oro, un regista che sarà giudicato la migliore regia, un attore che
sarà il migliore attore, ma non è competizione questa? Così come il festival di
Sanremo è una competizione canora, c’è qualcuno che vince e c’è una
graduatoria, perché non ci scandalizziamo di fronte a questo? Anche i premi
letterari sono competizioni dove degli scrittori si mettono in gioco con delle
opere ed una giuria decide qual è il romanzo migliore dell’anno.
Questo
per dire che dobbiamo abituarci ad una visione sana della competizione dove il
confronto consente di conoscersi e di conoscere sé stessi, nella lealtà e nella
correttezza. Là dove poi la competizione, invece, viene inquinata, allora
questo è un altro discorso e abbiamo il dovere di smascherarla e condannarla
proprio perché noi diamo alla competizione un valore alto.
Un’ultima
domanda. Siccome lei ha citato gli antichi greci, ricordo che proprio al
convegno del CPP lei ha portato l’esempio del Pentatlon per dire che non
bisogna per forza eccellere ma bisogna essere mediamente bravi in tutto per
vincere. Ci spiega questo aspetto?
Ho
portato l’esempio del Pentatlon che era una delle gare atletiche che
caratterizzava i giochi atletici dell’antica Grecia, ce n’erano molti e non
solo quelli di Olimpia, le olimpiadi erano quelle più famose. Nell’ antica
Grecia non c’erano i giochi di squadra, che sono nati nell’età moderna
nell’Inghilterra del XIX secolo; quindi, i greci avevano delle varie
competizioni come il salto in lungo, il lancio del giavellotto, del disco, la
lotta eccetera, ed ognuno poteva essere un atleta eccellente in una di queste
discipline, poteva essere il più bravo a correre, a lanciare e così via.
Però
poi avevano inventato anche il Pentatlon e questa la trovo un’idea geniale,
vista anche dentro quella che era la filosofia dell’aretè greca, cioè l’essere
il migliore e cosa volesse dire, per cui tu sei il migliore non se sei
bravissimo in una cosa, ma se sei mediamente bravo in tante cose diverse.
Competere nel Pentatlon voleva dire che tu competevi in cinque diverse
discipline e dovevi ottenere il miglior risultato possibile in tutte e cinque;
dunque, essere vincitore nel Pentatlon non voleva dire essere il più bravo
nella lotta o il più bravo nella corsa, perché probabilmente il più bravo nella
corsa era più bravo di te, voleva dire essere il più mediamente bravo in cinque
discipline diverse.
Questo
mi porta ad una considerazione che ritengo molto bella, intanto nell’ambito
sportivo il valore che ha il multisport, per cui un bambino non dovrebbe fare,
almeno fino ai 10-11 anni, un solo sport, ma dovrebbe farne diversi, perché
ogni disciplina sportiva, come uno sport di squadra, un individuale, uno di
lotta, una disciplina atletica, sviluppa intelligenze diverse, invece purtroppo
da noi un bambino inizia uno sport, come può essere il calcio o il nuoto, e fa
solo quello ed è sbagliato perché dovrebbe praticare diversi sport; ma
soprattutto questo è anche un indicatore pedagogico della scuola per cui un
bambino è bravo non se prende nove in matematica e fra il cinque e il sei in
tutte le altre discipline, ma è bravo se prende sette dappertutto, allora sì
che è veramente bravo, poi certo non è il più bravo in scienze o in italiano,
ma è mediamente bravo dappertutto e lui potrà fare qualunque scelta.
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