venerdì 28 febbraio 2025

CAMMINIAMO NELLA SPERANZA


MESSAGGIO DEL SANTO PADRE
FRANCESCO
PER LA QUARESIMA 2025

 

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Camminiamo insieme nella speranza

 

Cari fratelli e sorelle!

Con il segno penitenziale delle ceneri sul capo, iniziamo il pellegrinaggio annuale della santa Quaresima, nella fede e nella speranza. La Chiesa, madre e maestra, ci invita a preparare i nostri cuori e ad aprirci alla grazia di Dio per poter celebrare con grande gioia il trionfo pasquale di Cristo, il Signore, sul peccato e sulla morte, come esclamava San Paolo: «La morte è stata inghiottita nella vittoria. Dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?» ( 1Cor 15,54-55). Infatti Gesù Cristo, morto e risorto, è il centro della nostra fede ed è il garante della nostra speranza nella grande promessa del Padre, già realizzata in Lui, il suo Figlio amato: la vita eterna (cfr Gv 10,28; 17,3) [1].

In questa Quaresima, arricchita dalla grazia dell’Anno Giubilare, desidero offrirvi alcune riflessioni su cosa significa camminare insieme nella speranza, e scoprire gli appelli alla conversione che la misericordia di Dio rivolge a tutti noi, come persone e come comunità.

 Camminare

Prima di tutto, camminare. Il motto del Giubileo “Pellegrini di speranza” fa pensare al lungo viaggio del popolo d’Israele verso la terra promessa, narrato nel libro dell’Esodo: il difficile cammino dalla schiavitù alla libertà, voluto e guidato dal Signore, che ama il suo popolo e sempre gli è fedele. E non possiamo ricordare l’esodo biblico senza pensare a tanti fratelli e sorelle che oggi fuggono da situazioni di miseria e di violenza e vanno in cerca di una vita migliore per sé e i propri cari. Qui sorge un primo richiamo alla conversione, perché siamo tutti pellegrini nella vita, ma ognuno può chiedersi: come mi lascio interpellare da questa condizione? Sono veramente in cammino o piuttosto paralizzato, statico, con la paura e la mancanza di speranza, oppure adagiato nella mia zona di comodità? Cerco percorsi di liberazione dalle situazioni di peccato e di mancanza di dignità? Sarebbe un buon esercizio quaresimale confrontarsi con la realtà concreta di qualche migrante o pellegrino e lasciare che ci coinvolga, in modo da scoprire che cosa Dio ci chiede per essere viaggiatori migliori verso la casa del Padre. Questo è un buon “esame” per il viandante.

 Insieme

In secondo luogo, facciamo questo viaggio insieme. Camminare insieme, essere sinodali, questa è la vocazione della Chiesa [2]. I cristiani sono chiamati a fare strada insieme, mai come viaggiatori solitari. Lo Spirito Santo ci spinge ad uscire da noi stessi per andare verso Dio e verso i fratelli, e mai a chiuderci in noi stessi [3]. Camminare insieme significa essere tessitori di unità, a partire dalla comune dignità di figli di Dio (cfr Gal 3,26-28); significa procedere fianco a fianco, senza calpestare o sopraffare l’altro, senza covare invidia o ipocrisia, senza lasciare che qualcuno rimanga indietro o si senta escluso. Andiamo nella stessa direzione, verso la stessa meta, ascoltandoci gli uni gli altri con amore e pazienza.

In questa Quaresima, Dio ci chiede di verificare se nella nostra vita, nelle nostre famiglie, nei luoghi in cui lavoriamo, nelle comunità parrocchiali o religiose, siamo capaci di camminare con gli altri, di ascoltare, di vincere la tentazione di arroccarci nella nostra autoreferenzialità e di badare soltanto ai nostri bisogni. Chiediamoci davanti al Signore se siamo in grado di lavorare insieme come vescovi, presbiteri, consacrati e laici, al servizio del Regno di Dio; se abbiamo un atteggiamento di accoglienza, con gesti concreti, verso coloro che si avvicinano a noi e a quanti sono lontani; se facciamo sentire le persone parte della comunità o se le teniamo ai margini [4]. Questo è un secondo appello: la conversione alla sinodalità.

Nella speranza

In terzo luogo, compiamo questo cammino insieme nella speranza di una promessa. La speranza che non delude (cfr Rm 5,5), messaggio centrale del Giubileo [5], sia per noi l’orizzonte del cammino quaresimale verso la vittoria pasquale. Come ci ha insegnato nell’Enciclica Spe salvi il Papa Benedetto XVI, «l’essere umano ha bisogno dell’amore incondizionato. Ha bisogno di quella certezza che gli fa dire: “Né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezze né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore” ( Rm 8,38-39)» [6]. Gesù, nostro amore e nostra speranza, è risorto [7] e vive e regna glorioso. La morte è stata trasformata in vittoria e qui sta la fede e la grande speranza dei cristiani: nella risurrezione di Cristo!

Ecco la terza chiamata alla conversione: quella della speranza, della fiducia in Dio e nella sua grande promessa, la vita eterna. Dobbiamo chiederci: ho in me la convinzione che Dio perdona i miei peccati? Oppure mi comporto come se potessi salvarmi da solo? Aspiro alla salvezza e invoco l’aiuto di Dio per accoglierla? Vivo concretamente la speranza che mi aiuta a leggere gli eventi della storia e mi spinge all’impegno per la giustizia, alla fraternità, alla cura della casa comune, facendo in modo che nessuno sia lasciato indietro?   

La speranza non delude

Sorelle e fratelli, grazie all’amore di Dio in Gesù Cristo, siamo custoditi nella speranza che non delude (cfr Rm 5,5). La speranza è “l’ancora dell’anima”, sicura e salda [8]. In essa la Chiesa prega affinché «tutti gli uomini siano salvati» ( 1Tm 2,4) e attende di essere nella gloria del cielo unita a Cristo, suo sposo. Così si esprimeva Santa Teresa di Gesù: «Spera, anima mia, spera. Tu non conosci il giorno né l’ora. Veglia premurosamente, tutto passa in un soffio, sebbene la tua impazienza possa rendere incerto ciò che è certo, e lungo un tempo molto breve» ( Esclamazioni dell’anima a Dio, 15, 3) [9].

La Vergine Maria, Madre della Speranza, interceda per noi e ci accompagni nel cammino quaresimale.

 Roma, San Giovanni in Laterano, 6 febbraio 2025, memoria dei Santi Paolo Miki e compagni, martiri.

FRANCESCO

______________________________________________

[1] Cfr Lett. enc. Dilexit nos (24 ottobre 2024), 220.

[2] Cfr Omelia nella Messa per la canonizzazione dei Beati Giovanni Battista Scalabrini e Artemide Zatti, 9 ottobre 2022.

[3] Cfr ibid.

[4] Cfr ibid.

[5] Cfr Bolla Spes non confundit, 1.

[6] Lett. enc. Spe salvi (30 novembre 2007), 26.

[7] Cfr Sequenza della Domenica di Pasqua.

[8] Cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 1820.

[9] Ivi, 1821.

 


ETICA E NUOVE TECNOLOGIE

 


La Santa Sede:

 l'IA risorsa di “pace”,

 ma anche potenziale

 minaccia “esistenziale”


Al Forum per la sicurezza e la cooperazione dell’Osce, monsignor Richard Gyhra, osservatore permanente vaticano, mette in guardia sui rischi legati all’uso di strumenti innovativi in ambito militare, a cominciare dall'Intelligenza Artificiale, sottolineando l’impossibilità di governare tali contesti esclusivamente attraverso algoritmi

 -         di Edoardo Giribaldi – Città del Vaticano

-          Guidare lo sviluppo delle "tecnologie emergenti" affinché servano il bene comune e la dignità umana, rifiutando un mondo in cui conflitti e decisioni siano dominati dagli algoritmi. È questa la visione della Santa Sede, espressa ieri, 26 febbraio, al Forum per la sicurezza e la cooperazione dell'Osce da monsignor Richard Gyhra, osservatore permanente vaticano.

Le responsabilità dell'uomo

“Non si può sfuggire alle gravi questioni etiche legate al settore degli armamenti”: con queste parole di Papa Francesco, monsignor Gyhra ha aperto il suo intervento sul tema “Uso militare responsabile delle tecnologie nuove ed emergenti”. Al centro della riflessione, la necessità di salvaguardare i “principi etici” che “sostengono il valore intrinseco di ogni persona” e la sua capacità di discernimento e “assunzione di responsabilità”.

 Minore percezione dei danni della guerra

In tema di tecnologie emergenti, Gyhra ha posto l’attenzione sull’Intelligenza Artificiale, una risorsa che può essere strumento di “pace” e “sicurezza”, ma anche una potenziale minaccia “esistenziale” per l’umanità. L’impiego di sistemi di controllo a distanza per operazioni militari, ha sottolineato, può ridurre la “percezione della devastazione” causata dalla guerra, come già evidenziato dalla recente nota Antiqua et Nova sul rapporto tra IA e intelligenza umana.

Opacità giuridica e interrogativi etici

Un ulteriore pericolo è rappresentato dall’uso crescente delle “tecnologie autonome”, che rischiano di delegare le decisioni militari alle macchine, sottraendole alla supervisione umana. Ciò genera “opacità giuridica” e gravi interrogativi etici. In questo contesto, monsignor Gyhra ha menzionato i sistemi d’arma letali autonomi (Lethal Autonomous Weapon Systems – LAWS), capaci di identificare e colpire obiettivi senza intervento umano diretto. “Nessuna macchina dovrebbe mai scegliere se togliere la vita a un essere umano”, ha ribadito citando ancora Papa Francesco.

Lo sviluppo umano integrale al centro

Le preoccupazioni espresse dalla Santa Sede, ha chiarito il presule, non mirano a frenare il progresso, ma a incoraggiare una ricerca e uno sviluppo etico delle nuove tecnologie. L’obiettivo è integrarle in un “quadro più ampio”, che non si limiti alla loro utilità ed efficienza, ma che ponga al centro la promozione dello sviluppo umano integrale.

 

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giovedì 27 febbraio 2025

L'ARTE DEL VIVERE


 Galimberti, per essere felici bisogna imparare l'arte del vivere, dove a sorprenderci è il nostro modo di guardare le cose per poi poterle cambiare

 

Possiamo essere liberi anche 

quando la realtà ci imprigiona.


  Il dialogo con i giovani, ponendo al centro le loro ambizioni, i loro sogni, ma anche le loro difficoltà e preoccupazioni, riveste una speciale importanza. Su tale aspetto pone l'accento il filosofo, saggista e psicoanalista Umberto Galimberti, coglie l'occasione per fornire degli utili chiarimenti in merito alle modalità con le quali approcciarsi alla vita, fungendo da maestro e da guida per tanti ragazzi, spesso semplicemente fragili o incapaci di scegliere consapevolmente.

 Al filosofo si rivolge un pittore di ventiquattro anni che, terminati gli studi all'Accademia di Firenze, si è ritrovato a dover aiutare i genitori nella gestione di una piccola società a conduzione familiare per evitare il fallimento. Il giovane Ludovico, nonostante le difficoltà, ha però fatto tesoro della sua esperienza per iniziare a maturare e scegliere consapevolmente e responsabilmente: il giovane ventiquattrenne si è reso conto, infatti, che l'amore ed il rispetto per la sua famiglia rappresentano per lui un valore inestimabile e che il futuro dipende dai suoi soli sforzi, avendo ereditato però dai suoi genitori quell'educazione che gli ha permesso di andare avanti, nonostante le grandi difficoltà riscontrate nel suo cammino.

 Il giovane Ludovico ha così compreso come la qualità della vita dipenda dalle sue scelte, dal suo grado di autonomia ed autorealizzazione, essendo ben consapevole che i valori che contano veramente non siano quelli basati sul denaro e sul conseguimento immediato dei risultati, ma quelli che trovano fondamento nella fiducia in se stessi e nella propria forza interiore, così da non essere mai fragili e manipolabili.

 Nel rivolgersi al ragazzo, Umberto Galimberti, con estrema chiarezza, fa riferimento ai giovani ragazzi di oggi che non credono più in niente, il loro futuro non appare più come una promessa ma come uno scenario vuoto.

 Ecco allora l'importanza di guardare in faccia la realtà e di non rassegnarsi perché la felicità la si ritrova nelle piccole cose, giorno dopo giorno, lottando per quello in cui si crede, senza mai desistere, ma anzi riscoprendo una forza interiore che forse neppure si era mai immaginati di possedere.

 Occorre imparare l'arte del vivere, dove a sorprenderci non sono mai le cose, ma il nostro modo di guardarle ed eventualmente di cambiarne il significato, per cui anche una rinuncia, anche una prigione, diventa espressione di libertà.

 Ecco allora il messaggio che Umberto Galimberti vuole trasmetterci: possiamo essere liberi anche quando la realtà ci imprigiona. Siamo noi i fautori del nostro destino e siamo noi che possiamo cambiare le cose, senza mai arrenderci, perché anche se la vita può metterci alla prova, sconvolgendo tutti i nostri piani, noi saremo sempre in grado di rialzarci e di reinventarci, ma solo ed esclusivamente se lo vogliamo e se abbiamo imparato cosa significhi essere felici, riscoprendo sempre il lato positivo delle cose, anche nelle situazioni più difficili, quelle in cui sarebbe più semplici chinare la testa ed arrendersi. Occorre, quindi, fare un passo indietro per recuperare quei valori che non passano mai di moda, farli propri, e camminare, solo dopo, in avanti.

 A scuola oggi

 


mercoledì 26 febbraio 2025

FIUTARE LA PRESENZA DI DIO

 


Francesco: “fiutare” 

la presenza di Dio 

nella piccolezza

Pubblicata la catechesi dell’udienza generale che il Papa avrebbe dovuto tenere oggi in Aula Paolo VI e che è stata annullata a causa del protrarsi del ricovero al Policlinico Gemelli. 

Nel testo, il Pontefice sviluppa una riflessione sulla presentazione di Gesù al Tempio e invita a essere come Simeone e Anna, “pellegrini di speranza” con occhi limpidi capaci di vedere oltre le apparenze

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È stata pubblicata dalla Sala Stampa della Santa Sede la catechesi di Papa Francesco preparata per l'udienza generale che si sarebbe dovuta svolgere oggi, 26 febbraio, e che è stata annullata a causa della permanenza del Pontefice al Policlinico Gemelli. Di seguito il testo che, pensato nell'ambito del ciclo giubilare di catechesi su "Gesù Cristo nostra speranza. L'infanzia di Gesù", propone una riflessione sulla presentazione di Gesù al Tempio.

 Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Contempliamo oggi la bellezza di «Gesù Cristo, nostra speranza» (1Tm 1,1) nel mistero della sua presentazione al Tempio.

Nei racconti dell’infanzia di Gesù, l’evangelista Luca ci mostra l’obbedienza di Maria e Giuseppe alla Legge del Signore e a tutte le sue prescrizioni. In realtà, in Israele non c’era l’obbligo di presentare il bambino al Tempio, ma chi viveva nell’ascolto della Parola del Signore e ad essa desiderava conformarsi, la considerava una prassi preziosa. Così aveva fatto Anna, madre del profeta Samuele, che era sterile; Dio ascoltò la sua preghiera e lei, avuto il figlio, lo condusse al tempio e lo offrì per sempre al Signore (cfr 1Sam 1,24-28).

Luca dunque racconta il primo atto di culto di Gesù, celebrato nella città santa, Gerusalemme, che sarà la meta di tutto il suo ministero itinerante a partire dal momento in cui prenderà la ferma decisione di salirvi (cfr Lc 9,51), andando incontro al compimento della sua missione.

Maria e Giuseppe non si limitano a innestare Gesù in una storia di famiglia, di popolo, di alleanza con il Signore Dio. Essi si occupano della sua custodia e della sua crescita, e lo introducono nell’atmosfera della fede e del culto. E loro stessi crescono gradualmente nella comprensione di una vocazione che li supera di gran lunga.

Nel Tempio, che è «casa di preghiera» (Lc 19,46), lo Spirito Santo parla al cuore di un uomo anziano: Simeone, un membro del popolo santo di Dio preparato all’attesa e alla speranza, che nutre il desiderio del compimento delle promesse fatte da Dio a Israele per mezzo dei profeti. Simeone sente avverte nel Tempio la presenza dell’Unto del Signore, vede la luce che rifulge in mezzo ai popoli immersi «nelle tenebre» (cfr Is 9,1) e va incontro a quel bambino che, come profetizza Isaia, «è nato per noi», è il figlio che «ci è stato dato», il «Principe della pace» (Is 9,5). Simeone abbraccia quel bambino che, piccolo e indifeso, riposa tra le sue braccia; ma è lui, in realtà, a trovare la consolazione e la pienezza della sua esistenza stringendolo a sé. Lo esprime in un cantico pieno di commossa gratitudine, che nella Chiesa è diventato la preghiera al termine della giornata:

«Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo

vada in pace, secondo la tua parola,

perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza,

preparata da te davanti a tutti i popoli:

luce per rivelarti alle genti

e gloria del tuo popolo, Israele» (Lc 2,29-32).

Simeone canta la gioia di chi ha visto, di chi ha riconosciuto e può trasmettere ad altri l’incontro con il Salvatore di Israele e delle genti. È testimone della fede, che riceve in dono e comunica agli altri; è testimone della speranza che non delude; è testimone dell’amore di Dio, che riempie di gioia e di pace il cuore dell’uomo. Colmo di questa consolazione spirituale, il vecchio Simeone vede la morte non come la fine, ma come compimento, come pienezza, la attende come “sorella” che non annienta ma introduce nella vita vera che egli ha già pregustato e in cui crede.

In quel giorno, Simeone non è l’unico a vedere la salvezza fattasi carne nel nella carne del bambino Gesù. Lo stesso succede anche ad Anna, donna più che ottuagenaria, vedova, tutta dedita al servizio del Tempio e consacrata alla preghiera. Alla vista del bambino, infatti, Anna celebra il Dio d’Israele, che proprio in quel piccolo ha redento il suo popolo, e lo racconta agli altri, diffondendo con generosità la parola profetica. Il canto della redenzione di due anziani sprigiona così l’annuncio del Giubileo per tutto il popolo e per il mondo. Nel Tempio di Gerusalemme si riaccende la speranza nei cuori perché in esso ha fatto il suo ingresso Cristo nostra speranza.

Cari fratelli e sorelle, imitiamo anche noi Simeone ed Anna, questi “pellegrini di speranza” che hanno occhi limpidi capaci di vedere oltre le apparenze, che sanno “fiutare” la presenza di Dio nella piccolezza, che sanno accogliere con gioia la visita di Dio e riaccendere la speranza nel cuore dei fratelli e delle sorelle.

 

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IL BAMBINO PRODIGIO

 
Ogni bambino è un prodigio, un segno profetico, un fenomeno, un apparire nuovo, purché lo si guardi così.

 



- di Alessandro D’Avenia


Qualche giorno fa mi ha scritto un padre: «Il nostro primogenito, 9 anni, non fa altro che leggere e scrivere. Legge mentre fa colazione, mentre fa pipì e mentre si veste, in auto, in piedi appoggiato al muro o infilandosi le scarpe. L'altra sera mi fa: "Facciamo un gioco: inventiamoci a turno titoli di libri non ancora scritti!”. E scrive. Tutto ciò che gli passa per la testa: romanzi d'avventura di una facciata; storie di mistero; racconti-gioco in cui si sceglie come andare avanti; scrive e disegna fumetti. Scrive dietro fotocopie sbagliate; sulla mezza pagina che ho strappato per fare un aeroplanino al fratello. Quando proprio va male, scrive sui post-it. Da sei mesi ci tortura perché il suo più grande desiderio è pubblicare un libro. Chiede come si contatta una casa editrice o se il libro debba avere un numero minimo di capitoli. Quando apprende che qualche conoscente è bravo a disegnare, gli s'avvinghia addosso e sussurra: “Vorresti diventare il mio illustratore, per favore?”. Non sono un genitore convinto che i propri figli siano prodigi, ma cerco di osservare i nostri con gli occhi del cuore». La lettera, che si chiude con la richiesta di qualche consiglio, contiene già le risposte che io cercherò solo di far emergere, a partire dal fatto che il tempo per riflettere e scriverla è già tutto: l'educazione si dà solo come «ascoltazione», ascolto da cui nasce l'azione. Perché? 

Vocazione

Nella nostra cultura il termine «vocazione» sembra esser diventato eccessivo, e viene sostituito dai meno precisi: istinto, centro, desiderio, passione, attitudine... che perdono però il carattere di incontro e relazione con il mondo, perché vocazione (da voce) implica una chiamata: il mondo ci interpella, la vita ci chiede qualcosa che solo noi possiamo essere e fare. Per questo nelle culture tradizionali si trova quasi sempre un «custode» (angelo, spirito, genio, animale...), mentre noi «moderni» siamo convinti di dover fare da soli. Come spiega lo psicanalista James Hillman: «I bambini costituiscono la miglior dimostrazione pratica di una psicologia della provvidenza. Non mi riferisco a interventi miracolosi, piuttosto al banalissimo miracolo in cui si rivela il marchio del carattere: tutto a un tratto, come dal nulla, il bambino o la bambina mostrano chi sono, la cosa che devono fare» (Il codice dell'anima).

Prodigio

Per questo amo la parola «prodigio», usata nella lettera con pudore, perché non significa «straordinario», così come «fenomeno» non significa «eccezionale» ma semplicemente «ciò che appare». In origine prodigio era un «segno», un evento più o meno raro (dal volo di un uccello a un'eclissi), che un esperto (indovino, profeta, sacerdote...) interpretava come suggerimento divino all'azione. 

Lo esprime il padre nella metafora «occhi del cuore», una vista capace di scorgere in un segno la «profezia», il futuro. Infatti, come dice la lettera, emerge il «desiderio» (termine usato spesso in psicanalisi come sinonimo di vocazione), una spinta che - dice la lettera - «tortura» gli adulti perché accolgano un «venire al mondo». Le «inclinazioni» spiccate sembrano «storture» («inclinato» significa «storto» e per questo amiamo la torre di Pisa), infatti spiega Hillman: «I bambini cercano di vivere due vite contemporaneamente, la vita con la quale sono nati e quella del luogo e delle persone in mezzo a cui sono nati... E la voce che chiama è forte e insistente e altrettanto imperiosa delle voci repressive dell'ambiente. La vocazione si esprime in capricci e ostinazioni, nelle timidezze e nelle ritrosie che sembrano volgere il bambino contro il nostro mondo, mentre servono forse a proteggere il mondo che egli porta con sé». 

Insomma, ogni bambino è un prodigio, un segno profetico, un fenomeno, un apparire nuovo, purché lo si guardi così. Alle elementari ho passato molto tempo fuori dall'aula perché parlavo troppo: «chiacchierone» è una parola che, di maestra in maestra, mi si è appiccicata addosso. Ma era solo la mia vocazione a narrare, raccontare, farmi sentire... cosa che, in una scuola in cui devi star zitto, ascoltare e poi ripetere, non sempre era gradita. Per fortuna quella «inclinazione» ha resistito grazie a chi invece ha saputo «vederla» e «interpretarla». Questo non significa far diventare l'inclinazione una professione da subito (logica adulta che purtroppo spesso trasforma il fenomeno in fenomeno da baraccone), ma farne il centro del gioco del bambino, che infatti ne propone uno meraviglioso: inventare i titoli dei libri non ancora scritti. Questo gioco porta a esplorare il mondo, e infatti con il bambino della lettera farei una specie di caccia al tesoro che dalla carta risale sino all'autore, passando per albero, inchiostro, libreria, stamperia, casa editrice... 

Osservare

Osservare le reazioni del bambino all'incontro con questi «mondi» offrirà ulteriori segni (prodigi) da interpretare. Ho un amico che a Natale ha regalato al figlio «Il libro dei mostri», una bellissima edizione cartonata, sulla cui copertina compare il nome del figlio come autore. Non è infatti un libro in vendita, ma la raccolta di tutti i mostri che il bambino ha disegnato nel tempo, insieme ai genitori e alla babysitter (il mio preferito è il Mostro Rutto). 

Per questo comincerei a raccogliere le «opere» del bambino per edizioni «casalinghe», sempre come un gioco, con distribuzione e lettura tra parenti, ma soprattutto tra amici del bambino, perché senta che il suo è un dono per il mondo. Insomma, si tratta di «stare al gioco», perché è in quella dimensione che un bambino allena la vocazione e si apre al mondo; se invece quel segno viene subito ingabbiato in una carriera si rischia di perderne la gioia (quanti attori precocissimi si sono poi trovati prigionieri...). 

Farei parlare il bambino con chi del leggere e dello scrivere ha fatto un mestiere, perché possa porre le sue domande liberamente. Ricordo ancora la chiacchierata con una bambina delle elementari considerata «particolare» perché «fissata» con i miti. 

La mamma voleva che parlassi con lei: mi sono trovato di fronte una bambina che, per affrontare il mondo e i suoi lati oscuri, usava i miti e voleva che qualcuno glieli spiegasse senza sconti. I bambini sono prodigi, e gli educatori interpreti di segni: invece di riempire le loro giornate di attività e impegni che soffocano la loro unicità sulla base del nostro modo di vivere performante, bisognerebbe capire qual è il «grande gioco» a cui stare e da fare, come fecero i Dalla: «Su una sola cosa tutte le testimonianze concordano perfettamente. Lucio era un fenomeno già da piccolo. 

A tre anni mamma e papà lo portano a passeggio e, passando davanti a un caffè-concerto, lui scappa e sale sul palco per cantare una filastrocca, tra gli applausi del pubblico divertito da questo impudente bimbetto. A quattro anni era già un piccolo comico, faceva ridere perché strimpellava polche e mazurche con una fisarmonica più grande di lui, era un esibizionista nato e i genitori erano permissivi, non cercavano di scoraggiarlo, sapevano di avere un figlio che aveva poco in comune con gli altri bimbi della sua età... gli consentirono qualcosa che per i bimbi suoi coetanei sarebbe stato impensabile: stare in una vera e propria compagnia di operette» (E.Assante - G.Castaldo, Lucio Dalla). 

Non vale solo per il cantautore, tutti i bambini hanno poco in comune con gli altri perché sono unici e, come Lucio anni dopo, potrebbero dire: «Facevo tutto questo senza rendermene conto, come tutti i bambini», perché il bambino quando gioca lavora. Non tutti però riescono a manifestare i segni in modo così spiccato, e richiedono quindi più attenzione e ascolto. 

Sarei felice di parlare con questo bambino che inventa titoli di libri e scrive sui post-it, perché abbiamo delle «stranezze» in comune. Vorrei dirgli che, se continuerà a esser «storto», molti non lo capiranno, ma avrà una vita bellissima.  

 Alzogliocchiversoilcielo



 

martedì 25 febbraio 2025

L'ARTE DEL PERDONO

  

Dammi la forza di fare il primo passo

 

L'arte, difficilissima ma necessaria, del perdono

Tra le tante cose difficili che dobbiamo affrontare nella vita, ce n’è una che batte tutte le altre: perdonare.

Soprattutto quando subiamo un torto gratuito da chi abbiamo cercato di aiutare senza secondi fini. Di sicuro molti di noi potrebbero raccontare una storia di fiducia tradita, di amicizie compromesse, di invidie sfociate in aperta ostilità.

Si può tornare indietro, naturalmente, si possono mettere insieme i cocci di un rapporto frantumato ma questo comporta spesso essere disponibili a fare il primo passo verso l’altro, anche se in cuor nostro pensiamo di essere nel giusto.

 Però perdonare è necessario, anche per noi stessi, per evitare di avvelenarci il cuore e contribuire a frantumare la comunità. Inutile dire che il modello è la misericordia divina, inarrivabile eppure l’esempio cui ispirarsi, nel segno dell’amore vero che, come scrive san Paolo, «tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta».

«Facci la grazia di saper compiere il primo passo», chiede in questa preghiera il cardinale belga Godfried Maria Jules Daneels (1933-2019).

«Padre, niente è difficile come offrire il vero perdono,
soprattutto a chi ci è vicino e ci ha davvero fatto soffrire.


Com'è difficile questo perdono!
Tante scuse girano nelle nostre teste:
Spetta a me fare il primo passo?


Ne vale la pena?
No, ora non posso
forse domani…
Ci costa perdonare, ma come mai?
Padre, sappiamo che la riconciliazione ed il perdono possono venire solo da te.


Donaci dunque la grazia del perdono, la forza di riconciliarci con chi è sotto il nostro tetto
e con chi è lontano: lo sposo che se n’è andato o il figlio che ha tagliato i ponti.


Facci amare anche i nostri nemici.

 Non lasciare che il sole tramonti con rancore e rabbia nei nostri cuori.


Facci la grazia di saper compiere il primo passo e saremo come te».



 

lunedì 24 febbraio 2025

ANZIANI. RELIGIOSI, MA NON TROPPO

 


La ricerca. Over 65,

 religiosi ma non troppo.

 Come è cambiata la fede vissuta


L’indagine condotta su un campione

 rappresentativo di mille individui. 

Tra coloro che si dichiarano “felici” 

è alto il tasso di chi considera la fede 

e la sua pratica essenziale alla propria vita

-         di Elisa Campisi

«Quale posto occupa la religione nella sua vita?”. È una delle 40 domande di una ricerca Ipsos che ha coinvolto mille over 65 per indagare, su richiesta della Fondazione Età Grande, la religiosità degli anziani in Italia. «La religiosità in età matura è caratterizzata da una sorta di “sdoppiamento” tra sfera spirituale individuale e dimensione sociale della Chiesa», ha spiegato il presidente di Ipsos, Ferdinando Pagnoncelli, presentando martedì scorso i risultati della ricerca durante una tavola rotonda che si è tenuta alla sala Pio XI della Città del Vaticano, con molti relatori, tra i quali l’arcivescovo Vincenzo Paglia, presidente della Fondazione.
È la prima volta – hanno ricordato gli organizzatori – che il tema della fede e della spiritualità viene indagato concentrandosi sull’ormai vastissimo e diversificato mondo degli over 65, che in Italia costituisce oltre il 25% della popolazione, per un totale di 14 milioni di persone. La ricerca ha approfondito i temi del senso di appartenenza religiosa, della pratica, della socializzazione della fede, della morte, del fine vita e dell’incrocio tra religione e nuove tecnologie. Costituisce dunque un importante spunto per riflettere sui cambiamenti antropologici che stanno attraversando il mondo sempre più ampio degli anziani nel nostro Paese, dal punto di vista della spiritualità e della fede.

Religiosità e pratica

Tra gli aspetti più interessanti c’è per esempio questo divario tra religiosità e pratica: se da un lato persiste un solido legame identitario con la fede trasmessa da tradizione e famiglia, dall’altro si assiste a un progressivo affievolimento della ritualità pubblica, specie tra le fasce under 80. «I risultati smentiscono lo stereotipo per cui gli anziani vanno a Messa, complice forse anche la possibilità di guardarle più facilmente da casa», aggiunge Pagnoncelli. Il divario tra il dichiararsi religiosi e l’importanza di Dio nella propria vita da una parte e dall’altra il rapporto con le chiese locali e con il linguaggio religioso cristiano, parla di una religiosità spesso svincolata dalle categorie convenzionali. Sul fronte dell’appartenenza religiosa emerge infatti una situazione di sostanziale fede nella popolazione anziana, con l’85% degli intervistati che considera il credere in Dio un bisogno umano. Tuttavia, andando ad analizzare più nel dettaglio, si notano delle differenze significative per area geografica, status socio-economico, livello di istruzione ed età. Pur con un 75% di intervistati che si definisce cattolico, solo il 20% lo ritiene un aspetto fondamentale e il 38% importante. Il Sud e le isole, capofila, registrano oltre l’80% di persone che si sentono religiose, mentre si scende al 44% tra i 65-70enni del Nord-Est. L’analisi individua poi che questa appartenenza spirituale tende a correlarsi con il livello di felicità. In generale gli over 65 mostrano un dato medio di felicità personale pari a 6,4 su una scala da 1 a 10, ma più ci si sente vicini alla religione, più si dichiara appagamento personale. Anche qui, però, con alcune differenze. Gli uomini, le persone più benestanti, chi ritiene la religione molto importante e i residenti al Sud si dichiarano mediamente più felici, mentre le donne, chi versa in condizioni economiche svantaggiate e chi dichiara la religione poco o per nulla importante ha generalmente anche maggiori rimpianti e insoddisfazione rispetto alla vita trascorsa.

Religione e quotidianità

A tale spiritualità non corrisponde però altrettanta pratica. Per quanto concerne la frequentazione religiosa, pur con picchi del 41% di Messa settimanale tra i 76-80enni, si vede progressivamente una minore assiduità nelle fasce più giovani della terza età: solo il 26% dei 65-70enni frequenta funzioni con regolarità e fino al 34% dichiara di non pregare mai. Nelle regioni del Nord-Est, dove il 57% dei 65-70enni dichiara la religione poco o per nulla importante, solo il 13% frequenta messa e riti con regolarità. Si tratta di un netto calo generazionale, che si ritrova anche nella scelta di dare o meno un’educazione religiosa ai propri figli. I giovani anziani percepiscono inoltre una minore “utilità” della religione nell’affrontare la quotidianità. Infine, l’indagine mostra differenze attitudinali e valoriali tra under e over 80 anche sui temi legati al fine vita. I più giovani tra gli anziani sono più laici e con un approccio pragmatico rispetto a scelte quali testamento biologico o suicidio assistito. Gli ultraottantenni sono invece più tradizionalisti, ritenendo la religione guida imprescindibile anche su tali complesse decisioni personali. «La terza età – spiega ancora Pagnoncelli – si configura come delicato crocevia esistenziale, con la religione che dà rifugio esteriore coerente alla tradizione qual era in gioventù e si fa voce interiore suadente negli anni della pensione. Una voce talora scalfita da dubbi, ma tuttora capace di infondere quella serenità e fiducia necessarie ad affrontare l’inesorabile fine». La spiritualità permane dunque «elemento fondamentale e intimamente consolatorio per la generazione degli over 65, gettando un ponte verso l’aldilà ai più anziani e verso le proprie radici culturali ai più giovani». Il presidente di Ipsos ha poi sollecitato una riflessione su come l’allungamento della vita costituisca una grande opportunità, «ma dopo il ritiro dal lavoro c’è un profondo smarrimento». Questo interpella sì la Chiesa, ma anche le istituzioni e le comunità, ha ricordato: «Un ruolo sociale può aiutare a dare un senso alla propria esistenza e chi esce dal mondo del lavoro ha un bagaglio di esperienza che può mettere a disposizione di altri, ma bisogna anche non lasciare soli gli anziani, attivare processi comunitari per avvicinarli ai giovani, un po’ come abbiamo fatto per esempio nei momenti di emergenza del Covid19, quando molti ragazzi andavano a portargli la spesa».

La vera urgenza

I cambiamenti analizzati, in una società che invecchia come la nostra, interrogano la Chiesa che ha una responsabilità verso questa fetta di popolazione più anziana. «La vera urgenza che emerge da questa inchiesta, è che bisogna parlare di questa autoesclusione degli anziani – ha commentato monsignor Paglia – . Abbiamo un popolo enorme che chiede pane e non c’è chi lo spezza per loro». Questa indagine, che mostra un bisogno generale di spiritualità, «ci dice anche che la Chiesa non la riesce a offrire a queste persone come dovrebbe». Nelle diocesi, continua, «c’è il prete per i giovani, ma manca spesso quello degli anziani. Serve una pastorale anche per loro, in modo da accompagnarli a vivere con pienezza questi anni che non possono essere di rassegnazione». Adesso che le persone vivono fino a 20 anni di più, sottolinea ancora monsignor Paglia, bisogna insistere sull’aspetto comunitario e non solo sulla messa, ricordando uno dei dati più importanti tra quelli emersi dall’analisi Ipsos: «La forza della fede aiuta gli anziani. Chi crede sta meglio».

www.avvenire.it

 

sabato 22 febbraio 2025

TRUMP E L'EUROPA

 


La pace di Trump

 e 

il destino dell’Europa

 

-         di  Giuseppe Savagnone 

 

La fine dell’Occidente

Neppure nei loro incubi peggiori Zelensky e i leader europei avrebbero potuto immaginare il radicale capovolgimento della posizione degli Stati Uniti da indefettibili alleati del governo di Kiev a suoi accusatori, con toni del tutto simili a quelli usati da Putin.

È passato poco più di un mese dall’insediamento di Trump, il 20 gennaio scorso, ma è stato sufficiente per far crollare tutte le illusioni di una transizione graduale dalla precedente linea alla nuova.

Il presidente americano, con una violenza di linguaggio inusuale nei rapporti diplomatici, ha definito Zelensky un «comico mediocre» e un «dittatore», attribuendogli la responsabilità di aver iniziato la guerra e di aver sperperato i miliardi di aiuti inviati dall’America.

Ma, al di là delle parole, sono stati i fatti a segnare la completa emarginazione di Kiev, esclusa dai negoziati tra Stati Uniti e Russia iniziati a Riad proprio per decidere del suo destino. E non è solo l’Ucraina ad essere stata completamente spiazzata dal “ciclone Trump”.

L’Europa nel suo complesso, compreso il Regno Unito, che non fa parte dell’UE, si è trovata ridotta al ruolo di spettatrice – se non addirittura forse di vittima sacrificale – di una trattativa tra due imperi che non le hanno riconosciuto alcun ruolo nel decidere una questione che la riguarda direttamente e per cui da tre anni si batte, pagando un prezzo altissimo.

È la fine della stretta cooperazione che, dalla fine della seconda guerra mondiale, ha unito le due sponde dell’Atlantico e in cui si è identificato ciò che da ottant’anni chiamiamo “Occidente”. Ed è anche la più grave crisi della NATO, sua espressione militare, che in questi tre anni è stata protagonista della guerra tra Russia e Ucraina, e che ora si trova improvvisamente rinnegata dalla sua nazione-guida, gli Stati Uniti. 

Una guerra giusta gestita nel modo sbagliato

Chi ha seguito la rubrica di questi “chiaroscuri” forse ricorderà che la loro linea costante, a partire già dai primi sviluppi della guerra, è stata molto critica nei confronti dell’invasore russo, ma anche verso l’impostazione data dai paesi occidentali, sulle orme degli Stati Uniti.

Senza minimamente attenuare la gravità della minaccia imperialista di Putin e dei comportamenti criminali del suo esercito – si pensi alle atrocità di Bucha e al rapimento di ventimila bambini ucraini, sottratti alle famiglie e portati in Russia – , abbiamo però rilevato anche il ruolo che hanno avuto, nello scoppio del conflitto, l’espansione a macchia d’olio della NATO, in violazione degli accordi intercorsi nel 1989 tra Bush sr e Gorbaciov, e il rifiuto del presidente Biden di rispondere alle pressanti richieste di Mosca di  avere garanzie che l’Ucraina non sarebbe entrata anch’essa (come chiedeva) nell’alleanza militare antirussa.

Forse non sarebbe bastata un’assicurazione americana in questo senso ad evitare l’invasione. Quello che però è certo che neppure una parola fu spesa per cercare di impedirla.

Come è certo che, dopo l’inizio del conflitto, invece di tentare di avviare almeno un dialogo, in vista di una possibile intesa, la linea degli Stati Uniti e dei paesi della NATO fu di sforzarsi di ridurre la Russia a «un paria» (parole di Biden), tempestandola di sanzioni ed escludendola da tutti gli spazi internazionali, comprese le manifestazioni sportive e culturali, fino a rifiutare la partecipazione alle paraolimpiadi di Pechino agli atleti (disabili) russi per il solo fatto di essere tali.

Già allora – nell’aprile dal 2022 – ho pubblicato su «Tuttavia» un chiaroscuro dal titolo: «Non è così che si costruisce la pace». Sforzandomi di spiegare che demonizzare e isolare il nemico, nella convinzione così di poter ottenere la pace solo vincendo la guerra – come credeva di poter fare Zelensky – , si è sempre rivelata solo una tragica illusione.

Un’illusione che, nel caso dell’Ucraina, è stata pagata sulla loro pelle dalle centinaia di migliaia di giovani morti o feriti in questi tre anni di accaniti quanto sterili combattimenti. 

Una pace necessaria gestita in modo ancora più sbagliato

Detto ciò, oggi la svolta di Trump è ancora più assurda e unilaterale. Fino a due mesi fa la pace veniva confusa con la vittoria militare, ma la guerra era comunque a difesa della libertà di un popolo; ora il presidente americano la identifica con la imposizione incontrastata degli interessi degli Stati Uniti, alle cui decisioni gli altri devono sottostare.

Nelle ricostruzioni delle cause del conflitto prima spesso si taceva sulle indirette responsabilità della NATO; ora, al G7, gli Stati Uniti si sono incredibilmente rifiutati di riconoscere che esso è cominciato con una «aggressione russa».

Zelensky organizzava unilateralmente negoziati di pace a cui non invitava la Russia; Trump riapre il dialogo con il paese aggressore lasciando fuori quello aggredito. Alla demonizzazione del popolo russo come tale è subentrata ora la pretesa di riscrivere la storia, riabilitando non il popolo, ma il suo cinico dittatore, che la Corte Penale Internazionale ha condannato per «crimini contro l’umanità».

A rendere ancora più squallida la nuova impostazione del problema è la forte connotazione commerciale datale da Trump. Anche al tempo di Biden, gli Stati Uniti hanno fatto affari d’oro a spese dell’Europa, che, con la rottura causata dal conflitto, ha dovuto acquistare a costi assai maggiori dall’alleato americano il gas e altre forniture essenziali che prima riceveva a prezzi minori dalla Russia. Per non parlare del mercato delle armi, in cui le aziende americane hanno un netto predominio, e che ha visto realizzare con la guerra profitti record.

Ma ciò a cui oggi assistiamo non ha precedenti. Se prima fossero stati in gioco degli interessi, si sarebbe insistita comunque su motivazioni etico - politiche, considerate determinanti. Trump sembra infischiarsene di queste motivazioni e mette in primo piano, piuttosto, l’aspetto finanziario ed economico.

L’Ucraina, se vuole essere tutelata, deve pagare. Al presidente americano la libertà del suo popolo preme pochissimo, mentre gli fanno gola le sue “terre rare”.  Il «Telegraph» e il «Financial Times» hanno parlato di una bozza di accordo tra Stati Uniti e Russia, ancora confidenziale, in cui, in cambio di protezione, ai capitali americani sarebbero aperti lo sfruttamento dei giacimenti minerari, porti, infrastrutture, petrolio, gas. «Peggio di quanto imposto alla Germania a Versailles», ha notato qualcuno.

L’Europa al bivio

In questo quadro, l’Europa si trova davanti alla prova più difficile dalla fine della seconda guerra mondiale. Il tandem con gli Stati Uniti le aveva consentito di restare nel limbo di una unione economica che non è mai riuscita a passare alla fase dell’unità politica.

Il prevalere delle logiche nazionali su quelle comunitarie è stato del resto sancito, ultimamente, dal crescente consenso popolare verso i partiti sovranisti, apertamente ostili ad ogni organismo sovra-nazionale, alcuni dei quali sono addirittura andati al potere, come in Ungheria e in Italia.

Da qui il successo, nell’ambito della UE, della proposta della Meloni, che neutralizzava il problema dell’unità, dirottandolo esclusivamente su un tema caro anche ai nazionalisti, quello della “difesa dei confini” dai flussi migratori.

In questo modo la politica europea si riduceva a confermare e sostenere i singoli Stati nel chiudersi sui propri interessi, alzando muti verso l’esterno. In questa logica, i partiti di centro sono stati sempre più risucchiati dalla linea delle destre, come è accaduto in Germania, dove la CDU ha votato una risoluzione antimigranti alleandosi per la prima volta nella storia con Alternative für Deutschland, il partito neonazista.

Ora il ciclone Trump costringe l’Europa a fare la scelta che finora aveva potuto evitare, quella tra rimanere allo stato attuale di frammentazione politica – con la prospettiva di diventare una colonia degli Stati Uniti e/o della Russia – , oppure muovere rapidamente verso una vera unità.

Il dibattito sulla creazione di una forza di difesa comune è un passo in questa direzione. Come lo è il passaggio dalla leadership morale della nostra premier, – vistosamente spiazzata dalle scelte di Trump, che hanno reso impossibile ogni mediazione – a quella del suo eterno rivale, il presidente Macron, fautore di una più drastica soluzione unitaria (anche se sospetto di volerla porre sotto l’egemonia francese).

Il problema è che all’Europa manca qualcosa di più di un esercito comune: manca l’anima. Il rifiuto del riferimento alle sue radici cristiane, nel preambolo della sua Costituzione, durante il dibattito svoltosi tra il 2005 e il 2007, è stato sintomatico di un distacco dalla tradizione spirituale che ne aveva ispirato e guidato – con mille contraddizioni – la nascita e lo sviluppo.

Distacco del resto evidenziato dal fatto che l’unica convergenza dei paesi europei si è trovata nel rifiuto di accogliere gli stranieri bisognosi, in aperto contrasto con le parole del Vangelo in cui Gesù si identifica proprio con loro (cfr. Mt 25).

Condivise sono rimaste solo le regole a cui i singoli Stati devono attenersi nella gestione della loro economia, pena sanzioni per le loro infrazioni. Troppo poco per dar luogo a una visione condivisa del bene comune europeo che possa giustificare la rinunzia alla piena sovranità nazionale.

È la denuncia di questo vuoto la sola cosa giusta nell’arrogante discorso che il vicepresidente degli Stati Uniti Vance ha tenuto a Monaco il 14 febbraio scorso: «La minaccia che mi preoccupa di più nei confronti dell’Europa non è la Russia, non è la Cina, non è nessun altro attore esterno. Quello che mi preoccupa è la minaccia dall’interno: l’arretramento dell’Europa da alcuni dei suoi valori più fondamentali».

Salvo poi a indicare questi “valori” in quelli dei Altrnative für Deutscland sposando, contraddittoriamente, la tesi secondo cui tutti i mali europei derivano dall’«aprire le porte a milioni di immigrati non controllati». Chi ha un’identità forte non ha paura dell’“altro”. È proprio la linea difensiva prevalsa in questi ultimi anni a rivelare il vuoto dell’Europa. E non sarà qualche concessione di Trump sulla partecipazione alle trattative con la Russia e sui dazi a riempirlo.

 *Editorialista e scrittore.

 www.tuttavia.eu